M5: l’inizio della fine


Izuku non conosceva il fanciullo che era riflesso nella specchiera.
C’era qualcosa di sconosciuto nel verde di quegli occhi - troppo cupi per essere i suoi - c’era qualcosa di sbagliato nelle linee che disegnavano il suo viso - troppo dure per i suoi lineamenti dolci. Le lentiggini erano ancora al loro posto, offrendo alla sua immagine un’ultima pennellata d’innocenza. Stonavano così tanto con tutto il resto: gli abiti regali, i capelli pettinati quanto bastava perché la corona dorata fosse ben poggiata sulla sua testa.
Izuku Midoriya era stato un bastardo per tutta la vita, e a riprova di ciò aveva da sempre portato il cognome di sua madre, anche quando suo padre era caduto e metà dei popoli e dei grandi signori lo avevano reso Principe per dare inizio a una guerra civile contro il vero erede del Re Demone. Non si era mai considerato all’altezza dei suoi nobili natali e, per una volta, non per mancanza di fiducia in se stesso ma perché se Izuku aveva mai provato risentimento, era stato proprio per il sangue maledetto degli Shigaraki che scorreva nelle sue vene.
Non aveva potuto scegliere di essere il figlio illegittimo di Hisashi Shigaraki, ma era stata una sua volontà divenire erede di Toshinari Yagi e del potere di One For All. Quello del Protettore della Pace, dei regni e di tutti i popoli era il ruolo che aveva scelto di cucirsi addosso e ci aveva creduto, ci aveva creduto davvero, anche quando la guerra lo aveva fatto Principe per un bene superiore, innalzandolo al livello di Katsuki e Shouto.
Era riuscito ad aggrapparsi all’ingenuità dei suoi anni per un po’, convinto che non vi fossero bandiere in quella guerra all’infuori di quelle del bene o del male. Ma il lusso di vedere solo in bianco e nero lo aveva perso nel momento in cui i mostri e gli eroi che lo avevano spaventato e rassicurato durante la sua infanzia si era tramutati in persone.
Tenko, con cui aveva condiviso la vita nello stesso modo in cui aveva fatto con Katsuki, era divenuto sua nemesi e nemico e quando il mondo intorno a lui gli aveva urlato di sconfiggerlo, Izuku aveva compiuto il miracolo e lo aveva salvato. Ma la favola finiva lì.
Non era l’eroe di una bella storia quello che Izuku vedeva riflesso nello specchio, ma un Re. Perché il sangue degli Shigaraki poteva essere una maledizione che non si era scelto, ma le responsabilità che esso implicava erano altrettanto innegabili. Izuku non poteva porsi al di sopra di ogni bandiera e rendersi incarnazione di un eroe ideale, senza catene. Sfuggire alla sua eredità non avrebbe fatto del bene a nessuno.
La corona degli Shigaraki apparteneva a lui quanto a Tenko e se c’era un modo per porre definitivamente fine al dominio di quel padre Demone che li aveva condannati entrambi era proprio indossandola insieme.
La porta del salone si aprì, distraendolo dalla contemplazione critica del suo riflesso e dai suoi pensieri. Izuku ebbe appena il tempo d’incontrare gli occhi di Tenko, prima che quest’ultimo si voltasse e tornasse sui passi.
“Tenko!” Lo chiamò il fanciullo, andandogli immediatamente dietro.
Il maggiore fu sordo al suo richiamo e proseguì a passo spedite lungo il corridoio.
“Tenko, aspetta!”
“Non voglio parlarti, Izuku!”
“Allora lascia parlare me!”
Sebbene quegli abiti regali non lo agevolassero affatto nei movimenti, Izuku riuscì a fare uno scatto in avanti bloccando la strada a quello che il mondo aveva identificato come la sua nemesi. Non lo era.
“Non possiamo…” Izuku s’interruppe per riprendere fiato. “Non possiamo continuare a scappare.”
Tenko lo squadrò da capo a piedi.
“Mi sembra evidente che tu abbia smesso, alla fine,” disse, sarcastico. “Alla fine, il fascino del potere ha corrotto anche il tuo cuore gentile.”
“Parli di questa?” Izuku si tolse la corona dorata dalla testa. “Non so che farmene!” Esclamò, gettandola per terra, neanche fosse un ferro vecchio senza valore.
Tenko abbassò lo sguardo per guardarla rotolare sul pavimento, fino alla parete.
“E so che lo stesso vale anche per te,” aggiunse Izuku con voce più gentile.
Il maggiore riporto gli occhi sui suoi: erano di nuovo grigi e i capelli stavano tornando del loro nero naturale. Più Tenko prendeva le distanze dall’oscurità del Re Demone, più tornava a essere il ragazzino che era cresciuto insieme a Izuku.
“Non hai mai voluto il potere, non davvero,” disse il sedicenne, avvicinandosi di un paio di passi. “Volevi solo che sofferenza finisse e hai pensato che non vi fosse altra via d’uscita che non fosse distruggere ogni cosa, compreso te.”
“Ho ucciso il tuo promesso sposo,” gli ricordò Tenko, gelido. “Che cosa ci fai qui?”
Izuku non allontanò lo sguardo dal suo viso nemmeno allora.
“Kacchan sta bene,” disse. “Sai benissimo che sta bene. Non usare quella carta per farti odiare, non servirà.”
Le labbra di Tenko si piegarono in un sorriso derisorio.
“E lui cosa ne pensa della tua ostinazione nel volermi salvare?”
Izuku non rispose.
“Oh…” Tenko intuì che il Principe dei Draghi non doveva essere molto felice di sapere la sua Anima Gemella lì, con lui. “Il tuo uomo non approva, vero? Non che possa biasimarlo. La tua insistenza è quasi folle.”
“Non ho bisogno d’insistere su qualcosa che ho già ottenuto,” ribatté Izuku. “La guerra civile è finita, tu sei vivo e libero dall’influenza del Re Demone.”
“Ma non sono tuo alleato.”
“Perché sei uno stupido!” Sbottò Izuku, senza paura. “Chi ci ha fatto del male è ancora là fuori e presto ci attaccherà.” Si avvicinò di un passo ancora. “E tu cosa vuoi fare, Tenko? Vuoi passare il resto dei tuoi giorni chiuso in questo castello, a fingerti pazzo, dandogliela vinta?”
“E chi ti dice che finga?” Tenko poteva star tornando il vecchio se stesso, ma questo non gli impediva di essere inquietante quando voleva. “La pazzia è una strana forma di libertà, sai? Una volta che lo capisce, perché disturbarsi a dare retta alla ragione?”
Izuku si azzardò a toccarlo, stringendogli il lembo del mantello nero.
“Perché non ti sei mai arreso,” disse, fermo. “Perché ti sei liberato da solo del controllo del Re Demone e questo… Questo deve avere qualche significato.”
Tenko contrasse la mascella.
“Lo odio almeno quanto lo odi tu,” disse. “Non è un segreto, non lo è mai stato. Nemmeno per lui. È sull’odio che ho basato tutta la mia rivoluzione, esattamente come quel bastardo traditore di un Todoroki.”
“Touya non ti ha tradito,” ribatté Izuku. “Ti ha salvato la vita. Senza di lui e i vostri amici, non saremmo riusciti a fare molto.”
“E ora dov’è?” Era la prima volta che Tenko s’interessava del destino del suo vecchio compagno. “Lo hanno recluso a Tartarus o suo padre lo ha rinchiuso in qualche torre remota non so dove? Quando ha cominciato a dare segni di squilibrio mentale, ha fatto lo stesso con sua moglie, no?”
“Touya è tornato a casa.”
“Oh, arresti domiciliari, comodo.”
Izuku scosse la testa.
“Enji è stato ferito gravemente nell’ultima battaglia,” raccontò Izuku. “Non si è ancora ripreso, i curatori non si sbilanciano su come potrebbe finire.”
Tenko inarcò il sopracciglio destro.
“E dov’è Touya?”
“Con Shouto, a fare quello che deve,” concluse Izuku.
Ci fu un lungo minuto in cui il maggiore si limitò a fissarlo, allibito.
“Non ci posso credere…” Sibilò Tenko, superando il sedicenne per continuare la sua marcia furiosa lungo il corridoio.
“Il Re Demone ha toccato Shouto!” Esclamò Izuku, seguendolo. “Che altro avrebbe dovuto fare?”
“Sì, Izuku, intratteniamo una conversazione su quanto protettivo e amorevole sia Touya Todoroki come fratello!”
“Touya è uno dei condottieri che ha vinto la guerra. Il suo popolo lo ha acclamato come un eroe… Ti vuoi fermare?”
Tenko lo fece, ma solo per ridergli in faccia.
“Un eroe?” Ripeté. “Aspetta che uccida suo padre nel sonno o che dichiari il minore dei fratelli come suo sposo e poi potremo parlare delle sue imprese eroiche.”
Izuku reclinò la testa da un lato.
“Che cosa t’infastidisce, Tenko?” Domandò, con una nota di cattiveria che solo in pochi sapevano appartenergli. “Che Touya stia continuando a scrivere la sua storia, mentre tu te ne stai rinchiuso in questo castello?”
“Vai all’inferno, Izuku!”
“Ci siamo già stati all’inferno!” Ribatté il fanciullo. “Ci siamo nati all’inferno…” Aggiunse, a voce più bassa.
Tenko non replicò. Restò a guardarlo mentre tornava sui suoi passi e recuperava la corona da terra. Izuku non la indossò, si limitò a tenerla tra le mani.
“C’è stato un tempo in cui credevo che nessuno potesse comprenderti quanto me,” confessò, guardando l’oggetto dorato tra le sue mani. “Siamo cresciuti insieme, non ho un ricordo in cui non si sei tu. È stato superbo da parte mia pensare che bastasse.” Si umettò le labbra e cercò di nuovo gli occhi grigi dell’altro. “Io non ho sofferto quello che hai sofferto tu. E mi dispiace… Mi dispiace infinitamente, Tenko.”
“Non so cosa farmene del tuo dispiacere o di qualunque altro sentimento tu dica di provare per me.”
“Lo so.” Izuku gli andò vicino. “Però so anche un’altra cosa: la sua fine comincia nel momento in cui smettiamo di farci la guerra per combattere insieme.”
Tenko trattenne il respiro per un istante, ma fu bravo a non darlo a vedere.
“Non ha mai voluto un erede, non nel modo in cui lo intende qualsiasi altro Re,” continuò Izuku. “Il suo stesso sangue si è già ribellato a lui una volta. Se ha amato qualcuno, quel qualcuno è stato Yoichi. Nel suo modo oscuro e malato, certo, ma era un sentimento vero. Un sentimento che lo ha ferito per sempre. Non si è più permesso di provarne altri. Non siamo mai stati figli per lui.”
Tenko inspirò profondamente dal naso.
“Non ho bisogno che sia tu a dirmi questo,” disse. “Non ho mai cercato il suo amore e nemmeno tu.”
“Ma ho cercato il tuo,” disse Izuku, con le lacrime agli occhi. “Io ho avuto mia madre, ho avuto AllMight,” ingoiò aria dalla bocca. “Ho avuto Kacchan. Ma avevo anche te… Ti avevo, anche se tu non mi volevi. Ti ho voluto bene… Ti voglio bene, Tenko.”
Ma l’altro non lo guardava più, gli occhi grigi fissi su una delle finestre che dava sulle montagne.
“E quando Touya ha scelto Shouto ed è tornato a casa, ho pensato che…” Izuku strinse le labbra e si asciugò alcune lacrime galeotte con il dorso della mano. “Non so come, non so quando e non so se sia grazie a Shouto, ma lui è riuscito a vedere qualcosa oltre le tenebre dell’odio…”
“E quanto vuoi che duri?” Domandò Tenko, realista suo malgrado. “La sua luce è un legame incestuoso che condannerà per sempre lui e il resto della sua famiglia.”
“Ma ha scelto Shouto lo stesso.”
“Certo, così può rovinare la sua Casata per sempre. Il suo piano originale non è cambiato, ha solo mutato forma… Bastardo…”
“Tenko…” Izuku gli afferrò il polso e gli occhi grigi tornarono sui suoi. “Touya e Shouto sono liberi. Questo non significa che sia facile, ma sono liberi. Possiamo esserlo anche noi.”
Se non fosse stato tanto stanco, Tenko lo avrebbe spinto via con forza e con altrettanta lo avrebbe rifiutato a parole. Sarebbe stato un guizzo d’orgoglio e rabbia fine a se stesso. Alla fine della storia i fatti erano chiari: Touya era andato avanti e aveva vinto tutto, Tenko continuava a crogiolarsi nella propria oscurità, sconfitto, senza andare da nessuna parte.
“Sei destinato a grandi cose, Izuku,” disse, senza risparmiarsi una nota di disprezzo. “Sposerai Bakugou Katsuki in quanto Principe della Casata Shigaraki. Questo porterà all’unione di due delle tre grandi famiglie discendenti dagli Antichi Draghi. Non c’è futuro per i Todoroki e non sono io a dirlo, questo è il desiderio di Touya e Shouto. I figli tuoi e di Katsuki domineranno il mondo. Perché rimanere legato a me e perdere tutto?”
Izuku sbuffò, come se stesse per ribadire un concetto per l’ennesima volta.
“Perché io non devo scegliere tra te e Katsuki!” Esclamò, esasperato. “Il sangue degli Shigaraki è una maledizione solo finché diamo a lui il potere di renderlo tale, ma è lo stesso sangue che lega me e te. Rendiamolo qualcosa di diverso, Tenko.”
“E quale sarebbe il mio obiettivo?”
“Sceglilo,” rispose Izuku. “Ora puoi farlo.”
Tenko abbassò lo sguardo sulle dita del sedicenne, ancora strette intorno al suo polso, poi alzò lo sguardo sulla corona che reggeva con la mancina.
“Non voglio essere il suo erede,” disse. “Non so altro, per ora.”
“Non lo saremo,” promise Izuku. “La storia della Casata degli Shigaraki ricomincerà con noi. Te lo prometto.”




Tenko rivide Touya settimane dopo, alla Corte dei Todoroki, di fronte all’ingresso della sala del trono. Non appena il maggiore dei Principi Shigaraki aveva accettato di divenire alleato della Resistenza contro il Re Demone, il grande meccanismo della diplomazia aveva cominciato a muoversi. Le Tre Casate del Drago dovevano rinnovare i patti di lealtà reciproci e il miglior modo per farlo era una serie di eventi che rinfrancasse gli animi dalle brutture della guerra, sottolineando il sentimento di amicizia che univa i Todoroki, i Bakugou e gli Shigaraki.
L’unione di queste due ultime dinastie attraverso il matrimonio di Katsuki e Izuku sarebbe stata la conclusione perfetta di quel capitolo di storia delle Terre del Drago.
Dopo la miracolosa guarigione di Re Enji, il Castello dei Todoroki si era presentato come il teatro migliore per dare inizio a quella stagione di festeggiamenti.
In quanto guidatori della rivoluzione che aveva portato alla guerra civile, Touya e Tenko sarebbero stati annunciati alle corti ed entrati nella sala del trono insieme.
Quando quest’ultimo giunse di fronte al grande portone chiuse, il giovane Todoroki era già lì, occupato ad aggiustarsi il polsino del completo nero. Fece difficoltà a riconoscerlo e a giudicare dal modo in cui Touya lo guardò, dovette valere lo stesso anche per lui.
Devono essere i capelli neri, pensò Tenko, affiancandolo senza dire una parola e mantenendo una distanza di sicurezza di più di un metro. Tenne gli occhi grigi fissi sulla grande porta chiusa, mentre Touya continuava a fissarlo.
“Pensi di continuare ancora per molto?” Domandò Tenko, esasperato.
Quando rispose all’insistenza di quegli occhi turchesi, Touya storse la bocca in un ghigno divertito.
“Ti hanno ripulito alla grande,” commentò.
“Tu, invece, sei guarito miracolosamente,” ribatté il giovane Shigaraki. Ustioni come quelle del primogenito dei Todoroki non sparivano in poche settimane senza l’intervento di una forza al di sopra dell’umana comprensione. “Ora capisco il motivo per cui il potere delle Anime Gemelle è tanto invidiato.”
Touya tornò serio e prese a guardare di fronte a sé.
Fu il turno di Tenko di ghignare.
“Ho toccato un nervo scoperto?”
“Ti sarei grato che se questo argomento non venisse toccato di fronte a tutte e tre le Casate del Drago,” disse Touya, simulando un sorrisetto dalle sfumature inquietanti. “Non vorrei far saltare i piani della Resistenza con la tua prematura dipartita.”
Tenko alzò gli occhi al cielo.
“Sentitelo, il suo fuoco blu non lo brucia più ed è più tracotante di prima.”
“Parliamo della tua di tracotanza,” propose Touya, lasciando perdere il polsino una volta per tutte. “Che cosa ti ha convinto?”
“La mia esasperazione di fronte all’immobilità,” rispose Tenko. “E tu che mi dici? A giudicare dal tuo bell’aspetto, Shouto non considera il vostro legame così maledetto.”
“No, Shouto no,” confermò Touya, ma non aggiunse altro.
Di fronte all’assenza di un’ulteriore elaborazione, Tenko studiò il suo profilo.
“Ti si è concesso e gli hai detto no?”
“Ti stanno male i capelli neri,” commentò Touya, di colpo.
“Sono i miei capelli naturali, lo sai benissimo.”
“Beh… I tuoi capelli naturali stanno meglio a me.”
Tenko sbuffò.
“E come va con tuo padre?” Domandò.
Quanto ci voleva perché li annunciassero e aprissero quella dannata porta.
“È felice di vederti vivo e in salute e finge di non sapere perché è così?”
“Più o meno,” rispose Touya. “Non ha affrontato il discorso con me. Fuggire è ancora il suo modo di affrontare i problemi preferito. La mia guarigione non l’ha certo convinto a concedermi la mano di Shouto.”
Tenko inarcò le sopracciglia.
“E davvero questo quello che vuoi?” Domandò, poco convinto. “Sia ben chiaro, indossi le maledizioni meglio di me, ma condannarti per amore, tu…”
Touya rise.
“Quale amore?” Domandò, ma non era né velenoso né sarcastico, solo amareggiato e rassegnato. “Il mio Shouto ha sedici anni come il tuo Izuku. Per loro i sentimenti sono totalizzanti, incondizionati. Non sanno di che cosa parlano…”
Tenko dovette dargli ragione.
“Questo è vero…” Guardò il Principe che aveva iniziato una rivoluzione insieme a lui solo per esprimere l’odio che provava verso il suo sangue. Non si erano mai sopportati, in realtà, ma erano più simili di quanto a Tenko facesse piacere ammettere. La sola differenza era che Touya poteva avere Shouto, ma lui non avrebbe mai avuto Izuku. Il destino lo aveva già promesso a un altro Principe. “Quindi Shouto ti ama?”
Touya ridacchiò.
“È un piccolo stolto…”
“E tu non ami lui.”
Touya sbuffò.
“Guardami, Tenko, sono io,” gli disse. “Sarei morto tra le mie stesse fiamme pur di compiere la mia vendetta contro mio padre. Mi credi davvero capace di amare? Ho preso quello che Shouto poteva darmi, nulla di più.”
“Ma non lo hai toccato.”
“Non è stato necessario.” Touya indicò il proprio viso. “Te l’ho già detto: l’amore totalizzante della fanciullezza è più forte di quello carnale.”
Tenko rise. Rise e a Touya non piacque.
“Mi stai deridendo?” Domandò il Principe Todoroki.
“Potevi condannare tuo fratello privandolo della virtù attraverso una fornicazione incestuosa,” disse Tenko. “Hai scelto di non farlo.”
Touya corrugò la fronte.
“Stai cercando di dirmi qualcosa, Principe Shigaraki?”
Tenko scosse la testa.
“No, per un po’ ho solo creduto che ti avessi superato,” ammise. “Ora so che sei ancora il solito perdente bugiardo che è tanto bravo a mentire a se stesso.”
Touya fece per ribattere ma dall’altra parte della grande porta vennero annunciati i loro nomi.
Prima che tutto cominciasse, Tenko aveva una cosa da dire.
“Non dormire sonni tranquilli,” lo avvertì. “Mi hai tradito, bastardo.”
Touya sollevò l’angolo destro della bocca.
“Ti ho salvato la vita, stronzo.”
L’ingresso della sala del trono si aprì.
M3: Vampiri

Vi era una strana quiete tutt’intorno al Tempio, mentre il cielo veniva rischiarato dall’aurora. La foresta, ignara di quanto accaduto durante la notte, innalzò il suo canto al mattino. Era la sola cosa a spezzare il silenzio e regalava a tutto un’atmosfera quasi fiabesca.
Hawks avvertiva nell’animo una pace che non riusciva a spiegarsi, non di fronte a un luogo che era stato teatro di tanto dolore. Mosse un passo e i soldati fecero lo stesso. Rivolse loro un cenno per ora dinare di rimanere dov’erano e continuò da solo.
In lontananza, avvertì il rombo di un tuono: un temporale stava arrivando dalle montagne, alla luce dell’alba e al canto della natura non restavano che pochi minuti.
Il soldato dalle Ali Possenti avanzò all’interno del Tempio. Era solo un’enorme carcassa ormai, annerita dall’incendio che l’aveva accesa senza pietà nel buio della notte. Le vetrate erano esplose per il calore e i raggi del sole entravano a trafiggere le tenebre di quel covo di malvagità.
La luce accarezzava anche Touya, inginocchiato di fronte all’altare spezzato a metà, pietrificato nell’atto di abbracciare qualcosa che non c’era più.
Hawks arrivò in fondo alla navata, ma non osò fare un passo di più. Non si azzardò nemmeno a pronunciare il nome del Vampiro. Restò, come lui, immobile ad ascoltare il silenzio.
La cenere che circondava Touya, che sporcava il suo viso, i suoi vestiti e rendeva le punte dei suoi capelli candidi un po’ più grigie raccontava una storia che Hawks non voleva conoscere. Eppure era tutta lì, nelle mani vuote e sporche di Touya, dove prima c’era Shouto.
Di nuovo il rombo di un tuono, le nuvole si addensarono sopra di loro, oltre il tetto sfondato dell’edificio. La luce diminuì.
Hawks non sapeva come fare un passo oltre la soglia di quel tragico evento, non sapeva come convincere Touya a farlo con lui. Non malediceva il destino per essere il primo a conoscere l’epilogo di quella guerra, lo faceva perché non era così che avrebbe dovuto concludersi.
“Touya…” Pronunciò il suo nome, ma neanche un suono uscì dalle sue labbra.
Hawks ingoiò a vuoto e riprovò.
“Touya-“
“Dì all’Iquisizione che mi sono assicurato che non rimanesse niente,” lo interruppe il Vampiro, con una calma che era quasi inquietante. Si sollevò in piedi e la polvere si mosse nell’aria intorno a lui, avvolgendolo, quasi volesse abbracciarlo.
Touya aveva le spalle dritte, teneva la testa alta. Guardava ciò che era rimasto di suo fratello disperdersi nell’aria pregna dell’odore di pioggia.
“Non lo hanno toccato da vivo e non oseranno sfiorarlo neanche da morto.”
Non vi era nessuna cadenza imperativa nella voce del giovane ricoperto di cenere, piuttosto tanta stanchezza, ma quando quegli occhi turchesi incontrano i suoi, Hawks seppe che non sarebbe mai andato contro la volontà di quella creatura. Non contava che fosse un Vampiro o il primogenito dei Todoroki.
Hawks guardava Touya e non lo riconosceva. Chiunque fosse stato prima di quell’alba - il fanciullo ferito, abbandonato, reietto - era morto abbracciando Shouto.
Quel che Hawks aveva davanti in quel momento era la sintesi perfetta del sogno e dell’incubo, di tutto ciò che possiede bellezza e di qualunque cosa contenga oscurità.
Quando chinò la testa in segno di assenso e rispetto, non si accorse di accompagnare il gesto con un: “ai vostri ordini, mio Re.”
Mentre le rime gocce di pioggia li bagnavano, Touya li consegnò un ultimo messaggio.
“Dì a mio padre e mia madre che mio fratello se n’è andato sorridendo.”




Todoroki Shouto è morto come muoiono i demoni: avvolto tra le fiamme purificatrici della sua famiglia. Non vi è stato un periodo di prigionia e nessun processo per lui. Chi lo amava si è battuto per evitargli una simile tribolazione, finalizzata solo a concretizzare le fantasie sadiche dei torturatori del clero. Shouto è morto in pace, sorridendo. La fine è giunta per lui sotto forma dell’abbraccio di un fratello. Qualcuno sostiene persino che non abbia provato alcun dolore, mentre le fiamme blu di Todoroki Touya lo riducevano in cenere.
Ma non vi è nessun altro, oltre al primogenito di Enji e Rei, che possa raccontare la storia.
E, di quella notte, Touya non ha mai parlato, con la sola esclusione delle parole rivolte a Hawks nel Tempio bruciato.
Così è finita la guerra, con il rogo di un fanciullo innocente e maledetto e lo scioglimento della Setta del Re Demone. I fuggitivi sono stati catturati e a loro è stata riservata una sorte ben peggiore di quella del giovane Shouto. Sacrificando suo fratello per il bene comune, Touya ha guadagnato la redenzione per se stesso e la sua Congrega di reietti, divenendo il capofamiglia dei Todoroki al posto di suo padre.
Pur onorando il Patto di Alleanza tra tutte le creature terrene, non ha mai giurato lealtà all’Inquisizione.




In primavera, dopo due stagioni passate a raccogliere le macerie, la notizia dell’arrivo di un bambino diede inizio alla rinascita.
La Regina Madre tornò a sorridere e il Re Padre cominciò a farsi vedere di nuovo in pubblico.
“Penserò io a quello che c’è da fare,” disse quest’ultimo, rassicurando il suo primogenito su come l’intera famiglia considerasse quella gravidanza preziosa. “Ho guidato una Corte di Vampiri per quasi trent’anni, posso farlo per altre due o tre stagioni.”
“Non sono malato,” ribatté Touya, sebbene fosse seduto contro i grandi cuscini del suo letto. Suo figlio aveva annunciato la sua esistenza al mondo facendo prendere a tutti un grande spavento e ora i curatori raccomandavano riposo e poche preoccupazioni, almeno fino ai primi calci.
Suo padre azzardò una carezza tra i suoi capelli.
Fu la sorpresa a impedire a Touya di ritrarsi.
“Non far preoccupare tua madre,” lo pregò, con un sorriso triste che costrinse il più giovane a voltare lo sguardo. “Temevo che non l’avrei vista sorridere mai più e nemmeno tua sorella.”
Anche Touya aveva le sue condizioni.
“Voglio che siano quelli della mia Congrega a occuparsi delle mie faccende,” disse.
Himiko e Jin ne sarebbero stati felicissimi, Shuichi neanche un po’, ma nessuno avrebbe gioito quanto Tenko. No, Touya non agoniava la loro compagnia, ma si fidava di loro più di qualsiasi estraneo della Corte che suo padre avrebbe potuto propinargli. E poi c’era Atsuhiro, che avrebbe continuato a essere i suoi occhi e le sue orecchie, mentre la gravidanza lo teneva lontano dalla prima linea.
Potevano essere in tempo di pace, ma le trame di Corte non erano da sottovalutare alla stregua di un campo di battaglia e l’arrivo di un bambino era sia un momento di forza che di estrema fragilità. Abbassare la guardia anche all’interno della sua casa sarebbe stato letale per Touya, specie con il suo passato.
Suo padre non si ribellò in alcun modo alla sua decisione, ci tenne solo a puntualizzare un paio di dettagli: “hai una famiglia che ti sostiene ed è pronta a prendersi cura di te. Non tagliarci fuori.”
Touya alzò gli occhi al cielo.
“Anche se volessi…” Lasciò la frase sospesa.
Enji si accontentò e fece per andarsene.
“Non mi chiedi chi è l’altro genitore?” Domandò Touya, confuso e sorpreso, al contempo. “Immagino che la Corte vorrà delle risposte, il bambino è nel mio grembo e questo lo rende un Todoroki senza ombra di dubbio ma, per le nostre leggi, non è un figlio legittimo.”
Enji lo guardò come se non avesse pensato alla questione fino a quel momento, o forse lo aveva fatto e aveva deciso che non aveva alcuna importanza.
“Lo hai già detto tu,” disse, grattandosi il retro del collo con imbarazzo. “Sarai tu a partorire questo bambino. La sua appartenenza a questa famiglia non può essere messa in discussione dal modo in cui è stato concepito. Quando e se vorrai raccontarci tutta la storia, io e tua madre saremo felici di ascoltarti.”




A giudizio di Touya, non c’era molto da raccontare e, in tutta sincerità, era certo che i suoi genitori avessero già intuito tutto quello che c’era da sapere. Si comportavano con discrezione solo perché concedergli il suo spazio.
Ma l’inizio della storia del suo bambino non era diversa da molte altre. Un letto di muschio verde sotto le grandi radici di una quercia secolare era stato il rifugio in cui l’atto si era consumato. Un figlio cresciuto dal clero, con le ali di un angelo ma dello stesso colore delle fiamme dell’inferno era stato il compagno di Touya in quel dolce peccato. Su quel giaciglio naturale, si erano conosciuti carnalmente più volte e altrettante si erano detti basta, ma non avevano mai smesso.
Mentre il giovane uomo dalle ali scarlatte riversava il suo seme in lui, Touya beveva il suo sangue in un connubio di piacere che solo chi osava toccare il sacrilego aveva il privilegio di conoscere.
Anche se nessuno dei due si era mai fermato a riflettere sulle implicazioni morali della loro relazione. La prima volta che erano caduti entrambi l’uno tra le braccia dell’altro, l’oscurità li aveva già corrotti entrambi e nessuno dei due era in cerca di redenzione.
Eppure, da loro una luce era nata.
“Dovrei presentarmi al cospetto di tuo padre,” disse Hawks, mentre entrambi giacevano in quella loro alcova segreta, vestiti solo della loro pelle, riscaldata dal piacere appena consumato. “Dovrei chiedere la tua mano, fare le cose come è giusto che vengano fatte.”
Touya guardava le dita del padre di suo figlio tracciare dei ghirigori invisibili sulla pelle del suo grembo - era ormai evidente che contenesse una vita - e pensavo che non voleva niente di meno di quello che stringeva in quel momento, su quel morbido letto di muschio.
“Non devi chiedere la mia mano a nessuno,” ribatté fermo, ma senza veleno. “Non sono una proprietà di mio padre, appartengo solo a me stesso.”
Hawks gli sorrise come se non si fosse aspettato niente di meno. Gli baciò la guancia, poi affondò il naso tra i capelli bianchi e chiuse gli occhi, aspirandone il profumo.
“Voglio essere il padre di tuo figlio, Touya.”
Per il Vampiro, questo era evidente dal modo amorevole in cui gli toccava la pancia.
“E vuoi essere solo il padre di mio figlio?” Domandò il Principe Todoroki.
Si guardarono. C’era stato un tempo in cui erano stati grado di mentirsi guardandosi negli occhi, ma era lontana quanto un’altra vita.
Touya sollevò la mano per scostare la frangia bionda che era ricaduta sugli occhi dorati durante l’amore.
“Allora presentati al cospetto di mio padre, ma non avrai bisogno di chiedergli niente,” disse. “Quello che desideri è già tuo perché sono io a concedertelo.”
Hawks ridacchiò.
“Fammi indovinare… Tu non appartieni a nessuno, ma io appartengo a te.”
Non sembrava affatto infastidito dall’idea.
“La libertà è letale per i rapaci che crescono in cattività,” mormorò Touya, contro le sue labbra.
Un bacio. Un giuramento suggellato.
Il Vampiro si fece indietro per primo, nascondendo il viso contro il collo dell’amante per soffocare una risata.
“Che cosa c’è?” Domandò Hawks.
Touya gli prese la mano e lo invitò a distendere le dita e a premere il palmo a destra dell’ombelico.
“Senti come scalcia,” disse.
Il sorriso che sbocciò sulle labbra di Hawks fu tra i più luminosi che Touya avesse mai visto sul suo viso, paragonabile solo a quello che gli aveva rivolto quando gli aveva confessato di aspettare il loro bambino.
“Non m’importa che tu appartenga a me,” disse il Vampiro, serio di colpo. “Ma appartieni a tuo figlio, Hawks.”
Entrambi erano stati abbandonati dai loro padri. Finché avesse avuto respiro, Touya non avrebbe permesso a quella tragedia di ripetersi con la creatura che gli cresceva dentro.
Gli occhi dorati di Hawks non tradirono alcuna esitazione.
“Arriverà il giorno in cui penserà di non aver più bisogno di averci al suo fianco,” disse. “E noi lo ascolteremo, facendo un passo indietro. Uno solo. Non uno di più.”
Touya non credeva ai giuramenti, ma al padre di suo figlio decise di credere.




Nessuno di loro fu in grado di prevedere quello che accadde.
Solo Enji scelse d’interrogare gli astrologi per porre rimedio allo stato d’ansia in cui l’avvicinarsi del lieto evento lo stava gettando. Non gli fu di molto aiuto.
“Il bambino potrebbe arrivare alla fine dell’anno o all’inizio di quello nuovo,” si giustificò l’Astrologo Maggiore, in evidente imbarazzo. “Per noi che camminiamo su queste terra sono solo pochi giorni di distanza, ma per gli astri…”
Per un po’ si sperò nella notte di Capodanno, considerata una data di nascita che prometteva una vita di fortuna e gloria.
Tutti furono colti da una certa inquietudine quando Touya cominciò a lamentare dei dolori nel primo pomeriggio del decimo giorno di gennaio.
“Potrebbe nascere entro sera e allora non significherebbe niente,” disse Rei a suo marito, mentre impilava le une sulle altre tutte le lenzuola pulite che riusciva a trovare sul tavolo al centro dell’anticamera del loro primogenito.
Enji la guardava fisso. Nella stanza adiacente, Touya non si lamentava ma se avesse urlato a squarciagola, avrebbe provato meno angoscia.
“Se nascerà domani…” Rei si fermò, lisciando la stoffa bianco con le mani una volta di troppo. Alla fine, forzò un sorriso. “Andrà tutto bene,” disse, alla fine. “Gennaio è un mese che ci ha sempre portato fortuna.”
Per un veloce istante, Fuyumi comparve sulla porta della camera da letto per chiamare la madre. Rei fece per andare, ma Enji la bloccò per un braccio.
“Dimmi che cosa posso fare,” la pregò. “Non ce la faccio a rimanere qui fermo ad aspettare.”
Rei fu svelta a dargli istruzioni: “vai a cercare Hawks e portalo qui. Nostro figlio sta facendo il sostenuto, ma è spaventato e quando arriverà il momento, non sarà la nostra mano che vorrà stringere.”
Enji raggiunse la porta a passo di marcia, si fermò con un piede nel corridoio. “Mi hai appena detto di togliermi dai piedi,” concluse.
Rei gli sorrise, cortese.
Enji annuì tra sé e sé.
“Mi tolgo dai piedi.”




Hawks non arrivò in tempo per assistere alla nascita di suo figlio.
Touya maledisse il suo nome e lo chiamò come una preghiera disperata, mentre la voce di sua madre lo guidava con dolcezza lungo tutto il processo.
Il bambino emise il suo primo vagito pochi minuti dopo la mezzanotte, riempiendo il cuore di Touya di un’emozione a cui non seppe dare un nome. Era sollievo, ma anche gratitudine. Le lacrime pungevano agli angoli degli occhi e gli chiudevano la gola in una sensazione che aveva dimenticato nei giorni della sua fanciullezza.
Poi si accorse del silenzio.
Il suo bambino piangeva con vigore, ma nessuno parlava.
Tornò in sé in fretta, combattendo la sfinimento, aggrappandosi alle coperte sporche di sangue e chissà cos’altro. Le macchie più scure erano tra le sue gambe, sull’orlo della camicia da notte. Il senso di vuoto che avvertì superò quello fisico.
Dov’era suo figlio? Perché non glielo facevano tenere in braccio?
Mentre lottava contro l’incoscienza, Touya si accorse che era sua madre a stringere la creatura che aveva generato. L’orrore che vide riflesso nei suoi occhi grigi gli fermò il cuore.
“Mamma…” Chiamò, con voce tremante.
Il bambino era un mezzosangue, certo e la natura sapeva essere crudele con chi si azzardava a sfidarla, certo. Ma…
“Mamma!” Touya provò a urlare, ma non aveva voce.
“Lasciatelo a me.”
Non fu Natsuo a intervenire, né Fuyumi. Come la Regina Madre, i suoi fratelli osservavano la scena impietriti dall’orrore.
“Datelo a me, mia signora.”
Fu Tenko a farsi avanti per prendere in custodia il neonato e Himiko gli fu subito accanto per aiutarlo a sorreggerlo in modo da non fargli male.
Non appena fu libera da quel fragile fardello, Rei incontrò lo sguardo di suo figlio. I suoi occhi grigi erano pieni di lacrime.
“Scusami, Touya,” disse, tremando, mentre si alzava e prendeva le distanze. “Mi dispiace tanto.”
Natsuo e Fuyumi corsero da lei, a darle conforto.
Touya rimase lì, seduto in una pozza del suo stesso sangue, con il ventre vuoto e il petto straziato da un dolore a cui non sapeva trovare un perché.
Himiko fu la prima a porgergli una mano.
“Va tutto bene,” disse, sedendosi sul letto, accanto a lui, per nulla turbata dalle macchie di sangue. “Sta bene. State tutti e due bene.”
“Shhh…” Tenko cullò il neonato goffamente, chinandosi con cautela verso il Vampiro. “È un maschio,” disse.
Touya prese suo figlio tra le braccia. Il bambino smise di piangere e il suo cuore tornò a battere. Non era una deformità che aveva terrorizzato sua madre e i suoi fratelli, ma la bellezza di un fiore così raro che nella famiglia Todoroki era sbocciato solo una volta ed era divenuto cenere tra le mani di Touya.
Quelle stesse mani che ora afferravano il pugnetto minuscolo del neonato, che si aprì solo per allacciarsi intorno al suo indice. Una fiammella dorata si accese lì, dove si toccavano. Quel gesto bastò a convincere il bambino che era stretto tra le braccia più sicure del mondo e rese Touya suo per sempre.
Il giovane Re posò un bacio sopra l’occhio sinistro di suo figlio, dove un segno rosso lo deturpava. Non era una voglia. No, era una cicatrice lasciata dal morso del fuoco.
“Ciao, Shouto…” Mormorò Touya.




Hawks ed Enji giunsero alla corte quando il cielo cominciò a schirirsi.
Fu Rei ad accoglierli, a informarli che Touya aveva partorito un maschio sano e forte e che la nascita non aveva compromesso in alcun modo la sua salute. Fu sempre lei a impedire a Hawks di correre da loro e a informare il neo-padre e suo marito della reale natura dell’evento che si era verificato quella notte.
Quando Hawks salì negli appartamenti di Touya, il sole aveva appena tagliato l’orizzonte. Non bussò, nessuno lo annunciò.
Si affacciò dall’anticamera alla camera patronale e il primo che vide fu il giovane Re seduto al centro del letto, circondato dal suo entourage. Nemmeno Natsuo e Fuyumi erano rimasti con lui.
Himiko fu la prima ad accorgersi di lui e scese dal letto con un saltello, obbligando tutti gli altri ad assumere una posizione più composta. Nessuno fece colpi di testa, solo Tenko fece un passo in avanti, fermandosi accanto alla colonna del baldacchino.
Poteva minacciarlo in silenzio quanto gli pareva, Hawks non lo vedeva nemmeno.
I suoi occhi dorati erano tutti per quelli turchesi che rispondevano al suo sguardo senza indugio.
“Lasciateci,” ordinò Touya, con voce incolore.
Nessuno dell’entourage esitò, ma Tenko buttò lì un ”saremo appena fuori la porta,” e uscì per ultimo.
Il rumore della porta che si chiudeva per Hawks assomigliò a quello di una scure che veniva calata sul collo di un condannato. Touya non pareva affatto sorpreso dalla sua freddezza, ma era evidente che fosse comunque deluso.
La causa di tutta quella tragedia, intanto, dormiva serena tra le braccia del giovane Vampiro.
Hawks fece il giro del letto con passo lento, come se avesse paura.
Touya lo derise.
“Tranquillo, il suo fuoco non è ancora abbastanza forte da ridurre in cenere le tue belle ali,” disse canzonatorio, velenoso.
Hawks strinse i pugni.
“Non peggiorare le cose, Touya,” lo pregò.
“Non sei nella posizione di avanzare alcuna richiesta,” ribatté il Vampiro. “Non sei tu quello che sta sanguinando, tra noi due.”
Mentre Hawks correva a perdifiato per conoscere suo figlio, qualcuno aveva lavorato per rendergli l’esperienza piacevole esteticamente. Non vi era rimasta alcuna traccia del parto in quella camera da letto. Le lenzuola erano pulite, ogni cosa era ordine. Touya era bello come non era mai stato, con la camicia da notte pulita e i capelli perfettamente in ordine, come se quel bambino fosse scivolato fuori dal suo corpo senza provocare dolore e tribolazioni. Se quegli occhi gelidi non lo stessero avvertendo di restare lontano, Hawks lo avrebbe baciato.
Sì, lo avrebbe fatto nonostante tutto, perché l’impresa di dare alla luce una vita non era meno pericolosa o sanguinosa di un campo di battaglia. Quella doveva essere una vittoria, la loro vittoria.
Invece…
Hawks abbassò lo sguardo sul bambino che Touya stringeva come se fosse la cosa più preziosa al mondo. E lo era. In fondo al suo cuore, Hawks sentiva che lo era e non poteva vederlo in nessun altro modo. Eppure…
“Che cosa hai fatto?” Domandò con tono incolore.
“Quello che hai fatto tu,” rispose Touya, “su di un morbido letto di muschio verde, nascosto tra le radici di una quercia secolare-“
“Touya-“
“È accaduto quello che accade dall’alba dei tempi, Keigo,” insistette Touya. “Abbiamo concepito un figlio, l’ho portato in grembo e poi l’ho messo al mondo.”
Hawks non aveva ragione di non credergli, ma quello che aveva davanti agli occhi gli raccontava una storia diversa, una che non conosceva.
“Questo è un caso di reincarnazione, Touya,” disse, funereo, guardando il bambino addormentato. Aveva la testa piena di capelli, metà rossi e metà bianchi e sapeva che se avesse avuto gli occhi aperti, uno sarebbe stato grigio come il cielo in tempesta e l’altro dello stesso turchese di quelli di Touya.
Infine, c’era il morso del fuoco.
“Nessun bambino normale nasce con un’ustione del genere.”
Touya si aggiustò il fagottino contro il petto.
“Ti sembra che stia negando?” Domandò. “Che non veda quello che vedi anche tu?”
“E come fai a restare così calmo?”
“Calmo…” Ripeté Touya, prendendo una delle manine minuscole tra le dita. “Mia madre lo ha guardato come se fosse un mostro e i miei fratelli anche. Se mio padre non è salito a conoscere suo nipote, non fatico a immaginare la sua posizione a riguardo.”
“Touya…” Hawks si sedette sul bordo del letto. “Questo non è nostro figlio.”
Era questo che la sua mente gli ripeteva, ma non corrispondeva a ciò che il suo cuore gli suggeriva.
Il Vampiro storse la bocca in una smorfia.
“Già…” Sospirò. “Facile prendere le distanze per te. Non lo hai portato in grembo, non lo hai partorito-“
“Touya, non oso immaginare quanto sia difficile-“
“Ah, no?” Touya era estremamente lucido nelle sue risposte al veleno. “E con chi lo avrei fatto questo figlio?”
Hawks inspirò aria dalla bocca, gli occhi fissi in quelli del Vampiro.
“Touya, questo non è-“
“Lo vuoi tenere?”
Il giovane dalle ali scarlatte sentì il respiro morirgli in gola.
Touya non si era aspettato niente di meno.
“No, che non vuoi… Se lo facessi, poi ti accorgeresti di amarlo e dovresti tener fede al giuramento che mi hai fatto mentre lo portavo in grembo.”
I raggi gelidi di quel mattino d’inverno scivolarono nella stanza, illuminandola lentamente. Per un attimo, a Hawks ricordò il giorno in cui aveva trovato Touya nel Tempio, pietrificato in un abbraccio che Shouto non poteva più ricambiare.
Era la stessa scena.
La luce che trafiggeva l’oscurità, Hawks impotente di fronte alla potenza del destino e Touya che stringeva ciò che rimaneva di Shouto. Con un dettaglio affatto ininfluente: quello era un inizio, non una fine.
Scosso da un leggero tremore, Hawks si costrinse ad abbassare lo sguardo sulla piccola creatura addormentata. Si era appena affacciata alla vita, come poteva essere qualcosa di diverso da fragile e innocente?
“È un demone reincarnato,” disse e ogni parole fu una stilettata nel petto.
“È il rapace dell’Inquisizione a parlare,” disse Touya, fermo. “Keigo, guardami… Guardalo, è nostro figlio!”
Hawks scosse la testa.
“Non sappiamo ancora con esattezza come accadano certe cose,” disse. “La maggior parte delle volte, le reincarnazioni avvengono tramite rituali ma…”
“Ma lui è perfetto,” concluse Touya. “Lui è perfetto perché è nato. Solo questo, nato. Non è colpevole di questo, come non lo eravamo noi.”
Hawks strinse gli occhi, si alzò dal letto e prese le distanze.
“Non è la stessa cosa,” disse, vedendo il sole fare capolino da dietro le montagne.
“Capisco perché tu la veda così, ma-“
“Hai fatto un giuramento, Keigo.”
“Tu odiavi tuo fratello.” Hawks si aggrappò a quella realtà perché non sapeva a che cos’altro farlo, anche se sapeva che era solo una sfumature di un legame complesso, stroncato troppo in fretta.
“E l’ho ucciso con le mie fiamme perché mi ha pregato di farlo!” Urlò Touya.
Hawks non poté evitare i suoi occhi ancora a lungo. Se lo aveva già visto piangere, non ne aveva memoria. Aveva sollevato il bambino contro la spalla, la guancia appoggiata tra i capelli bicolori.
“E non ho alcuna intenzione di farlo un’altra volta.”

Draghi

Mar. 30th, 2023 06:10 pm
M3: Bestie

Il drago lo guardò come se lo stesse aspettando.
Nella semioscurità della caverna, i suoi occhi di ghiaccio rilucevano come animati da un bagliore proprio, mentre le pupille verticali erano strette, minacciose.
Persino Shouto, che era cresciuto con un Drago nella culla, si sentiva in soggezione di fronte a quella bestia ma, allo stesso modo, percepiva che non aveva ragione di aver paura.
Se il cuore gli batteva forte nel petto, era solo perché quella creatura lo affascinava enormemente. Non erano emozioni a cui era abituato. No, non era abituato alle emozioni e basta.
Per sopravvivere alla corte di suo padre e per non lasciarsi schiacciare dalle ambizioni caricate sulle sue spalle, Shouto aveva imparato a rendere di ghiaccio il suo cuore e, per molti anni, ci era riuscito.
Il tepore di un’amicizia inaspettata aveva impedito a quel gelo autoimposto di corrompere irrimediabilmente la sua anima. Shouto inciampava ancora nelle trame complicate tessute dai sentimenti, come quando si trattava del rapporto tra sé e suo padre, ma un cuore fermo era necessario per avvicinare un Drago.
Se si fosse dimostrato troppo insicuro, la creatura che aveva davanti non avrebbe avuto alcuna pietà di lui. Per questo il Principe procedette a testa alta, ma con passi ben cadenzati: quel Drago era un guerriero e non avrebbe accettato un’eventuale dimostrazione di superbia quanto di debolezza.
Quegli occhi rettili studiarono ogni suo movimento, studiandolo e Shouto gli permise di farlo in tutta calma, mantenendo una causa distanza di sicurezza. Imporsi gli sarebbe stato letale.
Il Drago aveva già un giovane signore, tutti gli altri esseri umani erano intrusi o nemici. Se fosse successo qualcosa al suo Principe Nero, quella creatura non gli sarebbe sopravvissuta a lungo. A Shouto era bastata vederli volare e combattere insieme per capirlo. Un legame così era raro anche in un reame di Signori dei Draghi come il loro.
Dabi era Touya.
Touya era Dabi.
L’uno non poteva esistere senza l’altro.
E come il suo padrone, quella bestia alata non aveva un’idea precisa di che cosa fosse la gentilezza. Fu proprio questo pensiero a spingere Shouto a brandirla.
“Ehi…” Mormorò, sollevando la mano destra. “Tranquillo Dabi, non voglio farti alcun male.”
La belva emise un ringhio basso. Gli stava concedendo il beneficio del dubbio, ma era lontano dal dargli fiducia.
“Sei in grado di leggermi dentro, no?” Continuò a parlare il Principe. “Riesci a sentire che non ho cattive intenzioni.”
Quando fu a meno di metro, il Drago si ritrasse con un verso infastidito, ma non accennò al volerlo attaccare. Shouto si fermò, accorgendosi del modo in cui gli occhi del rettile fissavano la sua mano e comprese la natura del problema.
Mentre adagiava la mano destra lungo il fianco per sollevare la sinistra, si diede dello stupido per non averci pensato prima.
“Sì, immagino che il ghiaccio non sia di tuo gradimento,” accennò un sorriso, come se stesse parlando con un amico. “Ma il mio fuoco dovrebbe esserti familiare.”
Le sue dita vennero avvolte dalle fiamme che aveva disprezzato per gran parte della sua vita, illuminando l’ambiente circostante.
Il Drago si mosse, assumendo una posizione più rilassata.
Quando furono vicini, davvero vicini, Shouto si fermò, in attesa.
I suoi occhi eterocromatici non lasciarono mai andare quelli gelidi del Drago, che tanto gli ricordavano le iridi penetranti del Principe a cui apparteneva.
Il momento non si dilatò che per pochi istanti, ma sembrarono molti di più. Quando il suo Drago spostò la testa in avanti e le sue squame calde aderirono al palmo del quindicenne, Shouto lasciò andare un sospiro di sollievo.
“Bravo, Dabi,” disse, mantenendo un tono gentile. “Bravo…”
Il Drago prese ad assecondare le sue carezze, emettendo bassi versi gutturali, simili alle fusa di un gatto e Shouto, grazie alla luce delle sue fiamme, ne approfittò per studiarlo più da vicino. Come era prevedibile, essendo entrambi figli dello stesso nido, Dabi non era molto diverso dalla sua Shiro. La sola differenza che saltava all’occhio era il colore: la bestia di suo fratello era nera, come la notte, mentre il Drago di Shouto era bianco.
Come la sua compagna di avventure, Dabi aveva una corona di corna sulla parte posteriore della testa e degli spuntoni più corti correvano su due linee parallele per tutta la lunghezza del collo. Lo stesso disegno si ripeteva sulla coda a punta. La schiena, dove veniva poggiata la sella, era un tappeto di squame piatte, lisce, come quelle delle ali.
Sentendo che il Drago era ormai a suo agio, Shouto continuò la sua esplorazione, senza essere molesto. La sua Shiro non era tanto possente, ma non aveva combattuto nemmeno metà delle sue battaglie. Il Principe tracciò la linea dorata che tracciava la linea della mandibola di Dabi. Come gli uomini, anche i Draghi portavano le cicatrici delle loro battaglie, ma il colore dei segni variava di creatura in creatura, rendendole più belle dopo ogni epica impresa.
Da bambino, Shouto ricordava con che incanto aveva guardato i Draghi più vecchi, sopravvissuti all’ultima grande guerra. Aveva smesso di vedere bellezza in quel dolore quando era toccato a Shiro subirlo.
“Tu sei un guerriero impavido, eh?” Domandò, quando le sue dita toccarono un’altra cicatrice, l’ennesima. Aveva perso il conto. “Hai vissuto una vita di lotte, restando sempre al fianco del tuo Principe. Come si può pensare di punirti per questo?”
“Gli innocenti sono i primi a pagare per i capricci dei potenti.”
Shouto alzò la testa appena in tempo per vedere un bagliore blu comparire sotto l’arco di entrata della grotta.
“Gli ultimi sono i nemici,” proseguì Touya, attraversando lo spazio che lo separava dal fratello minore con passi lenti e ben distesi. “Nel mezzo, tocca ai leali,” concluse, passando la mano avvolta dalle fiamme blu sulla testa del suo Drago.
Dabi si dimenticò immediatamente della presenza di Shouto, premendo il muso contro il petto del suo giovane padrone.
“Era una cosa che il Re Demone ripeteva spessa,” disse il Principe Nero, concedendo al suo fedele compagno di avventure tutte le tenere attenzioni di cui aveva bisogno. “Era un modo per ricordare a me e Tenko che se non fossimo stati forti come lui si aspettava da noi, i nostri fratelli sarebbero stati i primi a morire.”
Con la coda dell’occhio, Shouto studiò il profilo di suo fratello illuminato dalle fiamme blu.
“Tu lo ricordi bene?” Domandò. “Il Re Demone, intendo.”
“Quando è caduto avevo tredici anni, troppi per dimenticare” rispose Touya. “È un’età strana. Sei ancora un bambino, ma non lo sei più davvero. Al tempo, Tenko mi sembrava un moccioso con i suoi dieci anni, mentre ripeteva a memoria ogni parola di Lord Shigaraki come un maledetto ritardato. Ora lo guardo e dimentico che ci sono tre inverni a dividerci.”
“Siete amici?”
“Siamo entrambi colpevoli dello stesso regicidio, è diverso,” rispose Touya. Nonostante il tono affilato della voce, il modo in cui toccare il suo Drago era gentile e la spontaneità con cui lo faceva, disse a Shouto che quelle mani non erano poi così estranee alla gentilezza, nonostante il terribile potere che possedevano.
“Un regicidio che sembra non essersi mai compiuto,” disse Shouto, avvicinandosi di un passo. Prese in considerazione la possibilità di sollevare la mano avvolta dal fuoco e toccare il braccio del fratello. Un segno di pace: l’ultima volta che i loro poteri si erano toccati in un momento di quiete era stato piacevole.
Le parole di Touya lo dissuasero dal farlo: “il mio ruolo in questa storia non cambia,” disse, appoggiando la fronte al muso di Dabi. “Sono uno dei due fanciulli che ha ucciso il Re Demone, sono uno dei due Principi Neri. La guerra non fermerà ora che abbiamo tutti un nemico comune. Al contrario, i due schieramenti impiegheranno tutte le forze per mettere Tenko o Izuku sul trono, prima che Lord Hisashi faccia di nuovo sua la corona che gli è stata sottratta.”
Shouto inspirò aria dal naso fino a gonfiarsi il petto, ma non bastò a placare la rabbia che gli crepitava nel petto.
“Quindi vuoi assecondare questa follia fino alle fine?” Domandò, deluso ma non sorpreso. “Se unissimo le forze-“
“I Draghi non uniscono le forze,” lo interruppe Touya, sollevando la testa per guardarlo dritto negli occhi. “Per loro vale la legge del più forte.”
“Ma anche quella dell’onore e del rispetto.” Shouto si decise a stringere il braccio del fratello e le loro fiamme si fusero, assumendo un colore violaceo. “Guarda, Touya. Il fuoco ci distrugge solo se glielo permettiamo. Lo stesso vale per i Figli dei Draghi. Se i Todoroki, i Bakugou e gli Shigaraki si unissero contro il Re Demone-“
Touya non gli permise di finire il discorso di nuovo, questa volta con una risata sarcastica.
“Continua a sfuggirti il nostro ruolo nella storia, fratellino,” disse, scostandosi per non farsi toccare. Dabi seguì il suo movimento, continuando a respirare a grande aspirate il suo odore, con il naso premuto contro il suo grembo.
Le fiamme del più giovane erano tornate rosse e quelle del maggiore erano di nuovo blu.
“Katsuki e Izuku convoleranno a giuste nozze, unendo le Casate dei Bakugou e degli Shigaraki. Loro saranno i nemici di Tenko per la corona che, un tempo, era di Lord Hisashi, detto All For One o Re Demone. Non restiamo che io,” Touya indicò se stesso, puntandosi l’indice sopra il cuore, “e te.” Allungò il braccio avvolto dalle fiamme blu per prendere tra le dita il mento del quindicenne.
Shouto lo guardò dritto negli occhi.
“E a te non importa niente della corona,” disse.
Touya scrollò le spalle.
“Quella degli Shigaraki non è affar mio.”
“E vuoi bruciare quella Todoroki fino a fonderla, non è così?” Shouto non aveva bisogno di una risposta. “Non è questione di potere o onore… C’è solo vendetta nel tuo cuore, vero?”
Touya smise di toccare Dabi per esaurire completamente la distanza tra loro. Erano alti uguali, ma Shouto si sentiva più piccolo.
“A te però è concessa una mossa in più, fratellino,” disse, tracciando la linea dello zigomo in parte ustionato con la nocca dell’indice. “Che tu combatta al mio fianco o perisca per mia mano, nostro padre soffrirà ugualmente.”
Shouto si fece indietro, scottato dalle fiamme blu.
“In virtù della maledizione che ci lega entrambi,” disse Touya, appoggiando il braccio sulla testa del suo maestoso Drago nero. “Ti concederò il privilegio di decidere-“
“La mia lealtà è per i miei amici.” Fu il turno di Shouto di zittirlo. “E tu sei un alleato di Tenko. Non me ne faccio nulla delle tue concessioni, sapevo per cosa combattere fin dal principio!”
Il quindicenne superò suo fratello, urtandogli volutamente la spalla. Le fiamme rosse che gli avvolgevano il braccio sinistro non si estinsero fino a che non fu fuori dal Nido del Drago.

Intimità

Mar. 30th, 2023 06:07 pm
M3: Nudità


C’era qualcosa di metafisico in ciò che provavano l’uno tra le braccia dell’altro.
Qualcuno, probabilmente un filosofo, avrebbe riconosciuto nel piacere della carne l’esempio più basso ed elementare di realtà sperimentale. Sherlock Holmes non era certo un filosofo ma gli riusciva difficile definire quello che sentiva correre sotto la pelle come una normale reazione a uno stimolo. C’era fuoco nelle sue vene e lo corredenza lentamente, senza ucciderlo. Era una tortura a cui non aveva mai immaginato avrebbe sottoposto se stesso. Poco più di un anno prima, non avrebbe nemmeno ritenuto possibile piegare il proprio raziocinio a simili sensazioni totalizzanti. Gli capitava di avere eccessi di zelo, ma aveva sempre avuto i piedi ben piantati a terra, anche se il resto del mondo era pronto a sostenere il contrario su di lui. Agli occhi degli altri era impossibile che un eccentrico della sua portata fosse tanto ancorato alla realtà d’aver fatto del binomio causa-effetto il suo unico credo. La follia di Sherlock stava nel pensare che la realtà delle cose fosse modificabile, migliorabile, mentre la gente di quel secolo provava gusto a gridare al progresso senza muovere un passo dal passato.
Senza saperlo, il giovane Holmes aveva compiuto il loro stesso errore: ”La follia è, senza dubbio, parte di questo mondo, Mycroft. Una delle sue forme più comuni è sicuramente la rabbia, ma mi rifiuto di pensare che un uomo nel pieno delle sue facoltà possa perdere la testa per amore.”
Povero, ingenuo, Sherlock Holmes, così convinto della concretezza della terra sotto i suoi piedi che era bastato uno sguardo di William James Moriarty per perdere l’equilibrio e - letteralmente - cadere nel vuoto.
Quello stesso William James Moriarty - il suo Liam - che gli aveva fatto perdere la testa col colore - scarlatto - dei suoi occhi. Sì, Sherlock Holmes era folle, ma non di rabbia. Mai di rabbia, non con Liam.
Liam, che senza provarci aveva preso tutto il suo disincanto riguardo l’amore e l’aveva meravigliosamente destabilizzato.
Sì, c’era qualcosa di metafisico in ciò che provavano l’uno tra le braccia dell’altro.
Il binomio causa-effetto, tradotto in bacio-“ho voglia di te”, non bastava a spiegare ciò che stava accadendo in quell’appartamento di Brooklyn. Sherlock non sapeva da quanto stavano andando avanti. Poteva essere un minuto come un’ora.
La sua unica certezza era che tutto il tempo del mondo non sarebbe mai stato abbastanza.
I suoi vestiti erano finiti sul pavimento della cucina, insieme a quelli di Liam. Erano rimasti entrambi in intimo. Come Liam fosse finito seduto sul tavolo, con le cosce strette intorno ai fianchi di Sherlock, non era chiaro. Il divano a un paio di metri da loro o la camera da letto sarebbero state scelte decisamente più comode, ma nessuno dei due si disturbò a dare voce a quel pensiero. Erano ancora nuovi a quel genere di cose. Dopo quel primo bacio ne erano seguiti tanti altri, sempre più avidi, più curiosi. Avevano scoperto che divorarsi a vicenda, tra le lenzuola del loro letto, era il miglior modo per concludere la giornata.
Fosse stato per Sherlock, i casi dei Pinkerton se ne sarebbero andati al diavolo in favore di un altro tipo d’indagine: quella sul corpo di Liam.
Le carezze non si erano fatte attendere, più timide dei baci, più incerte.
La voglia che avevano l’uno dell’altro si fermava lì, nell’incapacità di varcare un confine ancora straniero. Lasciarsi andare, avevano scoperto, non era nella loro natura. Non era la mancanza di fiducia a inibirli. No, da parte di entrambi vi era un’enorme difficoltà oggettiva nel frenare il folle vorticare dei pensieri.
Alle volte, era Liam a irrigidirsi, trattenuto dal pensiero ricorrente che quella felicità fosse un furto al destino. Sì, Sherlock era la sua Anima Gemella ma questo non era sufficiente a convincerlo di meritarlo.
Dall’altra parte c’era Sherlock, più timido di quanto la sua personalità esuberante lasciasse intendere. Non appena Liam si tendeva come una corda di violino, faceva dieci passi indietro, ansioso di sapere dove aveva sbagliato.
“Non hai sbagliato nulla, Sherly.” La rassicurazione di Liam arrivava puntuale, sempre accompagnata da una carezza. Si cercavano, si desideravano ma avevano entrambi bisogno di tempo, di accettare che ad alcune prove sarebbero seguiti inevitabili errori.
Era l’arte del crescere e di assaggiare la vita. Dovevano solo prenderci la mano.
Per questo, in momenti di rara spontaneità come quello, dove un bacio dato per caso bastava a spingerli l’uno verso l’altro, non aveva importanza finire sul tavolo piuttosto che da un’altra parte. Se si fossero interrotti e avessero spezzato il momento, non sarebbero più stati in grado di proseguire.
Nella lista delle cose capaci di spingere Sherlock sull’orlo della follia, la bocca di Liam aveva presto raggiunto la stessa posizione dei suoi occhi. Gli piaceva toccare quella labbra con le proprie, dolcemente. Adorava inumidirle con la lingua, prima di assaggiare il sapore di Liam. E quando l’atmosfera si faceva abbastanza calda, non resisteva alla tentazione di prendere il labbro inferiore tra i denti. Non stringeva mai abbastanza da fare male. Non avrebbe mai voluto. Lo tirava quanto bastava a sentirlo scivolare dalla propria presa, morbido. E ricominciava da capo.
Un altro bacio e il contatto con la realtà veniva meno.
Quello era uno di quei momenti, con Liam che teneva Sherlock stretto a sé.
Le labbra potevano divenire indolenzite per troppe attenzioni? Perché era quello che stava succedendo al giovane Moriarty, ma privarsi della bocca di Sherlock sarebbe stato come smettere di respirare. Le sue mani non erano meno vivaci. Con gli occhi chiusi, tracciava le linee del petto del Detective, affondava le dita tra quei capelli corvini - a un certo punto, non sapeva quando, li aveva sciolti - e se si allontanava per riprendere fiato, passava il dorso delle dita su quel bel viso acceso dalla passione. Uno sguardo e Liam si perdere in quelle iridi blu che avevano riempito il suo mondo di colori.
Sherlock, da parte sua, non stava certo fermo. Tirava la frangia di Liam all’indietro per posare un tenero bacio sull’occhio leso. Ancora il giovane Moriarty provava a nascondersi, come se quel difetto estetico fosse una colpa o una vergogna.
Sherlock non smetteva di ripetergli che lo voleva tutto.
Se solo avessero trovato insieme il coraggio di…
La mano del Detective affondò tra i capelli biondi, afferrandoli all’altezza della nuca. Tirò un poco, senza far male, invitando Liam a reclinare la testa all’indietro. Le labbra di Sherlock lo lasciarono per il tempo di un respiro, poi iniziarono a torturargli la gola, prendendo la pelle morbida tra le labbra con bramosia. Liam sapeva che gli sarebbero rimasti dei segni per giorni e gli piaceva. Sherlock era prudente e lo marchiava - se così si poteva dire - solo dove i vestiti avrebbero coperto le prove del misfatto. A volte, era troppo irruente e Liam doveva chiedergli di essere più delicat; altre, come in quel momento, lo faceva sospirare di piacere. Mentre Sherlock scendeva a baciargli il petto, la sua mano lo invitò a stendersi sul tavolo. Liam lo assecondò, il respiro corto e il cuore che batteva velocissimo. Era diverso dalle altre volte. L’eccitazione impediva a Liam di essere nel pieno delle proprie facoltà. Tutto quello che la sua mente riusciva a elaborare era Sherlock, le sue mani, la sua bocca. Era sopraffatto, ubriaco di quello splendido giovane uomo dai capelli neri come la notte e il sorriso più luminoso del sole. Non appena la lingua del Detective prese a giocare col suo ombelico, Liam sentì il respiro venire meno. Quello, di solito, era il momento in cui la mente tradiva il corpo, urlandogli di fermarsi. Non accadde e, mentre Sherlock gli slacciava il botto dell’intimo, Liam permise a quel pensiero di scivolare via, insieme a tutti gli altri. “Sherlock…”
“Signor Ponytaaaaail!
Fu come ricevere una secchiata d'acqua gelida. Liam aprì gli occhi e il soffitto bianco della cucina rispose al suo sguardo. Sopra di lui, Sherlock era bloccato.
“Signor Ponytaaaaail!
Le labbra del Detective lo abbandonarono e Liam sentì un brivido freddo, spiacevole, correre lungo la propria schiena. Il momento era andato distrutto.
“Signor Ponytaaaaail!
“Io giuro che lo ammazzo,” sibilò Sherlock, raddrizzando la schiena.
Liam si sollevò sui gomiti. “Perché urla il tuo nome su per le scale?”
Sherlock, stupendo con le labbra ancora umide dei loro baci e i capelli in disordine. “Lo fa a ogni rampa per evitare di assistere ad altre scene compromettenti.”
Liam si aggrappò al bordo del tavolo e si mise seduto. “Il tempismo non è sicuramente il suo forte.” Sollevò la mano e arricciò una ciocca corvina intorno all’indice.
Sherlock gli afferrò i fianchi, dandogli un tenero bacio sulla guancia. “Stavamo andando così bene,” si lagnò, imbronciato.
Liam lo spinse indietro quanto bastava per guardarlo negli occhi. “Il momento arriverà se non lo cerchiamo, ricordi?”
“Per questo stava andando bene, perché era iniziato in modo così spontaneo…” Sherlock pronunciò metà dell’ultima parola sulla bocca di Liam, tirandolo a sé in un altro bacio languido. Fu breve.
“Signor Ponytaaaaail!
“Ho capito, Billy, chiudi quella dannata bocca!”

Ascesa

Mar. 29th, 2023 03:00 pm
Izuku non era cresciuto sui campi di battaglia.
Avevano preso e usato la data del suo quinto compleanno per segnare la fine di una guerra epocale, che aveva portato alla caduta di suo padre. Sua madre, tenuta in una gabbia dorata perché lo mettesse al mondo e si prendesse cura di lui, non fu trattata allo stesso modo da quelli che vennero dopo, coloro che gli facevano chiamare gli Eroi. Per alcuni era una vittima degli eventi come tante altre, condannata a portare in grembo il frutto del seme del male. Per altri, i avvelenati, era la complice del disegno oscuro che il mondo aveva conosciuto come Lord Hisashi Shigaraki , ma che il mondo avrebbe ricordato con All For One, il Re Demone.
Izuku non aveva alcuna memoria del terribile contesto in cui era venuto al mondo. Toshinori e sua madre si erano impegnati a proteggerlo da tutte le brutture del mondo a cui apparteneva per diritto di sangue.
Per Tenko era stato diverso.
Quella parte del loro passato che Izuku aveva conosciuto solo attraverso le grandi storie, Tenko l’aveva vissuta, ne portava i segni sulla pelle, nel cuore. Lui, che era un regicida.
Ora, a quindici anni, con la città di Deika ridotta a una tomba a cielo aperto, Izuku comprendeva, infine, perché a Tenko non erano mai piaciute le favole.
Shouto era nato per il campo di battaglia.
Le sue mani erano state sporcate dal sangue ancor prima che fossero perfettamente in grado di evocare quel fuoco e quel ghiaccio che aveva ricevuto in dono dai suoi genitori.
Era nato per essere Re.
Ma se era vero che la corona dei Todoroki sarebbe stata poggiata sul suo capo per diritto di nascita, lo era altrettanto che solo sua era la responsabilità di reggerne il peso e di saper usare al meglio il potere che essa rappresentava. Prima che a lui, suo padre aveva insegnato le regole di quel gioco crudele al maggiore dei suoi fratelli. Touya in quell’equilibrio non aveva mai trovato posto. Prima adorato, poi messo da parte, non aveva ceduto neanche alle lusinghe del Re Demone. Piuttosto che essere uno schiavo, si era trasformato in un regicida.
Ora, di fronte alle macerie di Deika, Shouto avrebbe potuto definire suo fratello in tanti modi, ma non debole né, tantomeno, sconfitto.
Sotto quel cielo rosso sangue, in sella ai loro due Draghi, i Principi Neri ascesero.

Patricidio

Mar. 29th, 2023 01:37 pm
La stilettata a Dazai muore in punta di lingua.
Quando Chuuya emerge dalle ombre è curvo, gli occhi nascosti dalla frangia rossa.
Si ferma lì, su primo pianerottolo e s’inginocchia su se stesso.
Se ha visto il coetaneo non lo dimostra o non gli importa. Afferra i lembi del cappello nero e se lo calza in testa, con forza. Poco di più e potrebbe strapparne la stoffa.
Dazai rimane in piedi sulle scale, mentre avverte un boato sotto i suoi piedi.
Non è reale, la terra non trema. Chuuya, sì.
Lui trema e piange.
“Ho ucciso mio padre,” dice, ma Dazai lo capisce solo dopo la terza o quarta volta che lo ripete tra i singhiozzi. “Ho ucciso mio padre.”
Dazai rimane immobile, pietrificato. I suoi occhi scuri non riflettono niente, la sua espressione potrebbe essere quella di una bambola di porcellana. Vuota.
Scende i gradini che lo separano dall’altro, s’inginocchia lì, di fronte a lui. Non dice nulla.
Chuuya è talmente rotto che basterebbe un soffio a mandarlo in frantumi. È quello che promette dal loro primo incontro, il suo unico scopo nei giorni di noia - quando è troppo pigro anche per provare a morire.
“Ho ucciso mio padre…”
C’è una storia dietro quelle quattro parole, una che Chuuya e Dazai hanno attraversato solo nella sua forma più semplice, schematizzata, sconfiggendo prima Randou e poi Verlaine.
È la storia di Chuuya, prima che Chuuya fosse il suo nome.
Dazai può intuirla a grandi linee. Un essere artificiale e un assassino. Entrambi uomini non umani, entrambi armi. Entrambi legati da un gesto di umanità che ha portato alla vita di un altro essere umano.
Dazai si accuccia davanti a Chuuya.
Si sporge in avanti, fino a che la propria fronte non tocca la sua testa.
Il resto di quella storia glielo racconterà lui.

Addio

Mar. 29th, 2023 11:39 am
L’ultima volta che lo vedi è un’illusione nella tua testa.
Ha quindici anni, come il giorno in cui lo hai conosciuto.
Brilla il sole, i mocciosi sono impegnati nell’addestramento quotidiano e ridono.
Non riesci a collocare quelle immagini in un momento preciso del passato.
Sei appoggiato al muro e li guardi.
Vegliare su di loro è la tua nuova missione, quella ufficiale.
Assicurarti che tutti loro divengano adulti e vivano in un mondo libero è quella che hai scelto per te stesso.
Lui si volta a guardarti e si avvicina. Al tempo della sua adolescenza non avrebbe mai avuto il fegato di rivolgersi a te in modo tanto diretto, questo te lo ricordi bene. L’innocenza che vedi riflessa in quegli occhi dal colore impossibile, invece, no, non te la ricordavi.
Di colpo, ti fa male.
“Alla fine l’ultimo colpo non è spettato a voi.”
“No, non l’ultimo,” concordi. “Ma il penultimo sì.”
A Mikasa la condanna di scrivere la parola fine.
“Siamo rimasti fedele ai nostri ruoli. Il Mostro e l’Eroe.”
Capisci dal suo sorriso triste che questo è il suo addio per te.
“No, per me sarai sempre un moccioso, Eren.”
E questo è il tuo per lui.

Rose

Mar. 29th, 2023 09:14 am
Non si ribella quando tocca l’acqua.
Le piace e si sente al sicuro finché è tra le tue braccia.
Le tieni sollevata la testa.
Tu la guardi e lei ricambia lo sguardo, sorride e tu, William, lo conosci già quel sorriso.
È come suo padre, pensi. La mia piccola canaglia.
Ha i colori di Sherlock, ma assomiglia a te.
Una splendida e rara rosa blu è nata per rendere ancor più prezioso il roseto della Casata Moriarty.
E Rose è il nome che le avete dato. Semplice, elegante e perfetta.
Avrà tutto il tempo per essere ribelle.
Ora è solo il vostro splendido fiore.
CowT13. Week 5
M4: qualcosa all’improvviso



Albert fu il primo a svegliarsi, destato da pensieri che lo rincorrevano dalla sera precedente. Mycroft gli dormiva accanto, il braccio proteso nella sua direzione. Il Conte intrecciò le loro dita, stando attento a non disturbare il suo riposo. Non riusciva a smettere di guardarlo, di toccarlo, di memorizzare tutti i dettagli che riusciva a notare. L’ultima volta che Albert era rimasto nel letto di un amante tanto da svegliarsi la mattina successiva era ancora minorenne.
Si torna sempre da chi ci ha fatti stare bene.
Fare un confronto tra Sebastian e Mycroft era difficile, forse stupido. Albert li aveva conosciuti in età della vita differenti, proprio come lo erano loro. I capelli neri, la laurea a Oxford e la carriera militare erano gli unici tre punti in comune che avevano e avrebbero potuto riguardare centinaia di altri giovani uomini.
Albert non avrebbe confessato i motivi che lo avevano spinto verso Moran nemmeno in punto di morte. Parlare di Mycroft era più semplice, tanto che non aveva avuto difficoltà a uscire allo scoperto con William.
Ma entrambe le storie erano macchiate da un’oscurità più nera della notte.
La sostanziale differenza era che, come lui, Moran era destinato a essere divorato da quell’abisso. Mycroft no.
Albert lo sapeva, non si era mai concesso il lusso d’illudersi che ci fosse una via d’uscita. Mycroft non era una distrazione - non si sarebbe mai permesso di togliergli valore in quel modo - ma una concessione che faceva a se stesso.
Non poteva durare in eterno ma, anche se il loro tempo era contato, non voleva rinunciarvi.
In questo, Albert si sentiva molto vicino a William. Quando Moran aveva detto che non era da lui sopportare che qualcuno si avvicinasse a suo fratello senza permesso, aveva avuto le sue ragioni. Ma Albert non sarebbe mai andato contro i desideri di William, tantomeno ora che li sentiva così simili ai propri.
La strada che avevano scelto era una lenta discesa verso l’inferno.
I fratelli Holmes non potevano fare altro che rimandare l’inevitabile.
Mycroft gli aveva assicurato che, mentre il piano Moriarty andava avanti, lui e Sherlock non si sarebbero limitati a rispettare i ruoli che erano stati imposti loro. Albert non aveva idea di come una simile promessa potesse concretizzarsi e non possedeva abbastanza coraggio per chiederlo. Era certo che se avesse mostrato a Mycroft quanto aveva paura, qualcosa si sarebbe rotto in maniera irreparabile.
E se quelli dovevano essere i suoi ultimi respiri, Albert voleva viverli fino in fondo. Voleva che quel calore lo ustionasse e gli lasciasse addosso segni tanto profondi d’accompagnarlo nella sua condanna. Era crudele e lo sapeva.
Era complicato intuire i desideri di William, ma Albert era certo che non stesse prendendo da Sherlock tutto quello che il Detective era disposto a dargli. Non lo faceva perché sapeva che, alla fine, gli avrebbe fatto solo del male.
William era gentile. Albert no.
No, il Conte Moriarty era egoista e codardo. Mycroft gli aveva offerto qualcosa che non aveva mai osato volere per se stesso e non aveva esitato a prendersela. Nonostante tutto quello che aveva tolto nel corso della sua giovane vita, Albert si era sentito in diritto di poter prendere ancora.
E a pagare il prezzo più alto sarebbe stato Mycroft. O forse no.
Forse Albert stava esagerando tutto. In fin dei conti, non c’era nulla che potesse raccontargli quello che il Direttore provava per lui. Non nei dettagli. La passione e la sintonia erano innegabili. Serviva molto meno per essere semplici amanti ma non bastava per rappresentare qualcos'altro.
Albert non era un ragazzino con una cotta, non aveva bisogno di etichette e definizioni. Se avesse interrogato se stesso, non sarebbe riuscito a spiegare a parole l’effetto che Mycroft aveva su di lui. Non sarebbe riuscito a dargli un ruolo nella propria vita, anche se sapeva che non era solo quello che William aveva scelto.
E Mycroft che versione aveva da dare della loro storia?
Albert non lo sapeva e non era certo di volersi liberare dei dubbi. Il Direttore era un uomo razionale e pragmatico e quando aveva allungato la mano nella sua direzione, era perfettamente consapevole di chi stava invitando nel suo letto.
Ma Mycroft non ti ha invitato nel suo letto, gli ricordò una voce nella sua testa. Mycroft ti ha invitato solo a farti più vicino. Hai scelto tu di baciarlo. Hai scelto tu di farti amare. Hai scelto tu di tornare.
Albert sollevò la mano libera e affondò le dita tra quei capelli corvini. Ricordava di aver compiuto gesti simili anche con Moran, quasi un decennio prima. Eppure, con Mycroft era diverso. Col Colonnello, Albert aveva accettato l’inesistenza di un futuro con amara rassegnazione. Quando era finita, non aveva lottato, non si era voltato a cercare gli occhi grigi di Sebastian. Al contrario, se ne era andato lui per primo arruolandosi, partendo per l’India. E Moran lo aveva lasciato andare.
Quando il momento sarebbe arrivato e il Problema Finale si sarebbe abbattuto su tutti loro, Mycroft che cosa avrebbe fatto?
Ancora una volta, Albert non conosceva la risposta. C’erano troppe cose in gioco e i sentimenti personali non erano altro che dettagli sorvolabili in confronto al grande schema che tutti stavano seguendo. Eppure c’erano e facevano stare bene, facevano stare male. Non erano importanti ai fini della trama ma erano onnipresenti.
E Albert se ne stava immobile a osservare l’uomo che gli dormiva accanto, come se non fosse un complottista e un assassino. Non voleva pensare a cosa provava o a come pochi giorni erano bastati a mescolare tutti i pezzi sulla scacchiera.
Era certo che William avrebbe rimesso tutto in ordine.
Il momento di procedere non era lontano.
Furono le carezze di Albert a destare Mycroft. Si scambiarono un sorriso, dandosi il buongiorno in silenzio.
“Vieni qui.” Il padrone di casa invitò il proprio ospite a farsi più vicino e questi non si fece pregare troppo. “Da quanto tempo sei sveglio?”
“Da un po’…” Rispose Albert, accomodando la testa contro il petto dell’amante.
Mycroft ricambiò le carezze tra i capelli. “A cosa stavi pensando?”
“A come fai a dormire così serenamente accanto a me.” Non era una bugia, era solo una parte della verità.
Il corpo del Direttore vibrò con una risata. “Mi stai consigliando di tenere la pistola sotto il cuscino?”
Albert sollevò la testa per poterlo guardare negli occhi. “Onestamente, mi sorprende che tu viva in una qualunque residenza di Mayfair, con una domestica e una semplice porta a difenderti dal resto del mondo.”
Mycroft scostò una ciocca di capelli castani da quegli occhi verdi. “Per il mondo sono semplicemente un Sir che lavora al Ministero dell’Esercito.”
Albert era serio. “La prima volta che sono venuto da te, l’ho fatto seguendo delle comuni voci di corridoio. Non ho dovuto indagare, mi è bastato seguire i pettegolezzi.”
“Nessun altro si è presentato nel mio ufficio,” ribatté Mycroft. “Solo tu.”
“Non è un merito, solo fortuna.”
“Albert, non fare il finto modesto. Non ti ho dato l’MI6 perché hai gli occhi più belli di tutto il Commonwealth Britannico.”
Al Conte sfuggì un sorriso. “No, mi hai offerto il ruolo di M perché ti ho incuriosito, tanto da volermi conoscere.”
Mycroft tracciò il profilo del suo naso con la punta dell’indice. “E adesso ti conosco abbastanza per sapere che non sei qui solo per me.”
Albert si avvicinò tanto da soffiare le sue parole successiva sulla labbra dell’amante. “Non fare il finto modesto, Mycroft.”
Risero insieme e si baciarono.
“Ma temo che tu abbia ragione,” aggiunse il Conte, alzandosi dal letto. Prese in prestito la vestaglia da notte abbandonata sullo schienale del divano e la indossò come se fosse sua. “Ho mandato i miei uomini a fare qualche domanda in giro, nell’East End. Avevo un dubbio e volevo indagare.” Si avvicinò allo specchio dietro la scrivania e lo girò per avere sotto gli occhi la lavagna e le fotografie delle nove vittime. “Con i primi otto non ho avuto fortuna, ma…” Sollevò la mano e appoggiò l’indice sull’immagine del giovane Julian Evans. “Lo hanno riconosciuto con certezza in tre locali diversi. Ingenuamente, il ragazzo andava in giro vestito come un giovane del suo ceto sociale ed era impossibile non notarlo.”
Mycroft si alzò a sua volta, infilando svogliatamente i pantaloni. “Era in compagnia di un uomo che corrisponde alla descrizione di Patel?”
“È questo il punto,” proseguì Albert. “Lo hanno visto in compagnia di tre ragazzi diversi, uno per ogni locale. E abbiamo l’assoluta certezza che nessuno di loro era George Patel. Sono tre ragazzi del quartiere, li hanno chiamati con nome e cognome.”
Mycroft gli arrivò accanto, passandogli un braccio dietro la schiena solo per poterlo toccare. “E cosa ci faceva Julian Evans con dei ragazzi dell’East End?”
Albert inarcò le sopracciglia. “Forse hai bisogno di cinque minuti in più per svegliarti, Mycroft.”
L’intuizione raggiunse il Direttore subito dopo. “Oh…” Mormorò, poi cominciò a elaborare: “è possibile che Patel ed Evans si siano incontrati proprio dove i figli di una famiglia nobile non vorrebbero mai essere visti.”
Albert annuì. “L’ho pensato anche io. Non credo che George Patel pagasse i ragazzi di strada per togliersi uno sfizio.”
Mycroft lo fissò. “Come fai a esserne così sicuro?”
Albert esitò, poi si umettò le labbra. “C’è una cosa che non ti ho raccontato,” confessò, ma si rese conto che non gli pesava davvero parlarne. Era solo che non riusciva a smettere di pensare al bambino di dodici anni che era stato. “Durante quella famosa estate che io e mio padre passammo dai Patel, in Scozia, successe una cosa con George.”
Mycroft s’irrigidì e smise di accarezzargli il fianco. “Albert, stai per dirmi che-“
“No.” Il Conte scosse la testa con un sorriso rassicurante. “Avevo un fucile,” aggiunse. “I nostri padri ci avevano lasciato andare a caccia da soli in un bosco vicino al castello. Avevano detto che tra ragazzi ci saremmo divertiti di più. Io non mi divertii affatto. Non capii immediatamente che George aveva tentato di divertirsi con me.”
“Che cosa ti ha fatto, Albert?”
“Non quello che voleva. Si è avvicinato per annusarmi, io stavo puntando a un vecchio cervo. Quando ho sentito il suo fiato sul collo, ho premuto il grilletto e il contraccolpo l’ha colpito sul naso. Fui abbastanza ingenuo da raccontarlo a mio padre e toccò a lui capire per me.”
“Ti ha punito?”
Albert scosse la testa. “Ora ho il dubbio che, al tempo, George Patel avesse già dato vita a qualche pettegolezzo scabroso, perché mio padre mi credette subito. Non mi spiegò niente, si limitò a porre fine ai suoi rapporti con i Patel.”
Mycroft lo stava guardando. “Adesso capisco il tuo stupore nel venir a sapere che la passione di George Patel è la pesca.”
“George Patel è un predatore. Lo è sempre stato. La pesca è solo una scusa.” Albert guardò le nove fotografie appese sulla lavagna. “La sola differenza tra me e loro è il tempismo e la fortuna.”
Mycroft lo tirò verso di sé, posando un bacio tra i suoi capelli. “Sei sicuro di voler prendere parte a questa operazione?”
Albert si allontanò quanto bastava per poterlo guardare. “A me non è successo nulla, Mycroft,” disse. “E se mio padre mi avesse protetto davvero, non sarebbe accaduto a nessun altro. Restando zitto è divenuto complice di tutto questo, anche di quello che sarebbe potuto capitare a me.”
“Vuoi andare all’East End,” intuì Mycroft.
“Voglio trovare i tre ragazzi con cui Julian Evans si è intrattenuto,” disse Albert. “Almeno uno di loro, per avere delle conferme. Sono persuaso a credere che questi nove giovani frequentassero tutti la stessa zona. Pagavano per il sesso. George Patel vuole che i suoi amanti abbiano un buon odore e non poteva accontentarsi dei ragazzi dei bassifondi.”
“Ma i giovani delle strade erano l’esca per capire quali bravi ragazzi adescare,” proseguì Mycroft. “I primi otto sono tutti borghesi. È stato cauto, sapeva che non avrebbero mosso nessun polverone con le giuste precauzioni. Dal punto di vista logico, mettere le mani su Julian Evans è stato molto stupido.”
“È un predatore,” ripeté Albert. “Non ha nessuno spirito di autoconservazione. Vuole sempre di più e se lo prende. Dopo otto volte, i giovani della borghesia hanno cominciato ad annoiarlo. Voleva aumentare la posta in gioco e ha intuito i gusti del giovane Evans dalle compagnie per cui era disposto a pagare.”
“E ciò che succede nell’East End rimane nell’East End,” concluse Mycroft. “Per quanto riguarda il lato economico della questione, George Patel può averli sia sedotti e convinti ad accontentarlo o li ha ricattati.”
“Forse entrambe le cose, a seconda della persona che aveva davanti.” Rivolse un sorriso a Mycroft. “Temo che dobbiamo rivestirci, Sir Holmes. Questa indagine non andrà avanti da sola.”




***



Sherlock non aveva detto a nessuno dove era diretto.
Aveva decifrato il messaggio datogli dalla signorina Hudson quasi all’istante e si era limitato a dare sia a lei che a John un’informazione vaga: “Dopodomani esco, non riceverò clienti.”
In realtà, nell’ultima settimana non aveva accettato nessun nuovo caso. Era troppo preso da Liam, dal ballo dei Patel e dall’incessante vorticale dei propri pensieri. In mezzo a tutti c’era, come sempre, il Signore del Crimine. Nemmeno Shakespeare era stata una buona distrazione, anche se non si era mai ritenuto un grande appassionato di letteratura. La conosceva, certo, ma non avrebbe mai occupato spazio nella sua testa per citare i grandi classici a memoria, aveva altro a cui pensare.
Durante la notte che avevano passato insieme non ne avevano parlato, ma Sherlock era dell’idea che Liam avesse una cultura decisamente più vasta della propria. Non era una questione di nobiltà o meno. Sherlock aveva avuto la possibilità di erudirsi, ma aveva scelto una conoscenza settoriale. Liam era un matematico ma il Detective era certo che, come Mycroft, non avesse alcun problema a recitare Shakespeare a memoria.
Con quelle riflessioni ancora vive nella sua mente, non poté che scoppiare a ridere quando si rese conto che l’indirizzo dell’appuntamento corrispondeva a una vecchia biblioteca dismessa nell’East End.
“Non ci posso credere!” Esclamò, attirando anche l’attenzione di alcuni passanti. A differenza dei quartieri alti, c’era un gran via vai per quelle strade. La gente si muoveva a piedi e spesso andava di fretta. Mentre Sherlock attraversava la strada, per poco non fu investito da una combriccola di mocciosi in fuga da chissà cosa. Dovevano aver rubato qualcosa - forse la loro cena di quella sera. Al Detective non interessava: dal suo punto di vista rubare un pezzo di pane per sopravvivere a stento si poteva definire un crimine e lì di povertà ce n'era parecchia.
La biblioteca non era molto lontana dal quartiere di Whitechapel, teatro degli efferati omicidi di Jack lo Squartatore. Sherlock non si orientava molto bene in quella zona ma era certo che ci sarebbe potuto arrivare comodamente a piedi.
A quel punto, mentre con le mani in tasca ed il naso all’insù studiava l’edificio abbandonato, era impossibile non porsi una domanda: “ma Liam cosa ha a che fare con un posto come questo?”
Il fratello di un Conte di certo non aveva giocato per quelle strade, rincorrendo una palla di stracci. Una parte di Sherlock dubitava persino che un nobile riuscisse a comprendere il dialetto che si parlava in quelle zone, almeno non del tutto. Eppure, Liam gli aveva dato proprio quell'indirizzo a cui presentarsi. Le mura esterne erano attraversate da crepe più o meno profonde. L’intero edificio di due piani sembrava reggersi per puro miracolo. Le finestre erano state bloccate da travi di legno, perlopiù marce. Di certo, la biblioteca doveva versare in quello stato da diversi anni.
Incuriosito fino all’eccesso, Sherlock si avvicinò alla porta d’ingresso e si accorse di un passaggio in basso a destra. Dovette praticamente mettersi in ginocchio per passare sotto le travi e arrivare dall’altra parte. Camminò a carponi per un paio di metri, lamentandosi della polvere che gli avrebbe sporcato i vestiti - chi voleva sentirla la signorina Hudson? - ma quando arrivò nell’ingresso e poté, finalmente, alzarsi in piedi, pensò che non fosse stato così difficile.
“Bene,” disse tra sé e sé. “E adesso che si fa?”
L'interno era illuminato solo dai raggi di sole che scivolavano attraverso le travi e Sherlock dovette aspettare un po’ per abituare gli occhi a quell’atmosfera. Quando riuscì a vedere bene di fronte a sé, notò qualcosa di strano sopra il bancone della reception. Lì, in mezzo a una lampada a olio rotta e altri libri resi grigi dalla polvere, vi era un volumetto un po’ troppo recente per appartenere a quel luogo: Uno studio in rosso di Conan Doyle.
Sherlock sorrise. “Vuoi giocare, Liam?” Si sentiva terribilmente stimolato da una cosa così semplice. “Allora giochiamo.” Aprì il volumetto e trovò un biglietto incastrato tra la copertina e la prima pagina.
Catch me if you can, Mr Holmes, vi era scritto sopra con la perfetta calligrafia di Liam.
Sherlock dovette mordersi il labbro inferiore per darsi un contegno. Aveva voglia di ridere, di saltellare tra quegli scaffali dimentica fino a che non avrebbe trovato chi cercava. “Senza indizi è un po’ difficile, Liam!” Disse ad alta voce, certo che l’altro lo potesse sentire forte e chiaro. Gli occhi blu presero a esaminare la scena: era impossibile che il giovane Professore non gli avesse lasciato la pista. Si voltò e si accorse che i suoi passi aveva lasciato delle impronte sul vecchio pavimento impolverato. “Oh!” Esclamò, muovendosi con cautela per superare il bancone della reception e li vide, i segni lasciati dal passaggio di Liam.
Sherlock sollevò i pugni vittorioso ma non esclamò niente. Le impronte lo portavano al piano di sopra. Cercò di salire facendo il meno rumore possibile, tanto per sorprendere Liam, ma quella vecchia rampa lo tradì al terzo gradino. Imprecò, andò avanti. Al settimo, il legno marcio non resse il suo peso e si spezzò.
“Maledizione!” Imprecò Sherlock, sorpreso di non sentire nessun dolore particolare all’altezza di piede e caviglia. Forse se la sarebbe cavata con niente.
“Ti sei fatto male?” Domandò una voce che conosceva bene.
Un sorriso comparve sulle labbra di Sherlock prima ancora che sollevasse il viso, ma ebbe vita breve. Per i primi dieci secondi, non riconobbe il ragazzo che era comparso al piano di sopra e che lo guardava preoccupato.
Sherlock sbatté le palpebre un paio di volte. “Liam?”
L’altro fece per avvicinarsi. “Ti do una mano.”
“No, no, resta lì!” Lo rassicurò Sherlock, sollevando il piede incriminato e proseguendo su per la scala. “Non mi sono fatto niente.” Arrivato a destinazione, prese un gran respiro e tornò a sorridere. “Liam!” Chiamò solo per il puro gusto di pronunciare il suo nome. “Ma sei davvero tu?” Stentava a crederlo.
Sherlock sapeva che il fine ultimo di quell’appuntamento era sorprenderlo, ma era arrivato da meno di dieci minuti e Liam lo aveva già lasciato senza parole. Del giovane nobile che aveva conosciuto erano rimasti solo i lineamenti perfettamente disegnati, ma il vestiario si addiceva al contesto. Forse la stoffa era troppo pulita e troppo poco lisa per appartenere a un ragazzo che viveva con mezzi di fortuna, ma nessuno poteva davvero notarlo. Solo il Detective era attento a simili dettagli.
Per il resto, l’illusione funzionava.
“Sembri un ragazzino,” commentò Sherlock. Era vero: i completi formali dell’alta società erano capaci di trasformare i fanciulli in quarantenni.
“Lo prendo come un complimento,” ribatté Liam. Sorrideva.
“Ma…” Sherlock indicò la biblioteca della mano con un gesto della mano. “Come conosci un posto come questo?”
“Ogni ragazzo di strada ha i suoi segreti,” rispose Liam.
“Oh, giochiamo a facciamo finta!”
“Più o meno.” Il giovane nobile si voltò, invitandolo a seguirlo con un gesto della mano. “Vieni…”
Sherlock non aveva bisogno di farsi pregare per accettare. Liam lo condusse tra due scaffali non meno impolverati di tutti gli altri, ma vi erano poste meno assi sulla finestra tra di loro ed entrava più luce. Sherlock ne fu felice: non si sarebbe accontentato d’indovinare le espressioni di Liam nella penombra.
“Sul serio, che stiamo facendo?” Domandò il Detective.
“Vieni qui, siediti.” Liam si accomodò sul pavimento a gambe incrociate, come se non fosse più che lurido. “Che hai, Sherlock?”
Al Detective venne il dubbio che gli fosse comparsa sul viso un’espressione scandalizzata. “Ci accomodiamo per terra?”
Liam esitò, incerto. “È un problema?” Suonava costernato.
“No, no, no!” Sherlock si affrettò a raggiungerlo, prendendo posto di fronte a lui. “È che…” Sollevò lo sguardo sui vecchi libri, poi lo spostò sulla finestra. Alla fine, in assenza di parole efficaci, sbuffò e batté le mani sulle ginocchia. “Non so cosa dire, va bene? Hai vinto senza nemmeno provarci!”
Liam rise in modo contenuto. “Ma il mio fine non è mai stato vincere.”
“Bugiardo.”
“Volevo sorprenderti e ti ho sorpreso, ma questo non significa che ti lascerò libero di andare a casa così presto.”
Sì, Sherlock rischiava davvero di mettersi a saltellare come un idiota per il troppo entusiasmo. “E chi ci vuole tornare a casa? Nemmeno ho detto dove sono!”
L’espressione di Liam si fece eloquente. “Sherlock…”
“Cosa? Tu non conosci John!”
“Un giorno mi piacerebbe conoscerlo.”
“E, un giorno, sarò felice di presentartelo.” L’idea di Liam e John insieme creava in Sherlock delle emozioni contrastanti: da una parte, credeva che vedere il giovane Moriarty e il suo socio insieme gli avrebbe dato un confortevole senso di completezza; dall’altra, finché Liam non metteva piede a Baker Street, era una cosa solo sua. “Tuttavia,” aggiunse il Detective, “se avesse saputo che venivo qui, nell’East End, prima avrebbe cercato di fermarmi. Non riuscendoci, avrebbe chiamato Mycroft e mio fratello avrebbe sguinzagliato l’intera Scotland Yard qui, nei bassifondi!”
“Sembra che tu abbia molte persone che si preoccupano per te,” disse Liam. “È una bella cosa.”
Sherlock incrociò le braccia contro il petto e alzò gli occhi al cielo. “Tutti piantagrane!” Poi se ne pentì. “Non è vero…” Ritrattò con un sospiro. Non voleva spendere il pomeriggio a parlare a Liam della propria solitudine, della sua incapacità a socializzare e di come John fosse una fortunata eccezione nella sua incapacità a farsi degli amici. Se lo avesse fatto, avrebbe anche dovuto dire qualcosa sulla sua famiglia, la sua dipendenza da sostanze chimiche e altre cose spiacevoli. Quest’ultima, Liam l’aveva intuita da solo sulla Noathic ma era stato tanto gentile da non tirare più fuori l’argomento per primo.
“John è quell’amico che non credevo avrei mai avuto,” confessò, alla fine, perché era importante e voleva raccontare a Liam solo le cose belle. Le brutte le avrebbe comunque intuite da solo, non ne aveva dubbi. “Mi sopporta, mi asseconda, si preoccupa per me… Non mi sorprenderebbe se mio fratello scrivesse al Vaticano per farlo santo.”
“Addirittura?” Liam rise di nuovo.
A Sherlock piaceva farlo ridere. “Immagino che i tuoi migliori amici siano i tuoi fratelli.”
“Sì, penso si possa dire così. Sono due legami diversi, ma non è che uno sia più importante dell’altro. Albert ha ereditato il titolo di Conte di nostro padre, è il capofamiglia e ha un posto all’interno della Camera dei Lord. Ha molti obblighi da cui può esimersi, ma non si è mai sottratto quando avevo bisogno di lui. Io e Louis stiamo sempre insieme. Casa mia è molto affollata, a dire il vero.”
“Due fratelli equivalgono a un folla per me, immagino che casino sia metterci in mezzo anche tutti i servitori.” Sherlock storse la bocca in una smorfia. “Sempre ammesso che siano semplici servitori, visto il lavoro non ufficiale di tuo fratello.”
“Non posso rispondere,” disse Liam, cordiale.
“No, non farlo. Non darmi nulla che io possa usare contro Mycroft… Ma stavi leggendo qualcosa?” Sherlock lo domandò dopo aver notato che c’era un libro sul pavimento, accanto al giovane nobile.
“Oh, sì, m’intrattenevo aspettandoti,” disse Liam, sollevando il volume in modo che l’altro potesse vedere da sé di cosa si trattava.
Sherlock reclinò la testa da un lato per leggere e sorrise trionfante. “Shakespeare!” Esclamò con un po’ troppo entusiasmo.
Liam ne fu sorpreso. “Ti piace Shakespeare?”
“Beh, devo ammettere che io…” Il bluff di Sherlock finì prima ancora di cominciare. “L’ho riletto in questi due giorni,” confessò, sincero. “Non lo toccavo dai tempi della scuola.”
Liam appoggiò il libro sulle gambe. “E perché lo avresti fatto?”
“Perché immaginavo che a te piacesse. Non volevo farmi trovare impreparato, poi è arrivato mio fratello recitando i versi di Romeo e Giulietta, tanto per farmi sentire un idiota.”
Gli angoli della bocca di Liam si sollevarono in un sorriso dispettoso. “Quel teschio aveva una lingua, una volta, e sapeva cantare..“
Sherlock comprese la chiara allusione al suo anello, sollevò la mano e decise di recitare a sua volta. “Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d'oltraggiosa fortuna, o prender armi contro un mare d'affanni e, opponendosi, por loro fine?.”
“No,” disse il Professore.
“No?”
“Tutti credono che quel monologo sia lo stesso della scena in cui Amleto tiene in mano il teschio del buffone Yorick, ma in realtà sono scene diverse.”
“Ah…” Sherlock fissò il proprio anello come se lo avesse tradito. “Non me lo ricordo.” Era la pura verità, inutile negarla.
“Però ti sei ricordato il passo a memoria.”
“Ho studiato Shakespeare, come tutti gli inglesi con un minimo di cultura, alcune cose le ho memorizzate pur non volendo.”
“Ti ho portato in una biblioteca proprio per questo,” disse Liam. “Hai detto che non vuoi occupare la memoria con informazioni che non riguardano il tuo lavoro, ma permettimi di dire che ti stai ponendo un limite non necessario.”
“Oh, avanti, Liam, la memoria non è infinita. La mente ha un limite.”
“Lo so. Quando io raggiungo il mio, cado addormentato.”
Sherlock ridacchiò. “Divertente!”
“Non è uno scherzo,” insistette Liam, ma con gentilezza. “Un momento sto facendo una cosa e quello dopo perdo i sensi.”
Il Detective lo guardò stranito. “Questo non è sano…”
“Detto da te.”
“Liam, non scherziamo, se ti addormenti nella vasca e scivoli sotto l’acqua.”
“Il riflesso incondizionato nel cercare aria batte qualsiasi sonno fisiologico, dovresti saperlo.”
“Certo che lo so, ma è pericoloso lo stesso!”
Il giovane Moriarty scrollò le spalle. “Sono ancora qui.”
“E mi stai dando ragione!” Esclamò Sherlock. “Vedi cosa succede a usare la mente senza limiti? Si perde il controllo della propria volontà. Bisogna porsi dei limiti per restare lucidi!”
“E tu come perdi il controllo?” Liam lo domandò di slancio, senza cattiveria, solo curiosità. Si pentì di averlo fatto non appena Sherlock allontanò lo sguardo da lui per posarlo su qualsiasi cosa che non fosse il suo viso. Solo allora, il Professore ricordò della Noathic, quando gli aveva sentito addosso un leggero odore di oppio. “Sherlock, scusa, ho chiesto senza pensare e-“
“Da piccolo avevo degli attacchi,” confessò Sherlock, con una naturalezza che sorprese anche lui. “Non esiste un termine medico, a dire il vero. Ho provato a documentarmi, ma questo secolo è rimasto fermo all’isteria e la riconosce solo nelle donne. Che follia insensata!” Si ricompose. “E durante questi attacchi, urlavo, piangevo. Certe volte non mi si poteva toccare. Era come se qualcuno mi costringesse a sentire un rumore troppo forte per le mie orecchie e io me ne stavo lì, fuori di me, a cercare di abbassare il volume. Solo che il rumore lo producevo io, era nella mia testa e non sapevo che fare.”
Liam annuì. “È una reazione opposta alla mia. Io mi spengo, letteralmente. Tu vai in sovraccarico. Ti capita anche ora?”
Sherlock si grattò la nuca. “Ci vado vicino spesso… L’ultima volta è stato per il caso dello Studio in Rosso.”
“Ricordo di aver letto di Hope sui giornali.”
“È stato il primo caso del Signore del Crimine a cui ho lavorato. Sapevo che mi aveva messo alla prova, ma non ero certo di aver agito nel modo in cui si era aspettato da me.”
William appoggiò la nuca alla libreria alle proprie spalle. Non voleva perdersi nessun dettaglio di quel momento. Tutto era importante, dal tono che usava Sherlock per parlare, alla luce che illuminava i suoi occhi. E doveva stare attento a porre le domande giuste, con la voce più adatta. “Parli come se avessi voluto compiacerlo.”
“Sì, lo volevo.”
La sincerità di quella confessione fece sentire William disarmato già alla seconda battuta.
“Mi ha fatto cadere in un meccanismo di cui ora mi vergogno un po’,” aggiunse Sherlock.
“Sarebbe a dire?”
“Te l’ho detto: volevo compiacerlo. Sapevo che se avessi superato le sue prove, avrebbe continuato a sfidarmi e a propormi enigmi da risolvere. Dopo il caso Hope, è seguito un tempo infinito di silenzio e mi sono scoperto dipendente da qualcosa che non erano le sostanze di cui mi hai sentito l’odore addosso.” Sherlock s’indicò la testa. “Il gioco mentale, Liam. Come potevo resistere a una tentazione simile?”
William non era disposto a suggerirgli nessuna risposta.
“Subito dopo la morte di Hope in prigione, quello che mi è successo non è stato molto diverso da una crisi di astinenza. Mischiavo piccole dosi di oppio al tabacco per calmarmi e non bastava, ma non potevo tornare a quando…” Sherlock fece un gesto con la mano e chinò la testa. “Dannazione, non volevo parlare di questo.”
William gettò il libro da una parte e si sporse in avanti. “Sherlock?” Gli strinse il braccio e, timidamente, quegli occhi blu tornarono sui suoi.
“Sai quando mi sono rientrato in me?”
William scosse la testa. “Ti ascolto.”
“Quando ti ho visto su quel treno.”
Il giovane Moriarty dischiuse le labbra per dire qualcosa, le parole rimasero bloccate in gola e dissimulò il nervosismo con un sorriso di cortesia. “Sherlock, era la seconda volta che mi vedevi.”
“E Durham è stata la terza, e allora? Se siamo entrambi qui è perché quei pochi momenti sono bastati.” Gli occhi di Sherlock recuperarono parte della loro luce. “Tu mi fai bene, Liam. Non so in che altro modo spiegarlo. Tu mi fai bene.”
E William che poteva dire fronte alla profondità di quel blu? Niente, perché solo vederlo gli toglieva il respiro e sarebbe bastato niente per tradirsi, per concedere a Sherlock uno spiraglio. Tornò a interrogarsi su che cosa lo aveva spinto a camminare su di un strada tanto dissestata. Si rispose che gli piaceva. Allo stesso modo in cui gli era piaciuto provocare Sherlock durante quel loro secondo incontro sul treno.
Catch me if you can, Mr. Holmes.
Prendimi e facciamola finita. Perché Sherlock gli faceva venire voglia di rinunciare a tutto ed era la minaccia peggiore davanti a cui si fosse mai trovato. “Prendimi e basta, Sherlock.
E sarebbe bastato così poco.
William non avrebbe dovuto nemmeno aprire bocca. Erano così vicini che non sarebbe servito. Il giovane Moriarty non poteva esaurire la distanza tra loro senza spostarsi, ma Sherlock poteva venirgli incontro, trovarlo a metà strada. Se avesse deciso di farlo, William non avrebbe avuto né il tempo né lo spazio per sottrarsi.
E dopo che ti avrà preso? La dannata voce della ragione tornò a interrogarlo. Se ti arrendi cosa pensi che succederà? Tu sarai ancora il Signore del Crimine e lui la nemesi che hai scelto per te. Lui è la tua condanna, non il tuo salvatore. Non esiste un lieto fine per i Diavoli.
William non si permise di scrutare negli occhi di Sherlock. Non volle correre il rischio di vedere in quelle iridi blu il desiderio di raggiungerlo, di stare con lui. Non lo fece perché fu il primo ad allontanarsi. “Non puoi dirmi che ti faccio stare bene dopo avermi accusato di essere il Signore del Crimine.” Lo lasciò andare.
Sherlock abbassò lo sguardo sul proprio braccio, lì dove la mano di William lo aveva stretto e ora sentiva freddo.
“Perché tu credi che io lo sia, no?” Il giovane Moriarty lo domandò senza rancore. Era solo un modo per mantenere una distanza di sicurezza dal Detective. Finché c’era il Signore del Crimine tra loro, Sherlock avrebbe dato la precedenza alla sua ricerca della verità e William non sarebbe caduto per una tentazione.
Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.” Recitò il Detective, dal nulla.
William lo fissò. “Romeo e Giulietta?” Era incredulo. “Stai citando davvero Romeo e Giulietta?”
Sherlock rise e tanto bastò a rendere l’atmosfera meno tesa. “Se fossi davvero il Signore del Crimine - e io non ne ho mai dubitato - sarebbe la storia più adatta a noi,” disse, poi proseguì: “Oh Liam, Liam, perché sei tu Liam? Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome!”
“Non ho un padre da chiamare in causa. Ho solo fratelli.” Liam sorrideva.
E Sherlock cosa ne faceva nell’orgoglio quando rendersi ridicolo gli permetteva di guadagnare quel sorriso? “O, se non lo vuoi, tienilo pure e giura di amarmi, ed io non sarò più un Holmes. Solo il tuo nome è mio nemico - intendo quello di Signore del Crimine - : tu sei tu.
Lo aveva impressionato, lo comprese dal modo in cui William esitò a ribattere. O forse gli veniva da ridere ma era troppo educato per sbatterglielo in faccia. “Saresti una splendida Giulietta, Sherlock.”
Il Detective si rese conto solo in quel momento di aver recitato solo la parte di lei.
“Eppure, io ti vedrei di più ad arrampicarti su di un balcone,” disse William, alzandosi in piedi.
Sherlock emise un verso dolorante. “Perché continui a citare mio fratello?”
“Non so di cosa parli, mi spiace.”
Il Detective si alzò in piedi a sua volta, solo per imitazione. “Te ne vai?” Quanto tempo poteva essere passato? Il sole era ancora alto.
“No,” lo rassicurò William. “Usciamo in strada. Qui dentro l’aria non è delle migliori, c’è troppa polvere.”




***



Durante il viaggio in carrozza, parlarono ancora della strategia per la notte del ballo dei Patel.
“Avendo fatto da intermediario tra la loro famiglia e la tua, sarò obbligato a presentarsi a George Patel e suo padre, fingendo di non sapere dei vostri trascorsi,” disse Mycroft, serio. “Dopo quanto mi hai raccontato, non mi farà piacere farlo.”
“Ti ho già detto di non preoccuparti per quella storia.” Albert sorrideva, sicuro. “Se proprio non riesci a liberarti del fastidio, vedila così: se tutto andrà secondo i piani, George pagherà per tutto.”
Mycroft sollevò l’angolo destro della bocca. “Sì, penso sia un buon modo di vederla.” Rivolse poi lo sguardo fuori dal finestrino della carrozza: i bei palazzi dei quartieri signorili erano stati sostituiti da edifici di tutt’altro aspetto, la carrozza aveva anche rallentato perché in quella zona vi era un grande via vai. C’era sempre qualcuno che correva nei bassifondi e non era mai per le ragioni migliori.
“Qualcosa non va?” Domandò Albert.
Mycroft tornò a rivolgergli la propria attenzione. “È in un orfanotrofio di questa zona che hai trovato William e Louis, non è così?”
Non c’era cattiveria alcuna in quella domanda e Albert lo sapeva bene, ma non poteva fare a meno di oscurarsi un pochino ogni volta che il Direttore si riferiva al passato suo e dei suoi fratelli. Sì, si stavano conoscendo e sì, Mycroft lo stava chiedendo solo per quello.
“Sì,” rispose, infine. “Non posso fartelo vedere perché non esiste più. Quell’istituto si reggeva in piedi con le donazioni della mia famiglia e prima dei ventuno anni non sono stato padrone del mio patrimonio. Purtroppo non sono arrivato in tempo.”
Mycroft incrociò le braccia contro il petto. “Con l’industrializzazione della città, le campagne si sono svuotate e un sacco di persone sono venute a Londra in cerca di fortuna. Immagino che molti se ne siano pentiti: la città soffre di sovraffolamento.”
“Se per ogni famiglia nobile di questo paese vi fossero due bambini salvati dalla strada, gli istituti di carità diverrebbero superflui.”
“Hai ragione, Albert, ma quella di cui parli è un’utopia.”
“Ne sono tragicamente consapevole.” Il Conte sospirò. “C’è un enorme problema sociale che la classe dirigente fa finta di non vedere. Sai cosa dicono di questa gloriosa epoca vittoriana? Che verrà ricordata per la fortuna guadagnata dalle prostitute.”
Mycroft non voleva deriderlo ma quello era il genere di discorsi che si aspettava da Sherlock, non dal Conte Moriarty. “Nei salotti dell’alta società si parla di questo?”
“Rimembranze del college. Al tempo, a molti piaceva di essere rivoluzioni, come dovrebbe esserlo questa epoca. indovina come è finita? Siamo divenuti tutti dei Lord rispettabili, con dei segreti raccapriccianti da nascondere.”
“Sì, è una storia che ho già sentito. Penso che sia accaduto lo stesso ai miei colleghi di Oxford.”
“Ma non a te,” intuì Albert. “Tu sei la rivoluzione. Non sei figlio di nobile, nessuna famiglia ricca e famosa alle spalle. Ci sei solo tu… E Sherlock, naturalmente.”
Un velo di amarezza rese più scuri gli occhi blu di Mycroft. “Sai perché ti ho fatto quella domanda sui tuoi fratelli? Perché anche io provengo da questo angolo di mondo, anche se non direttamente.”
Albert inarcò le sopracciglia. “Credevo che gli Holmes servissero la corona da generazioni.”
“Ti faccio solo un piccolo appunto: noi serviano la Gran Bretagna. Nel caso salga al trono un sovrano incapace o, peggio, pericoloso, ho il permesso di agire.”
Questo Albert non lo sapeva. “Oh…”
“Ti sarei grato se questa confidenza restasse tra noi.”
“Certamente, ma non fai che confermare la mia teoria secondo cui la Regina Vittoria è solo una carica di facciata.”
“Albert, quello che hai appena commesso è delitto di Lesa Maestà.”
Il sorriso del Conte si fece malizioso. “Quando mi avete scelto, sapevate che ero un criminale, Sir Holmes.”
Il viso di Mycroft si addolcì ma non lasciò cadere la questione. “So che ti senti libero di parlare in mia presenza, ma ti chiedo prudenza.”
“Tranquillo, non farei mai nulla che possa danneggiarti direttamente.”
“Lo dico per la tua incolumità, non per la mia,” sottolineò Mycroft. “Per risponderti: no, la Regina Vittoria non è solo una faccia. Io sono un burattino incastrato tra diversi organi di potere e, al contempo, sono al di sopra di tutti loro, ma non della corona.”
“A meno che un sovrano non minacci l’intera nazione con la propria follia.”
“Non succede di rado come sembra. Basta aprire un libro di storia.”
“Lo so, ma ora spiegami perché anche tu vieni dell’East End, anche se in modo indiretto.”
“Mia madre,” disse Mycroft e gli sfuggì un sorriso più tenero degli altri, ma un poco triste. “Mia madre era una fanciulla dei bassifondi. Quando hai preso Irene Adler sotto la tua ala, hai avuto modo di parlare con mio fratello, no?”
Albert fece appello ai ricordi e annuì. “Ti riferisci al suo modo di parlare?” Se Mycroft era stato a Oxford, c’erano buone probabilità che Sherlock avesse seguito la stessa strada. Tuttavia, il dialetto del più giovane dei fratelli Holmes non lo sorprendeva più di tanto. “Ti è mai capitato d’intrattenere una conversazione con Colonnello Sebastian Moran?”
Mycroft scosse la testa. “So solo che è l’agente 006, che ha ottenuto la qualifica di agente con licenza di uccidere dopo quell’incidente in India e che, per il mondo, è ufficialmente morto. In fondo, questo lo rende perfetto per il suo lavoro.”
“Bene, lui è uscito da Oxford e ancora a casa mia non riusciamo a farcene una ragione,” raccontò Albert. “Se pensi che tuo fratello sia sgraziato, dovresti prendere un té con il Colonnello. Pochi minuti e Sherlock ti sembrerà un principe.”
“Oh, ma Sherlock è sempre stato un principe,” ribatté Mycroft. “Capriccioso come pochi e ribelle come anche meno.”
“Fammi indovinare… Tu sei di tuo padre e Sherlock è di tua madre.”
Mycroft ci pensò. “Sì, forse possiamo metterla sotto questa luce. Mi è parso di capire che anche tu eri di tuo padre?”
“Sì, come potrebbe esserlo un cane d’ammaestrare. Non ricordo che mi abbia mai picchiato o, almeno, non tanto violentemente da ricordarmelo. Mio padre è sempre stato un uomo distratto: un amante qui, una là. Potrei dire in giro che Louis è un suo figlio illegittimo e la sua somiglianza con Will acquisterebbe improvvisamente senso. Loro due li ho scelti, ma qualcosa mi dice che devo avere dei fratellastri da qualche parte.”
“È un pensiero che ti disturba?”
“No, è solo un pensiero,” rispose Albert. “Non è il sangue a fare una famiglia.”
Mycroft annuì. “Non sai quanto hai ragione.”
Il più giovane si pentì immediatamente di aver parlato. “Non intendevo far un riferimento al tuo rapporto con Sherlock.”
“Oh, Albert, Sherly è la mia famiglia,” disse Mycroft. “Forse io non sono la sua. Un tempo, so di esserlo stato ma la vita non procede in linea retta per nessuno.”
Il Conte si umettò le labbra. “Perché con tuo fratello sei tanto accondiscendente?”
“Se ne parlassi con Sherly, lui di certo non mi definirebbe così.”
“Parliamone tra fratelli maggiori, allora,” propose Albert. “Ti prende a scarpe in faccia e tu continui a tornare da lui. È amore familiare nella sua forma più pura e non posso credere che Sherlock non lo veda.”
Eccolo di nuovo, quel velo di malinconia sul viso di Mycroft. “Anche Sherlock ha un cuore ferito, come immagino lo abbia William. Sono accondiscente perché ho contribuito a provocare quella ferita,” raccontò. “E chiedere scusa non basta.”
Una parte di Albert gridava per sapere che cosa era successo all’interno della famiglia Holmes per crescere due fratelli tanto diversi. Sì, c’era la questione della maledizione di famiglia, ma il maggiore era l’unico a esserne a conoscenza. William per primo era rimasto colpito dal modo in cui Mycroft si era esposto per assicurarsi che Sherlock rimanesse all’oscuro di quel fardello.
Se William e Sherlock erano simili nell’avere un cuore ferito, lui e Mycroft lo erano in un altro modo.
“Le maledizioni si ereditano come i titoli nobiliari, vero?” Domandò Albert. “Vieni al mondo e solo perché sei vivo verrai investito di qualcosa per cui non hai né colpa né merito. È successo anche te, non è così? Non hai potuto scegliere chi essere. Sei venuto al mondo e loro lo hanno deciso per te.”
Mycroft non rispose immediatamente. Allungò la mano, cercando quella del Conte. Il più giovane lo accontentò. “Sotto certi aspetti, sì, anche noi abbiamo parecchio in comune, come i nostri fratelli. Ma sappi, Albert, che c’è un motivo personale che mi tiene saldo sulla mia posizione.”
Sherlock. Non c’era bisogno che il Direttore lo dicesse ad alta voce e Albert non aveva bisogno di chiedere.
“Vuoi sapere che cosa mi ha convinto a fidarmi di te, Mycroft?"
“Certo che lo voglio sapere.”
Alberti dischiuse le labbra, ma la carrozza si arrestò proprio in quel momento. “Siamo arrivati,” disse. “Te ne parlerò con calma quando saremo a casa, promesso,” aggiunse. “Se i miei agenti hanno fatto un buon lavoro, non dovremo metterci troppo.”
Mycroft aggrottò la fronte, rendendosi conto di essersi perso una parte degli eventi. “I tuoi agenti?”
Albert gli fece l’occhiolino. “Credevi davvero che saremmo andati a passeggio per l’East End vestiti da gentiluomini?”
Touchè.”
“Andiamo, avrò l’occasione di presentarti ufficialmente l’agente 006, il Colonnello Sebastian Moran.”



La locanda era deserta. Tavoli e sedie erano in ordine in modo innaturale e i pavimenti erano stati puliti da poco. A Mycroft bastò un’occhiata per capire che erano attesi. Albert lo precedeva.
“Avanti, Sebastian, dimmi dove sei stato in questi mesi. Mi sei mancato, sai?”
“Servimi da bere, moccioso, e non fare domande.”
Pochi passi e il bancone comparve nel campo visivo di entrambi.
La figura del Colonnello Sebastian Moran fu la prima ad attirare l’attenzione di Mycroft Holmes e solo in un secondo momento si accorse del ragazzo che gli stava versando del whisky nel bicchiere: aveva i capelli chiari e il viso stanco di chi avrebbe volentieri mollato tutto per farsi una bella dormita. Ma non da solo. Dal modo sfacciato in cui guardava il Colonnello, era evidente che i due si conoscevano e non solo di vista.
Anche Albert dovette notare che vi era dell’intimità fuori posto in quella scena. Quando parlò, la sua voce tradì una nota di fastidio. “Colonnello Moran,” salutò, formale.
L’agente 006 si voltò di scatto. Non si alzò in piedi, non mostrò alcun segnò di rispetto per i suoi superiori. Si limitò a sollevare il bicchiere e bere il suo whisky in un solo sorso. “Te la sei presa comoda,” commentò, annoiato. “Ti aspettavo almeno due ore fa.”
Mycroft inarcò le sopracciglia, disturbato da un simile atteggiamento nei confronti del giovane Conte. Tuttavia, Albert si dimostrò capace di gestire la situazione con facilità, come se quel genere di scene gli fossero familiari. “Vi siete messo comodo, non devono essere state due ore così massacranti.”
Moran fu a un passo da ignorare completamente la gerarchia e rispondere a tono, ma il suo sguardo incontrò quello di Mycroft Holmes e dovette trattenersi. Simulò un colpo di tosse e cercò di fingersi professionale. “Lui è Josh Finn,” disse, indicando il giovane dal lato opposto del bancone. “Questo posto è di proprietà dei suoi fratelli maggiori, lui è solo un dipendente. Avanti, Joshi, racconta ai signori quello che hai detto anche a me.”
Al soprannome, Albert lasciò andare un sospirò esasperato. “Buongiorno, signor Finn.”
Il ragazzo abbozzò un inchino maldestro. “My Lords.”
“Calmo, ragazzo,” intervenne Mycroft superando il Conte per sedersi al bancone a sua volta, a debita distanza dall’agente. “Non sei nei guai e qualunque cosa dirai non sarà usata contro di te.” Si tolse il cappello e lo appoggiò sulla superficie di legno.
Non si presentarono. Offrire un nome e un cognome in quell’ambiente non era sicuro.
Josh Finn era molto giovane, forse della stessa età di Sherlock, ma li guardava come un bambino beccato a commettere un misfatto.
“Joshi, avanti, hai già detto tutto a me,” lo spronò Moran. “Non deve essere così difficile ripeterti.”
Il Colonnello si guadagnò un’occhiataccia. “Un conto è parlare con un buzzurro come te, un altro è rivolgersi a dei gentlemen.”
Di fronte all’espressione indignata di Moran, Albert simulò un colpo di tosse per non scoppiare a ridere. “Comprendo l’imbarazzo, signor Finn,” disse, prendendo posto tra il Direttore e il Colonnello. “Tuttavia, vi esorto a essere sincero. Come vi abbiamo già detto, non siamo qui per voi. Se può servire a farvi sentire al sicuro, sappiate che qualunque informazione potrete darci sarà utile a salvare delle persone.”
Josh inspirò profondamente dal naso. “D’accordo,” disse, ancora reticente. “Posso offrirvi da bere?”
“Quello che avete dato al Colonnello va bene per tutti e due.” Albert guardò Mycroft per avere conferma e il Direttore annuì.
Un paio di bicchieri di whisky dopo, Josh cominciò a parlare. “Julian Evans veniva qui spesso,” raccontò. “Mi ha rivelato il suo nome solo molto tempo dopo il nostro primo incontro. Quando lo ha fatto, gli ho dato dell’idiota: anche se è un terzo figlio, non è sicuro andare in giro per queste strade sbandierando un titolo nobiliare.”
“Da quanto tempo non vedete Julian Evans?” Domandò Mycroft.
“Almeno sei mesi.”
“E dopo tutto questo tempo, lo ricordate così bene?” Indagò Albert. “Sono certo che non è l’unico giovane nobile che passa da queste parti credendo di passare inosservato.”
“No, non lo è.” Josh abbassò lo sguardo e arrossì. “Diciamo che Julian era un cliente abituale. Quando veniva qui, parlava un sacco. Credo che nel suo ambiente avesse dei problemi ad aprirsi davvero… Senza offesa, My Lords,” aggiunse in fretta.
Albert sorrise, comprensivo. “Nessuna offesa,” disse. “Sappiamo che si vedeva anche con altri giovani. Due in particolare.”
Josh scrollò le spalle. “Julian era convinto che facendosi vedere in luoghi differenti, avrebbe dato meno nell’occhio. Non so da dove gli sia venuta questa folle idea. Sì, ha fatto il giro del quartiere e, immagino, abbia avuto delle frequentazioni altrove… Ma, alla fine, tornava sempre qui.”
“Perché?” Domandò Mycroft.
Le labbra di Josh si piegarono in un sorriso troppo amaro per la sua età. “Perché qui si sentiva al sicuro e si fidava di me.”
“Prima di sparire, si è confidato, non è vero?” Intuì Albert.
Il giovane annuì ma i suoi occhi cercarono quelli di Moran.
Il Colonnello sbuffò. “Quante volte devo dirti che puoi stare tranquillo?” Si sporse oltre il bancone per prendere la bottiglia di whisky e servirsi da solo.
“E vi assicuro che il Colonnello Moran pagherà per il disturbo,” aggiunse Albert, serafico. “Ora, Josh, potete raccontarmi dell’ultima volta che avete visto Julian Evans?”
Josh storse la bocca in una smorfia. “Lo stupido si è innamorato.”
Preso contropiede, Albert smise di sorridere. “Innamorato?”
“Sì e di brutto!” Esclamò Josh. Era evidente che non gli faceva piacere parlarne. “Per un po’ di tempo mi ha parlato di un uomo del suo ambiente. So che era più grande e che il suo nome era George. All’inizio, non stetti molto ad ascoltare e anche Josh faceva il sostenuto: gli interessava ma non voleva darlo a vedere.”
George,” ripeté Mycroft. Lui e Albert si scambiarono un’occhiata veloce.
Il Conte riprese con la domande. “E, a un certo punto, qualcosa è cambiato…” Intuì.
Josh annuì. “L’ultima notte che ho visto Julian, era venuto qui solo per salutarmi. Mi disse che sarebbe fuggito con George, che avrebbero passato la vita insieme e altre stronzate!” Nel rendersi conto di aver usato un linguaggio scurrile, abbassò lo sguardo. “Scusatemi…”
Albert scosse la testa. “Non c’è bisogno di chiedere scusa,” disse, gentile. “Immagino che non deve essere stato facile dirgli addio.”
Josh scosse la testa. “Quando il figlio di una famiglia nobile viene da queste parti è solo per sfuggire all’inevitabile. Credo che Julian fosse convinto che il suo finale sarebbe stato diverso. Se siete qui, immagino che non sia andata bene come sperava.”
Né Mycroft né Albert potevano dargli alcuna spiegazione. Josh Finn lo comprese e non chiese altro. “Finite pure quella bottiglia di whiskey, offre la casa.”
“Temo che dobbiamo rifiutare,” disse Albert. “Il Colonnello sarà felice di offrire per tutti.”
Dopo essere stato in silenzio per tutto l’interrogatorio, Moran si animò di nuovo. “E chi ti dice che io possa pagare?”
“Me lo dice il vitto e alloggio di cui godete a mie spese.” Per Albert la questione era chiusa. “Fate quello che dovete, vi aspettiamo fuori.” Poi si rivolse al giovane dietro il bancone. “Le vostre informazioni ci torneranno molto utili, signor Josh Finn. Avete la nostra gratitudine.”
Il Conte si alzò per primo. Mycroft recuperò il cappello e lo seguì.
La loro uscita di scena fu accompagnata dall’incessante borbottare di Moran.




***



“Provo a indovinare.” Sherlock camminava a fianco di William, le mani nelle tasche dei pantaloni e quel sorriso da eterno ragazzino a illuminargli il volto. “Ciò che succede nell’East End rimane nell’East End. Qui possiamo essere compromettenti senza destare sospetti.”
“È una buona teoria.”
Era William a guidare.
Sherlock lo seguiva. “Mi vuoi rivelare il tuo segreto?”
“Ho molti segreti,” scherzò il giovane Moriarty. “E non voglio derubarti del divertimento di svelarli tutti da te.”
Così rendi tutto troppo eccitante, Liam. Il Detective si morse la lingua per non dirlo ad alta voce. Non lo faceva spesso e dubitava che William si sarebbe offeso per i suoi modi sfacciati - a tratti scandalosi - ma il momento era prezioso e voleva che durasse quanto più possibile.
“Ti sei anche travestito da ragazzo dei bassifondi per non attirare l’attenzione,” disse Sherlock. “Ho l’impressione che questa non sia la prima volta che lo fai. Inoltre, io qui mi perderei, tu passeggi come se fossi a Hyde Park o in qualche altro luogo simile.”
“Te l’ho appena detto: ho molti segreti.”
“Ah, sei furbo, Liam!” Esclamò Sherlock. “Un sacco di nobili passano da queste parti per soddisfare qualche vizietto poco apprezzato nei salotti dell’alta società. Se uno volesse, basterebbe fare un paio di domande nei posti giusti e si avrebbero le prigioni piene di nobili per i crimini più stupidi.”
Nessuno lo sapeva meglio di William, ma stette al gioco. “Interessante,” commentò. “Immagino che tu sappia esattamente quali sono i luoghi giusti.”
“Non uso sempre metodi corretti,” confessò Sherlock, con una smorfietta. “Quando ero alle prime armi, mi ritrovavo quasi sempre a sbattere contro il muro dei privilegi nobiliari.”
“E avere informazioni scomode su di loro era utile,” concluse William.
“Non mi piace il ricatto,” aggiunse immediatamente il Detective. “Lo usano i potenti per schiacciare i più deboli. Il mio scopo è creare un metodo d’indagine basato sulla ricerca di prove oggettive.”
“E trovo che il tuo scopo sia nobile, ma non ti giudicherò per aver fatto degli errori,” lo rassicurò William. “Ti sei accorto del mio bluff sul treno, no?”
Sherlock accennò il sorriso. “Sì, ma l’intuizione era giusta e hai salvato il mio socio, quindi…”
“Quindi il fine giustifica i mezzi?”
“Non lo so, Liam. Tu cosa ne pensi?”
Era un argomento spinoso, di quelli che toccavano da vicino la natura stessa del Signore del Crimine e delle sua azioni. Era evidente che nessuno dei due voleva dare voce a proprio punto di vista troppo facilmente.
Non ebbero il tempo di elaborare.
“Ma è lui?”
“Sì, è proprio lui!”
Riconoscendo le voci, Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Liam, scusa. Scusami davvero.”
Il nobile inarcò le sopracciglia. “Per cosa?” La risposta gli comparve sotto gli occhi: sei ragazzini li superarono correndo e si pararono di fronte a loro.
“Ah, sei proprio tu!” Esclamò quello alla testa del gruppo. “E lui chi è?” Chiese, indicando sfacciatamente il giovane Moriarty. “È il tuo fidanzato segreto o è solo un altro amico a cui stai estorcendo i soldi dell’affitto di questo mese?”
William, smarrito, guardò il Detective con la coda dell’occhio e si accorse il suo viso stava man mano divenendo sempre più rosso.
“E abbassa la voce, Wiggins!” Esclamò Sherlock, che attirò l’attenzione dei passanti più di quanto aveva fatto il gruppetto. “E non indicare!” Aggiunse, dando una manata sul braccio del ragazzino.
“Sherlock, mi vuoi spiegare?” Domandò William, educatamente.
“Sì, Sherlock, fai le presentazioni,” incalzò Wiggins, deridendolo apertamente e provocando un attacco d’ilarità nei propri compagni.
Il Detective dovette trattenersi dal prenderlo a schiaffi. “Parlando di errori nel mio lavoro, loro sono il più grande che ho commesso.”
“Non è vero,” ribatté Wiggins, guardando William. “Quando non sa dove sbattere la testa, viene sempre a chiedere aiuto a noi.”
“Sì e vi dico sempre cosa cercare, dove farlo e come!” S’intromise Sherlock. “Siete solo bravi a fare i compiti!”
Per nulla disturbato da tutta quella confusione, William si rispose da solo. “Sono i tuoi informatori?”
Sul viso del Detective comparve un’espressione sconfitta. “Liam, loro sono gli Irregolari di Baker Street. Mocciosi, lui è Liam, trattatelo con rispetto o ve la vedrete con me.”
“Piacere di conoscervi,” disse William con il solito, impeccabile sorriso cortese.
Wiggins lo guardò con gli occhi sgranati. “Che cosa ci fa un giovane signore così a modo con buzzurro come te?” Domandò, rivolgendosi al Detective.
Sherlock stirò le labbra in un sorriso inquietante. “Se vi pago la cena, ve ne andate senza farmi perdere altro tempo?” A mali estremi, estremi rimedi. Poteva tollerare John che lo rimproverava e gli dava dello spendaccione, ma non poteva permettere a nessuno di rovinare la sua giornata con William.
Wiggins si convinse in fretta. “Affare fatto,” rispose, compiaciuto, porgendo la mano destra.
“E tornate a Baker Street,” aggiunse Sherlock. “Queste strade non sono sicure nemmeno per voi.”
Per tutta risposta, Wiggins salutò solo il nobile travestito da ragazzo di strada. “Arrivederci, Liam. Se accetti un consiglio, trovati un fidanzato segreto migliore di questo.”
“Piccolo farabutto!” Sherlock si mosse per acciuffarlo ma il ragazzino fu più veloce e fuggì, seguito dai propri compagni.
“Non metterti nei guai, Sherlock.”
“Pensate per voi!” Tuonò il Detective, poi guardò l’uomo al suo fianco in visibile imbarazzo. “Liam-“
“Sembrano in gamba,” commentò William, che si era voltato per guardare il gruppetto scomparire in fondo alla strada.
“Lo sono,” ammise Sherlock a mezza bocca. “Sono più bravi degli agenti di Scotland Yard ed è tutto un dire.” Il suo sguardo cadde su un’insegna alla sua destra. “Vieni, ti offro da bere.”
William scosse la testa. “Non è necessario, poss-“
“Liam, per una volta, fammi fare il gentiluomo,” lo pregò Sherlock, passandogli un braccio dietro la schiena per spingerlo verso l’entrata del locale. “Così quando conoscerai John e mio fratello potrai dire loro che sono un vero signore e ne saranno contenti.”
Non c’erano molte persone nella saletta del pub. Sherlock decise che era abbastanza tranquillo e pulito per potervi portare il fratello di un Conte in incognito. Scelse un tavolino vicino alla finestra, il più lontano possibile dagli altri clienti: a quell’ora potevano essere lì solo gli ubriaconi di quartiere. Alzò una mano per richiamare l’attenzione della cameriera. “Tu che prendi, Liam?” Domandò, mentre la ragazza si avvicinava.
William scrollò le spalle. “Quello che prendi tu.”
Sherlock storse il naso, poco convinto. “Tu non sei un tipo da birra.”
“Bevo anche la birra, Sherlock.”
“Oh, allora vada per la birra.”
La cameriera, che non poteva avere più di vent’anni, segnò l’ordine su un foglio di carta. William non si perse il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulla figura di Sherlock. Il Detective, al contrario, non la vedeva neppure e nemmeno la ringraziò quando lei si allontanò da loro.
“Liam, perché stai ridendo?”
“Perché la tua idea di nasconderci qui dentro per allontanarci dagli sguardi indiscreti non ha funzionato molto bene,” rispose William.
Sherlock ci mise un po’ a capire a cosa si riferiva. Quando ci arrivò, cercò la cameriera con lo sguardo. Per sua fortuna, la trovò di spalle. “Ah, ho capito,” disse sbrigativamente. “Comunque, stavo dicendo-“
“Non ti lusinga neanche un po’?” Domandò William, curioso.
“Ma cosa?” Sherlock era irritato, come se stessero perdendo tempo su un’assurdità. “Non mi piacciono le donne.”
William non aveva mai sentito una confessione tanto pericolosa, buttata lì con tanta schiettezza. Appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo e si sporse verso il Detective. “Dovresti fare attenzione a chi riveli certi segreti,” disse, serio.
Sherlock gli sorrise. “Come se per te fosse un segreto.”
“Quando ti ho conosciuto, eri circondato da donne.”
“Sono state loro ad accerchiare me. Non ricordo neanche come è successo con precisione. Penso di averle udite parlare mentre fantasticavano sugli uomini presenti in sala.”
“E tu che hai fatto?”
“Ho distrutto tutte le loro illusioni con le mie intuizioni.”
“Ovviamente.”
“Poi hanno deciso di fare quello stupido gioco: indovinare il mestiere di dieci persone a caso. Tu sei stato la decima, il resto della storia lo sai.”
William abbassò lo sguardo per un istante. Seguì le venature della superficie di legno e si accorse che era consumata in più punti, come se qualcuno l’avesse sfregata con forza. “Da quanto tempo mi stavi guardando?” Domandò, riportando gli occhi sul viso del Detective.
Sherlock non giocò, fu onesto fin da subito. “Da un po’.”
Ora era William a sentirsi lusingato. Non lo nascose, voleva che si vedesse. “Ti ho guardato anche io.”
“Davvero?”
“Le tue donne facevano una gran confusione, era impossibile non dare un’occhiata a cosa le emozionasse tanto.”
“Non erano le mie donne, per carità,” disse Sherlock, facendo un gesto della mano, come se stesse scacciando una mosca invisibile.
“E perché mi guardavi?” William voleva i dettagli.
Sherlock si sporse verso la vetrata, guardando in alto.
Il Professore provò a fare lo stesso, ma non comprese cosa aveva attirato la sua attenzione. “Che stai facendo?”
“Controllo che il cielo sia ancora azzurro, così possiamo parlare di un’altra ovvietà.”
William scosse la testa, dandosi dello stupido per esserci cascato. Sorrideva. “Sherlock…”
“Facciamo una cosa, Liam,” disse il Detective, tornando seduto composto. “Al ballo di dopodomani, quando arriverai con i tuoi nobili, belli e scapoli fratelli, guardati intorno e accorgiti dell’effetto che hai sulla gente.”
“Lo hai detto tu: nobili e scapoli.”
“Ho detto anche belli e lo stai ignorando deliberatamente.”
“Scusate l’interruzione.” La cameriera comparve al fianco del loro tavolo. Appoggiò i due boccali di birra sul tavolo e tolse il disturbo. Questa volta, fu William a prendere la parola è ringraziarla. Lei gli rispose con un sorriso cortese che non raggiunse i suoi occhi e tornò al proprio lavoro.
“Visto?” Domandò il Professore, rivolgendosi al Detective.
Sherlock, che stava già bevendo, corrugò la fronte. “E allora?”
“Non mi ha nemmeno guardato in faccia.”
“Perché è stupida.”
“Sherlock, modera i termini. Ha un’evidente preferenza per te. Questo avvalora la mia teoria: la maggior parte degli sguardi che ricevo sono dovute al nome Moriarty. Questo mi porta a insistere: perché i guardavi?”
Sherlock sbuffò, annoiato come un bambino che è costretto a recitare una poesia il giorno di Natale. Non gliela diede vinta. “Secondo te?”
William appoggiò il mento al palmo della mano. “Non puoi avermi capito tanto solo guardandomi mentre osservavo una scala.”
“No, infatti. Te lo confesso: ero convinto che mi avresti risposto in modo snob e mi avresti annoiato subito. Mai avrei pensato che avresti usato la mia stessa carta contro di me.”
“Ciò spiega tutto quello che è successo dopo, ma perché guardarmi anche prima?”
Sherlock si sforzò di dargli la risposta più neutrale possibile. “So che non si direbbe, ma anche io ho senso estetico, sai?”
“Mi guardavi perché mi trovi bello?”
“Banale, vero? Ti ho deluso, ammettilo.”
Dubito che tu possa fare qualcosa in grado di deludermi, Sherlock. William decise di tacere e di dare una possibilità al suo boccale di birra: aveva la gola secca. “Se fossi stato solo bello, mi avresti cercato quando siamo attraccati?”
“No.” Sherlock spostò il calice da una parte e si sporse verso il giovane Moriarty. “È questa che ti ha fregato,” disse, appoggiando la punta dell’indice in mezzo alla sua fronte. “È questa che ha fregato anche me,” aggiunse, ritraendo la mano. “Quando una cosa ti entra in testa, è come averla sotto la pelle.”
William prese un altro sorso di birra. “Sotto la pelle arrivano solo due emozioni: l’odio e l’amore.”
“Oh, matematico e anche poeta. È chiaro che hai una predilezione per Shakespeare.”
“Non è poesia.” William era serio. “È quello che credo.”
Il sorriso da canaglia sparì dal viso di Sherlock, ma non ebbe il tempo di dire nulla.
“Hai mai odiato, Sherlock?” Domandò il giovane Moriarty. “Non parlo dell’indifferenza che provi per la maggior parte delle persone. Mi riferisco all’odio, quello che ti rende cieco, che mette a tacere tutto il resto e ti lascia solo con il desiderio di distruggere.” Era tanto da far intravvedere, forse troppo.
Non aveva importanza. William voleva conoscere i confini di Sherlock, sapere fin dove la vita prima di lui lo aveva spinto. Entrambi erano il prodotto di una storia ben più antica di quella del Detective Holmes e del Signore del Crimine. E William era solo un crudele egoista in questo: perché non poteva cedere la propria, ma aveva bisogno che Sherlock gli confessasse la sua.
“L’odio è il prezzo che bisogna essere disposti a pagare per vivere questa vita,” disse Sherlock, lo sguardo ancora basso. “Altrimenti, perché vivere?”
“Che cosa intendi?”
“Intendo dire che serve passione per odiare, ma è l’amore il vero maestro della passione. Mi capisci? Non si possono dividere le due cose. E quando parlo di passione, non intendo quella carnale… Riesci a seguirmi?”
William annuì. “La passione è l’intensità del sentimento. Non si può amare e odiare moderatamente.”
Sherlock annuì ma piuttosto che guardarlo in faccia, si voltò verso la vetrata. Per un po’ rimase in silenzio, osservando i passanti in strada. “Da come parli del legame con i tuoi fratelli, qualcuno ti ha insegnato l’amore, Liam.”
“E a te chi ha insegnato l’odio, Sherlock?”
Gli occhi blu tornarono su quelli scarlatti.
Sulla labbra del Detective comparve un sorriso malinconico. “Ricordi quando mi hai avuto quell’intuizione su mia madre?”
William non se lo era aspettato. “Ho parlato senza conoscerti, Sherlock.”
“L’ho fatto anche io,” ribatté Sherlock, rassicurante. “Stai tranquillo, non mi sono mica offeso. Volevo solo dirti che avevi ragione, su tutto. Mia madre è cresciuta da queste parti… Credo… Non so bene dove sia nata e vissuta, ma era una ragazza dell’East End.” Per la prima volta da quando si erano incontrati, in quella biblioteca abbandonata, infilò una mano nella tasca della giacca alla ricerca di sigarette e fiammiferi. “Ed ecco spiegato il mio modo di parlare.”
E William che cosa aveva da offrire di altrettanto intimo?
“Mio fratello, Louis, da bambino soffriva di una malattia cardiaca,” raccontò. Non era un segreto, chiunque avrebbe potuto verificarlo. Ancora qualcuno ne parlava anche nei salotti dell’alta società, sottolineando come la vita di Louis fosse un’evidente prova della nobiltà d’animo dei Moriarty, “Gli ultimi tempi, prima dell’operazione, m’infilavo nel suo letto e restavo tutta la notte a guardarlo dormire. Ascoltavo il suo respiro, mi assicuravo che fosse regolare. Mi terrorizzava la possibilità che potesse morire nel sonno.” William non lo aveva mai raccontato a nessuno. Solo Albert lo sapeva, perché era stato diretto testimone di tutti gli eventi.
Sherlock non prese neanche un tiro dalla sigaretta che si era acceso. Ammutolito dal racconto del Professore, rimase con la mano sospesa a mezz’aria fino a che non si scottò le dita. “Ahi!” Esclamò, lasciando cadere il mozzicone sul pavimento.
Fu un incidente fortunato, perché fu utile ad alleggerire l’atmosfera che si era creata.
“Ti sei fatto male?” Domandò William.
Sherlock simulò una risata. “Niente di grave. In realtà, mi capita spesso. Sono un tipo distratto.”
William lo ignorò e gli afferrò il polso per valutare il danno. “Devi averne cura,” disse, felice di scoprire che la sigaretta a stento aveva lasciato un segno. “Sono le mani di un violinista.”
Sherlock stirò le labbra in un sorriso nervoso. “Non mi hai mai sentito suonare,” gli ricordò. “Non puoi sapere se ne valga davvero la pena.”
“È la prima intuizione che ho avuto su di te, Sherlock. Se non fosse importante, non sarebbe stata la prima cosa a catturare la mia attenzione.”
“Ho così tanto la faccia da violinista?”
“Mi piacerebbe sentirti suonare,” disse William, lasciando andare la sua mano. “Solleva la mano e distendi le dita.”
Incuriosito, Sherlock fece come gli era stato detto. Quando il giovane Moriarty fece aderire il palmo al proprio, ingoiò a vuoto.
“Come sospettavo,” disse William, osservando le loro mani unite. “Hai la mano più grande della mia. Saresti un pianista più abile di me.”
“Me lo hanno già detto,” raccontò Sherlock. “Ci ho provato con il pianoforte ma non faceva per me.”
“Non dire niente,” lo zittì il Professore. “Fammi indovinare: ti da fastidio dover restare fermo su di uno sgabello mentre suoni.”
In un primo momento, Sherlock non disse nulla. Il sorriso sorpreso che sbocciò sulle sue labbra ebbe il potere d’illuminare la stanza. “Sì…” Confermò. “Sì, è così.”
“Non guardarmi in quel modo, Mr. Detective. È un’intuizione da poco, basta guardarti.”
“Non è vero. Nessuno ci è mai arrivato.” Era proprio questo che a Sherlock faceva piacere. “Quando parlo con te, mi sembra di conoscerti da sempre. È strano. C’è solo una persona al mondo che mi conosce da tutta la vita ed è Mycroft… E non mi sa prendere bene come te.”
“Ti hanno mai detto che è più facile parlare con un estraneo che con un fratello?” Domandò William, ignorando deliberatamente quanto le parole del Detective fossero state simile a una confessione. “Ci sono cose di me che non riesco a spiegare alla mia famiglia, così evito di dirle.”
“Naaah!” Rispose Sherlock. “Così ci stai male soltanto tu e non conviene mai. Fidati, ci sono passato.”
“Sei così libero dal giudizio della gente, Sherlock. T’invidio e stimo, a dire il vero, vorrei potermi permettere una simile libertà ma a rimetterci sarebbero i miei fratelli.”
Sherlock divenne serio di colpo. “Il bene di qualcun altro non vale quanto la propria libertà,” disse e ne era convinto. “Nemmeno se quel qualcun altro è un fratello.”
Ecco, erano arrivati a toccare il punto in cui William sapeva cose della famiglia Holmes che persino Sherlock ignorava. Pensò a Mycroft che diceva: vorrei anche almeno lui vivesse liberamente. William non aveva detto niente, si era limitato a sorridergli e si erano capiti così. Perché anche lui avrebbe fatto lo stesso per Louis, anche se tra loro correva poco più di un anno. L’errore stava proprio lì, nel troppo amore, perché suo fratello minore non gli avrebbe mai perdonato di portare sulle spalle i peccati del loro nome da solo.
Paragonare Louis a Sherlock lo fece sorridere.
“Che cosa c’è di divertente?” Domandò il Detective.
“Nulla, mi hai ricordato Louis?”
“Chi?!” Sherlock allungò la mano e allontanò il boccale di birra dalla portata del Professore. “Forse è meglio che non bevi più, Liam. Comincia a dare segni di vaneggiamento."
William rise. “Non sto vaneggiando. È che sono un fratello maggiore.”
“Ma se siete quasi gemelli! Sette anni di differenza non sono molti ma neanche pochi. Quando io ho cominciato la scuola, Mycroft era già un’adolescente. Eravamo e siamo due mondi a parte, nulla di paragonabili alla simbiosi tua e di Louis.”
“Diamo l’impressione di vivere in simbiosi?”
“Non fare il finto tonto, mio fratello non ha mai ucciso nessuno con lo sguardo solo perché mi rivolgeva la parola.”
Forse non lo ha fatto con lo sguardo ma in un modo più letterale. Pensò William. A dispetto di quello che raccontava il Detective, non aveva alcuna difficoltà a immaginare Sherlock cacciarsi in qualche guaio più grosso di lui e Mycroft correre, segretamente, ai ripari. “C’è una stagione della vita in cui anche pochi anni di differenza possono essere un abisso,” disse. “Mi è capitato di percepire una simile distanza tra me e Albert, ma è passata.”
Sherlock scosse la testa. “A me no. Mycroft era lontano allora ed è lontano anche adesso.”
“Forse si sente responsabile per te,” ipotizzò William.
“Albert lo fa?”
“Per me è diverso. A differenza di molti miei coetanei della classe nobiliare, io non dipendo dal patrimonio di famiglia. Ho un lavoro ordinario a Durham che mi permetterebbe di essere indipendente dal nome Moriarty, se lo volessi.”
Ordinario,” ripeté Sherlock. Gli veniva da ridere. “Non è affatto ordinario avere una cattedra universitaria appena maggiorenni, mio caro Liam.”
“Mettiamo a paragone i nostri lavori: il massimo che può succedere a me è che mi sporchi la giacca con il gesso, tu hai a che fare con criminali ogni giorno.”
Sherlock assottigliò gli occhi. “Perché ci tieni tanto a prendere le parti di mio fratello?”
“Perché faccio parte della stessa categoria di fratelli maggiori ansiosi. Se riesci a capire me, magari puoi fare lo stesso con Mycroft,” rispose William. “Non molto tempo fa, Louis è venuto da me a farmi notare che lo proteggo troppo. È vero, lo faccio. Se non me lo avesse detto, non avrei mai corretto il mio comportamento.”
Sherlock scosse la testa, rassegnato. “Con Mycroft non si può parlare. È bravo solo a fare i dispetti.”
“Se non lo fosse, non sarebbe tuo fratello.”
“Ma Liam! Ma da che parte stai?”
William rifletté su quel fidati, ci sono passato. “C’è stato un periodo in cui volevi l’approvazione di Mycroft a qualsiasi costo?”
Per la prima volta dall’inizio della loro conversazione, Sherlock evitò completamente la domanda e il giovane Moriarty seppe di aver toccato un nervo scoperto. “C’è stato un periodo in cui volevo tante cose, poi ho capito che l’unico modo per essere me era accettare la solitudine,” ammise il Detective, non nascose l’amarezza ma fu svelto a cercare una via di fuga. “Ma cambiamo discorso! Finiamo queste birre e torniamo in strada. Ho deciso che le occhiate della gente sono meno stressanti di quelle della cameriera laggiù!”
E William lasciò che gli sfuggisse.




***



“Riesco a sentire il rumore dei tuoi pensieri fino a qui, Albert.” Fu la prima cosa che disse Mycroft, una volta che furono fuori dalla locanda.
Albert arrivò di fronte alla carrozza e si voltò a guardarlo. “Tu lo avevi intuito, non è vero?”
“Che Julian Evans fosse andato con George Patel di sua iniziativa? Era un sospetto, ma non avevo prove,” ammise il Direttore. “Quello che ci ha raccontato Josh Finn mette in discussione il ruolo del giovane Evans all’interno della storia. È una vittima e un complice?”
“Si può essere sedotti e ingannati,” propose Albert. “Forse quando ha derubato la sua famiglia, Julian Evans era convinto che lui e George Patel sarebbero fuggiti insieme.”
Mycroft guardò la porta della locanda. “Questo Josh Finn non sembrava molto sicuro della buona fede del George di cui Evans gli ha parlato.”
Albert sospirò. “È disincantato. Al posto suo, chi non lo sarebbe?” Non aspettò una risposta. “So solo che George Patel è abbastanza furbo da non farsi vedere in giro con le sue vittime. Quanti George possono esserci soltanto a Londra? Sa giocare e lo fa senza correre rischi.”
Mycroft annuì. “Se non fosse così, non sarebbe arrivato a nove vittime senza far parlare di sé.” Si portò una mano sotto il mento, pensandoci. “Oppure…”
Albert lo guardò, curioso. “A che cosa stai pensando?”
“Al fatto che se George Patel avesse continuato a cercare le sue vittime lontano dalla nobiltà, a quest’ora non staremmo parlando di lui.”
“Julian Evans era il suo pesce grosso, lo hai detto tu,” gli ricordò Albert. “Un giovane nobile della famiglia giusta gli ha fruttato più degli otto borghesi che lo hanno preceduto.”
“Sì, è vero.” Mycroft non sembrava convinto. “Forse Patel si è solo fatto prendere dalla fretta. Suo padre è anziano e, senza il vecchio Marchese, l'elite di Londra non gli avrebbe concesso una seconda possibilità. Il suo nome è già stato macchiato dal pettegolezzo anni fa.”
“Questo l’ho detto io ma non ho prove.”
“Il modo in cui tuo padre ha reagito prontamente alla tua storia, senza aver paura di offendere un Marchese è una prova più che sufficiente.” Ribatté Mycroft. “È il Marchese Robert Patel che si sta reintegrando nella società nobiliare, non suo figlio. Se George avrà un futuro, potrà cominciare a costruirlo dal ballo di dopodomani in avanti.”
Albert sorrise. “C’è qualcosa che non ti torna. Te lo leggo in faccia.”
Mycroft ricambiò il sorriso. “Dovrei parlare con George Patel per farmi un’idea,” disse. “Temo accadrà la notte stessa dell’operazione dell’MI6. A quel punto, sarà tardi avere delle intuizioni utili.”
Albert si avvicinò di un paio di passi. “Condividi i tuoi pensieri con me.”
Mycroft rivolse un’occhiata veloce alla porta della locanda. “Josh Finn ha parlato di amore,” disse, pronunciando l’ultima parola più lentamente delle altre. “Non voglio riconoscere in George Patel virtù che non possiede, ma se il nostro errore fosse alla base? Scegliere un nobile è stato il suo unico inciampo, ma se fosse calcolato anche questo?”
Albert aggrottò la fronte. “Spiegati meglio.”
“Accantona la questione economica della famiglia Patel, per un momento,” gli suggerì Mycroft. “A George Patel piacciono i ragazzi con un buon odore, lo hai detto tu. E se Julian Evans non fosse né un complice né una vittima?”
“Allora che qual è il suo ruolo?”
“Quello che Josh Finn ci ha detto e nulla di più: l’innamorato.”
Il Conte Moriarty impiegò qualche minuto a mettere insieme i pezzi. “Mi stai dicendo che credi che Patel ricambi il sentimento di Julian Evans?”
Mycroft scrollò le spalle. “Può darsi. Forse vuole riscattare il nome della propria famiglia per scappare all’estero col suo amante, senza perdere i privilegi di un nobile.”
Albert provò a figurarsi la cosa, ma non ci riusciva. “Temo che quell’episodio della mia infanzia m’influenzi troppo per riconoscere in George Patel un innamorato,” ammise. “Ma anche se fosse, lui è ancora qui e Julian Evans è scomparso. Non sono certo scappati insieme come quest’ultimo credeva.”
“Non è da escludere che Patel stia nascondendo l’amante per tenerlo al sicuro,” buttò lì Mycroft.
Il Conte lo osservò per un lungo minuto. “Mi sorprende…”
“Che cosa, Albert?”
“La tenacia con cui mandi avanti questa tua teoria che vede la vittima e il carnefice come innamorati.”
Mycroft sorrise, paziente. “Julian Evans non vede un carnefice in George Patel. È su questo che hai difficoltà ed è comprensibile.”
Il Colonnello Sebastian Moran uscì dalla locanda in quel preciso momento, irritato come non mai. Fossero stati da soli, Albert era certo che lo avrebbe apostrofato nel peggiore dei modi. Era divertente restarlo a guardare mentre cuoceva nel suo stesso brodo, con lo sguardo truce e le labbra ridotte a una linea sottile.
“Ottimo lavoro d’indagine, Colonnello,” disse Mycroft con tono formale.
Moran si mise subito sull’attenti, come un riflesso incondizionato. “Dovere, Sir.”
Albert inarcò le sopracciglia. “E tu chi saresti?” Domandò, sarcastico. “Che fine ha fatto il Colonnello Sebastian Moran?”
Spingere l’uomo sulla soglia di una crisi di nervi era uno dei passatempi preferiti del Conte Moriarty. La presenza del Direttore Holmes non faceva che rendere la scena più esilarante.
“Io con te non ci parlo!” Bofonchiò Moran, permettendosi di avvicinarsi alla carrozza per aprire la porta ai due gentiluomini. “Andate, questo non è luogo per signori ben vestiti.”
Mycroft ringraziò per la cordialità, poi invitò Albert a salire per primo. Tanta cavalleria tutta insieme strappò un sorriso al Conte, che scosse la testa. “Vai pure. Permettimi due parole con il mio agente.”
Il Direttore non fece obiezioni, sparendo all’interno della carrozza.
“Quando fai così mi convinco che nell’esercito ci hai combattuto davvero,” disse Albert, le mani incrociate dietro la schiena. “Hai avuto i complimenti del Direttore, congratulazioni.”
“Smettila di adularmi,” ribatté Moran. “È stato Fred a passare le ultime notti fuori per recuperare qualche informazione. L’unico motivo per cui sono qui è perché conosco Josh Finn.”
“Sei un suo cliente?” Albert sottolineò l’ultima parola.
Sebastian alzò gli occhi al cielo. “Non sono un santo, lo sai.”
“Se è utile all’indagine, chiamiamola coincidenza fortunata. Dubito che Josh Finn avrebbe parlato con noi se non avessi fatto da mediatore, più o meno.”
“Mi togli una curiosità.” Moran cercò il pacchetto di sigarette nella tasca della giacca. “Questo George Patel è lo stesso di quella tua storia della Scozia?”
Albert restò ammutolito per una manciata di secondi. “Te la ricordi?”
Il Colonnello scrollò le spalle. “Ricordo di aver pensato tanti insulti per lui quanto per tuo padre. Duro com’è, il mio avrebbe tirato su un colpo di stato.”
“E sarebbe stato un genitore migliore del mio,” concluse Albert. “Se siamo qui, è perché lui è altri sono rimasti in silenzio. È una storia che già conosciamo. Il male è banale.”
“Noi siamo banali?”
“No, siamo necessari.”
Per salire sulla carrozza, Albert si fece leva sulla spalla del Colonnello.
Moran non ebbe il tempo di lamentarsene: vide qualcosa - no, qualcuno - in strada lo ammutolì. “Che ci fa William qui?”
Albert, che non si era ancora seduto, gli lanciò uno sguardo perplesso. “William non è qui.”
Moran alzò il braccio, come per indicare qualcosa, ma perse le staffe prima di offrire al giovane Conte una direzione in cui guardare. “E che cazzo ci fa appiccicato a quello stronzo di Holmes?” Sbraitò, dimenticando completamente che l’altro Holmes, il fratello maggiore, era a poco più di un metro da lui.
Per sua fortuna, Mycroft ignorò i toni per concentrarsi sui fatti. “Scendi, Albert.”
Ma il Conte era già tornato sul marciapiede.




“Non mi sono ancora ripreso dall’averti visto bere un boccale di birra,” disse Sherlock, divertito. “Uno come te non vive di Earl Grey?”
“Vivi con un medico, dovresti sapere che è consigliato vivere di acqua,” ribatté William.
Entrambi si stavano impegnando a mantenere una certa leggerezza. Il momento di confidenza che avevano condiviso nel pub era più che sufficiente per una sola giornata. Camminavano l’uno al fianco dell’altro, senza una meta. A loro bastava parlare e stare insieme. Per quanto suonasse come una contraddizione, l’East End era il posto più sicuro per farlo alla luce del sole. In un salotto dell’alta società, non sarebbero mai potuti essere così liberi nelle parole, nei gesti e nelle reazioni.
Forse a Sherlock non sarebbe importato, ma William non poteva permettersi troppi rischi e, a lungo andare, anche lui si stancava di recitare.
“Te lo hanno mai detto che sei un comico insospettabile, Liam?”
“Si chiama English Humor, è famoso in tutto il mondo.”
“Già… Immagino che sotto la definizione di English Humor ci sia proprio quel tuo imperturbabile sorriso cortese.”
“Quando sto con te, pensi che sorrida per cortesia?” Domandò William.
Sherlock gli lanciò un’occhiata veloce. “È una domanda trabocchetto?”
“Tu rispondi.”
“Sì, è una domanda trabocchetto.” Il Detective prese un respiro profondo, grattandosi la nuca. “Come faccio a dirlo senza suonare irrispettoso?”
William rise. “Da quando ti preoccupi di suonare irrispettoso?”
“Ecco!” Esclamò Sherlock. “Questa è una reazione spontanea.”
William si fermò. “Mi trovi poco spontaneo, Sherlock?”
Il Detective si mise di fronte a lui, le mani nelle tasche dei pantaloni e quel sorrisetto da eterno ragazzino so-tutto-io. Lo guardò da capo a piedi, senza preoccuparsi di sembrare sfacciato. Veniva voglia di prenderlo a schiaffi, William doveva riconoscerlo, ma non riusciva a togliergli gli occhi di dosso proprio per questo. “Allora?” Incalzò.
“Se ti offendi, è colpa tua,” lo avvertì Sherlock. “Lo hai voluto tu.”
“Mi prendo le responsabilità delle mie decisioni.”
“Non credo che qualcuno ti abbia educato a essere come sei. Crescendo, hai studiato il mondo intorno a te e hai capito quale maschera era la migliore da indossare,” disse Sherlock. “Educato, cortese, sempre sorridente… Perché hai un sorriso in grado di destabilizzare anche la più ferma delle volontà.”
William reclinò la testa da un lato. “Mi state dando del Diavolo, Mr. Holmes?”
“Oh, se lo sei…” Sherlock si fece più vicino. Troppo. “Lo siamo entrambi, in modi diversi ma complementari. Io ho deciso di mostrarlo liberamente e di bruciare nell’inferno dell’ignominia, tu hai scelto di proteggere il nome dei Moriarty… Non per te, ben inteso, ma perché non sei l’unico a portarlo. Ma Dio solo sa quanto vorresti gettare la maschera e dare fuoco a ogni cosa perché, mio caro Liam, ti sei adattato a un mondo che odi. Sei stato al gioco, lo fai ogni giorno ma è stancante, vero? Logorante. Per questo sei qui con me. Perché io sono il cattivo ragazzo, quello ribelle, quello sempre fedele a se stesso, suo malgrado. Io sono quella libertà che non hai mai concesso a te stesso in ventiquattro anni di vita.”
Da parte di William, seguì il silenzio. Cercò alla svelta qualcosa da dire che potesse fargli recuperare un vantaggio, ma Sherlock lo zittì sollevando la mano per toccargli il viso. Gli accarezzò l’angolo destro della bocca con il polpastrello del pollice. Tornò a debita distanza prima di attirare gli sguardi dei curiosi.
“Ho indovinato,” non era una domanda. “Ma ho la netta sensazione che sia solo parte della verità. Sei un enigma, Liam. Uno di quelli che è difficile risolvere, per questo mi piaci tanto.”
Un enigma. William avvertì un tuffo al cuore, ma la voce della ragione non ebbe alcuna pietà di lui: che cosa ti eri aspettato? Lo hai scelto proprio per questo. Non può deluderti perché si è rivelato esattamente quello che volevi che fosse.
“E che cosa ti fa essere tanto sicuro di te?” Domandò il giovane Moriarty, forse con più freddezza del dovuto.
“Il fatto che non stai sorridendo più.” Sherlock lo disse con amarezza, come se gli fosse dispiaciuto aver avuto ragione. “Alle volte ci riesco a farti togliere la maschera, ma solo per pochi istanti. Sul treno ci sono riuscito un po’ di più, ma era il nostro secondo incontro e non eri preparato.”
“Non sono mai preparato a incontrarti, Sherlock.” William lo superò e riprese a camminare.
Alle sue spalle, Sherlock sospirò. Se l’era aspettato. “Lo sapevo che ti saresti offeso,” disse, seguendolo. “Come lo sapevi tu ma non mi hai fermato.”
Aveva ragione. Era facile ascoltare Sherlock quando gli diceva proprio quello che voleva sentirsi dire. Quando parlava della verità era una cosa diversa. Quello che il Detective non aveva capito - e che William non gli avrebbe mai potuto spiegare - era che il giovane Moriarty non era stato ferito dell’essere apostrofato come Diavolo, ma come enigma.
Era risaputo che gli enigmi avevano vita breve nelle mani di Sherlock Holmes e quello del Signore del Crimine - di William - non era stato creato per durare per sempre. Definendolo come aveva fatto, il Detective gli aveva rivelato la profondità del suo interesse per lui: dopo la soluzione del caso, non sarebbe rimasto più niente.
Tutto secondo i piani, sibilò la voce nella testa di William, eppure sentiva in bocca il sapore amaro della delusione. Non ne aveva alcun diritto.
“Liam?” Sherlock gli arrivò accanto, improvvisamente timido. “Ti ho detto che mi piaci tanto,” gli sussurrò, abbozzando un sorriso. “Sono stato un disastro su tutto il resto, ma possiamo concentrarci su quello?”
“Non sei tu, Sherlock,” lo rassicurò William
“Tu non mi credi,” concluse il Detective.
“Credo quello che ho detto a Durham,” disse William. “Credo che catturerai il Signore del Crimine e tornerai a essere padrone della tua vita. Il motivo per cui ti affascino è perché, nella tua testa, continui ad associare la figura della tua nemesi a me. Una volta arrivato alla verità, finirà anche questa illusione.”
“Adesso sei tu che offendi me,” ribatté Sherlock, per nulla divertito.
“Tu mi hai detto la tua verità e io ti ho detto la mia.” William sorrideva, ma nessuna luce raggiunse i suoi occhi scarlatti. “Siamo adulti, siamo in grado di accettarla, no?”
Ma Sherlock non si era guadagnato il posto da protagonista in quella storia stando zitto e dandogli ragione.
William dovette fermarsi di nuovo perché il Detective lo superò con due ampi passi e gli si piazzò davanti, bloccandogli la strada.
“Che cosa stai facendo, Sherlock?”
“Di che colore sono i miei occhi?”
“Prego?”
“Devo provare qualcosa a me stesso e, se vorrai ascoltarmi, anche a te. Dimmi di che colore sono i miei occhi.”
William non poté evitare di alzare gli occhi al cielo. “A un primo sguardo, i tuoi occhi sembrano scuri,” disse. Non poteva mentire, non su quello. “Ma quando rispondi agli sguardi, è impossibile non notare che sono blu.”
Sherlock sorrise, soddisfatto. Non gli serviva altro.
William non gli diede il tempo di voltarsi. “Colpiti dal sole, però, il colore cambia, si fa più caldo, simile al viola.”
Sherlock si voltò lentamente.
Sul viso di William era comparso lo stesso sorriso criminale che gli aveva rivolto sul treno. “Ho superato il tuo test, Detective?” Gli fece il verso della domanda che gli aveva rivolto a Durham.
“Mi accontetavo di blu,” ammise Sherlock. “Ma mi hai dato meravigliosamente ragione.”
“In che modo?”
“Dimostrandomi che mi guardi da vicino, esattamente come io faccio con te.”
William tornò serio di colpo. Sherlock lo aveva fregato e non ci aveva nemmeno provato. Aprì la bocca, pronto a sfuggire a quella situazione con eleganza. Quando si accorse di non saper ribattere in modo efficace, si mise a ridere.
Sherlock fece lo stesso. “Hai perso, Liam.”
Il giovane Moriarty provò a riscattare il proprio orgoglio distrutto, ma qualcosa a lato della strada attirò la sua attenzione, pietrificandolo. Sherlock si voltò per capire di che cosa si trattasse: la carrozza del governo fu la prima cosa che vide. Gli bastò.
Afferrò il polso di William.
“Corri, Liam!”




“Albert, è tutta colpa tua, come sempre!”
Il potere inibitore della presenza di Mycroft Holmes era svanito nel momento in cui il Colonnello aveva visto William passeggiare per le strade dell’East End Al fianco del Detective Sherlock Holmes. Ora Moran andava a briglia sciolta, come se il Direttore non fosse nemmeno lì.
Albert apriva la fila di quell’insolito trio e l’agente 006 era appena un passo dietro di lui. Mycroft si era completamente estraniato dalla discussione. Il Conte non lo biasimava ma il modo discreto in cui li accompagnava in quella ricerca tra i vicoli aveva un qualcosa di strano. Sarebbe bastata una sua parola per mettere a tacere il Colonnello, ma Mycroft li osservava senza nessuna particolare espressione.
Li stava studiando e Albert ne era infastidito. “Sapevo che si sarebbero rivisti ma non credevo che William lo avrebbe portato qui.”
“William?” Domandò Moran. “Come siamo arrivati a incolpare William?”
Fu allora che Mycroft intervenne per la prima volta nella conversazione. “Mio fratello non ha molta familiarità con l’East End, Colonnello. La sua condotta è opinabile ma non porterebbe mai il secondogenito di una famiglia nobile in questi quartieri.”
Incapace di prendersela con lui, Moran continuò a sfogarsi sul leader dell’MI6. “Albert, vuoi un bastone da passeggio? Stavano correndo, così non li raggiungeremo mai!”
Albert sbuffò apertamente. “Raggiungerli dove?” Usciti dal vicolo, si ritrovarono in un’altra strada affollata come quella in cui avevano lasciato la carrozza. Si fermarono sul bordo del marciapiede, il Conte in mezzo agli altri due uomini. Era uno schema che si ripeteva, come era accaduto all’interno del pub. Albert decise di non pensarci troppo. Sospirò, sconfitto. “Bene, Colonnello, dove si va?”
Quando Moran gli prese il polso tirandolo verso destra con determinazione, il Conte se ne sorprese.
“Per di qua,” disse il Colonnello, lasciando andare il più giovane dopo una decina di passi. “Dall’altra parte si va per una zona molto brutta anche di giorno, dubito che William ci porterebbe il Detective.”
Con Moran alla guida, Mycroft tornò a fianco del Conte.
“Mi dispiace,” disse quest’ultimo.
Il Direttore accennò un sorriso. “Sherlock è un adulto e l’ho visto chiaramente: è stato il primo a mettersi in fuga. Non c’è alcuna ragione di dispiacersi.”
“Mi dispiace per tutto,” sottolineò Albert.
Capendo che non si riferiva solo ai loro fratelli, Mycroft sollevò lo sguardo sull’uomo di quasi due metri che camminava di fronte a loro. “Avete studiato a Oxford, Colonnello?”
A quella domanda, Albert inarcò le sopracciglia ma rimase in silenzio.
Moran si voltò per una frazione di secondo e rispose: “sì, Direttore, ma non ho finito gli studi. Me ne sono andato e mi sono arruolato. Immagino che quella parte della storia la conosciate già.”
“Anche io e mio fratello siamo andati a Oxford, ma non mi ricordo di voi.”
“Siete più giovane di me, Direttore.”
Suonava come una normale conversazione ma non lo era. Albert si rifiutava di credere che Mycroft Holmes stesse facendo due parole con Sebastian Moran per il semplice gusto di farlo.
Di fatto, il Direttore impiegò davvero poche battute ad affondare la propria stoccata. “Ho conosciuto vostro padre.”
Albert trattenne il fiato e non poté evitare di guardare l’amante come se fosse un pazzo. Mycroft non lo sapeva, aveva conosciuto Sebastian Moran solo attraverso un fascicolo redatto dal leader dell’MI6 e dai documenti ufficiali presenti nell’archivio dell’esercito, ma il Colonnello tollerava ben poco ogni riferimento alla famiglia che si era lasciato alle spalle. In particolare, a quel padre troppo ligio per un figlio dalla natura ribelle.
Moran si fermò e lanciò un’occhiata al Direttore da sopra la spalla.
Ignaro - o forse sprezzante - del pericolo, Mycroft rincarò la dose. “Gli somigliate.”
Albert serrò i denti sul labbro inferiore, lanciando uno sguardo al Colonnello che sottintendeva tutte le parole che non poteva pronunciare ad alta voce: sì, ti sta provocando ma non abboccare.
Moran rispose al suo sguardo e inspirò profondamente dal naso, prima di rispondere: “quando ero vivo, me lo dicevano in molti.” Riprese a camminare.
E Albert a respirare.




***



“Corri, Liam!”
Al comando del Detective, William si era mosso senza pensarci due volte. Solo in un secondo momento si era accorto che Sherlock lo stava tenendo per mano. S’infilarono nel vicolo più vicino e sbucarono in un’altra delle strade principali.
Sherlock lo tirò verso sinistra.
William puntò saldamente i piedi a terra e lo trattenne. “Non da quella parte!” Esclamò. “Non è una bella zona. Per di qua.”
Il Detective non si fece pregare e lasciò che il nobile lo guidasse lungo il marciapiede affollato. Evitare di scontrarsi con la gente fu difficile ma William, notò Sherlock compiaciuto, aveva davvero degli ottimi riflessi.
“Se non sapessi che sei nato in una delle famiglie più illustri di Londra, direi che sei un gatto randagio!” Rise.
“Risparmia il fiato per correre, Sherlock!”
“Agli ordini!”
William lo guidò per una serie di strade secondarie e vicoli. Si erano addentrati in una zona residenziale, decisamente più tranquilla di quella da cui venivano. Sherlock non poté fare a meno di pensare che anche l’aria era più respirabile.
“Qui dovremmo essere al sicuro,” disse William, rallentando il passo. Lasciò andare la mano del Detective e s’infilò in una via senza sbocco. “Vieni.” Aveva le guance rosse, il fiato corto e i capelli in disordine. Era bellissimo.
Sherlock era curvo su se stesso. A stento riusciva respirare ma non poteva smettere di ridere.
“Ti senti bene?” Domandò il nobile.
Sherlock appoggiò la schiena al muro sporco, obbligando se stesso a darsi una calmata. “Mio caro Liam, questo tuo lato ribelle mi ucciderà per eccesso di emozioni.”
William sorrise, portandosi di fronte a lui. “Sei tu che hai cominciato a correre.”
“Non mi sembra di aver percepito esitazioni da parte tua.”
“Diciamo che non sei l’unico a essere uscito di casa senza dire dove andava.”
“Avevi paura fosse tuo fratello?”
“Non avevo paura. Era sul marciapiede, ci siamo visti a vicenda. Non lo hai notato?”
Sherlock divenne serio di colpo. “Oh, cazzo…” Si passò una mano tra i capelli. “No, ho visto la carrozza del Governo e ho agito d’istinto. Quella carrozza è sempre un segnale d’allarme per me. Ma se hai visto Albert ci sono buone probabilità che Mycroft sia qui.”
Anche William smise di sorridere. “Pensi ci siano venuti a prendere?”
“Non lo so. Quanto è ansioso tuo fratello?” Domandò Sherlock. “Quanto sono in confidenza lui e Mycroft?”
William aveva una risposta precisa e articolata a quell’ultima domanda ma se il Detective gliela poneva, era ovvio che non sapeva nulla del legame tra il proprio fratello e il suo. “Abbastanza per chiamarsi per nome,” rispose, vago.
“Oh…”
“Perché sei sorpreso?”
“Mycroft sarebbe capace di essere formale anche con un cane per strada. Io sono la sua unica eccezione, mi chiama ancora col diminutivo di quando ero bambino.”
William si sporse oltre il muro ma non vide nessuno.
“Avanti, Liam, abbiamo fatto un percorso tanto arzigogolato che mi sorprenderei di sapere che non ti sei perso anche tu,” disse Sherlock.
“Purtroppo, mio fratello era in compagnia di uno di quei nostri servitori che non sono davvero servitori e lui sa muoversi abbastanza bene in questi quartieri.”
Il Detective lo squadrò da capo a piedi, come se non lo avesse già fatto decine di volte. “Mi sorprende il modo in cui ti ci muovi tu.”
William piegò le labbra in un sorriso criptico. “Sono un enigma, lo hai detto tu.”
Sherlock rise. “E ancora non ammetti di essere il Signore del Crimine.”
“Se lo fossi e te lo dicessi, non me lo perdoneresti mai.”
“Già…” Il Detective si arrese. “È vero.”
Restarono in silenzio per un po’, permettendo a loro stessi di riprendere fiato e calmare il battito frenetico del loro cuore. Sherlock fu il secondo a sporgersi per controllare la situazione e, istintivamente, William cercò di fare lo stesso.
“No, no, Liam, fermo!” Il Detective lo prese per le spalle e lo spinse contro la parete, senza farsi male. “Ho visto un uomo sospetto in fondo alla via,” aggiunse in un sussurro. “Non fare rumore.”
William ubbidì ma tenne lo sguardo rivolto verso la strada, pronto a scattare nel caso qualcuno fosse comparso nel proprio campo visivo. Sherlock, al contrario, era molto distratto: i suoi occhi blu tracciarono la linea del profilo del nobile, memorizzando ogni dettaglio di quel giovane viso. Lo aveva guardato tante volte, ma mai così da vicino. Senza chiedersi se fosse una buona idea o meno, Sherlock chinò la testa tra il collo e la spalla della Professore.
Nel sentire il suo respiro caldo sul collo, William trattenne il proprio. “Che cosa stai facendo?” Domandò a voce bassissima.
“Ti annuso,” rispose Sherlock. “Tu sei stato tanto sfacciato da farlo con me al nostro primo incontro e non ho mai ricambiato.”
Certo che l’altro non lo potesse vedere, William si morse il labbro inferiore per obbligare la sua mente a rimanere lucida. Pochi centimetri e la fantasia dove il Detective gli baciava il collo si sarebbe concretizzata. Peccato che fossero in un vicolo lurido e non di fronte a un pianoforte a coda.
il Signore del Crimine rimase immobile, mentre il Detective Sherlock Holmes lo corteggiava senza aver paura delle conseguenze.
Sei un enigma, non dimenticarlo. William chiuse gli occhi, mentre il respiro di Sherlock sulla sua pelle metteva a tacere quella voce molesta.
“Chissà se Conan Doyle scriverà mai di noi nei suoi libri?” Domandò Sherlock, un sussurrò che scivolo in modo sensuale nell’orecchio del giovane Professore.
William dischiuse le labbra e ingoiò a aria. “Conan Doyle scrive di te. Immagino che tutto dipende da come desideri che la tua storia venga raccontata.”
Sherlock rise. Erano tanto vicini che William sentì il suo petto vibrare contro il proprio. Non riusciva a respirare, ma non possedeva la volontà di spingere il Detective lontano da sé.
Conan Doyle ha messo su bianco una storia con un protagonista eccentrico,” disse Sherlock. “Ma è il Signore del Crimine ad aver creato entrambi.”
William credeva che fosse vero solo in parte. “Penso che il Dottor Watson avrebbe scritto di te anche senza l’aiuto di un fantomatico Signore del Crimine.”
Il Detective sollevò la testa ma non troppo da impedire all’altro di percepire il suo calore. “Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente.” Shakespeare recitato con la voce di Sherlock era un incantesimo da cui William non sapeva come proteggersi.
Si guardarono, il rosso nel blu.
“Perché hai citato proprio quella parte?” Domandò il giovane Moriarty.
“Perché se questo mondo non vedesse un crimine dove non ve n'è ombra, io e te potremmo essere immortali tra le pagine di un libro. Proprio come Romeo e Giulietta.”
“Ma tu sarai immortale, Sherlock” disse William, sicuro. “Lo sei già. Tra un secolo leggeranno ancora le storie di Conan Doyle. Qualcuno le amerà, qualcun altro meno, ma nessuno potrà ignorare l’esistenza del Detective Sherlock Holmes di Baker Street.” Una pausa. “E non paragonarci più a Romeo e Giulietta, per favore.”
Sherlock s’imbronciò. “Perché no?”
“Perché è una tragedia,” rispose William. “E la tua storia non lo sarà.”
Il Detective fece per ribattere ma la voce del Colonnello Sebastian Moran interruppe il momento: “Albert, giuro su di Dio che non li troviamo, io-“
Sherlock afferrò la mano di William, pronto a correre. La loro seconda fuga ebbe vita breve: Sherlock scivolò su qualcosa - fu impossibile capire cosa - e atterrò rovinosamente al centro di una pozzanghera, trascinando il giovane Moriarty con sé.
Appena il tempo di riprendersi dallo shock della caduta e il Detective si sporse verso il nobile per assicurarsi che non avesse nulla di rotto. “Liam, stai bene?” Domandò, preoccupato. “Ti sei fatto male?”
La caduta a terra non poteva essere stata indolore, ma William rideva. Aveva il viso, i capelli e i vestiti sporchi di fango e di Dio solo sapeva cosa, ma rideva. Non riusciva a fermarsi. Sherlock si fece contagiare. “Dai, Liam, abbiamo fatto la figura degli idioti!”
“Per una volta, la pensiamo allo stesso modo, Sherlock Holmes.”
Il divertimento per il Detective s’infranse lì, contro il suono del proprio nome completo pronunciato dalla voce di Mycroft. Non andava bene. No, proprio per niente.
Sherlock sollevò lo sguardo e due occhi identici ai suoi lo giudicarono per tutti i peccati che aveva commesso in un solo pomeriggio. Sbuffò, come se avesse cinque anni. “Mycro-“
“Alzati in piedi.” Suo fratello nemmeno gli fece la cortesia di porgergli la mano. Era proprio arrabbiato.
“È colpa mia,” si affrettò a dire William, che era già in piedi grazie all’aiuto di Albert. “L’idea di venire qui è stata mia. Sherlock non ha nulla a che fare con-”
Mycroft si permise d’interromperlo. “Sono certo che Sherlock sia in grado di difendersi da solo.” Lanciò uno sguardo al fratello minore. “Vuoi restare lì per terra per il resto della giornata?”
Sherlock si alzò in piedi. Era sporco e bagnato quanto il giovane Moriarty e Mycroft non gli risparmiò un’occhiata giudicante.
“Li abbiamo trovati,” intervenne Albert, stringendo la spalla del fratello minore in un gesto rassicurante. “Hanno fatto una sciocchezza, Direttore, ma non è successo nulla d’irreparabile.”
Per la prima volta, Sherlock si permise di guardare i due uomini che non conosceva. Il tipo alto due metri che lo fissava in cagnesco doveva essere quel servitore che non era davvero un servitore di cui William gli aveva parlato. Non ebbe alcun bisogno d’interrogarsi sull’identità del giovane Lord con gli occhi verdi.
Ecco Albert. Il primo pensiero di Sherlock fu che, a differenza di Louis, quell’uomo non assomigliava per niente a William.
Amante delle formalità come era, Mycroft non perse l’occasione per fare le presentazioni. “Conte Moriarty, vi presento mio fratello minore: Sherlock Holmes. Penso che abbiate sentito parlare delle sue imprese di Detective.”
Albert sorrise. “Non siate modesto, Direttore. Tutta la Gran Bretagna conosce le imprese di vostro fratello. Piacere di conoscervi, Sherlock Holmes.”
Il Detective stirò le labbra in un sorriso nervoso. “Piacere mio.”
“I gentiluomini si stringono la mano, Sherly,” gli ricordò Mycroft.
“Ho le mani sporche di fango!” Ribatté il più giovane.
William se ne stava in silenzio a subire la scena. Non era una cosa che gli capitava spesso e un poco lo infastidì. Non ce l’aveva con Albert per aver involontariamente interrotto il suo pomeriggio con Sherlock, ma era un altro momento per loro che finiva. Rimaneva solo il ballo in maschera dei Patel.
Moran si tolse la giacca e l’appoggiò sulle spalle di William. “Albert, lui ha i vestiti bagnati e tra poco comincerà a fare freddo.”
“Ne sono conscio, Colonnello,” disse il Conte, col sorriso tirato di chi sta per perdere la pazienza.
“Torniamo alla carrozza,” disse Mycroft. “Accompagneremo a casa il Conte Moriarty e Lord William, poi io e te parleremo.”
Sherlock storse le labbra in una smorfia poco felice: quella non era una promessa, era una minaccia.





Moran si accomodò al posto del cocchiere, insieme al vecchio Jones.
Le due coppie di fratelli si sedettero l’una davanti all’altra: William e Albert dalla parte del senso di marcia, Sherlock e Mycroft dall’altra. Fu presto chiaro che i più giovani non potevano guardarsi senza rischiare di scoppiare a ridere, forse a causa del ricordo della loro rovinosa caduta e dello stato miserabile in cui versavano entrambi.
Il silenzio di tomba che regnava all’interno della carrozza non faceva nulla per aiutarli.
Albert e Mycroft si dissero tutto senza parlare. Anche loro si erano aspettati una giornata diversa e non potevano fare altro che adattarsi.
“Hai freddo?” Domandò Albert al fratello minore.
William, che aveva ancora la giacca del Colonnello sulle spalle, scosse la testa. “No. I vestiti bagnati non sono piacevoli ma posso sopportare.”
“Siamo quasi arrivati,” lo rassicurò Albert.
Mycroft guardò Sherlock con la coda dell’occhio, sorpreso che non avesse ancora detto qualcosa di spiacevole. Suo fratello maggiore non si accorse nemmeno di essere osservato, troppo rapito dall’osservare il Moriarty più giovane. Sherlock non ci provava nemmeno a nascondere il suo interesse. William era più convincente nel fingere indifferenza, ma Mycroft non poteva ignorare il modo in cui quegli occhi scarlatti continuavano a tornare sul viso di suo fratello.
Era la prima volta che il Direttore li vedeva insieme e, sebbene non stessero facendo nulla di esplicito, percepì quel magnetismo di cui John Watson gli aveva parlato. Non poteva fare grandi intuizioni su William James Moriarty - e in quel momento nemmeno gli interessava - ma Mycroft guardava Sherlock ed era certo di averlo mai visto così. C’era un metro o poco più a separare suo fratello da quello di Albert e Sherlock guardava William come se quella distanza fosse troppo.
Solo quando la carrozza si fermò di fronte alla residenza londinese dei Moriarty, Mycroft cercò gli occhi di Albert. “Cenate con la vostra famiglia, Conte,” disse. “Se non vi è di troppo disturbo, mi piacerebbe concludere la nostra conversazione questa sera, nel vostro ufficio.”
Gli occhi verdi di Albert si fecero grandi per una frazione di secondo. Il sorriso che seguì confermò al Direttore che aveva compreso le sue intenzioni.
“No, non è affatto di troppo disturbo,” rispose Albert.
Anche gli occhi blu di Sherlock cercarono quelli scarlatti di William. Voleva salutarlo, promettergli che si sarebbero rivisti ancora.
Per la seconda volta in meno di un’ora, la voce di Moran li privò di quel momento. “Louis, aspetta!” La carrozza traballò, informando chi era al suo interno che il Colonnello era sceso dal posto del cocchiere. “No, Louis, faccio io! Louis, non ignorarmi! Louis!”
Tutto si consumò in pochi istanti. Louis James Moriarty aprì la porta, pronto ad accogliere i due fratelli maggiori. Tutte le sue buone intenzioni andarono in mille pezzi non appena si rese conto di chi erano i loro accompagnatori. Uno in particolare.
Fu proprio Sherlock a vedere il sorriso svanire dal quel giovane viso in favore di un’espressione orripilata. Nello stesso momento in cui Louis richiuse la porta sbattendola, il Detective scoppiò a ridere senza vergogna, guadagnandosi un’occhiata storta da parte del fratello maggiore.
“Era Louis?” Domandò Albert, che si era accorto di quanto successo solo a metà.
William si limitò a prendere un respiro profondo.
La porta si aprì una seconda volta e ci pensò Sebastian Moran a peggiorare la situazione. “Albert, questa è tutta colpa tua!” Tuonò. “Adesso ci parli tu! Lo convinci tu a darsi una calmata, io non voglio saperne niente!”
Il Colonnello scomparve sbattendo l’uscio a sua volta.
Non era abitudine di Albert James Moriarty provare imbarazzo - di solito, era lui a provocarlo nel prossimo - ma ora sentiva il pressante bisogno di scavarsi una fossa e buttarcisi dentro. Al suo fianco, William non versava in uno stato meno miserabile.
“Si respira una certa vivacità nella vostra casa, Conte,” commentò Mycroft.
Albert non comprese se stesse rigirando il dito nella piaga o volesse solo sdrammatizzare.
Sherlock, nel frattempo, non la smetteva di ridere.
Quando la porta si aprì per le terza volta e fu Jack a comparire sulla scena, i fratelli Moriarty non furono mai tanto felici di vederlo. “Perdonate il ritardo,” disse, chinando la testa in segno di rispetto.
Albert fu il primo ad alzarsi, ma non scese prima di aver rivolto a Mycroft un’ultima occhiata. Ti aspetto, dicevano quegli occhi verdi.
Non ti farò attendere molto, prometteva il sorriso del Direttore.
Quando fu il turno di William, Sherlock smise di ridere. Il Professore non lo guardò, non lo salutò, non fece nulla.
Dannato Louis, pensò il Detective, certo che il malumore del più giovane avesse inibito l’allegria di William. Si alzò di scatto e si sporse dalla carrozza appena in tempo per afferrare la mano del giovane Moriarty. “Promettimi che non ballerai con altri che con me.”
Era ovvio che si riferiva all’evento dei Patel, ma William non poté fare altro che sbattere le palpebre. “Come?”
“Dopodomani ballerai con me e solo me.” Sherlock ribadì il concetto con quel sorriso da canaglia che lo contraddistingueva. “Promettilo!”
William dischiuse le labbra, allibito. Sentiva la pressione degli sguardi di metà della sua famiglia e questo non lo aiutava affatto. “Sherlock…”
“Prometti!”
Era chiaro che il Detective non lo avrebbe lasciato andare senza avere una risposta affermativa. Fu il turno di William di arrendersi: “va bene,” rispose, tradendo una nota esasperata. “Te lo prometto, Sherlock.”
Soddisfatto, Sherlock lo liberò dalla propria presa. Un istante dopo, Mycroft lo afferrò per il retro della giacca e lo spinse sui sedili della carrozza.
“Andiamo, Jones,” ordinò il Diretto.
Non appena furono arrivati a metà del vialetto, Sherlock si sporse pericolosamente dal finestrino sbracciando in direzione di William. “Ci vediamo al ballo in maschera, Liam.”
Fu imbarazzante, senza dubbio.
Questo non impedì a William di restare a guardare la carrozza che spariva oltre il cancello, tra le strade di Londra.
“Hai intenzioni di mettere radici lì, fratello?” Domandò la voce di Louis, velenosa.
William si voltò appena in tempo per vedere il minore rientrare in casa a passo di marcia. Moran, fermo accanto al portone d’ingresso, fu svelto a prendersela col padrone di casa. “Albert, vedi di fare qualco-!”
“Ho capito, Colonnello!” Il Conte non sorrideva più.
“Oooh!” Moran non si fece sfuggire l’occasione per prenderlo un po’ in giro. “Ora che non c’è più il Direttore in giro, tiri fuori quel carattere di merda che hai?”
Albert piegò le labbra in un sorriso sinistro. “Quasi dieci anni e ancora non avete capito che non vi conviene sfidarmi.”
“Buoni, ragazzi,” intervenne Jack, spingendo gentilmente William a varcare il portone d’ingresso. “Se vi uccidete a vicenda, non riuscirete a cambiare molto di questo paese. Cerchiamo di arrivare tutti vivi a quel ballo in maschera.”




***



Mycroft era abituato alla lunaticità di Sherlock, ma quando suo fratello passò dall'allegria più pura al malumore più nero nel tempo necessario a uscire dalla residenza dei Moriarty, persino lui ne fu sorpreso.
“Adesso perché sei arrabbiato?” Domandò il Direttore, che non riusciva a restare serio di fronte a quel ventiquattrenne che lo fissava con lo stesso broncio di quando di anni ne aveva sette.
“Sei un genio, no? Arrivaci da solo!” Fu la replica irritata di Sherlock.
“Sherly, non sono stato io a rovinare il tuo momento con William.”
“Ah, no? Perché mi sembrava di essermi messo in fuga proprio da te.”
“Eravate nel posto sbagliato al momento sbagliato. È stata solo sfortuna.”
Sherlock sbuffò, ben consapevole che il maggiore aveva ragione e per nulla felice che non potesse prendersela con nessuno. “Dove stiamo andando?” Domandò, quando si accorse che la carrozza stava percorrendo il perimetro di Hyde Park. “Baker Street è nella direzione opposta.”
“Starai con me per il resto della giornata,” disse Mycroft, lapidario.
Sherlock sgranò gli occhi. “E chi lo ha deciso?”
“Io, ovvio. Devo parlarti di una cosa molto importante e devo portarti dal mio sarto per le ultime modifiche del tuo frac, ma non posso fare nessuna delle due cose mentre puzzi e sei sporco di fango.”
“Smettila immediatamente!” Sibilò Sherlock, per nulla divertito. “Io non ho alcuna intenzione di passare il resto della giornata con te!” Aggiunse. “E poi da dove salta questa storia del frac? E se avessi voluto presentarmi al ballo con uno smoking?”
Mycroft scrollò le spalle. “Sei alto,” rispose. “Non metterti il frac sarebbe uno spreco.”
“Non sono un bambino che puoi vestire come ti pare e piace!” Sherlock stava urlando come un isterico. E il modo in cui suo fratello rimaneva composto, con quell’insopportabile sorriso cortese - dalle sfumature sadiche però - lo mandava completamente fuori di testa.
“Avanti, Sherly, non possiedi nemmeno una cravatta,” ribatté Mycroft. “Non c’è nulla di male se decido di regalarti un frac nuovo.”
“E dove le hai trovate le misure?”
“Le conosco le tue misure. Il mio sarto ha solo bisogno di una prova per rifinire gli ultimi dettagli.” La carrozza si fermò e il Direttore sorrise soddisfatto. “Siamo arrivati.”





C’erano diverse camere nella residenza di Mycroft Holmes.
Molte di queste erano vuote, inutilizzate. Non vi erano stanze per gli ospiti: al padrone di casa non piaceva averne, la maggior parte dei suoi incontri privati si svolgeva al Diogenes Club, nella Stranger Room.
Mycroft Holmes conosceva molte persone, ma non aveva amici. Con qualcuno era in rapporti migliori rispetto ad altri ma non esisteva davvero nessuno con cui fosse in confidenza. Proprio per questo era perfetto per la vita che conduceva. Quello di Mycroft Holmes non era un lavoro, non esisteva un confine oltre il quale costruire una vita privata. Rivestire il ruolo di Direttore dei Servizi Segreti significava non poter essere altro.
Però c’era Sherlock. Per lui, Mycroft non sarebbe mai stato nulla di diverso da un fratello molesto. E proprio per lui, Mycroft aveva fatto arredare la camera in fondo al corridoio, assecondando la folle speranza che il loro legame si potesse ancora aggiustare. Non era stata completamente fatica sprecata. C’era stato un periodo in cui Sherlock aveva vissuto realmente in quella stanza, un periodo della loro vita che nessuno dei due Holmes aveva piacere di ricordare. Ma alcune cose di Sherlock erano ancora lì. Non aveva portato con sé nemmeno i vestiti che Mycroft aveva fatto confezionare a posta per lui.
“Vado a prendere qualcosa dal tuo vecchio guardaroba,” disse il padrone di casa. “Così puoi cambiarti in dei vestiti della tua misura.” Lasciò la porta socchiusa, come se avesse paura che il fratello minore potesse scivolare e affogarsi nella vasca.
Sherlock non rispose. Si era chiuso dietro un silenzio scontento, conscio di non poter sfuggire alle grinfie del fratello maggiore.
Solo dopo essersi immerso nell’acqua calda, provò a darsi una calmata. Mycorft non era diverso da quello che era sempre stato e se era sopravvissuto per ventiquattro anni senza ucciderlo, poteva sopportare la sua presenza per qualche ora. La giornata con Liam gli aveva lasciato addosso tante emozioni positive e questo lo aiutava, in particolare su quell’ultima immagine di loro due, finiti nel fango, a ridere come matti.
La voce di Mycroft non gli permise di perdersi in quei pensieri per molto. “Sei hai bisogno di qualcosa, sono di qua, Sherly.”
Sherlock sbuffò e s’immerse fino al mento. “Qual è la cosa importante di cui mi devi parlare?” Lo domandò svogliatamente, tanto per scacciar la noia. In verità, credeva che importante lo fosse solo per suo fratello.
“Goditi il bagno,” rispose Mycroft, dalla stanza adiacente. “Abbiamo tutto il tempo.”
“Io volevo avere tutto il tempo con Liam, non con te!”
“Lo rivedrai tra circa quarantotto ore. Penso che tu possa sopportare la sua assenza per questo lasso di tempo.” Senza preavviso, Mycroft entrò nella sala da bagno.
Sherlock si spinse contro il bordo di marmo, fulminandolo con lo sguardo. “Ma che fai?”
“Non t’imbarazzare,” lo rassicurò il maggiore, ancora quel sorriso sadico fermo al proprio posto. “Mi ricordo ancora del tuo sederino rosa da bambino.”
Sherlock fu indeciso se annegarsi o annegarlo. La prima opzione non gli era di alcuna utilità, la seconda era illegale. “Che cosa vuoi?” Sibilò, minaccioso.
Le labbra di Mycroft disegnarono una linea retta. “Tra due notti, intendi sul serio ballare con William sotto gli occhi di tutta l’alta società di Londra?”
Sherlock sfoderò il suo sorriso da canaglia. “Conosci benissimo la risposta, fratello.”
“Sei consapevole che potresti danneggiare lui più di te stesso?”
“Non funzionerà, Mycroft,” disse Sherlock, emergendo quanto bastava per appoggiare le braccia sul bordo della vasca. “In quel vicolo, hai detto a Liam che sono in grado di difendermi da solo. Bene, ribatto dicendo che quando inviterò Liam, nessuno lo costringerà a dirmi di sì.”
Un’intuizione prese presto forma nella testa di Mycroft. “È una prova,” concluse.
“Il termine prova è così serio!” Obiettò Sherlock. “Preferisco definirlo un gioco.”
“Un gioco che potrebbe rendervi entrambi colpevoli di reato di sodomia. Ci hai pensato?”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Saremo mascherati, saremo ubriachi e saremo a casa di un presunto sodomita. Immagino che gli occhi di tutti non saranno su di noi, ma su George Patel.”
Mycroft fissò il fratello minore, stando attento a non mostrare alcuna sorpresa. “Hai fatto ricerche su George Patel?”
“Oh, fratello, so bene che non mi trascineresti mai a un ballo in maschera senza una buona ragione. Non sia mai che decida di dare fuoco alle tende per troppa noia.”
Suo malgrado, Mycroft rise. “Se rammento bene, la volta delle tende non era un’occasione formale, ma una cena di Natale.”
Sherlock decise di non indugiare sul ricordo. “Ho fatto un po’ di domande in giro,” raccontò. “Quasi tutti i miei vecchi colleghi di Oxford hanno dei fratelli e delle sorelle maggiori.”
“Parli con i tuoi ex compagni di Oxford?”
“No, Mycroft, li interrogo. È diverso. Una volta ridevano di me, ora sbracciano per scambiare due parole col famoso Detective di Baker Street. Il solito comportamento ipocrita dell’aristocrazia.”
“E che cosa hai scoperto dai tuoi contatti di Oxford?”
“Che circa quindici anni fa, quando George Patel era un adolescente, girava il pettegolezzo di una sua preferenza per i giovani nobili di sesso maschile. E pare che sia stato proprio il Conte Moriarty, il padre di Albert e Liam, a dare conferma alle voci, interrompendo di colpo i rapporti con i Patel.”
L’espressione di Mycroft tradì compiacimento. “Non pensare che tu mi abbia sorpreso. Non mi aspettavo nulla di meno da te.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Non fingere di adularmi. Immagino tu conosca già il resto della storia: George è stato allontanato da Londra ma è dovuto tornare quando il fratello minore è morto, dopo aver sperperato gran parte del patrimonio nel gioco d’azzardo.”
Mycroft annuì. “Mi hai ufficialmente risparmiato metà del lavoro.”
“E qui torniamo alla mia domanda iniziale.” Sherlock lo guardò dritto negli occhi. “Qual è la cosa importante di cui devi parlarmi?”
Il maggiore evitò la domanda. “Whisky o scotch?”
“Birra.”
“Dammi una risposta seria o non avrai che acqua.”
Sherlock sbuffò. “Whisky.”
“E whisky sia.” Mycroft si voltò e uscì dal bagno. “Esci da quella vasca e rivestiti, dobbiamo lavorare.”
“Io non lavoro per te!” Obiettò Sherlock.
Quando Mycroft tornò in camera, dieci minuti più tardi, trovò Sherlock appoggiato alla scrivania, gli occhi blu fissi sulle nove fotografie appese alla lavagna. Si era vestito ma i capelli ancora umidi stavano bagnando il colletto della camicia. Non gli sembrava importasse. “Quelle date si riferiscono al ritrovamento di un cadavere?”
“No.” Mycroft esaurì la distanza tra loro e porse al fratello uno dei due bicchieri di whisky. “Non abbiamo nessun cadavere. Solo scomparsi.”
Sherlock bevve un sorso senza disturbarsi a dire grazie. “Immagino che George Patel sia il nostro sospettato.”
Elementare, Sherly. Vuoi che ti dica i dettagli?”
“Non mi serve. Il ballo in maschera a cui presenzieremo è il primo evento di gala organizzato dai Patel dopo la loro riprese economica, immagino che questi ragazzi siano da ringraziare per il miracolo. Se li ha truffati, come credo, non sono vivi.” Sherlock prese un altro sorso di whisky. “Sto cercando di capire perché dopo otto borghesi abbia deciso di rischiare con nobile.”
“Conosci Julian Evans? Ha un paio d’anni meno di te.”
“No, ma i nobili li riconosci da come si mettono in posa nelle fotografie. Cercano sempre d’imitare le espressioni dei ritratti d’epoca, quelli che vedono sulle pareti delle loro case per tutta la vita.”
“Ah, pensavo avessi intuito la sua estrazione sociale dai vestiti.”
“I vestiti ingannano,” disse Sherlock. “Sta nascendo una classe sociale d’impresari industriali che non vanta nessun titolo antico ma è ricca quanto- a volte di più - le famiglie blasonate della Gran Bretagna. Ma lasciamo perdere i miei ragionamenti, perché ti occupi di questo caso? Otto borghesi presumibilmente morti non mettono in pericolo il Governo.”
“Il Marchese Patel, il padre di George, ha servito nell’esercito. Inoltre, sono nobili sia il sospettato che l’ultima vittima ed entrambi rischiano di essere accusati di reato di sodomia. Serve discrezione, non è un caso per Scotland Yard.”
Alle parole reato di sodomia, Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Oddio, che pal-“ Si bloccò da solo. “Perché entrambi?” Domandò. “Pensavo che Julian Evans fosse una vittima.”
Mycroft prese un sorso del proprio whisky e appoggiò il bicchiere sulla scrivania. “Penso che sia il caso di raccontarti cosa facevamo io e il Conte Moriarty nell’East End, Sherly.” Gli parlò di Josh Finn e di quello che aveva raccontato loro riguardo a Julian Evans e al suo innamorato di nome George. Quando il più giovane rimase in silenzio, il Direttore si azzardò a esporgli la propria teoria.
Sherlock la respinse con una smorfia. “Come ti vengono in mente certe cose?”
Mycroft rise. “Albert ha rifiutato la storia degli amanti criminali quanto te.”
“Io non nego che George Patel e Julian Evans possano essere complici,” ribatté Sherlock.
“Quindi additi Julian Evans come colpevole?”
“È una situazione da cinquanta e cinquanta: Evans può essere complice o vittima. Alla mano, non abbiamo nessuna prova che possa svelare il suo ruolo con certezza.”
“Allora perché rifiuti la mia teoria con così tanto convinzione?”
“Perché ci metti di mezzo l’amore!” Esclamò Sherlock, finendo di bere il whisky. “Otto scomparsi e nessuno, prima di te, è riuscito a creare una correlazione. No, non è sorprendente perché Scotland Yard è limitata in modo vergognoso ma, usa la ragione, a George Patel è andata bene otto volte. Solo un idiota cambierebbe il proprio schema vincente per amore.”
Mycroft scrollò le spalle. “Per quel che ne so io, l’amore è solo un altro tipo di follia.”
Sherlock rise, schernendolo. “La follia è, senza dubbio, parte di questo mondo, Mycroft. Una delle sue forme più comuni è sicuramente la rabbia, ma mi rifiuto di pensare che un uomo nel pieno delle sue facoltà possa perdere la testa per amore!” Esclamò. “E George Patel era molto presente a se stesso mentre stroncava otto vite. Se solo sapessimo dove andare a cercare i cadaveri…”
“Abbiamo una pista,” confessò Mycroft.
Sherlock lo fissò. “Perché non me lo hai detto subito?”
“Perché sarà l’MI6 a chiudere questa indagine.”
“Mi dai un mistero e poi mi dici che non è affar mio?”
“Ti ho informato dei fatti perché non voglio che i miei agenti ti abbiano tra i piedi,” disse Mycroft, poi si fece improvvisamente serio. “E perché voglio che tu resti il più lontano possibile da George Patel.”
Peccato che Sherlock avesse deciso che quello che diceva non fosse più interessante. “C’è una cosa che mi disturba da quando sono davanti a questa lavagna.” Fece un paio di passi in avanti e premette l’indice al centro della prima data di scomparsa. “Questa non è la tua calligrafia.”
Mycroft decise di giocare. “Può darsi…” Disse, criptico.
Sherlock non sapeva se essere più sorpreso o confuso. “Svolgi indagini in compagnia della tua amante?”
“E perché dovrebbe essere la scrittura della mia amante, di grazia?”
“Per favore, Mycroft, chi altro porteresti in camera da letto? Per il lavoro hai un ufficio!” Sherlock era stato privato dell’onore di smascherare George Patel, non gli restava che vendicarsi facendo qualche supposizione sulla donna di suo fratello. Quella per cui - non se lo sarebbe mai dimenticato - Mycroft lo aveva lasciato per strada. “Prima di tutto, è una donna di classe. Ha la calligrafia elegante. Prevedibile: non saresti mai andato con una borghese qualunque.”
Mycroft incrociò le braccia contro il petto. “Non sembra tu abbia bisogno della mia conferma. Che altro intuisci?”
“È una delle tue spie? Dopo Irene Adler, ho rivalutato molte cose e-“
“Non rispondo a domande dirette. Indaga e scopri.”
Sherlock si morse il labbro inferiore, studiando con attenzione il modo in cui erano scritti numeri e lettere. “A giudicare dal modo in cui ha tracciato le linee dell’8 e le lettere maiuscole, deduco che-“ Si bloccò, mentre la verità lo investiva come un fiume in piena. Quando si voltò verso suo fratello, era talmente scioccato che Mycroft gli scoppiò a ridere in faccia.
“Mi stai prendendo in giro?” Sherlock avvampò.
“Dal modo in cui sei arrossito, penso che tu sappia risponderti da solo.” Il Direttore provò a darsi un contegno. “Avanti, Sherly, lo sai…”
“Io non so un bel niente!” Il calore alle guance non accennava a passare e Sherlock maledisse se stesso.
Mycroft fece una smorfia poco convinta. “Diciamo che non vorresti saperlo ma non puoi non accorgertene. Per questo evito sempre di farti visita dopo aver passato la notte con qualcuno.”
Sherlock assottigliò gli occhi. “Come mai non ti stai nascondendo da me anche questa volta?” Indagò. “Anzi, volevi che capissi che il tuo amante è un lui. Che cosa stai cercando di dirmi?”
Mycroft scrollò le spalle. “Secondo te?” L’aria di scherno che portava sempre con sé era sparita, lasciando il posto a qualcosa che il più giovane non riuscì a identificare.
Sherlock aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Sei innamorato, Mycroft?”
Il padrone di casa rise, più per nervosismo che per ilarità. “Dai, siediti vicino al fuoco, così ti si asciugano i capelli e possiamo andare a provare il tuo frac.”
Sherlock superò la scrivania e si accomodò a gambe incrociate sul tappeto, di fronte al caminetto. “Lo conosco?”
“Ti ho detto che non rispondo a domande dirette.”
“Hai intenzione di presentarmelo?”
“Stai diventando petulante.”
“Conosci troppa gente perché io possa fare delle ipotesi!” Si lamentò Sherlock.
Mycroft recuperò il proprio bicchiere dalla scrivania e si sedette sul divano, di fronte al fratello. “L’amara verità è che, come al solito, ti distrai nei momenti chiave e perdi i dettagli.”
“Giuro che ti tiro una scarpa!”
“Sei qui da quasi un’ora e mi minaccia solo adesso. Abbiamo un nuovo record.” Mycroft prese un sorso di whisky, tanto per preparare se stesso alla domanda che stava per porre. “E tu lo sei?”
“Cosa?”
“Sei innamorato?”
Proprio come previsto, Sherlock seppe difendersi alla grande. “Non rispondo a domande dirette, fratello.”




***



L’atmosfera era indubbiamente tesa.
I tre fratelli Moriarty erano riusciti nello studio del maggiore, ognuno seduto nel proprio angolo con un drink in mano. Non si erano messi d’accordo. Finito di cenare, William era andato a cercare rifugio da Albert, conscio di dovergli dare una spiegazione per quanto accaduto quel pomeriggio. Una volta aperta la porta, aveva già trovato Louis lì.
Albert non sarebbe rimasto tutta la sera, stava solo bevendo qualcosa in attesa che una carrozza del Governo lo portasse all’MI6. Al piano di sotto, sapevano che tutti gli altri si erano radunati in salotto e che avrebbero notato la loro assenza. Allo stesso modo, erano certi che nessuno sarebbe stato tanto impavido da salire a disturbarli. Anche se non si poteva escludere che Bond convincesse Moran a sacrificarsi per la causa salendo a dare un’occhiata.
William aveva la netta sensazione che se quella porta si fosse aperta, qualcosa sarebbe esploso. Si era accomodato sulla poltrona vicino al caminetto, la testa appoggiata al pugno chiuso e gli occhi scarlatti fissi sulle fiamme - erano l’unica cosa di cui poteva vedere il colore. Albert era seduto dietro la scrivania e Louis se ne stava in piedi, dalla parte opposta della stanza.
O meglio, era lì che William lo aveva visto l’ultima volta che aveva sollevato lo sguardo. Per questo quando qualcuno gli tolse il bicchiere vuoto di mano, trasalì.
Louis lo guardò dall’alto in basso. “Stai bene?”
William annuì. “Non ti ho sentito avvicinare.”
Albert sollevò lo sguardo da qualunque documento stesse leggendo. “Hai la testa tra le nuvole, Will?” Non lo chiese con cattiveria - non lo avrebbe mai fatto, non Albert - ma il più giovane intuì perfettamente che voleva discutere degli eventi della giornata, prima di andarsene.
“Mi spiace aver interrotto le tue indagini, fratello,” disse William
Albert scosse la testa, con espressione accondiscendente. “Avevamo già fatto tutto quello che dovevamo.”
Louis tornò sui propri passi, fermandosi a metà strada per sedersi sul divano. Una volta appoggiato il bicchiere vuoto sul basso tavolino di fronte lui, parlò: “Holmes come ha commentato il luogo in cui è avvenuto il vostro incontro?”
“Tu, Louis, lo sapevi?” Albert fu sorpreso di sapere che il minore era stato informato dei fatti in anticipo e lui no.
Prima che si creasse un malinteso, William intervenne. “È venuto fuori il discorso per caso-“
“E io non ero d’accordo.” Louis si sentì in dovere di sottolinearlo.
“-in questi ultimi giorni, io e te eravamo occupati a rivedere i dettagli dell’operazione, Albert. Non ho pensato di-“
“Will, non è successo niente,” lo rassicurò Albert. "Sono felice di sapere che siete tornati a parlare.”
“Holmes non ha detto niente?” Insistette Louis. “In che luogo lo hai portato alla fine?”
William regalò ai fratelli il sorriso più dolce del suo repertorio, nella speranza che lo avrebbero perdonato. “Nella biblioteca abbandonata in cui vivevamo io e te.”
Louis lo fissò, ammutolito. “Va bene.”
Albert simulò un paio di colpi di tosse per non ridere. “È difficile credere nella tua sincerità, Louis.”
Il minore fu eccezionale nel mantenere un’espressione imperturbabile. “Fin tanto che non ha provato a toccarlo in modo sconveniente, posso anche ingoiare il boccone amaro.”
Il viso di William dovette tradire qualcosa - o forse no, forse era solo che Louis lo conosceva da tutta la vita - perché il fratello minore lo guardò attentamente e aggiunse: “ti ha toccato.” Non era una domanda.
Albert si fece improvvisamente serio.
“Non è successo nulla di sconveniente,” disse William.
“La sola presenza di Sherlock Holmes è sconveniente,” ribatté Louis. “In che modo si è permesso di toccarti?”
“Capita di toccarsi mentre si hanno lunghi dialoghi,” buttò lì William.
Non funzionò.
“Quando parlo con te, non ti tocco.” Louis era già pronto a private il Detective di Baker Street di tutti gli arti.
“Tu sei una persona composta. Sherlock è molto più-“
“Volgare, cafone, rozzo-“
William fece finta di non sentire gli ultimi due epiteti. In cuor suo, preferiva di gran lunga che Louis offendesse Sherlock di fronte a lui, piuttosto che dover fronteggiare un altro muro di silenzio.
“Perché hai deciso di portarlo all’East End?” Domandò Albert, sinceramente curioso.
William tornò a guardare le fiamme scoppiettanti nel caminetto. “Lo scopo del nostro gioco è sorprenderci a vicenda,” spiegò William. “Sherlock non fa che spuntare dal nulla e prendermi alla sprovvista. Sto pareggiando i conti.
“E ci stai riuscendo?” Domandò Louis.
“Sì, credo di sì.” William non poteva dire loro che per ogni volta che riusciva a far rimanere Sherlock senza parole, il Detective diceva qualcosa in grado di destabilizzarlo completamente.
“Io comincio seriamente a pensare che lo hai idealizzato troppo,” disse Louis. “Non fraintendermi, fratello, mi fido di te e delle tue capacità. Ciò non toglie che stai giocando col rischio in persona. Holmes è veramente così bravo?”
“Mycroft sapeva che lo stavamo usando ancor prima del caso Adler,” disse Albert. “Non mi sorprenderei se Sherlock sapesse qualcosa ma non volesse porre fine a tutto.”
William era interessato a sapere di più. “Spiegati meglio, Albert.”
“Parlo in virtù di quello che Mycroft dice a me: posso sbagliarmi, ma non credo che quella volta sul treno ti abbia accusato per gioco.”
Louis non pareva convinto. “Quella volta, Holmes era decisamente poco lucido. Delirava.”
“No.” William scosse la testa. “Lui è convinto che il Signore del Crimine sia io. Me lo ripete di continuo.”
“Allora è un idiota.”
Questa volta, Albert rise apertamente. “Louis…”
“Che cosa crede di fare dimostrando tutto questo interesse per nostro fratello?” Per qualche motivo, Louis non riusciva ad afferrare qualcosa che per il maggiore era evidente. “Se crede davvero che William sia la sua nemesi, il comportamento che ha nei suoi confronti non ha senso.”
William non poteva negare che avesse ragione. “Penso che Sherlock si sia solo fissato su un’idea,” disse. “Non ha prove contro di noi, ma riconosce sia in me che nel Signore del Crimine un suo pari. Credo che ritenga impossibile che esistano ben due persone in grado di entrargli in testa. Per tanto, non può evitare di fare un’associazione.”
Louis si diede un minuto per riflettere. “Continua a non avere senso.”
La conversazione s’interruppe quando bussarono.
“Avanti,” disse Albert.
Fred aprì la porta ma non fece neanche un passo all’interno della stanza. “È arrivata una carrozza del Governo.”
Il Conte si alzò dalla poltrona. “Io devo andare,” disse. “Ma voi restate pure quanto volete.” Se ne andò, insieme a Fred, con passo spedito.
Louis guardò la porta richiudersi, poi sospirò. “Nemmeno questo ha senso.”
William scosse la testa. “No, quella di Mycroft e nostro fratello è la situazione più semplice del mondo,” disse, alzandosi in piedi per raggiungere il minore sul divano. “Due persone sono attratte l’una dall’altra sia fisicamente che mentalmente, s’incontrano a metà strada e, inevitabilmente, si toccano. È una somma: uno più uno, uguale due.”
Louis appoggiò la nuca allo schienale del divano. “Attraverso la matematica si possono spiegare anche i rapporti interpersonali?”
“No, non per davvero,” rispose William. “Le persone non seguono le regole della logica. Al contrario, i sentimenti sono quanto di più irragionevole esista. Le variabili sono infinite. Per catturare tante sfumature, la letteratura è senz’altro più adatta dell’algebra.” Ripensò ai passi di Romeo e Giulietta recitati con la voce di Sherlock. Quanto gli sarebbe piaciuto ascoltare tutta la bibliografia di Shakespeare letta da lui.
Louis gli fece una domanda a mezza bocca.
“Che cosa hai detto?” Domandò William.
“Tu e il Detective che opera letterarie siete?” Domandò il più giovane, cercando in tutti i modi di nascondere l’inclinazione velenosa della propria voce, ma il fratello la percepì ugualmente.
Ingenuamente, Sherlock li aveva associati proprio ai tragici amanti di Verona.
Solo il tuo nome mi è nemico.
William era certo che il nome di Sherlock Holmes sarebbe diventato immortale. E se mai qualcuno si sarebbe ricordato di Moriarty, sarebbe stato solo in virtù delle storie del Detective di Baker Street. C’era un romanticismo amaro in quella prospettiva: il mondo li avrebbe sempre associati l’uno all’altro, ma in modo distorto.
Tra le pagine di un libro avrebbero sfidato le regole del tempo e sarebbero divenuti eterni e mai nessuno avrebbe rivelato il mistero nascosto dietro quelle storie distorte.
Lui e Sherlock non erano destinati a divenire amanti, ma la verità nascosta dietro al titolo di nemesi non sarebbe mai stata scritta da nessuna parte. Apparteneva a loro e a loro soltanto. In questo erano un po’ simili a Romeo e Giulietta.
Ed era la miglior promessa d’immortalità in cui William James Moriarty potesse sperare. “Immagino che questo dovremmo chiederlo a Conan Doyle,” rispose.
CowT 13. Week 4
M1


Quando Shouto si svegliò era da solo e il mantello nero di suo fratello lo proteggeva dal freddo. Si era addormentato all’improvviso, senza avere il tempo di cambiarsi e coricarsi come si doveva. Non ricordava con esattezza a che punto la conversazione tra lui e Touya si fosse interrotta o se suo fratello avesse passato la notte accanto a lui, prima di levarsi ancor prima del sole.
Touya era l’ultimo a spegnere le luci alla sera e il primo a impostare il ritmo con cui si sì risvegliava il castello. Era una forma di controllo che a Shouto ricordava il loro padre. In verità, vi erano molti dettagli di suo fratello che gli ricordavano lui, ma a Touya non lo avrebbe mai detto.
Touya era erede di suo padre in un modo in cui Shouto non sarebbe mai stato e il più giovane, ancora indeciso se esserne inquietato o rassicurato, non poteva non vederlo, come era evidente la somiglianza con la loro madre quando sorprendeva suo fratello con quell’espressione triste a rendere i suoi turchesi più scuri.
Touya era casa e, al contempo, era l’incarnazione della più pericolosa minaccia.
Era una dualità difficile con cui Shouto doveva convivere.
Ma quella mattina sorrideva.
Non ebbe fretta di alzarsi dal letto, anche se era probabile che gli strambi uomini di suo fratello sarebbero venuti a cercarlo anche lassù, nella torre alta del loro giovane signore. Al contrario, Shouto se ne rimase a fissare il soffitto di travi di legno, con la testa appoggiata tra i due cuscini, mentre le sue dita stringevano la pelliccia scura del mantello nero in cui era avvolto, accarezzandola distrattamente.
Quando il sole si alzò tanto che i suoi raggi caldi entrarono attraverso la finestra e accarezzarono la sua figura distesa, Shouto decise che era il momento di alzarsi.
Attraversò la camera da letto circolare con i piedi scalzi e appoggiò le mani sul davanzale: era una bella giornata di sole e la neve brillava tanto che il Principe dovette scherzarci gli occhi con le dita.
Era la giornata perfetta per volare. Forse l’aria era gelida, ma per lui e Touya non sarebbe stato un problema. Recuperò gli stivali ai piedi del letto in fretta, poi toccò alla giacca blu, abbandonata sul divano.
Il mantello nero di Touya era ancora sopra il letto, lo prese e se. Era solo un mantello ma non era solo un mantello. Indossare i colori di un altro signore, specie quando si era portatori di un titolo nobiliare come Shouto, era un gesto con un significato molto preciso. Il Principe non aveva alcun legame con l’Unione, ma stava cercando di costruirne uno con Touya, che andava al di là di quello di sangue che il destino aveva scelto per loro.
Shouto appese il mantello corvino al braccio.
Con la scusa di doverlo restituire a suo fratello, sarebbe andato a cercarlo.




Il ghiaccio non era il suo potere, non era suo nel modo in cui apparteneva a Shouto e a sua madre, ma Touya ne era comunque figlio.
Una Regina di Ghiaccio lo aveva portato in grembo, passandogli il potere di sopravvivere anche all’inverno più crudele. Per questo, pur sentendo il crepitio del fuoco di suo padre nel petto, Touya si sentiva a casa in quelle regioni del Nord. La libertà di volare in quel cielo terso, mentre la luce del sole d’inverno faceva splendere il paesaggio bianco sotto di lui, alla stregua di una distesa di diamanti, riusciva quasi a fargli dimenticare la guerra e il motivo per cui la combatteva.
Quasi.
Non appena si accorse che il sole aveva superato le cime più alte, prese un respiro profondo e riempì i polmoni di aria gelida. Era giunto il momento di tornare.
Gli idioti non potevano essere lasciati privi di supervisione troppo a lungo. Inoltre, c’era Shouto, che doveva essersi svegliato nel suo letto da solo ed era questione di momenti, prima che gli altri se ne accorgessero. Non che avesse qualcosa da nascondere - né la voglia di farlo - ma Jin e Himiko erano così bravi a far diventare delle stupidaggini delle vere e proprie questioni di corte. Meglio non lasciare loro il tempo di fantasticare troppo a lungo.
Anche se sarebbe servito un Re per fare una corte e in quel castello ve ne erano un paio destinati per diritto di sangue ma nessuno incoronato per davvero.
Touya aveva il comando assoluto fino a che Tenko, ovunque si fosse cacciato, non avrebbe concluso i suoi affari, qualunque essi fossero. Non gli piaceva ma era di gran lunga meno fastidioso di dover interpretare il ruolo del braccio destro del non più decaduto Principe Shigaraki.
Quando imboccò l’entrata del Nido dei Draghi per atterrare, la caverna non era più deserta come l’aveva lasciata. Da quando Shiro era riuscita a tornare da Shouto, il suo Dabi non era più l’unico Drago del castello a essere bisognoso di cure.
Tutto per il gioia di Shuichi.
“Lo hai visto?” Domandò alla bestia bianca, mentre il Todoroki conduceva il proprio Drago al suo giaciglio. “Lui va e viene quando gli pare. Nessuno sa cosa gli passa per la testa ma, ehi, il castello è il suo, è lui che comanda e dobbiamo anche riservargli un trattamento da Altezza Reale.”
“Non ho mai preteso che lo faceste,” ribatté Touya distrattamente, mentre scendeva dalla sella. “Come sta la nostra ospite?” S’interessò subito dopo.
“Questa creatura è meravigliosa,” commentò Shuichi, accarezzando il muso di Shiro. “Diffidente, sì, ma non almeno è aggressiva senza motivo… Tipo qualcun altro…” Lanciò un’occhiataccia in direzione di Dabi, che gli rivolse una delle sue occhiate raggelanti.
“Beh… Per dividere il Nido con Dabi, bisogna avere per forza un bel carattere,” disse Touya. Prima di cedere il suo Drago, sarebbe arso vivo tra le fiamme del suo stesso fuoco ma c’era una ragione se Dabi si faceva calcare solo da lui: possedevano la stessa anima contorta.
Shiro, al contrario, assomiglia più a Shouto. Diffidente e orgogliosa, sì, ma era protettiva e gentile con chi riusciva a fare breccia nel suo cuore di ghiaccio. Shuichi era uno dei fortunati, ma rispondeva a Touya come se fosse il suo padrone.
“Adesso non essere geloso.”
Il Principe accarezzò la testa di Dabi in un ultimo gesto di affetto, poi attraversò il nido per controllare di persona come stesse la nuova arrivata.
“Accomodati…” Shuichi si fece da parte, alzando gli occhi al cielo. “Tanto tu sei il preferito qua sotto!”
“Geloso, Lucertola?” Domandò il Principe, sarcastico, mentre il Drago femmina premeva il muso contro il suo petto come non se avesse aspettato altri che lui. “Non credevo che ti piacessero questo genere di ragazze.”
“Vai al diavolo, Touya.”
“Credevo di essere un Altezza Reale.”
“Ti tratterò come tale solo quando lo meriterai.”
“Come mai sei quaggiù?” Domandò Touya, prendendo tra le mani il muso del Drago bianco: erano dello stesso azzurro gelido di quelli di Dabi.
“Quando è da sola, lei tende a piangere,” spiegò Shuichi. “Non è il suo nido e credo che non sia abituata a stare da sola. E bisogna tenere Shouto sotto una campana di vetro, quindi…”
“Se il tempo si mantiene potrei portarlo a volare oggi stesso,” disse Touya, passando le dita lungo un corno della bestia bianca. Non disse nulla per un po’, fino a che non si rese conto di essere fissato. “Cosa c’è?” Domandò, gelido.
Nulla a cui Shuichi non fosse abituato.
“Ricordi ancora di essere uno dei due Principi Neri di questa storia, vero?”
Touya sfoderò un ghignetto dei suoi.
“Ti hanno mai insegnato che è più divertente spezzare un cuore dopo che lo si è riempito di speranza?”
Shuichi non si era aspettato niente di meno.
“È strano però…”
“Cosa?”
“Se ogni tua azione è dettata dal tuo desiderio di vendetta, perché il Drago di Shouto si fida di te.”
Touya rivolse un sorriso amaro alla bestia che si affidava alle sue mani senza alcun timore. Se solo avesse voluto, il suo fuoco blu sarebbe bastato a tramutare quella maestosa creatura in cenere. Ma era uno spreco che non era disposto a compiere, non ancora.
“Il cuore di un Drago riflette quello del suo Signore,” disse Touya, lanciando un’occhiata veloce a Dabi, acciambellato nel suo giaciglio. “Quello di questa povera bestia è bisognoso d’amore, come quello del suo giovane padrone. Todoroki Enji non ha mai capito una cosa: la mancanza di affetto non rende nessuno più forte, solo più facile da ingannare.”
In fondo in fondo, Shuichi provava pena per Shouto, per la crudeltà con cui sarebbe stato usato all’interno di quel gioco di potere, ma la guerra non aveva pietà dei cuori gentili. O li uccideva o li tramutava in mostri.
Touya era l’incarnazione perfetta di quella realtà.



Una volta sfamati i due Draghi, lasciarono il Nido insieme.
“Muoio di fame,” si lamentò Touya, precedendo il rettile. “Che cosa abbiamo da mangiare?”
“Un’ora fa, Jin si stava riscoprendo esperto di torte,” raccontò Shuichi. “Un momento infornava tutto felice e quello dopo buttava tutto in pasto alle oche e alle galline nell’aia.”
Tipico di Jin.
“E Himiko?” S’informò Touya. Se c’era qualcuno che riuscisse a stare dietro a quel pazzo, era lei - che non era particolarmente più sana di lui.
“Ha salvato qualche torta dalla strage,” disse Shuichi. “Quando sono sceso giù, nel Nido, perché sentivo il Drago del Principe Shouto piangere, Atsuhiro aveva appena cominciato un monologo su alcune ricette di cucina tramandate dai suoi avi. Non so come sia andata a finire, ma non sono scoppiati incendi, quindi…”
Di fatti, arrivati sul pianerottolo della cucina, Touya notò che la situazione era molto tranquilla. Troppo tranquilla.
“Ehi, folli…” Chiamò, affacciandosi all’interno della stanza. “Vi siete avvelenati a vicen-“
Il Principe si bloccò non appena vide l’uomo vestito di nero. Se ne stava di fronte al tavolo che occupava il centro della stanza, la mano sospesa a mezz’aria con una fetta di torta tra le dita. Gli dava le spalle.
“L’arte culinaria è una cosa che mi ha sempre affascinato,” disse. “Sapere sfamare e farlo con una certa cura è una virtù che non viene adeguatamente avvisata, a mio avviso.”
Himiko, Jim e Atsuhiro erano in piedi ai lati del grande caminetto. Gli occhi di lei furono i primi che Touya incrociò: stavano bene, ma erano evidentemente tesi. Shuichi era rimasto alle sue spalle e il Todoroki gli fece segno di non muoversi.
Nessuno di loro era al livello del mostro fermo al centro della stanza.
“Tenko?” Chiamò Touya, arrivando all’angolo del tavolo.
L’altezza era quella e così la linea delle spalle. I capelli dal colore così slavato erano inconfondibili, ma erano più lunghi e aveva perso la ben che minima sfumatura di colore. Non era un cambiamento che potesse definirsi naturale, non dopo poche settimane.
“Tenko,” ripeté Touya, con voce più ferma.
L’uomo che possedeva il corpo di Tenko ma che, il Principe fosse dannato, non era lui, lasciò cadere il pezzo di torta sul tavolo, come se avesse di colpo perso qualsiasi valore.
“Avverto dell’astio, giovane Todoroki,” disse il mostro, voltandosi lentamente verso il giovane Signore di quel castello. “Ti ha per caso infastidito aver ricevuto la mia visita a sorpresa?”
La prima differenza che saltò all’occhio di Touya fu il colore delle iridi. Erano rosse come il sangue, quando Tenko le aveva sempre avute di un grigio scuro. Quel dettaglio, insieme al tono della voce - più profonda - e all’atteggiamento - era quasi aggraziato, lo convinsero che quello che aveva davanti non era Tenko Himura, Principe della Casata Shigaraki.
A quel punto, c’era solo una cosa a interessare il giovane Todoroki.
“Dov’è il Principe Izuku?”
L’essere rise.
“Dritto al punto. Sì, tra te e Tenko, sei stato sempre stato tu quello più pragmatico.”
“Lord Hisashi Shigaraki.” Touya non tentennò nel pronunciare il nome dell’uomo che aveva fatto tremare tutte le Dinastie del Drago. “Dove si trova vostro figlio?”
“Interessante…” L’uomo si portò una mano sotto al mento. “Ti sei riferito a Izuku come mio figlio nella speranza di toccare qualche corda emotiva? Bravo. Davvero, molto bravo.”
“È vivo?” Fece un altro tentativo Touya.
“No, non scadere nelle domande di cui già conosci la risposta.”
Izuku possedeva tutto ciò per cui quel mostro continuava a esistere e sfidare la morte. Non sarebbe certo venuto a fare una chiacchierata con loro se non avesse già preso per sé tutto il potere del secondo Principe Shigaraki.
Izuku era vivo ma nel cercare di riportare Tenko dalla sua parte, aveva risvegliato il mostro.
“A cosa devo l’onore di tale visita?” Domandò Touya con falsa cortesia.
“Il motivo è molto semplice e lo hai già capito da solo, mio giovane Principe Todoroki.”
Hisashi Shigaraki - All For One - mosse un paio di passi verso il Signore di quel castello e Himiko si strinse di più a Jin. Touya sapeva che tutti loro, nessuno escluso, era consci della portata della minaccia che era entrata nella loro casa, ma nessuno - nessuno - si sarebbe tirato indietro per combattere al suo fianco e proteggerlo.
Touya però era un pigro e quattro cadaveri erano troppi da far smaltire a due Draghi. Sollevò appena la mano destra, dando a tutti l’ordine di non muoversi.
“L’era delle scorribande tue e di Tenko è giunta al termine,” disse All For One. “Non posso negare che abbiate i vostri meriti, non fraintendermi. Il piano di conquista che avete messo insieme, per quanto mediocre, ha dato i suoi frutti. La banda della Shie Hassaikai non esiste più grazie a voi e vi siete conquistati la totale lealtà di Re Destro e del suo esercito, ma ora è giusto che lasciate che i grandi decidano le sorti del mondo.”
Touya inarcò il sopracciglio destro.
“Gli Shigaraki sono solo una delle Dinastie del Drago,” gli ricordò.
“E tu sei qui per rappresentare quella dei Todoroki,” disse All For One. “Con un po’ di fortuna, in Estate, Izuku permetterà ai Bakugou di entrare a far parte della nostra alleanza con un’offerta che non potranno mai rifiutare.”
In un primo momento, Touya rise, divertito.
“I Bakugou che si alleano con voi? Mi spiace rovinare la perfezione della vostra trama, ma se Izuku è vivo, nessuno impedirà a Katsuki Bakugou di combattervi con tutto quello che ha per venirselo a riprendere.”
All For One sorrise, paziente.
“Allora non mi sei stato ad ascoltare, ragazzo.”
“Ho ascoltato benissimo e perché la Dinastia dei Bakugou pieghi la testa dovrebbe essere Izuku stesso a-“
In Estate…
Touya si bloccò, mentre il reale significato della confessione di Lord Hisashi prendeva forma nella sua testa.
Il viso di Tenko si deformò in un sorriso che mai e poi sarebbe appartenuto al giovane Shigaraki.
“Oh… Ora hai capito…”
Izuku aspettava il figlio di Katsuki, un figlio che avrebbe reso la Dinastia degli Shigaraki e dei Bakugou una sola. E per quel bambino non ancora nato alcuni dei guerrieri più potenti sarebbero stati disposti a piegarsi al volere di All For One.
“Così mi offendi, Touya,” disse Lord Hisashi, sarcastico. “È l’annuncio dell’imminente arrivo del mio primo nipote, non dovresti reagire con quella faccia atterrita.”
Il tempo delle parole era finito.
Le fiamme blu avvolsero il braccio destro di Touya e tutti, tranne All For One, si mossero per arrivare al suo fianco.
“Che cosa credi di fare, Principe Nero?” Domandò il mostro, visibilmente annoiato. “Non ero venuto qui con male intenzioni. Al contrario, volevo porgerti la mano da buon amico.”
Tenko è nostro amico!” Esclamò Himiko, con le lacrime agli occhi, per nulla spaventata.
“Quello che dice lei!” Concordò Jin a gran voce. “Assolutamente no, è folle!” Si contraddisse da solo.
“È per Shigaraki che siamo qui,” disse Shuichi.
“La nostra lealtà è per il Principe Tenko e il Principe Touya,” si aggiunse Akihiro. “Mi hanno insegnato a essere un fuorilegge che mantiene la parola data.”
Il mostro li squadrò tutti, uno a uno.
“Ti faccio i miei complimenti, giovane Touya,” disse. “Sei riuscito ad avere i loro cuori, nonostante non t’importi nulla di loro e tu non faccia nulla per nasconderlo.”
“Se sono dei folli non è certo colpa mia,” ribatté Touya e, per tutta risposta, i suoi compagni gli si strinsero ancora di più a lui. “Ma dimmi quanto sei folle tu… Perché sei venuto fino a qui?”
Il sorriso di All For One si fece dolce, quasi paterno.
“In tutti questi anni, la mia proposta non è cambiata, Touya.”
Il Principe Todoroki sorrise.
“E la mia risposta è sempre la stessa.”
Shouto scelse quel momento per varcare la porta della cucina. Aveva un sorriso sulle labbra. Touya lo vide e restò a guardare mentre scompariva e tutti i colori defluivano dal suo volto. Aveva il suo mantello nero appeso al braccio, scivolò a terra.
All For One si accorse del nuovo arrivato una frazione di secondo più tardi.
Un battito di ciglia dopo - Touya non riuscì a vedere un bel niente, né a fare alcunché - il mostro aveva Shouto contro di sé, la mano destra stretta sulla sua gola, con la sola eccezione dell’Indice.
“Questa è una cosa che non avevo previsto,” ammise Lord Hisashi, mentre la stanza diveniva improvvisamente più fredda. “Non fare sciocchezze, mio piccolo Principe,” aggiunse, affondando di più le dita nella gola del fanciullo. “Basta che ti sfiori con questo indice e della tua bella testolina rimarrà solo polvere.”
“Shouto, fa come ti dice,” disse Touya, estinguendo le fiamme blu intorno al suo braccio.
All For One sorrise, estatico.
“Questo sì che è un gran colpo di scena,” commentò.
Touya lo ignorò.
“Shouto, guarda me.”
Suo fratello provò a farlo, ma la stretta del mostro su di lui era tanto stretta da rendergli difficile respirare.
“Sapevo che lo avevi rapito,” disse All For One, tracciando la linea della cicatrice di Shouto con l’indice della mano libera. “Consumato come sei dall’odio e dal desiderio di vendetta, credevo lo avrei trovato più sfregiato di così.” Sollevò lo sguardo. “Ma l’ultima volta che ti ho visto anche tu eri più sfregiato di come sei ora.”
“Le ustioni cambiano col passare degli anni, come qualunque altra parte del corpo,” ribatté Touya, come se stesse parlando con un demente.
“Sì, ma non si riassorbono,” ribatté All For One. “E le tue lo stanno facendo. Non dovresti neanche essere vivo e ora stai guarendo, lentamente.” Gli occhi rossi si posarono sul profilo di Shouto. “A chi dobbiamo un simile miracolo?”
“Sei qui per me, non per lui,” gli ricordò Touya, avvicinandosi.
Sentì i suoi compagni mormorare di rimanere lontano, la mano di Himiko cercò anche di trattenerlo ma non ci riuscì.
“Sì,” confermò All For One. “Ma è così divertente vederti cadere sotto il peso delle tue stesse menzogne.”
Touya fissò lo sguardo negli occhi di Shouto, vi trovò paura ma anche la fiamma luminosa di chi è pronto a combattere. Quanto era coraggioso il suo stupido ragazzino.
“Quali menzogne?” Domandò.
“Mi stai offrendo la possibilità di fare le prove generali prima del grande atto,” spiegò All For One. “Quando Katsuki Bakugou si presenterà al mio cospetto così fiero e tracotante, finirà per fare la tua stessa faccia appena saprà che stringo in pugno non solo il suo amato Izuku, ma anche il loro primo figlio?”
Gli occhi di Shouto divennero enormi a quella rivelazione. Touya scosse appena la testa, come a dirgli di non pensarci, non in quel momento.
“È che cosa stai stringendo nelle mani in quel momento?” Lo provocò Touya, con un sorrisetto. “Assolutamente niente.”
Scandì ogni sillaba con eccessiva cura.
All For One non gli credette.
“Non sei un bugiardo così bravo, Touya,” sibilò, schifosamente vicino all’orecchio di Shouto. “Ma non ti preoccupare, non è colpa tua. Sono sempre gli altri a tradirci. Dici che i tuoi compagni valgono meno di niente per te, eppure ti restano accanto, nonostante tu non faccia mistero di cosa provi per loro.”
“Beh… Siamo pazzi…” Commentò Jin, poi si diede una botta in testa da solo. “Pensa per te!”
“Io voglio bene a Touya!” Disse Himiko, ferma. “Non importa che lui non ne voglia a me!”
Touya non si voltò nemmeno a guardarli.
“Vedi? I nostri atteggiamenti, alle volte, ci tradiscono e finiamo per ricevere da altri ciò che non abbiamo mai chiesto perché, in fondo, non siamo così i cattivi della storia che vorremmo essere.”
Touya fece ancora un passo in avanti.
“Polverizzalo, avanti,” disse, fermo.
“Non sei convincente, Touya,” lo schernì All For One. “È inutile che cerchi di prendere tempo facendo il sostenuto. Guardalo…”
E il Principe Nero lo fece. Vide se stesso riflesso negli occhi di Shouto.
“Stai attento al modo in cui ti guarda,” disse, perfido. “Il tuo fratellino è convinto che tu lo verrai a salvare. E per farlo devi solo appoggiare un ginocchio a terra e chinare la testa di fronte a me.”
Shouto si divincolò nella stretta.
“Touya, non farlo!”
“Buono! Stai buono!”
All For One lo strinse con più forza e Touya sentì le ossa scricchiolare senza rompersi. Shouto gettò la testa all’indietro, contro la spalla del suo assalitore, aggrappandosi all’aria come poteva.
“Voi Todoroki non riuscite proprio a non essere ostinati, eh?” Lord Hisashi stava perdendo la pazienza. “Non sarebbe così anticlimatico se finissi per uccidere il capolavoro di Enji Todoroki spezzandogli il collo? No, facciamo le cose come si deve, ci tengo all’estetica.” Abbassò l’indice, ancora un poco e avrebbe toccato la gola di Shouto.
Istintivamente, Touya si mise in avanti.
E All For One indietreggiò, poi rise.
“Vogliamo giocare a rincorrerci fino a che tuo fratello non muore, Principe Nero?”
Pensa, si ripeteva Touya nella sua testa. Pensa. Ci deve essere una via di fuga, trova una via di fuga.
Aveva combattuto al fianco di Tenko Himura per metà della sua vita, se qualcuno poteva individuare il suo punto debole, quello era lui.
“Avevi giurato che non lo avresti più lasciato vincere, Tenko!” Esclamò Touya, rivolgendosi al vero proprietario di quel corpo.
All For One alzò gli occhi al cielo.
“Mi aspettavo qualcosa di meno banale da te, Tou-“
“Entrambi gli abbiamo detto no, perché sia io che te siamo più forti di lui, Tenko!”
All For One indietreggiò di nuovo e per poco non inciampò, come se non fosse padrone delle proprie gambe. C’era riuscito, Touya aveva trovato uno spiraglio.
“Vuoi che si prenda Izuku?” Insistette. “Vuoi che si prenda suo figlio? Vuoi che-“
Un ruggito lo zittì, poi la terra cominciò a tremare sotto di loro.
“Che succede adesso?” Si domandò Atsuhiro, afferrando Jin e Himiko per tirarli verso la parete.
Nella confusione, Shouto finì a terra, sollevato sui gomiti. Il pavimento sotto di lui si stava rompendo, come un lago ghiacciato nei primi giorni di primavera. Due mani forti lo afferrarono per le braccia e lo sollevarono. D’istinto, fece appello ai suoi poteri ma i suoi occhi incrociarono quelli turchesi di Touya, prima che potesse usarli.
“Muoviti, Shouto! Muoviti!”
Suo fratello lo trascinò via di peso e, un istante dopo, il pavimento crollò. Un Drago bianco e uno nero ne uscirono a fauci sguainate, riducendo la cucina a un ammasso di macerie. Ben presto, il soffitto fece la stessa fine e le due bestie presero a volare tra le torri del castello, indisturbate.
Quando riuscirono di nuovo a sollevarsi in piedi, i due Principi si ritrovarono l’uno al fianco dell’altro. Scosso, Shouto guardò suo fratello senza riuscire a dire una parola. Touya fu più pragmatico ma meno gentile: gli aprì il colletto della camicia con tanta forza che i primi due bottoni saltarono ed esaminò da vicino la pelle pallida. La stretta delle dita di All For One aveva lasciato dei segni ben visibile, che il tempo avrebbe reso più scuri prima che potessero sparire del tutto. Era davvero poca cosa rispetto a quello che sarebbe potuto accadere.
Touya non smise di toccarlo, ma rimase in silenzio e Shouto fece lo stesso. Si guardarono e basta, concedendo a loro stessi di riprendere il respiro che avevano trattenuto insieme.
“Tutti vivi?” Chiese la voce di Shuichi dal basso.
Entrambi i Todoroki si affacciarono sulla voragine che si era aperta in mezzo alla cucina, che offriva una perfetta visuale dall’alto del Nido dei Draghi.
“Felice di vedere che il Principe sta bene,” aggiunse Shuichi.
Touya ridacchiò perché ovviamente non era a lui che si stava riferendo.
“Sei strisciato di sotto per agitare i Draghi, mentre lo tenevo occupato a parlare, bravo,” commentò Touya, con una lieve nota di sarcasmo. “Sei proprio una Lucertola.”
Shuichi non si fece scrupoli a rivolgergli il dito medio.
“Non c’è di che, Vostra Altezza!” Esclamò. “Gli altri tre?”
“Siamo qui!”
Touya sollevò lo sguardo: erano dalla parte opposta della stanza, vicino al caminetto, Himiko era completamente illesa, mentre gli altri due si stavano liberando di alcuni detriti caduti loro addosso. Pochi minuti e sarebbero stati tutti sulle loro gambe.
“Dov’è finito Lord Shigaraki?” Domandò Shouto.
Touya si guardò intorno, mentre l’aria fredda dell’inverno gli tirava indietro i capelli. Non fu sorpreso di non trovarne traccia né s’illuse che uno dei Draghi lo avesse divorato per sbaglio.
A proposito dei…
Touya sollevò lo sguardo e non trattenne un sospiro esasperato nel vedere i due Draghi che giocavano tra le torri, provocando qualche danno architettonico nel processo.
“Shouto, dobbiamo andare a recuperare-“
Suo fratello lo zittì, afferrandogli il polso.
“Izuku è in pericolo!” Esclamò. “Izuku è… Se Izuku aspetta il figlio di Katsuki ed è da solo…”
“Sì, Shouto, sei molto coraggioso, ma vedi lassù?” Touya gli afferrò il mento, costringendolo a porre attenzione al problema che avevano alla mano. Ci sarebbe stato il tempo di parlare di quanto era successo, tranne che di come il cuore di Touya si fosse fermato una dozzina di volte per tutto il tempo che quel mostro aveva . E, sì, poi avrebbero parlato di Tenko, di Izuku e di come salvarli.
“Se non andiamo a domare quei Draghi, oltre a una cucina perderemo anche il resto del castello,” disse il Principe Nero.
Nel sole di quel mattino d’inverno, gli occhi di Shouto splendevano come due diamanti e i capelli bicolori, resi ribelli dal vento, facevano venire voglia di accarezzarli e scoprire se erano morbidi come sembravano. Sì, lo erano. Touya lo sapeva già. Ma saperlo non gli toglieva la voglia di toccarli ancora.
“Andiamo a riprenderci i nostri Draghi, poi penseremo al resto.”
Shouto gli sorrise e quel sorriso oscurò il sole.
“Sì, andiamo.”
CowT13. Week 4.
M3: Prima volta

0.4


Poco meno di vent’anni prima dello scoppio della Grande Guerra, l’Europa si vide costretta ad affrontare una minaccia invisibile a cui nessuno riuscì a dare un nome per molto tempo. I bambini sparivano e non nel modo saltuario e circoscritto in cui simili disgrazie erano solite avvenire. Il target era molto preciso: le vittime erano tutte figli di famiglie conosciute in Europa in quanto possessori di abilità da generazioni. Tra queste vi erano anche quelle che lavoravano sotto il diretto ordine della Torre dell’Orologio. Fu un’emergenza internazionale che, per motivi di sicurezza globale, non raggiunse mai i canali ufficiali delle notizie.
I servizi segreti di tutti gli stati vennero schierati per trovare il colpevole di tali rapimenti, scoprire le ragioni che vi erano dietro e riportare a casa i bambini vivi. Fu l’era delle spie, delle guerre silenziose, dei segreti che nessuno avrebbe mai voluto rivelare.
Ci volle più di un decennio perché l’Europa trovasse un nome: Mephistopheles.[1]
Di questo individuo non si seppe mai nulla con esattezza, nemmeno se fosse uomo o donna. Fu l’estensione della sua Organizzazione a spaventare la Torre dell’Orologio stessa: aveva risorse in ogni stato, talpe dove era più comodo posizionarle e un talento mai visto prima nel muoversi dell’ombra.
Attraverso un’azione militare mandata avanti dall’allora Comandante Jünger, il suo quartier centrale principale - un orfanotrofio in mezzo al nulla, nel nord-est Europa - venne preso d’assedio e conquistato. Lì trovarono gran parte dei bambini scomparsi - non tutti vivi o abbastanza presenti a loro stessi da pensare che ci fosse possibilità di salvezza per loro. Dopo quel colpo, Mephistopheles scomparve nel nulla.
Una delle vittime tratte in salvo, Johann Goethe, considerato primo testimone del caso per via della sua vicinanza al carnefice, non fu in grado di fornire informazioni precise riguardo un eventuale piano di fuga di Mephistopheles. Pur non conoscendo con esattezza la vastità delle aree d’influenza del proprio secondino, non ebbe dubbi nell’affermare che era lungi dall’essere sconfitto, che esistevano altre branche dell'Organizzazione nel resto del mondo e che sarebbe stato impossibile sopprimerle tutte.
Il secondo testimone, Victor Hugo, recuperato in stato quasi catatonico, non fu in grado di dire nulla di comprensibile. Nella sala degli interrogatori, pianse a basta.
Quando arrivò il suo turno, William Shakespeare disse poche, inquietanti parole: “l’Inferno è vuoto. E tutti i diavoli sono qui.” [2]
Nel periodo immediatamente successivo a una tale tragedia, in Europa cominciarono a sbocciare i primi fiori di una nuova generazione di possessori di abilità con i mezzi necessari per far conoscere se stessi nell’alta società.
Johann Goethe fu solo il primo, forse il più ribelle dei tanti. Le dorate proposte del Governo Tedesco non servirono mai a niente - nemmeno quelle fatte dal Comandante Jünger in persona, suo salvatore. Appena adolescente, si ritirò nelle proprietà della sua famiglia e si riscoprì poeta. Affidò alla parola scritta tutto ciò che avrebbe urlato al mondo, senza preoccuparsi delle conseguenze. La sua condotta non fu mai scandalosa nel modo in cui lo era quella dei suoi coetanei più disinibiti. Johann aveva una mente sveglia e gli era impossibile non dargli voce, anche quando rischiava di essere biasimato per le proprie idee. Era un tipo vivace, ma solitario. Sì, era un falso estroverso che si sentiva a suo agio solo con un pugno di persone, per le quali sarebbe stato disposto a dare la vita.
Il suo amico William Shakespeare assomigliava più a un giovane della propria estrazione sociale. Intellettuale, certo. Donnaiolo, perché no? Una volta uscita dalla fornace dell’inferno in cui Mephistopheles lo aveva forgiato, La Torre dell’Orologio lo aveva accolto a braccia aperte. Li faceva pentire di quella scelta nove giorni su dieci. Poi arrivava quel decimo giorno in cui, come per miracolo, William si dimostrava indispensabile in una situazione di emergenza. E, niente, a Londra erano costretti a dargli vitto e alloggio, chiudendo un occhio su tutto il resto.
Victor Hugo era l’immagine del giovane integerrimo. Fin dal suo salvataggio, il Governo Francese lo aveva coccolato affinché servisse il popolo con la propria abilità. Troppo gentile per il suo bene e poco incline a riconoscere in se stesso un qualche valore, Victor aveva accettato, tentato dal fatto di poter dare uno scopo alla propria esistenza salvando le persone.
In questa Europa piena di speranze e giovani fiori sul punto di sbocciare, Mori Rintarou arrivò senza preavviso, attirando su di sé l’attenzione di un intero continente. E avere al proprio fianco l'irraggiungibile Johann Goethe non fece che aumentare il volume delle voci sul suo conto.
Fu proprio questo a spingere uno dei personaggi più controversi di quella generazione di possessori di abilità ad avvicinarlo.




Per quella notte Lord Byron aveva pensato a tutto un altro tipo di divertimenti.
“Prima che il nostro tempo si esaurisca, una festa in maschera è quantomeno d’obbligo!” Aveva esclamato un paio di giorni prima.
In molti avevano esultato. Rintarou era rimasto composto, al fianco di Johann, chiedendosi come si potesse organizzare un evento del genere in meno di quarantotto ore, ma se c’era una cosa che George Gordon Byron gli aveva insegnato era che i soldi non erano solo un mezzo potente per gestire gli equilibri del potere, ma anche per concretizzare i più futili capricci.
Ed eccoli lì, in quella nottata di neve nel bel mezzo del nulla, vestiti come se i fasti dell’Impero di Napoleone fossero cosa loro. E Rintarou apprezzava l’estetica, davvero. Gli piaceva il completo di velluto viola che Johann aveva scelto per lui - perché il Principe della Port Mafia non sarebbe mai uscito dalla sua camera per tirarsi i capelli con gli altri mocciosi viziati che volevano essere i pavoni della scena - era una pausa elegante e goliardica dal nero che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Nulla di più e nulla di meno.
Rintarou e Johann avevano ballato insieme fino a tarda sera, poi Hugo e Shakespeare avevano preteso la partecipazione del loro amico a una conversazione che ruotava intorno alla minaccia di una guerra contro non si sapeva né cosa né chi. Pur amando i dialoghi impegnati, Rintarou aveva preferito allontanarsi e rifugiarsi nella stanza della musica. Fu felice di non trovare nessuno impegnato a fornicare sul pianoforte o si sarebbe sentito moralmente costretto a dargli fuoco.
Si sedette sullo sgabello imbottito, accompagnato solo dai raggi argentei della luna.
Rintarou prese un respiro profondo, con le dita sospese sopra le chiavi nere e bianche. Si godette il silenzio per qualche respiro. Era così difficile avere del tempo per sé in quella villa e, sebbene fosse stato il primo a pensare che sarebbe stato interessante conoscere la giovane élite fuori dagli schemi inibitori dell’etichetta, Rintarou doveva riconoscere i limiti della sua educazione. Era spregiudicato, sì, era innegabile, ma i suoi natali gli imponevano un certo pudore. Accoppiarsi come animali dove capitava e con meno lucidità di un ubriaco per strada gli suscitava un certo ribrezzo. Non era bigotto, per carità, ma sua madre insegnava alle sue allieve come rendere il piacere un'arte e non avrebbe accettato come clienti nessuno dei bifolchi che si atteggiavano da grandi amanti in quei salotti. Byron per primo.
Rintarou si aggiustò un ciuffo di capelli corvini dietro l’orecchio.
In assenza del suo poeta, quel pianoforte sapeva essere un perfetto compagno.
Uno di cui Johann non sarebbe stato geloso.
Cominciò con Für Elise, semplice, rilassante, portatrice di bei ricordi e subito sentì il petto farsi più leggero. Fu un sollievo breve.
Non appena Rintarou sollevò le mani dalle chiavi del pianoforte, la stanza semibuia venne riempita dal rumore di un applauso.
Preso alla sprovvista, Rintarou balzò in piedi.
“Oh, scusami…” Disse l’uomo che era entrato senza farsi udire. “Non volevo spaventarti.”
Ma Rintarou non era un ingenuo.
“Di certo non ti sei annunciato in alcun modo,” disse, cortese ma con una lieve sfumatura velenosa. Non aveva certo paura di essere avvicinato da uno dei rampolli dell’aristocrazia europea, ma quando capitava, a meno che non si trattasse di un membro della cerchia di Johann, non erano mai molto rispettosi nei suoi confronti.
“Hai ragione…”
Lo sconosciuto si fece avanti, lasciandosi investire dalla luce della luna. Era evidentemente giovane, con gli occhi piccoli e scuri, ma penetranti come degli spilli.
“Mori Rintarou, giusto?”
Rintarou non si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo a quella domanda.
“Se avessi una moneta, in qualsiasi valuta, per ogni volta che si sono approcciati a me con questa domanda-“
“Non ti servirebbe, sei già ricco, no?” Il nuovo arrivato si prese la libertà di farsi più vicino. “Il Principe della Port Mafia, giusto?”
Strano. Si era aspettato di essere definito il Fiore d’Oriente di Johann Goethe per l’ennesima volta.
“Chi sei?” Domandò Rintarou.
Il giovane fece un inchino esagerato, come un attore su di un palcoscenico.
“Il Marchese De Sade, monsieur,” si presentò. “O, se preferite, Louis Sade.”
Rintarou non rispose immediatamente, ma tese ogni muscolo del corpo, pronto a difendersi se si fosse rivelato necessario.
“Oh, bene…” Commentò De Sade, raddrizzando la schiena. “Vedo che la mia fama mi precede. Johann vi ha per caso parlato di me?”
Ha evitato accuratamente di parlare di te.
“No,” rispose Rintarou. “Ma il tuo nome è mormorato da molti in Europa.”
De Sade sospirò.
“La gente guarda con sospetto chiunque sia baciato dalla fortuna, penso sarai d’accordo,” disse, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni. “Riportare in auge il nome di una famiglia caduta in disgrazia non è un’impresa per tutti, ma è il maggiore dei miei vanti.”
Rintarou stirò le labbra in un sorriso che non raggiunse i suoi occhi.
“Siete il ritratto della modestia,” lo canzonò. “Da quanto sei qui? Non ci hanno mai presentati…”
“Sono qui da settimane,” confessò il Marchese. “Solo Byron sa chi sono, agli altri mi sono presentato con un nome fittizio.”
“Per quale ragione?”
“La reazione che hai avuto nell’udire il mio nome è una ragione più che sufficiente.”
“Non ricordo nemmeno di averti mai incrociato e questa villa è grande, ma non così grande.”
“Sono bravo a rendermi invisibile.” Ogni parola era un passo. Ormai il Marchese poteva quasi toccare il pianoforte. “Mi piace osservare…”
Aveva fascino, Rintarou doveva ammetterlo ma, al contempo, aveva qualcosa di viscido nel suo atteggiamento che gli faceva accapponare la pelle.
“E quale sarebbe la ragione che ti ha spinto a svelare il tuo segreto a me?” Domandò. “Hai condannato definitivamente la tua copertura così.”
Johann sarebbe venuto a sapere di lui non appena avrebbe lasciato quella stanza ed era certo che anche Shakespeare e Hugo avrebbero ritenuto quell’informazione interessante.
“Perché tu sei l’unica creatura qui a meritare la mia attenzione,” rispose il Marchese De Sade.
Rintarou inarcò le sopracciglia, per nulla colpito.
“Siete francese, vero? Voi francesi avete un problema con le lusinghe gratuite…”
“Nulla di gratuito.” De Sade si sedette sullo sgabello lasciato libero dal giovane giapponese. “Suonate incantevole.”
“Molti qui lo sanno fare.”
“Imitazioni. Pappagalli che ripetono a comando, nulla di più.”
“Non sono un’artista, Marchese,” tagliò corto Rintarou. “Amo l’arte e cercò di avvicinarmi a essa come posso, tutto qui. Posso sapere il motivo che vi ha spinto a seguirmi? Perché se vi piace osservare è ovvio che siete rimasto a guardarmi tutta la sera, aspettando di cogliermi da solo.”
Il Marchese suonò un’ottava, senza mai togliergli gli occhi di dosso.
“Lo sapevo che non eri come loro.”
Rintarou si stava esasperando.
“Senti-“
“Lo pensi anche tu, no?” De Sade accarezzò le chiavi bianche con la punta delle dita. “Quando sei arrivato, hai provato a guardarti intorno ma, no, non hai trovato nessuno degno di nota. Stai sempre accanto a Johann perché è il solo che ritieni al tuo livello e tolleri la presenza dei suoi amici perché sei tanto intelligente da capire che per lui sono importanti, ma è un genere di affetto che non sentì.”
Rintarou lo scrutò, gelido e si guardò bene dall’aprile bocca.
“È la prima volta, vero?” Domandò il Marchese.
“Di cosa?”
“Che t’innamori…”
Per qualche strana ragione, quella parola uscita dalla bocca di quell’uomo suonò a Rintarou come una blasfemia. Decise di stare al gioco, tanto per rassicurare l’altro che non c’erano speranze che avesse il coltello dalla parte del manico contro di lui.
“E il Marchese come sarebbe arrivato a una simile conclusione?” Domandò, incrociando le braccia sopra il pianoforte.
“Basta guardarvi,” rispose De Sade puntando sgraziatamente il gomito contro i tasti bianchi, provocando un suono fastidioso. “È la prima volta anche per lui, sai? Questo non l’ho intuito, lo so per certo.”
“Conosci Johann?”
“Non è importante…” Il Marchese appoggiò il viso al pugno chiuso. “Perché quando lo osservo mentre è con te, potrebbe tranquillamente essere un estraneo. Lui ti guarda e vede tutte le stelle dell’universo nei tuoi occhi. È l’amore di cui cantano i poeti come lui, deve averne scritto centinaia senza conoscerlo… Ed ecco che arrivi tu. In Europa dicono le cose più volgari su di te.”
Era brutale, ma sincero.
“Eppure col mio nome si riempiono la bocca,” ribatté Rintarou, orgoglioso.
“È anche la prima volta che uno straniero riesce ad attirare su di sé tutti gli sguardi dell’Antico Continente. Hai un talento, Mori Rintarou.”
Il Marchese De Sade si alzò in piedi.
Rintarou rimase dov’era, i pugni stretti.
“Se tutti quegli idioti si prendessero un momento per guardarvi, come faccio io, sentirebbero quanto è profondo quello che vi lega. Siete il ritratto del primo amore, quello tanto intenso da rendere folli, il solo che pensi al concetto di per sempre e lo creda reale.”
Rintarou non sapeva dove l’altro voleva arrivare. Quella conversazione non aveva avuto senso fin dal principio e peggiorava di parola in parola.
Il Marchese fece volteggiare la mano accanto alla sua testa, come se fosse indeciso se toccarlo o meno. Se lo avesse fatto, si sarebbe ritrovato senza un braccio.
“Mi chiedo quanto potente potrebbe essere il dolore nato dalla fine di un amore così…”
Il Marchese De Sade prese tra le dita il nastro viola che legava i capelli di Rintarou e lo sciolse. Il giovane di Yokohama si fece indietro e le ciocche corvine gli ricaddero davanti agli occhi, mentre le sue iridi si accendevano di un sinistro colore violaceo.
Un distintivo rumore di vetri in frantumi interruppe la scena.
Rintarou sussultò e sentì la forza del suo potere venire meno. Si voltò.
Johann era sulla porta, il braccio teso in avanti e l’espressione furente. Vi erano dei frammenti per terra, lì, dove il bicchiere aveva colpito il pianoforte, andando in mille pezzi.
“Johann!” Chiamò il Marchese, allontanandosi subito dal giapponese. “Che piacere rive-“
“Sotto quale sasso ti eri nascosto, maledetta serpe?” Domandò Johann, trattenendo a stento l’ira.
Rintarou decise di rimanere dov’era. Aveva molte domande, ma non era quello il luogo e il momento giusto a cui dare loro risposta.
“Colpa tua e dei nostri amici non avermi notato,” ribatté De Sade. “Poco male, ho avuto una piacevole conversazione con il tuo Fiore D’Oriente e-“
“Ti voglio fuori da questa casa entro stanotte.”
Il Marchese rise, deridendolo.
“Il padrone di casa sa benissimo che-“
“Il padrone di casa non si può permettere di andare contro la Torre dell’Orologio. Pur averti invitato per creare scandalo, tipico di Byron. Ciò nonostante, non può gestire un’accusa di favoreggiamento da parte mia.”
“Favoreggiamento di cosa, Johann.” Il Marchese aprì le braccia. “Tutti parlano di me e nessuno ha una prova che mi possa rovinare.”
“Solo fino a che impongo a me stesso un certo obbligo morale,” disse Johann, gelido.
Da dove si trovava, Rintarou non poteva guardare in faccia Louis Sade, ms qualcosa gli diceva che non si divertiva più.
“E tu che fingi ancora di non essere un guerriero, indossando la maschera del poeta,” disse il francese. “È stato un piacere, Rintarou,” aggiunse, senza voltarsi a guardare il diretto interessato negli occhi.
“Ci rivedremo presto.”
Non era un saluto, ma una minaccia.


XI


-15 anni dopo-



“Vieni con me, Osamu.” Elise gli porse la mano. Un gesto stupido a cui Dazai non diede seguito.
“Ops!” Esclamò lei, ridacchiando. “Hai ragione, non dobbiamo toccarci.”
Il ragazzino storse la bocca in una smorfia e fu tentato di farle il verso, ma si trattenne. Era un gioco, una sorta di telefono senza fili ma in cui non era ammesso commettere errori. Mori, senza essere presente, metteva alla prova il suo giovane assistente - a Dazai quell’etichetta proprio non andava giù - tramite Elise.
Porgergli la mano era stata la prima prova, forse per vedere se il quattordicenne fosse attento.
“Tra noi due, l’idiota non sono io,” borbottò, seguendo la personificazione dell’abilità di Mori su per le scale di marmo.
Elise continuava a parlargli ma il ragazzino non gli prevista alcuna attenzione. I suoi occhi scuri si posavano su ogni superficie della villa, giudicando aspramente lo stato di semiabbandono in cui versava. Mori doveva ricordare quel luogo in modo molto diverso. Da parte sua, Dazai non poteva negare che l’atmosfera gotica che aleggiava per tutto l’edificio fosse affascinante, ma se ne sarebbe stancato presto.
Non era di facili entusiasmi, a differenza dell’idiota che parlava col padrone di casa al piano di sotto e la noia era la sua migliore amica.
Dazai l’avrebbe volentieri sostituita con la morte, ma la fortuna non voleva proprio assisterlo in quel senso. Appoggiò una mano sul corrimano di marmo della scale. Rimase presto deluso dallo scoprire che era polveroso, certo, ma non di sicuro pericolante. Non poteva volare accidentalmente giù dalle scale e spaccarsi la testa in due. Non ci avrebbe creduto nessuno.
Un paio di gradini sopra di lui, Elise si fermò. “Pensa se, invece di morire, finissi per ferirti in modo da essere costretto a letto,” disse, forse intuendo i suoi pensieri. “Immagina come sarebbe dover dipendere da Rintarou in tutto e per tutto, magari per sempre. Se ti lesionassi la colonna vertebrale in modo grave, non guariresti. Puoi immaginare un’intera vita così?”
La bambina non si voltò, ma Dazai poteva intuire il sorriso sinistro che doveva avere in viso dal suono della sua voce. Sbuffò. “Procediamo?” Aveva freddo, tremava e voleva farsi quel maledetto bagno caldo.
Elise riprese a salire le scale, sempre saltellando. Dazai lasciò da una parte i suoi intenti suicidi per concentrarsi su un altro tipo di violenza: se avesse fatto del male a quella bambina, Mori avrebbe provato dolore?
Si diede preso dello stupida: il solo toccarla sarebbe bastato a farla scomparire.
Non poteva sfogare il suo malumore su di lei. Peccato.
Arrivati al secondo piano dell’abitazione, la mente di Dazai stava ancora cercando un modo per scacciare la noia. Quanto lo disturbava rendersi conto che la presenza di Mori, per quanto irritante, era un buon diversivo per lui. Fin tanto che il Boss della Port Mafia gli gravitava intorno riusciva quasi a dimenticare il suo desiderio di morire, in favore di quello di uccidere.
Dazai era certo che Mori lo facesse a posta: essere insopportabile era l’unico modo in cui riusciva a esistere. Questo portava la mente del quattordicenne a Johann Goethe, che era rimasto al fianco di Rintarou per ben cinque anni. No, non erano una vita intera ma era comunque troppo.
Dazai aveva perso il conto dei mesi che erano trascorsi da quando Soseki lo aveva lasciato nel mani di quel medico da strapazzo, ma era certo di essere invecchiato di un decennio nel mentre.
“Osamu, stai attento a non perderti,” disse Elise, premurosa.
Vi erano due corridoi, uno a destra e uno a sinistra. Un po’ gli ricordava la vecchia villa in cui lui e Mori si erano rifugiati dopo l’attentato alla vita di quest’ultimo, ma nemmeno lì aveva trovato tanta polvere e tanto buio.
Dazai cominciò a chiedersi se il bagno in cui avrebbe dovuto lavarsi esistesse davvero o fosse solo un’altra stanza lasciata alla rovina, in balia del tempo e della mancata manutenzione.
“Vieni, da questa parte.” Elise scelse il corridoio di sinistra.
Il ragazzino lo seguì senza fare domande, tenendo gli occhi fissi sul pavimento: c’era poca luca e nessuno gli assicurava che il pavimento fosse intatto. I tappeti che lo ricoprivano emettevano un odore stantio e anche se vi camminava sopra con le scarpe, gli faceva schifo.
Si chiese in che stato avrebbe trovato le lenzuola del proprio letto. Sempre ammesso che vi fosse ancora un letto lì e non un ammasso di muffa.
Elise smise di saltellare a metà del corridoio. “Siamo arrivati!” Esclamò, felice. La porta che scelse non aveva nulla di diverso da tutte le altre. La spalancò e Dazai ebbe la prima bella sorpresa di tutta la giornata.
“Oh, il padrone di casa ci ha trattato davvero bene,” commentò Elise, soddisfatta.
Dazai entrò dopo di lei e quel che vide gli alleggerì il petto: i pavimenti erano lucidi, liberi da qualsiasi tappeto in fase di decomposizione; il letto era un vero letto, con una coperta calda e delle lenzuola fresche di bucato e, ultima ma non ultimo, vi era un allegro fuoco a scoppiettare nel caminetto.
Il ragazzino vi s’inginocchiò davanti senza troppe cerimonie. Non si rese conto di quanto era gelato prima di sentire le guance farsi calde troppo velocemente.
“Così non va bene,” disse Elise, richiudendo la porta. “Devi riscaldarti gradualmente, altrimenti il cuore si sforza troppo e rischi di collassare. Non sei esattamente un tipo robusto, sai?”
No, era pelle e ossa e ne era perfettamente consapevole. Ciò non significava che volesse sentirselo dire da lei. Al contrario, voleva solo che stesse zitta.
Elise non si preoccupò del suo silenzio. Passò oltre, esplorando la camera nei dettagli. Aprì l’armadio e sorrise soddisfatta. “I nostri bagagli sono già stati disfatti.”
“Che velocità,” commentò Dazai, senza nessun entusiasmo.
Se possibile, tremava ancor di più.
Quel piccolo Demone dai capelli biondi aveva ragione: stava per collassare, forse gli era anche venuta la febbre. Tutto perché si era imputato a non voler ascoltare Mori. Se si fosse preso un’influenza, avrebbe dovuto sorbirsi lamentele inutili per un’eternità.
Sbuffò, prendendosela con se stesso.
“Osamu, dai, vieni a farti un bagno,” lo invitò Elise, col tono comprensivo di chi percepisce lo stato miserabile di qualcun altro.
Dazai sapeva che non era lei.
Lei, in quanto essere, non era nemmeno reale.
Era Mori a parlargli, a prendersi cura di lui sotto mentite spoglie.
E Dazai non lo sopportava.
“Te lo preparo io!” Si offrì Elise, con entusiasmo, trotterellando verso la porta del bagno.
Dazai si voltò, il viso gli andava a fuoco. “Faccio da solo.”
Per la prima volta da quanto erano rimasti soli, gli occhi azzurri della bambina incontrarono quelli scuri dell’adolescente. Non c’era niente di Mori sul viso di Elise, eppure Dazai la vide assumere la stessa espressione con cui il Boss della Port Mafia era solito guardarlo quando faceva i capricci. “Sei davvero capace di fare qualcosa da solo?” Lo derise, velenosa.
Dazai la fissò, rancoroso. Anche se gli girava la testa e sentiva il corpo pesante, si costrinse a restare in piedi e a varcare la porta del bagno. Anche lì la situazione non era male: lo stile era un po’ vintage, con la vasca al centro della stanza, ma ogni superficie era tirata a lucido.
Si sorresse contro lo stipite della porta. “Quel maggiordomo vecchio di secoli sembra avere più vitalità di me.” Faceva fatica a credere che fosse riuscito a rendere queste due stanza vivibili, mentre il resto della casa cadeva a pezzi.
Alle sue spalle, Elise rise. “Non ci vuole molto per essere più vitali di te, Osamu.”
Con una smorfia, Dazai fu costretto a darle ragione ma lo fece in silenzio. Si trascinò fino alla vasca da bagno. Era una di quelle con un rubinetto per l’acqua calda e un’altra per quella fredda e dovette star lì a regolare i due flussi per ottenere la temperatura desiderata.
Una volta soddisfatto, Dazai si lasciò scivolare sul pavimento, con la schiena appoggiata al bordo di ceramica bianca. Elise lo guardava dalla porta, con lo sguardo di chi si aspetta una richiesta d’aiuto da un momento all’altro.
Piuttosto la morte, pensò il quattordicenne. Niente di nuovo, era la sua soluzione ogni volta che si ritrovava nella posizione di soccombere o fare qualcosa che non voleva.
Elise sospirò, rassegnata come una donna di quarant’anni. “Ti prendo dei vestiti puliti.”
“Faccio da solo,” ribatté Dazai, ma lei aveva già aperto l’armadio. La vide scegliere un completo a tre pezzi completamente nero, camicia compresa. Doveva averlo comprato Mori di sua iniziativa, perché il ragazzino non ricordava di averlo mai visto.
“Sarà la prima cena a cui presenzierai come Principe della Port Mafia,” spiegò Elise.
“Principe di che cosa?”
“Rintarou ci tiene che tu sia elegante.”
Rintarou insiste nel ricordare a tutti che non sono un signorino, poi crede di poter decidere come vestirmi.” Dazai si alzò in piedi e si accorse che la vasca era piena quanto bastava. Chiuse entrambi i rubinetti. “Se vuole usare la sua abilità per crearsi una bambola viva, faccia pure,” aggiunse. “Io non starò allo stesso gioco.”
Si tolse i vestiti pur sapendo che Elise - e, di conseguenza, anche Mori - lo stava guardando dalla porta. Più tardi, avrebbe potuto usare quel breve episodio per dare al Boss del maniaco ancora una volta, tanto per fargli saltare i nervi. La verità era un’altra: dopo che Mori gli aveva raccontato di come si era ritrovato prigioniero di un corpo non suo, Dazai non sentiva più la necessità di nascondersi. Ovviamente, questo allo stronzo idiota non lo avrebbe mai detto. Ci mancava solo che Mori s’illudesse di avere la sua fiducia e si montasse la testa.
Dazai s’immerse nell’acqua calda col più profondo dei sospiri. Appoggiò la nuca al bordo freddo e chiuse gli occhi. Era stanco e forse stava soffrendo i primi effetti del jet-lag, oltre ad avere il principio di un malore che poteva essere un comune raffreddore o un vero e proprio attacco di febbre.
Poco importava. Mori si sarebbe arrabbiato con lui in ogni caso, ormai era certo e non aveva vie di fuga.
“Osamu…”
Il quattordicenne aprì gli occhi e quando vide la bambina bionda aggrappata al bordo della vasca, sobbalzò con tanta violenza che dell’acqua sì rovesciò sul pavimento. Non l’aveva sentita avvicinarsi.
“Non farlo mai più,” sibilò, rabbioso.
Elise non smise di sorridere. “Non ti piace essere preso di sorpresa.”
“C‘è qualcuno a cui piace?”
“Le sorprese, per loro definizione, dovrebbero rendere felici le persone.”
Dazai alzò gli occhi al cielo: era il genere di discorso stupido che avrebbe fatto Mori per parlare di qualcosa senza farlo davvero. “Il Boss è stato colpito alla schiena molte volte.” Ricordò la notte dell’omicidio del vecchio folle, quando il medico si era liberato dei vestiti sporchi di sangue e Dazai non era riuscito a tenere il conto di tutte le cicatrici sulla sua pelle. Non che lui versasse in uno stato migliore. “Dubito che quelle sorprese lo abbiano reso felice,” aggiunse, sarcastico.
“Rintarou era un soldato,” ribatté Elise. “Non tutti i segni che ha addosso hanno alle spalle una storia di tradimento. La maggior parte sono souvenir della Grande Guerra.”
“Giusto, la Grande Guerra…” Dazai continuava a dimenticare che il giovane Mori Rintarou era morto in Germania, durante quel conflitto mondiale. Non poteva fare a meno di pensare che suonava terribilmente tragico, nel senso più poetico del termine. Mori Rintarou, per come lo raccontava la sua versione trentaduenne, sembrava più il personaggio di un romanzo che una persona vera. Nato Principe della Mafia, fuggito in Europa a quindici col suo primo amore, divenuto soldato proprio per restare con l’uomo che gli aveva rubato il cuore, un figlio perso - anche se Fletcher aveva parlato di una bambina - l’amante per cui aveva dato tutto era caduto in battaglia…
“Che melodramma!” Commentò aspramente Dazai, come se si trattasse di un lavoro di narrativa scadente e non della tragedia personale di una persona.
Elise lo scrutò, curiosa. “A che cosa ti riferisci?”
Gli occhi scuri del ragazzino continuarono a fissare il soffitto del bagno. “Elise…” Mormorò.
“Sì, sono qui,” rispose la bambina, stupidamente.
Dazai drizzò il collo e rispose allo sguardo di quegli occhi azzurri. Quando parlò, non fu a lei che si rivolse. “Era il nome che volevi dare a tua figlia, vero?”
Elise continuò a sorridergli, come se non avesse compreso le sue parole.
“Mi hai mentito a Yokohama,” concluse il quattordicenne. “Il Generale era certo dell’esistenza di un figlio, tu l’hai messo a tacere prima che potesse dirlo chiaramente. Subito dopo mi hai raccontato quella balla sull’aborto spontaneo, ma il vecchio Fletcher era piuttosto certo dell’esistenza di tua figlia.”
La bambina continuò a guardarlo serena, muta, come una bambola rotta.
“Un Dirigente della Port Mafia e il maggiordomo di un Lord inglese,” proseguì Dazai. “Non si sono mai incontrati e ti hanno messo in difficoltà con la medesima storia, pochi dettagli a parte. Non hai perso nessun bambino. Tua figlia è nata ed è morta.”
Elise sparì in un veloce bagliore viola. Dazai sollevò gli occhi scuri e trovò quelli di Mori che lo fissavano dalla porta.
“Bravo,” il Boss della Port Mafia lo guardava soddisfatto, ma anche stanco. “Sei riuscito a mettere insieme i pezzi di cui ti stavo privando e hai visto la verità oltre le mie bugie. I miei complimenti, Dazai.”
“Non sei arrabbiato.” Dazai non nascose la sorpresa.
Mori scrollò le spalle. “Perché dovrei esserlo? Se sei bravo, sei bravo e il mio obiettivo è che tu divenga il migliore, quindi… Posso avvicinarmi?”
L’acqua copriva già tutto quello che c’era da vedere, ma Dazai si strinse comunque le ginocchia al petto. “Sì,” rispose, alla fine.
Mori non andò subito da lui, si avvicinò al mobile accanto alla porta e prese a cercare qualcosa dietro le ante. “Ti sei immerso senza prendere ciò che serve per rendere un bagno degno di tale nome.” Si avvicinò con tre bottigliette diverse strette tra le dita e un asciugamano bianco sotto il braccio.
“Mi vuoi avvelenare?” Domandò Dazai.
Mori sbuffò. “Questa tua fissa per i veleni va un attimo rivista.” Si sedette sul pavimento a gambe incrociate, come se il ragazzino di quattordici anni fosse lui. “Sta a vedere la magia.” Prese una delle tre bottigliette - quella rossa - e ne versò gran parte del contenuto nell’acqua.
Dazai lo guardò come se si fosse completamente rincitrullito. “E quindi?”
Parliamo,” rispose Mori, “aspettando che si compia la magia, intendo.”
“Vuoi davvero parlare di Elise?”
“Se lo vuoi anche tu.”
Dazai era sorpreso dalla serenità con cui il Boss affrontava l’argomento. Lo aveva visto ribollire di rabbia di fronte al traditore che aveva organizzato il massacro della sua famiglia, ma il ricordo della figlia morta non sembrava colpirlo con altrettanta ferocia.
“Era figlia di Johann?” Dazai lo chiese pur conoscendo la risposta.
Mori sollevò l’angolo destro della bocca. “La risposta è un tantino scontata.”
In effetti.
“Come è morta?” Domandò quattordicenne.
“Per parlarti della sua morte, dovrei parlarti di quella di Hans,” rispose Mori. “Non sono sicuro che tu abbia la pazienza.”
“Ti sembra che stia tentando la fuga?” Domandò Dazai, sarcastico. Notò che la vasca si stava riempiendo di schiuma. “Hai fatto veramente quello che credo?”
“Oh, avanti!” Esclamò Mori. “Tutti amano i bagni pieni di schiuma! Non fare il guastafeste!”
Sì, Dazai non aveva assolutamente alcuna difficoltà a immaginare l’attuale Boss della Port Mafia mentre canticchiava in falsetto, girandosi e rigirandosi in una vasca da cui fuoriuscivano bolle di sapone.
“Non pensavo che fossimo venuti qui a Ginevra per girare lo spot di uno shampoo,” si lamentò il ragazzino.
Mori rise, di gusto. “Questa mi è piaciuta!” Esclamò. “Allora, vuoi sentire questa storia o no?”
“Accomodati.”
Contro ogni aspettativa del più giovane, il Boss non allontanò lo sguardo da lui nel raccontare. “Vivemo a Weimar,” cominciò. “Quando non eravamo in battaglia, avevano una casa fuori città. La chiamavamo la casa con giardino, per distinguerla dalla proprietà principale, ci si trovava in centro e in cui non andavamo quasi mai. Quella che sto per raccontarti è la mia verità, ma sappi che gli ultimi eventi mi stanno facendo ricredere su molte cose.”
Dazai annuì per dirgli che aveva capito. “Vai avanti.”
“Non so chi ci abbia attaccati,” ammise Mori. “Al tempo, sospettai addirittura del Governo di Germania, ma non ho prove. Non so chi sia entrato in quella casa e abbia fatto quello che ha fatto.”
“E cosa ha fatto?”
“In realtà, su Elise c’è poco da dire,” ammise Mori. “L’avevo lasciata nella sua culla e quando sono tornato, ho trovato solo la sua copertina sporca di sangue.”
Per chiunque, quelle parole sarebbero state sconvolgenti. Quale mostro avrebbe mai potuto far del male a una bambina in fasce? Dazai Osamu non aveva il lusso di porsi certe domande, perché in mezzo a quei mostri era cresciuto. Fare del male a un essere umano così piccolo non era così difficile come alla gente comune piaceva credere.
“E Johann?”
“Qui viene la parte interessante,” disse Mori. “Di lui ho trovato solo la testa.”
Dazai sgranò gli occhi. “Mentre venivano qui, mi hai detto di avere il sospetto che Johann Goethe sia la terza parte coinvolta nella storia di Byron.”
“E lo credo.”
“Hai appena detto di aver trovato la sua testa.”
“Avanti, Dazai, sei intelligente,” lo sfidò Mori. “So che hai già capito dove voglio andare a parare.”
Il quattordicenne non dovette pensarci. “Pensi non fosse Johann Goethe?”
“Penso che aveva appena vent’anni, piangevo come non ho mai pianto in vita mia, era buio e quel viso era stato sfregiato.”
“Allora perché ti sei convinto fosse Johann?”
“Perché non poteva essere nessun altro,” rispose Mori. “Perché aveva gli stessi capelli biondi, perché l’unico occhio che gli era rimasto era azzurro. Perché c’erano solo lui e Elise in quella casa. Chi altri poteva mai essere?”
Dazai non poteva dargli torto. “Pensi che abbiano finto la morte di Johann per separarlo da te?”
“Non riesco a fare ipotesi su questo.” Mori guardò verso al finestra: la neve continuava a cadere. “So che al tempo avevamo tanti nemici da non poterli contare. Subito dopo la tragedia, io me la presi con il sospettato più plausibile e feci perdere le mie tracce. Mori Rintarou è morto allora, subito dopo Johann ed Elise.”
Dazai circondò le ginocchia con le braccia e fissò la schiuma farsi sempre più densa. “Ammettiamo che Johann Goethe sia viva per davvero,” ipotizzò. “Prendiamo per vera la teoria secondo cui lui è l’uomo ad aver consegnato la lettera di Byron a Hirotsu. Perché?”
“Ci siamo già posti questa domanda, Dazai.”
“No, mi sono spiegato male,” aggiunse il quattordicenne. “Perché adesso? Dove è stato negli ultimi…”
“Dodici.”
“Ecco, dove è stato negli ultimi dodici anni?” Si domandò Dazai. “Lo hanno rinchiuso per tutto questo tempo e ora, non sappiamo come né perché, è libero di volare fino a Yokohama per mettere in moto un piano che non sappiamo se è a nostro favore o sfavore?”
“Mi pongo le stesse domande, Dazai,” lo rassicurò Mori.
Dazai lo fissò e quello sguardo bastò a preannunciare le parole che seguirono. “Se sai che potrebbe essere nostro nemico, perché ci speri tanto?”
Mori sorrise amaramente. “Non posso proprio nasconderti più niente,” concluse. “Non va bene.” Si sollevò sulle ginocchia, raccolse un po’ di schiuma sul palmo della mano e la sbatté contro il viso del ragazzino.
“Ma che diavolo!” Imprecò Dazai, pulendosi gli occhi.
Mori non gli diede il tempo di riprendersi: prese la seconda bottiglietta - di colore blu - e versò il contenuto sulla testa del ragazzino. Si spostò alle sue spalle e affondò le dita tra i ribelli capelli scuri per insaponarli.
Dazai tentò di ribellarsi. “Toglimi le mani di dosso!”
“Su, su, li devi curare questi capelli o finiranno per divenire un nido di rondini.”
“Non sono affari tuoi!”
“Oh, lo sono eccome!” Ribatté il Boss della Port Mafia, alzandosi in piedi alla ricerca di un pettino. Quando lo trovò, si voltò a guardare il suo giovane assistente e per poco non scoppiò a ridere: a causa del sapone, Dazai aveva tutti i capelli dritti.
Il quattordicenne lo guardò malissimo. “Sei un idiota.”
“Linguaggio, ragazzino.” Mori gli tornò accanto e prese a pettinargli i capelli per districare i nodi.
Dazai borbottò per tutto il tempo, ma gli fece la grazia di stare fermo.
“Hai dei bei capelli,” commentò il medico, arricciando le punte intorno alle dita.
Il ragazzino tentò di voltarsi, ma le mani dell’altro glielo impedirono. “Ti perdi in complimenti, adesso?” Domandò, sarcastico. “Perché non mi dici di cosa avete parlato tu e Byron.”
“Prima di tutto, sembra interessato più a te che a me.”
Dazai gli lanciò un’occhiata orripilata da sopra la spalla. “Vuoi vedermi, dì la verità?”
Mori rise di gusto per la seconda volta in pochi minuti. “Temo che nemmeno George Gordon Byron abbia abbastanza denaro per comprarti.”
“Oh, adesso ho un prezzo?”
“No, hai un valore,” ribatté Mori. “Tu puoi non riconoscerlo in te stesso, ma io non posso fare a meno di notarlo. Immergiti con la testa all’indietro.”
Dazai ubbidì e quando tornò in superficie, i suoi capelli erano perfettamente lisci e completamente tirati all’indietro.
Mori gli rivolse uno sguardo che tradì un poco di tenerezza. “Sì, hai davvero un bel faccino.”
“La pianti?” Domandò Dazai. C’era un limite a quanto poteva sentirsi orripilato in una sola giornata. “Questi maledetti soldi ci sono?”
“Lo scopriremo con certezza solo domani,” rispose Mori. Afferrò l’asciugamano da terra e si alzò in piedi. “Avanti,” disse, aprendolo, “prima ti asciughi e meno soffrirai dello sbalzo di temperatura. Se sei fortunato, ti beccherai solo un raffreddore.”
Dazai si sollevò dall’acqua, stando attento a rimanere di spalle. Fu una precauzione inutile, perché Mori non tardò ad avvolgerlo nell’asciugamano.
Non appena il Boss della Port Mafia si fu allontanato, il quattordicenne si voltò per scavalcare il bordo della vasca. Prima di porre la sua prossima domanda, puntò gli occhi scuri contro la schiena dell’uomo. “Se Johann Goethe è vivo, pensi che lo sia anche Elise?”
Mori si fermò sulla porta del bagno, come se si fosse trovato davanti a un muro invisibile. “No, non credo,” rispose, infine. “Ho smesso di cercarla molto tempo fa.”
Dazai non riusciva a capire. “Del sangue in una culla non è niente,” disse. “Non puoi nemmeno sapere se fosse suo e-”
“L’ultima volta che ho parlato faccia a faccia con mia madre, mi ha detto una cosa che non ho più scordato,” lo interruppe Mori. “Il sacrificio estremo per un figlio è una cosa stupida, perché, in questo mondo, un bambino senza nessuno che lo protegga è condannato. Forse Elise non è morta quella notte, ma sono certo che non c’è più.”
A quel punto c’era un dubbio che Dazai aveva bisogno di togliersi. “L’amavi?”
Nonostante la sua impudenza, Mori fu abbastanza gentile da rispondergli sinceramente: “più della mia stessa vita.”
Più quella conversazione andava avanti, meno il ragazzino riusciva a dare un senso all’uomo che gli era di fronte. Già a Yokohama aveva trovato difficoltà. “E come fai a stare in piedi?”
“Elise era la figlia di Rintarou e Johann,” rispose il Boss della Port Mafia.
Dazai capì l’antifona. “E Mori Rintarou è morto in Germania, durante la Grande Guerra,” concluse con per conto suo.
“Proprio così, Dazai.” Il medico gli fece cenno di avvicinarsi. “Vieni qui. Questa sarà la tua prima cena nelle vesti di un Principe della malavita e voglio porre attenzione anche ai dettagli.”
Dazai alzò gli occhi al cielo. “Che cos’è questa novità?” Domandò, già esasperato. “Guai a chiamarmi signorino, ma adesso sono vostra altezza?”
“Non ti sto educando per diventare il mio segretario,” gli ricordò Mori.
“Io non diventerò un bel niente, perché io morirò prima che finisca il mio primo anno nella tua vita!”
“Se ne sei convinto…” Il Boss aveva ormai imparato che era inutile contraddirlo, tanto valeva lasciarlo libero di dire le sue fesserie. “In ogni caso, sappi che puoi presentarti a questa cena come Principe della Port Mafia o sopportare che Byron ti dia del Fiore d’Oriente per tutto il nostro soggiorno qui.”
Dazai fu svelto a cambiare idea. “Principe della Port Mafia va benissimo.” Se doveva ereditare uno dei titoli di quel folle che si spacciava per suo tutore, meglio optare per quello meno umiliante.
Mori sorrise soddisfatto. “Molto bene, vostra altezza.”
CowT 13, Week 4
M3: Mai più



Non appena Albert ebbe finito di presentare il caso, il Colonnello Sebastian Moran fu il primo a spezzare il silenzio. “Ma che cazzo…”
Il Conte gli lanciò un’occhiata storta. “È sempre bello ascoltare la vostra poesia, Colonnello.”
Si erano radunati tutti intorno al tavolo del seminterrato, dove prendevano forma i piani del Signore del Crimine.
Il padrone di casa aveva impiegato meno di mezz’ora a fare il punto della situazione, appendendo le foto delle vittime alla lavagna posta sul muro.
“Questo Patel non è un truffatore o uno stupratore o un assassino,” proseguì Moran, indicando le nove fotografie. “No, questo pezzo di merda è tutti e tre messi insieme.”
“Dove sono i corpi?” Domandò Louis. “So che esistono metodi per far sparire una persona dalla faccia della terra, ma nove su nove?”
Bond scrollò le spalle. “Magari ha trovato un metodo efficace per smaltire i cadaveri senza dare nell’occhio.”
“Esatto,” confermò Albert, aprendo sul tavolo la planimetria della tenuta dei Patel, teatro della prossima missione. “Vedere questo?” Indicò un punto tra le propietà esterne. “È un lago artificiale. Abbiamo informazioni molto precise a riguardo: George Patel lo ha voluto a tutti i costi per poter praticare pesca vicino casa. Ha chiamato degli esperti per creare un vero e proprio ecosistema con una specifica razza di pesci.”
“Che non conosciamo,” concluse Jack.
“No, ma Mycroft è persuaso a credere che siano i migliori complici di George Patel nello smaltimento dei cadaveri,” disse Albert.
Al nome Mycroft, Moran emise un verso di disappunto che tutti udirono senza problemi. Venne ignorato
“In breve: per incastrarlo dobbiamo arrivare al lago e setacciarlo,” concluse Louis.
Albert annuì. “È meno semplice di come suona, temo. Sarà buio e chi andrà avrà poco tempo e non disporrà di molti mezzi.”
Moran sbuffò. “Come facciamo a setacciare il fondale di un lago?” Domandò, irritato. “Vuoi che vada a nuoto e che tasti il terreno alla cieca finché non mi ritrovo un arto tra le mani?”
Louis borbottò qualcosa a bassa voce: “affogatevi, già che ci siete.”
“Ti ho sentito, moccioso!” Ringhiò il Colonnello, puntandogli l’indice contro.
Bond rise sotto i baffi. Fred lanciò al compagno di avventure un’occhiata un poco esasperata.
“Ed Evans?” William parlò per la prima volta dall’inizio della riunione strategica. Era l’unico seduto, vestito solo del pigiama e della vestaglia da camera. “Perché non lo consideri tra le prime otto vittime?”
“Tempistica,” rispose Albert. “Se analizziamo la distanza di tempo tra una sparizione e l’altra, notiamo che l’intervallo aumenta. George Patel vuole le sue vittime vive il più a lungo possibile.”
“Che schifo.” Moran diede voce al pensiero di tutti. “Stai cercando di dire che il moccioso nobile potrebbe essere segregato da qualche parte, ridotto come solo Dio sa come?”
“È una speranza,” rispose Albert. “Sempre se di speranza possiamo parlare in una simile circostanza. Dovremo dividerci strategicamente: io e Will saremo come sotto gli occhi di tutti, con meno spazio di manovra. Serve una squadra che vada al lago e un’altra che setacci la villa, alla ricerca del giovane Evans.”
“Io e Louis andiamo al lago,” disse Moran.
Il più giovane lo guardò storto. “Chi siete voi per deciderlo?”
Il Colonnello gli rivolse un sorrisetto sarcastico. “Vuoi vedermi affogare? Bene, allora vieni con me in mezzo alla melma e mi guardi affogare!”
“Ragazzi, mantenete il controllo,” disse il vecchio Jack, come se fosse ancora il Maestro di tutti e due. “Mi spiace, Louis, la proposta di Sebastian è buona: lui è il più adatto a buttarsi in quel lago e fare il lavoro sporco, tu sei il candidato migliore per gestirlo e tenerlo d’occhio.”
Moran annuì a braccia conserte, poi udì la seconda parte della frase e si bloccò. “Chi deve tenere d’occhio chi?”
“Fred, con la sua abilità nei travestimenti, sarà il nostro jolly all’interno della villa,” proseguì Albert. “È silenzioso ed è veloce. Può intrufolarsi con facilità dove nessuno di noi può arrivare.”
“Rimangono Bond e il vecchio come squadra di supporto,” notò Moran.
“Avviseremo Paterson, che avrà Scotland Yard pronta ad agire al nostro segnale,” proseguì Albert. “Von Herder sarà lì per il solito supporto tecnico e Moneypenny lo affiancherà.”
“Io ho una domanda!” Il Colonnello alzò la mano come un studente molesto, ma non aspettò il permesso del Conte per parlare. “Perché lui non sta dicendo una parola?” Indicò William.
Il giovane Professore lo guardò un po’ spaesato: anche un cieco si sarebbe accorto che stava morendo di sonno. “Ufficialmente, questo è un caso dell’MI6,” rispose. “L’intervento del Signore del Crimine è un nostro tocco personale, ma è giusto che sia Albert a gestire la missione.”
“E Mycroft,” aggiunse Moran, con un sorrisetto dispettoso. “Perché ci portiamo dietro anche Mister Government, non è cos- William!”
Louis fu svelto ad afferrare le spalle del fratello per evitare che cadesse dalla sedia. “C’era d’aspettarselo,” disse, mentre il Colonnello faceva il giro del tavolo per aiutarlo a sorreggere il fratello privo di sensi.
“Mi sorprende che abbia retto tanto,” commentò Jack.
Moran sollevò William come se non pesasse niente. “Albert, vieni a darmi una-“ Non appena gli occhi grigi incrociarono quelli verdi del Conte, il Colonnello decise che avrebbe tentato la sorte in altro modo. “Louis, vieni con me. Io lo porto di sopra ma non gli rimbocco coperte.”
Il più giovane assunse un’espressione visibilmente annoiata, non perché gli era stato chiesto di prendersi cura di William - era pronto a morire per suo fratello - ma perché l’idea di passare qualche minuto da solo col Colonnello non lo entusiasmava neanche un po’.
“Bene, dichiaro la prima riunione strategica conclusa,” disse Albert, raccogliendo tutti i documenti del caso. “Proporrò al Direttore la nostra strategia e vedremo se avrà qualcosa da dire a proposito.”
Moran si fermò sulla porta e lo guardò di traverso. “Non basta avere un Holmes che ci manda le rose a colazione, ora dobbiamo pure sopportare l’altro che mette bocca nelle nostre missioni?”
Bond si sporse all’indietro per guardarlo. “Sei consapevole che, tecnicamente, lavoriamo per lui?”
“Non io!”
“Sì, invece, proprio tu. Sei l’agente 006, te lo sei scordato?”
Moran ringhiò qualcosa a bassa voce e si decise a portare William fuori da quella stanza, Louis al seguito.
Jack prese un respiro profondo. “Quanti giorni mancano al ballo in maschera?”
“Quattro,” rispose Albert, già sapendo dove il vecchio maestro voleva andare a parare.
“Bene, ragazzo, fai appello a tutta la tua pazienza,” gli consigliò. “Saranno quattro giorni molto lunghi.”




***



Sherlock era di cattivo umore.
John non ne era sorpreso. Erano quasi passate quarantotto ore dall’ultima volta che aveva visto WIlliam James Moriarty e il telegramma promesso non era ancora arrivato. C’era da dire che il medico aveva notato un improvviso calo di entusiasmo già da prima. Per la precisione, Sherlock non era più stato lo stesso da quando era avvenuto quel piccolo incidente idraulico nel bagno.
John lo aveva lasciato al settimo cielo e lo aveva ritrovato non con i piedi per terra, ma col morale sepolto in una fossa.
La signorina Hudson aveva notato quella brusca inversione di rotta alla sua stessa velocità, ma per lei era facile darsi delle risposte: un ”tutta colpa di quella lì!” e la discussione era chiusa.
Suo malgrado, John era in grado di percepire qualche sfumatura in più ed era dell’idea che William non fosse d’accusare - in fin dei conti, aveva chiesto pazienza, oltre che fiducia. No, il medico aveva il dubbio che il suo coinquilino si fosse perso tanto nei propri pensieri da mettersi tristezza da solo. Era una cosa che Sherlock faceva ma che non ammetteva mai con se stesso.
Quanto grave fosse la situazione, John lo capì quel pomeriggio, poco prima dell’ora del tè. In mattinata, era arrivato un messaggio da parte di Sir Mycroft che li avvisava che sarebbe passato a fare una visita. Sherlock aveva deciso deliberatamente di far finta di niente e se ne andava in giro per casa con i capelli sciolti, la camicia fuori dai pantaloni e a piedi scalzi. Immagine più lontana dal tipico gentleman inglese non poteva esserci ma finché non si metteva a sparare contro il muro, John non aveva nulla da dire.
Poi gli capitò di entrare in salotto e di trovare Sherlock steso sul divano, i piedi incrociati sul bracciolo più vicino alla porta. Leggeva, nulla di strano. John aveva quasi deciso di lasciarlo in pace e di cedere a Mycroft l’ingrato compito di fare breccia in quel muro di silenzio, ma lo sguardo gli cadde sulla copertina del titolo che il partner stringeva tra le mani e per poco non gli prese un colpo.
Shakespeare!” Esclamò con voce esageratamente alta, tanto che il Detective sobbalzò.
Quando il più giovane lo guardò malissimo, John seppe di essersi meritato tutta la sua irritazione.
“Ma che ti prende?” Domandò Sherlock, esagerato nei toni almeno quanto lo era stato l’altro.
John aprì e chiuse la bocca come un pesce fuor d’acqua. “È che… Insomma… Shakespeare?” Reclinò la testa per leggere il titolo sotto il nome dell’autore. “Romeo e Giulietta?!”
“Ma la smetti di urlare?”
Era già strano vedere Sherlock immerso in una lettura che nulla aveva a che fare col suo lavoro, ma addirittura la tragedia dei due amanti di Verona?
“Sherlock,” cominciò John, cercando di rimanere calmo. “Che vuoi fare? Prendere William e scappare da Londra?” Una risposta affermativa non lo avrebbe sorpreso.
“Gliel’ho già chiesto.”
“Ah…”
“Ha detto di no.”
“Meno male.”
Ora John era certo che almeno William James Moriarty fosse ragionevole.
Il suo sollievo gli fece guadagnare un’altra occhiataccia da quegli occhi blu. “John, toglimi una curiosità, tu da che parte stai?”
“Da quella in cui rimani sul lato sicuro della legge.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Lo hai sempre saputo che non mi piacciono le donne. È un po’ tardi per porsi il problema.”
“Sherlock, davvero…” In tutta onestà, John era un po’ offeso dal dover ribadire il concetto. “Tu puoi amare chi vuoi, ma non puoi chiedermi di non preoccuparti per te.”
“Bravo!” Sherlock voltò pagina rabbiosamente. “Fammi anche sentire in colpa!”
“Qui nessuno vuole farti sentire in colpa.”
Mycroft scelse proprio quel momento per comparire sulla porta aperta del salotto. Lui e John si scambiarono un segno di saluto, poi lo sguardo del maggiore degli Holmes cadde sulla figura del fratello, che lo stava ignorando bellamente in favore della sua lettura.
“Vuoi fuggire con William da Londra?” Domandò Mycroft.
Sherlock si lasciò cadere il libro in grembo, esasperato. “È in corso un’epidemia di deficienza?” Domandò, ignorando John che si era voltato per non scoppiare a ridere. “Pensi davvero che se volessi scappare con Liam, prenderei esempio da questi due cretini?”
“Oh…” Mycroft si tolse giacca e cappello e li appese vicino alla porta, come se fosse casa sua. “Mi sembrava strano che non avessi ancora offeso la memoria dell’onorevole William.”
Sherlock non lo capì. “Liam è ancora vivo!” Esclamò. “E non stavo offendendo lui, non lo farei mai. Offendevo loro!” Sollevò il volume tanto per chiarire che ce l’aveva con Romeo e Giulietta.
“Mi riferivo al William sulla copertina,” chiarì Mycroft, pizzicandolo sotto il piedi per farsi fare posto sul divano. “Ci sono stati, ci sono e ci saranno molti William a scrivere la storia inglese, Sherly.”
Ma ci sarà un solo Sherlock, pensò John, occupando la sua solita sedia al tavolo. Sherlock è un miracolo che non si ripeterà mai più.
“C’è un motivo per cui lo chiamo Liam,” disse Sherlock, rinunciando al divano per spostarsi sulla sua poltrona preferita. “Perché non deve confondersi con nessun altro.”
Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome?” Recitò Mycroft. “Saresti una splendida Giulietta, Sherly.”
John simulò una serie di colpi di tosse per nascondere l’attacco d’ilarità che gli provocarono quelle parole. Sherlock, ovviamente, se ne accorse. “Bravo, John, strozzati!”
“Sherly, il buon dottore è l’unico che riesce a tollerarti,” gli ricordò Mycroft. “Abbi cura di lui.”
“Sto bene,” dichiarò John, dopo aver ripreso fiato.
“Dottore, se posso, vorrei chiedere il suo giudizio riguardo quello che sta succedendo al nostro Sherly,” disse Mycroft, serafico.
In un gesto istintivo, gli occhi di John cercarono quelli di Sherlock e il più giovane fece lo stesso.
Il Direttore si permise una risata. “Reazione interessante.”
“Beh, ecco…” John sapeva di non potersi esimere dal rispondere, ma era difficile non fare brutte figure con Sherlock che continuava a fissarlo come a pregarlo. Non glielo dire. Non glielo dire. Non glielo dire.
A cosa si riferiva di preciso? Alla storia delle Anime Gemelle?
“Io non conosco così bene il Professor Moriarty per avere un giudizio personale su di lui,” ammise John. “L’ho visto una sola volta e mi è sembrato un uomo da bene, elegante…” Lanciò un’occhiata al coinquilino, spalmato malamente sulla poltrona. “Cioè non è così,” concluse, facendo un vago gesto in direzione di Sherlock.
Il più giovane lo fissò, allibito. “John, mi hai appena fucilato…”
“Capisco cosa intendete, Dottore,” disse Mycroft.
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Figurarsi!”
“Il giovane William è un perfetto esponente del suo ceto sociale, difficile immaginare un uomo così in compagnia di mio fratello.”
John annuì. “Vero, ma vi assicuro che quando si parlano, si percepisce una forte intesa.”
Lo sguardo di Mycroft si fece attento. “Continuate.”
Persino Sherlock rimase zitto ad ascoltare.
“Beh, li ho visti interagire solo una volta,” ammise John. “Ma è stato straordinario osservare due menti così lavorare allo stesso caso di omicidio.”
Sherlock sollevò l’angolo destro della bocca. Vai così, John.
“E devo ammettere che il Professore non mi è mai sembrato disturbato dal modo di approcciarsi di Sherlock.”
Il Detective divenne serio di colpo. John, se m’insulti fai il gioco dello stronzo!
“Credo, per quel poco che ho potuto vedere, che il Professor Moriarty sia quel genere di persona che è disposta a sbottonarsi un po’ solo quando ne vale la pena.”
“Mi state dicendo che il nostro Sherly vale la pena?” Domandò Mycroft.
“Sono avvenuti una serie di fatti che mi portano a credere che, sì, William sembra aver deciso che Sherlock vale il rischio.”
Sherlock non fu mai tanto di felice di avere John H. Watson come suo partner. Guardò il fratello maggiore col sorrisetto di chi sa di averla avuta vinta. “Toglimi una curiosità, fratello degenere, con quell’Albert parlate solo di me e Liam o, qualche volta, lavorate anche?”
“Sherlock…” Lo ammonì John, come faceva sempre quando il partner era un po’ troppo sfacciato.
“In effetti, io e Albert parliamo molto e non solo di lavoro,” confessò Mycroft.
Sherlock si tolse dalla faccia quell’espressione da sbruffone, certo che il fratello stesse cercando di dirgli qualcosa senza farlo davvero.
La signorina Hudson arrivò con il tè prima che potesse indagare oltre.
“Servitevi, signori,” disse, posando il vassoio sul tavolo. Lanciò un’occhiata a Sherlock, vide che aveva una copia di Romeo e Giulietta tra le mani e cercò gli occhi di John. Con un gesto della mano, il medico le disse di lasciar stare.
“Vieni, Sherly,” disse Mycroft, alzandosi dal divano per occupare una delle sedie. “Il tè si fredda.”
“Non mi va,” berciò il Detective, capriccioso.
“Sherlock, per favore,” intervenne John.
“Signorina Hudson, si accomodi,” la invitò Mycroft. “Ci faccia compagnia.”
“Se insistete,” disse la donna, sorpresa di ricevere tanta cortesia da un uomo con lo stesso viso di Sherlock.
“Sherly, manchi solo tu.” Mycroft lo sottolineò a posta per farlo sentire in difetto. “Se ti senti offeso per quell’uscita su Giulietta, sappi che ho cambiato idea. Tu sei quello più adatto ad arrampicarsi su un balcone.”
Sherlock storse la bocca in una smorfia. “Forse, ma mi disturberei a controllare il battito di Giulietta, prima di avvelenarmi.”
Nella mente di John si divisero i due schieramenti: gli Holmes come i Montecchi e i Moriarty come i Capuleti. Questo faceva di lui Mercuzio?
Arrivata nel vivo della discussione, la signorina Hudson mise insieme quei pochi pezzi che aveva. “Vuoi scappare da Londra con la tua bella?” Domandò, seriamente allarmata.
Sia John che Mycroft appoggiarono la tazza di tè sul tavolo, cercando di non scoppiare a ridere.
Sherlock decise di lanciare Shakespeare dall’altra parte della stanza. “Al Diavolo la letteratura!”
“Sherly…”
“Zitto!” Alla fine, anche il più giovane degli Holmes si sedette al tavolo, insieme al resto del gruppo.
“Tutti noi riconosciamo in te la tendenza a compiere fughe d’amore,” disse Mycroft.
“Mai avvenute!“ Esclamò Sherlock, versandosi il té. “Mai avverranno.”
Forse. Se Liam avesse accettato la tua proposta folle della notte scorsa, saresti scappato con lui senza pensarci.
Sherlock decise di lasciare quel pensiero lì, in un angolo della sua mente.
Mycroft se ne andò circa un’ora dopo con quel suo solito: “cerca di non morire, Sherly.”
Sherlock sapeva da dove veniva quella brutta abitudine, ma Mycroft dava l’imbarazzante impressione che avesse una passione per buttarsi dai ponti o qualche assurdità del genere. Sir Holmes non volle scomodare nessuno per farsi accompagnare alla porta e tutti rimasero in silenzio, aspettando di sentirlo andare via.
John fu il primo a tirare un sospiro di sollievo. “È stato un incontro piacevole, no?”
“Parla per te,” bofonchiò Sherlock.
“Ora che siamo tra noi, me lo vuoi spiegare perché ti sei messo a leggere Shakespeare?”
“Perché piace a Liam,” disse Sherlock, col tono di è costretto ad ammettere un ovvietà.
John sbatté le palpebre un paio di volte. “È un matematico.”
“È un accademico, è diverso… Signorina Hudson, perché continuate a guardarmi così?”
Da quando Mycroft se ne era andato, la padrona di casa se la rideva sotto i baffi per ragioni che erano note solo a lei. “Ho intuito che non fosse il caso svelare troppo mentre tuo fratello era qui?”
Sherlock la fissò confuso. “Svelare cosa?”
La Signorina Hudson tirò fuori dalla tasca un biglietto piegato in quattro parti e lo sventolò con tracotanza, come se stringesse tra le dita una verità in grado di far tremare l’intera Gran Bretagna. “Un ragazzo con i capelli neri me lo ha consegnato mezz’ora dopo l’arrivo del Signor Mycroft,” raccontò. “Ha espressamente detto: per Sherlock Holmes.”




***



Albert era radioso. In verità, il sorriso gli mancava di rado ma era sincero solo quando rivolto a William, al massimo a Louis. Dopo la sua notte con Mycroft Holmes qualcosa era cambiato, ma Moran sapeva di non poterne parlare con nessuno perché era certo di essere stato l’unico a notarlo. Non poteva sapere quel che accadeva dietro le porte chiuse della villa, ma faceva fatica a immaginare i fratelli Moriarty che si confidavano tra di loro. Tanto per cominciare, William non avrebbe potuto evitare di nominare Sherlock e non si poteva calpestare ulteriormente la sensibilità di Louis, non a due giorni da una missione dell’MI6.
Albert, da parte sua, che avrebbe potuto dire? Di amanti ne aveva avuti tanti, nessuno di cui valesse la pena pronunciare il nome tra le mura domestiche. Senza ombra di dubbio il ruolo - e il fratello - di Mycroft Holmes rendevano questa sua nuova esperienza diversa da tutte le altre, ma Sebastian Moran non poteva fare a meno di sospettare che ci fosse di più.
Quando il Colonnello si era travestito da maggiordomo solo per avere conferma dei suoi sospetti, interrompendo così i saluti tra il Conte e il Direttore, gli occhi verdi di Albert si erano accesi di un astio a cui Moran non era abituato. No, nemmeno nei suoi confronti. Il giovane Conte Moriarty era sarcastico, a tratti velenoso, nei suoi confronti ma il tempo in cui si era dimostrato davvero sincero ai suoi occhi era finito da quasi un decennio. Sebastian Moran aveva visto il giovanissimo Albert James Moriarty rompersi sotto il peso di una colpa a cui nulla lo aveva preparato. Non quella di aver ucciso chi l’aveva messo al mondo, ma di amare in modo sconveniente un fanciullo che per tutti era suo fratello minore.
Al tempo, Moran era stato l’unico a comprenderlo, perché anche lui si era macchiato della stessa colpa. Afflitti entrambi - Albert da un dolore acuto e costante, Sebastian solo dalla consapevolezza della cruda realtà - si erano crogiolati insieme in un calore senza sentimento, non quello che li avrebbe resi amanti oltre la carne. E Albert non lo aveva mai tradito. Non perdeva occasione per punzecchiarlo e godere della puerile umiliazione che gli infliggeva ogni volta, ma aveva avuto rispetto del suo cuore.
Albert non aveva mai rivelato a William quello che il Colonnello provava per lui, Moran non si era mai permesso di parlare dei sentimenti del Conte con nessun altro.
Erano complici da un decennio, stretti l’uno all’altro da un segreto che, per una volta, non aveva le sfumature violente dell’omicidio ma dell’amore. Non per questo era meno sporco.
Quando si erano allontanati l’uno dall’altro, consapevoli di aver toccato un limite oltre al quale si sarebbero fatti solo del male, avevano preso strade parallele ma non molto diverse. Sebastian Moran era sempre stato un donnaiolo, non fece nulla che non aveva già fatto. Albert James Moriarty creò un immagine di sé in grado d’incantare la società e di maledire chi osava tanto da conoscerlo dietro una porta chiusa a chiave.
Il centro di tutto, per entrambi, non aveva mai smesso di esserci William.
Per questo Sebastian Moran pensava a Mycroft Holmes e non poteva evitare di figurarlo come una sbavatura. Il Colonnello non aveva mai concepito l’idea di superare William - in fin dei conti, era destino che venissero contatti tutti per lui, no? - e non poteva che provare fastidio nel rendersi conto che, forse, Albert c’era riuscito.
Il fatto che fosse ancora una volta un Holmes ad averla vinta non faceva che peggiorare il suo malumore. Da quando quelle rose blu erano arrivate a casa loro, Sebastian Moran aveva già rischiato abbastanza restando nelle vicinanze di Louis. Il più giovane dei fratelli Moriarty, a cui non si poteva nascondere niente, era stato bravo e crudele a scavargli dentro, a sbattergli in faccia che William aveva fatto una scelta non preventivata e che questa non era ricaduta su nessuno di loro.
Il suo momento di onestà Moran lo aveva affidato a Bond e solo perché sapeva che una parte di quest’ultimo - quella Irene Adler che, ufficialmente, era stata rinvenuta morta nel Tamigi - sarebbe sempre appartenuta a Sherlock Holmes.
Ma Albert…
Fu contro ogni spirito di autoconservazione che Sebastian Moran andò a bussare allo studio di M, all’Universal. Vista la rabbia silenziosa che gli aveva riservato negli ultimi due giorni, il minimo che il Colonnello poteva aspettarsi era che il Conte gli tirasse un bicchiere, una bottiglia, qualsiasi cosa in grado di ferirlo. Mentre prendeva seriamente in considerazione quella possibilità, Albert gli aveva già dato il permesso di entrare.
Era stato facile. Troppo facile.
Moran si rese conto del perché quando aprì la porta e vide l’entusiasmo scivolare via da quegli occhi verdi in favore di un’evidente delusione. “Oh… Colonnello.”
Si era aspettato qualcun altro. Moran glielo lesse in faccia.
“Entrate, volevate parlarmi di qualcosa?”
L’agente 006 si richiuse la porta alle spalle ma non si avvicinò di un altro passo. Albert era in piedi, di fronte alla scrivania e lo guardava, in attesa.
Girarci intorno non sarebbe servito a nessuno.
“Che cosa stai facendo, Albert?” Una domanda che voleva dire tutto e niente.
Il Conte glielo fece notare dandogli una risposta stupida: “stavo elaborando i dettagli della nostra strategia. Io e William ne abbiamo parlato in modo più approfondito e stavo preparando una presentazione da mostrare al Direttore.”
“Ti aspettavi che fosse lui, vero?”
Albert smise subito di giocare. Per l’occasione, mise da parte anche le formalità. “Che cosa vuoi, Sebastian?”
Moran non la ricordava nemmeno l’ultima volta che lo aveva chiamato per nome. “Sei ancora arrabbiato?” Domanda sciocca, ma contro un Moriarty non sapeva in che altro modo giocarsela.
Albert accennò un sorriso. “Non sei tanto importante, non montarti la testa.”
“Oh, io non lo sono senza ombra di dubbio,” ribatté Sebastian. “Mi chiedo se lo sia lui.”
Il più giovane gli risparmiò la scenetta ridicola in cui faceva finta di niente. “Non sono affari tuoi, Sebastian.”
Aveva ragione e, rispetto alla situazione, si stava dimostrando piuttosto garbato, ma Moran doveva liberarsi del fastidio che sentiva all’altezza del petto e non c’era nessun altro da cui potesse andare. Louis aveva già rigirato il coltello nella piaga. William era e sarebbe sempre stato fuori dalla sua portata.
Ma lui e Albert si erano toccati.
E Albert non poteva aver superato William e averlo lasciato indietro. Non Albert. Almeno Albert.
“Come la mettiamo con la faccenda di William e lo stronzetto?” Puntare dritti a Mycroft non aveva funzionato, al Colonnello non restare che fare il giro più largo.
Albert sbatté le palpebre un paio di volte. “Ti riferisci a Sherlock?”
“Ah, sì, adesso li chiamiamo per nome per distinguerli.”
“William è un adulto, può decidere chi frequentare nel modo in cui preferisce. Per la seconda volta, non sono affari tuoi e nemmeno miei.”
Moran storse la bocca in una smorfia sarcastica. “Che grande ipocrita!”
“Prego?”
“Non molto tempo fa nemmeno Dio poteva salvare chi osava avvicinare William senza il tuo permesso,” gli ricordò Moran. “Ora, dato che sei impegnato con un Holmes almeno quanto lo è lui, possiamo sorvolare sulla questione!”
Gli occhi di Albert si fecero gelidi. “William e Sherlock non sono amanti.”
Bene, almeno fino a quel punto gli importava ancora.
“Hai appena confermato che tu e Mycroft lo siete,” disse Moran.
“Ci hai visti mentre lui mi baciava la mano. Per tanto, perché stiamo perdendo tempo a parlare di segreti che non sono segreti?”
“Perché tanta sfacciataggine mi disturba.”
Albert non ebbe alcuna remora a scoppiare a ridere. “Che succede, Sebastian? Non sei tu quello a provocare scandali e improvvisamente diventi un rigoroso uomo vittoriano?”
“Smettila di dire dire stronzate.”
“Vorrei farlo, ma non riesco a dare un senso a questa tua visita,” ammise Albert. “Ho una relazione con Mycroft Holmes. E allora? William, senza ombra di dubbi, è attratto da Sherlock Holmes e possiamo stare qui a elencare i motivi per cui tutto questo sia pericoloso, ma né io né te abbiamo il potere o la volontà di ostacolarlo. L’unico che poteva qualcosa era Louis e Will lo ha convinto alla resa. Questi sono i fatti. Quindi, per l’ultima volta, perché sei qui, Sebastian?”
Non aveva urlato. Non aveva tradito nemmeno un briciolo d’irritazione.
No, Albert James Moriarty riusciva a essere solo gelido. Se avesse mostrato qualcosa a lui, a Sebastian Moran, avrebbe significato che gli importava qualcosa.
Non era così.
“Lo hai lasciato andare?” Domandò Moran, incredulo. “Tutto quel dolore. Tutta quella disperazione… Come ha fatto il tuo cuore a lasciarlo andare?”
Albert sapeva benissimo a cosa si riferiva e il suo viso venne addolcito dalla malinconia. “Non l’ho mai avuto,” rispose. “O meglio, ho avuto mio fratello e va bene così.”
Va bene così.” Moran non poteva crederci. “Ti ho tolto una fottuta pistola dalla testa solo per sentirti dire va bene così?”
“Non ce l’avevo alla testa.”
“Al Diavolo, Albert, che cazzo ci facevi con una pistola tra le mani, nel cuore della notte?”
“Perché stai rivangando cose successe quasi dieci anni fa?”
“Perché potrebbero essere successe ieri!” Esclamò Moran, rabbioso. “Perché il tempo non ha importanza. Perché siamo già morti, ma cadremo solo al comando di William. Sono state parole tue, Albert!”
Fu allora che il Conte comprese il motivo di tanta ira e anche quello dietro quella visita inaspettata. “Tu lo ami ancora.” Non era una domanda.
A Moran diede fastidio la sorpresa che udì nella sua voce. Perché non doveva essere motivo di stupore, perché lui e Albert avrebbero dovuto condividere lo stesso girone infernale. Invece…
Come potrei non amarlo? Come potrei amare chiunque altro sapendo che WIlliam è un miracolo che non si ripeterà mai più?
“Mycroft Holmes è riuscito davvero a farti dimenticare William?” Moran non ci credeva, come se quello tradito fosse lui. In realtà, non lo era nemmeno William.
Albert scosse la testa. “Non è stato Mycroft, Sebastian.”
“E allora chi altro?”
“Nessuno…”
Quegli occhi verdi si tinsero della più profonda pietà e Moran fu costretto a guardare da un’altra parte. Era da solo nel suo personale inferno e, evidentemente, lo era da un po’.
“Io amo William,” chiarì Albert. “Non c’è nessuno prima di lui e mai ci sarà. È mio fratello.”
“Ah, ora è tuo fratello…”
“Lo è sempre stato.”
“Non prendermi per il culo, Albert.”
“Vuoi veramente stare qui a fare il processo ai sentimenti di un ragazzino di diciotto anni?” Ancora una volta, il Conte mantenne la sua gelida calma ma era vicino al suo limite. “L’ho guardato in un modo in cui un fratello non dovrebbe mai guardarne un altro? Sì, l’ho fatto. Ciò non significa che sia ancora la mia realtà. William è la mia vita, ma pensi che Louis provi qualcosa di diverso?”
“Non mettiamoci di mezzo anche il moccioso.”
“Bene, facciamolo con Mycroft, dato che ci tieni tanto a parlare di lui. Non metterà mai qualcuno al di sopra di Sherlock. Mai. E non c’è nulla di sporco in un amore così.” Albert si umettò le labbra. “Potrei dire un sacco di cose umilianti a questo punto e, lo ammetto, per la tua impudenza le meriteresti tutte. Quello che ancora non hai capito è che se ci facciamo la guerra a tra noi a causa degli Holmes, il piano Moriarty è destinato a fallire. Per tanto, faccio lo sforzo di dirti qualcosa di sincero-“
“Oh, non sia mai che Sua Grazia debba versare una goccia di sudore!”
“Mi dispiace che tu sia ancora innamorato di William.” E Albert fu sincero per davvero nel pronunciare quelle parole. “Mi dispiace perché so quanto può fare male.”
Sebastian Moran non sapeva come replicare a una confessione del genere, ma non trovò la forza necessaria a voltarsi e andarsene. Tutta la rabbia si era cristallizzata in qualcos’altro a cui non sapeva dare nome. Forse era delusione? Non lo sapeva. Si sentiva solo vuoto.
Albert estrasse l’orologio da taschino dalla tasca della giacca. “Devo andare,” disse, attraversando la stanza. “Puoi dire a Moneypenny di tenere la luce di questa stanza accesa?”
Moran non sapeva il perché di un gesto tanto assurda, ma sospettava di conoscere la destinazione del Conte. “Vai da Mycroft, vero?”
Albert lo guardò dritto negli occhi. Non rispose. “Fammi passare.” Era un ordine.
Il Colonnello non aveva una reale ragione per trattenerlo. Si fece da parte ma non appena il più giovane abbassò la maniglia della porta, parlò: “si torna sempre dove si è stati bene, dicono.”
Albert lo guardò.
“Vale anche per gli amanti,” aggiunse Moran. “Si torna sempre da chi ci ha fatto star bene e non è solo una questione di carne, quella può darcela chiunque. Più o meno.”
Il fatto che il più giovane fosse ancora lì persuase il Colonnello a credere di aver toccato un nervo scoperto.
“Hai detto che l’attrazione di William per Sherlock è pericolosa e sono d’accordo, ma non pensare che il tuo gioco sia meno rischioso del suo.”
“Vi state preoccupando per me, Colonnello?” Era tornato al voi.
“Stavo pensando che tu non torni mai da nessuno, Albert,” rispose Moran. “Per quanto ti piaccia fare lo stronzo, non posso negare che ci siamo sfiorati, io e te. A te può non importare, a me importa. Importerà sempre, perché preoccuparmi per i miei compagni è uno dei motivi che mi spingono a combattere.”
Fu il turno di Albert di non sapere come rispondere a una confessione.
“William è bravo a farsi male, ma è altrettanto abile a ritirarsi in piedi,” proseguì Moran. “Io ti ho visto farti male, Albert. Non puoi cadere ancora in quell’oscurità e sperare che qualcuno ti venga a salvare.”
“Vi sbagliate, Colonnello,” disse Albert, per nulla turbato da quelle parole. “Conosco bene l’oscurità di cui mi parlate, certo, ma non ho mai sperato che qualcuno mi venisse a salvare.”




***



“Siamo diretti a Mayfair, Sir Holmes?” Domandò il vecchio Jones, il cocchiere che lo serviva per conto del Governo da anni.
Con un piede sulla carrozza e l’altro ancora sul marciapiede, Mycroft si concesse un breve istante per riflettere. “Sì,” decise, infine. “Ma passiamo davanti alla sede dell’Universal andando verso casa.”
Era stata una giornata lunga e la pausa che si era concesso a Baker Street non si era rivelata particolarmente rilassante. Era andato da Sherlock con mille pensieri e lo aveva lasciato dopo averne guadagnati altrettanti. Se William James Moriarty riusciva a convincere suo fratello che Shakespeare valeva la pena essere letto, Mycroft era curioso - e ansioso - di vedere quali altri miracoli sarebbe riuscito a compiere. Perché era ovvio che c’era il giovane Professore dietro quell’improvviso interesse di Sherlock per la letteratura inglese.
Fossero stati da soli, Mycroft era certo che sarebbe riuscito a scoprire di più, ma doveva ammettere che sentire il punto di vista del Dottor Watson era stato interessante. A suo giudizio, tra Sherlock e William c’era intesa. Era una parola piuttosto specifica e il Direttore era certo che John Watson non era il tipo da usarla alla leggera. Era una conferma, certo, ma Mycroft non riusciva ancora a capire fino a che punto William James Moriarty fosse bravo a fingere.
Albert gli aveva dato un’immagine precisa di suo fratello, ma Mycroft poteva ancora concedersi il beneficio del dubbio. L’amore può influenzare qualsiasi giudizio e che il Conte ne provasse per il fratello minore era fuor di ogni dubbio. Dopo tutto quello che si erano detti, si sentiva ingiusto a dubitare di Albert, ma c’era Sherlock in gioco.
Mycroft sapeva che c’era solo un modo per quietare i propri pensieri: avere un confronto diretto con William James Moriarty.
Più facile a dirsi che a farsi.
Era certo che Albert non avrebbe accettato di buon grado quella sua proposta e voleva davvero evitare di rendere tesi i rapporti tra loro, specie ora che si erano evoluti in qualcosa di così bello e inatteso.
Una volta svoltato sulla strada dell’Universal, la carrozza rallentò. Mycroft aveva chiesto di farlo talmente tante di quelle volte che il vecchio Jones aveva memorizzato l’ordine, ormai lo eseguiva senza che nessuno glielo ripetesse. Il Direttore sollevò gli occhi blu: la finestra dell’ufficio di Albert era illuminata, forse ce la faceva ad andare a casa, rendersi presentabile e raggiungerlo.
Non si sarebbe mai permesso di farlo alla residenza londinese dei Moriarty: non aveva idea di quanto Albert parlasse di sé con i propri fratelli e non voleva essere fonte di turbamenti familiari.
Ora che ci pensava, era strano che Sherlock non avesse ancora fatto irruzione a casa di William. Ecco. Si era appena creato un altro scenario di cui preoccuparsi.
Mycroft sospirò stancamente e si chiese se fosse davvero il caso di andare da Albert con tutti quei pensieri. Gli mancava. Non lo vedeva da quasi quarantotto ore ed erano state lunghe, monotone. Solo la parentesi a casa di Sherlock aveva dato alla sua giornata un po’ di colore. Era un uomo adulto, teneva sulle spalle il peso di tutto l’Impero Britannico e Albert gli mancava. Per Mycroft l’età per simili smancerie era passata - forse non gli era mai stata davvero concessa - ma non poteva farci niente. Albert gli mancava, non poteva fare a meno di pensarlo.
Suo fratello e il suo amante erano due pensieri che si alternavano di continuo, come se fossero i perfetti rappresentanti delle due metà della sua vita. Forse lo erano.
Poi si fermò a riflettere: il Conte Moriarty, Albert James Moriarty, il suo amante.
Agli occhi della società tanto bastava a renderlo un criminale.
Quello che Mycroft non avrebbe mai ammesso era che gli piaceva.
“Grazie, Jones,” disse, scendendo dalla carrozza. “Passa una buona serata.”
“Buona serata a lei, Sir,” rispose il vecchio cocchiere, prima di riprendere la marcia.
Mycroft salì i pochi gradini che lo separavano dal portone di casa. Non fece in tempo ad aprire la porta che qualcuno lo fece per lui e lo trascinò dentro, nell’ingresso buio. L’istinto gli urlò di reagire e i suoi riflessi furono abbastanza pronti d’arrivare al calcio della pistola. Il suono di una risata e due mani calde sul viso gli vietarono di fare alcunché.
“Albert.” Mycroft intravide quegli occhi verdi nella semi oscurità che li circondava e a cui si stava abituando.
“Bentornato a casa, Sir Holmes.” Il suono della voce di Albert era suadente, ma questo non impedì al padrone di casa di pensare che aveva quasi impegnato un’arma contro di lui.
“Stavo per spararti,” disse, serio.
Mycroft non poté vedere l’espressione di Albert mutare, ma sentì l’entusiasmo scemare dal modo in cui lo toccava. “Giusto,” disse, come se si fosse appena reso conto di aver fatto una cosa assurdamente stupida. “Rispondi direttamente alla Regina, se qualcuno volesse colpire la Gran Bretagna, verrebbe da te.”
Il Direttore fu quasi sul punto di ricordargli che lui e i suoi fratelli volevano colpire la Gran Bretagna, ma si trattenne per evitare discussioni inutili. Cercò di smorzare la tensione: Albert era lì, la pistola era ancora al suo posto e non era successo niente d’irreparabile.
Resta la sorpresa.
“Che cosa ci fai qui?” Domandò Mycroft e sperò che dal tono della sua voce si percepisse il suo sorriso.
Le mani di Albert scesero sulla sua giacca, slacciando i bottoni alla cieca. “Volevo sorprenderti come io ho sorpreso te, ma temo di aver sbagliato il modo.”
“Dov’è Jane?”
“L’ho mandata a casa, dicendole che poteva prendersi la serata libera e tornare direttamente dopodomani.”
“Vuoi rinchiudermi in casa mia per un giorno intero?”
“Tutto dipende dai vostri desideri, Sir Holmes.” Albert lo spinse a voltarsi così che potesse liberarlo della giacca. “Il mio piano era accogliervi in casa e farmi preparare la cena da voi.”
A Mycroft scappò una risata. “È la mia cucina che ti ha convinto a tornare.”
“No, la tua compagnia lo ha fatto,” ammise Albert. “Solo che se cucino io, c’è il serio rischio che ci uccida entrambi. Vorrei evitare.”
Si erano rilassati entrambi.
Mycroft lo afferrò per i fianchi. “Sono sinceramente sorpreso.”
Le loro labbra erano a pochi centimetri di distanza. Sarebbe bastato un niente per baciarlo e fargli sentire quanto gli era mancato, ma Mycroft sentiva che non era il momento giusto. Si era creata una piacevole tensione in quell’ingresso e voleva dilatarla ancora un po’. Gli sfuggì un sospiro.
“Cosa c’è?” Domandò Albert, gentile.
“Vado in giro con questi vestiti da stamattina all’alba,” disse Mycroft. “Ho visto la luce accesa nel tuo ufficio e ho pensato di farmi un bagno, prima di venire all’Universal da te.”
Non poteva vederlo con chiarezza, ma sapeva che Albert stava sorridendo compiaciuto. “Sei passato all’Universal.” Non era una domanda.
“Solo davanti,” spiegò Mycroft, “mentre ero in carrozza. Volevo vedere se c’eri.”
“Immaginavo lo avresti fatto. Ho lasciato le luci accese per farti credere che fossi lì.”
“Oh, volevi depistare.”
“Sembra ci sia riuscito.”
Fu Albert a porre fine alla distanza tra loro e Mycroft non aveva davvero la voglia di allontanarlo per qualche stupido gioco di seduzione. Lo bacio e si lasciò baciare e fu il più bel ritorno a casa dopo tanto, tantissimo tempo.
“Sono lurido, Albert.”
“Allora rendete lurido anche me, Sir Holmes,” gli propose il Conte, tirandolo verso di sé. “Così, più tardi, potremo goderci un bel bagno caldo insieme.”
E chi era Mycroft Holmes per rifiutare una simile offerta?




***



Quella di correre sui tetti non era un’arte che William aveva fatto sua specificatamente per impersonare meglio il Signore del Crimine. Non era una cosa che un uomo come Jack Renfield poteva insegnare. No, per un ragazzino nato in condizioni miserabili e cresciuto per strada, era stata più una necessità. Il più delle volte, le strade era pericolose e nel buio dei vicoli si nascondevano mostri in grado di divorare i più deboli. Sui tetti era tutto diverso.
La maggior parte della gente aveva paura dell’altezza, del vuoto.
William quel timore non lo aveva mai avuto. Non era uno sbruffone, sapeva che il rischio di cadere era sempre dietro l’angolo, insieme alla morte, ma non gli metteva soggezione come avrebbe dovuto.
Dall’alto tutto assumeva un aspetto diverso.
Era un suo modo di prendere le distanze dal mondo che lo tranquillizzava, lo aiutava a riflettere. Anche ora che aveva una casa sicura e i mostri delle strade buie non erano più una minaccia per lui, William sentiva il bisogno di tornare a quella vecchia abitudine. Non doveva sforzarsi particolarmente per essere elegante e a modo. A suo dire, non erano nemmeno requisiti necessari per fingersi un giovane nobile: aveva conosciuto più rozzi nei salotti dell’alta società che per le strade dell’East End.
William era così. Glielo avevano detto fin da bambino: lui sapeva come parlare alle persone e tanto bastava per incantarle. Non era una recita, era solo quello che era.
E il bisogno di salire sui tetti, di tanto in tanto, faceva parte di lui allo stesso modo.
Era un modo per ricordare a se stesso che vestiva a meraviglia i panni del fratello di un Conte, ma rimaneva pur sempre un gatto randagio.
Quella sera, William non aveva scelto un posto in particolare. Voleva solo fare una passeggiata sopra Londra, dove nessuno lo avrebbe disturbato. Si era fermato a sedere perché l’altezza gli aveva offerto uno scorcio della città più affascinante di altri e i colori accesi del tramonto - gli unici visibili ai suoi occhi - erano una splendida cornice.
Distratto dai suoi pensieri, William non si era accorto di non essere da solo.
“Ciao…” Louis si avvicinò lentamente, come se avesse paura di essere cacciato, ma nel sorriso che il fratello gli rivolse trovò solo tenerezza.
“Louis.” William era felice di vederlo. “Vieni qui. Siediti vicino a me.”
Il minore non se lo fece ripetere una seconda volta. “Stai bene?” Domandò, premuroso.
“Sì, mi andava solo di prendere un po’ d’aria.”
Per un po’, il tramonto sembrò catturare l’attenzione di entrambi. Un tempo, guardare il cielo insieme era una cosa che facevano spesso. Louis ricordava un’estate passata a guardare le costellazioni, di cui William si era interessato tanto da leggere tutto quello che aveva trovato sull’argomento. Era sempre stato così tra loro due: William guidava e Louis, con tutta la fiducia e lealtà che un cuore poteva provare, seguiva.
Toccò proprio a quest’ultimo a spezzare il silenzio: “posso sapere dove hai intenzione di andare domani?” Lo domandò senza guardare il fratello, titubante.
Neanche William allontanò lo sguardo dal cielo. “Nell’East End,” rispose. Aveva chiesto a Fred di consegnare il suo invito a Baker Street ed era ovvio che il più giovane se ne fosse accorto. “Avevo promesso di non nascondermi più.”
“Questo lo so.”
“Ma sei turbato.”
“Perché proprio l’East End?” Louis sapeva che era inutile dire quanto quella parte di Londra fosse poco idonea per una passeggiata di piacere. Era stata la loro culla e non li aveva accuditi. Al contrario, le erano sopravvissuti.
“Voglio far vedere a Sherlock una cosa,” rispose William.
“Del nostro passato?”
“Non capirà che è del nostro passato.”
“Capire le cose è il suo lavoro, fratello,” gli ricordò Louis. “Se non avrà il ben che minimo sospetto, forse non è bravo come credi.”
William sorrise, comprensivo. “Non lo sopporti.” Era un’ovvietà, ma la disse guardando il minore negli occhi. “Posso chiederti perché?”
Louis si agitò. “Che domanda…”
“È solo una domanda, Louis, rispondi con sincerità.”
“Mi da fastidio.”
“Questo l’ho capito.”
Tutto di lui mi da fastidio,” sottolineò Louis. “Quell’uomo è un difetto vivente. Non riesco ad accostare alla sua figura sgraziata niente di positivo.”
“È intelligente,” propose William. “Questo è un pregio oggettivo.”
“No, è solo l’aggravante,” ribatté Louis. “Non sa usarla quell’intelligenza.”
Il maggiore sorrise, paziente. “Questo non è vero. Ha risolto tutti i miei enigmi e superato brillantemente ogni prova a cui l’ho sottoposto.”
Louis era imbronciato. “Riesci davvero a guardarlo, con tutti i suoi atteggiamenti rozzi e il suo accento stridente, e pensare che sia interessante.”
“Sì.” William non esitò ad ammetterlo. Sarebbe stato stupido fare il contrario. “E per quanto riguarda gli atteggiamenti e l’accento, trovo che lo rendano vero. Vuole essere così e basta. Non gli importa del giudizio della gente. Avrebbe tutte le carte giuste per integrarsi nell’alta società e diventare qualcosa di rispettabile e noioso ma si rifiuta. È un ribelle per natura.”
“Perché accosti rispettabile a noioso?”
“Perché Sherlock è una macchia di colore in mezzo a tanto grigio,” rispose William, ma non poteva confessare al fratello quanto quelle parole erano vere.
Louis lasciò andare un sospiro che era un po’ uno sbuffo. Doveva aver concluso che parlare di Sherlock con lui non poteva che irritarlo, perché cambiò argomento. “Albert non tornerà per cena.”
William non ne era sorpreso. “Deve discutere della strategia da usare al ballo dei Patel con Sir Holmes,” disse. Sapeva che quella era solo una delle ragioni che avrebbe spinto Albert a passare la notte in una casa che non era la loro.
“William…” Louis lo stava pregando di non fornire al fratello maggiore alibi di cui non aveva bisogno.
“Il letto dove Albert decide di dormire non è affar nostro,” disse William, senza essere duro. Si stava limitando a esporre al più giovane il proprio punto di vista.
“Lo so,” concordò Louis. “È che non è mai tornato da nessuno, prima d’ora.”
Tranne Sebastian Moran, ma quella era una confessione che non poteva fare. C’era un limite anche nell’essere crudeli con il Colonnello e i sentimenti di Albert andavano tutelati.
Le labbra di William si piegarono in un sorriso divertito. “E tu che ne sai?” Domandò, sinceramente curioso.
Louis si sentì preso alla sprovvista e non rispose subito. “Lo sai anche tu, no?”
“No,” ammise William, scuotendo appena la testa. “Posso essermi accorto del passaggio di un amante clandestino, di tanto in tanto, ma non ho mai avuto elementi per capire quante persone diverse sono state coinvolte.”
“Ah…” Commentò Louis, stupidamente. “Pensavo che Albert ne parlasse con te.”
“Degli amanti?” William scosse la testa. “L’unica cosa che mi ha confidato è di aver passato una notte con Mycroft Holmes ed è successo due giorni fa.”
Louis ne era sorpreso: sapeva di Albert qualcosa di cui William non era a conoscenza. Colpo di scena.
“E poi perché avrebbe dovuto parlarne solo con me?” Aggiunse William.
Louis si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo. “Dai, William…”
“Cosa?”
“Tu e Albert avete il vostro legame,” disse Louis. “Io e te abbiamo il nostro.”
La confusione con cui William lo guardò era genuina. “Siamo tre fratelli.”
“Sì, ma io sono il piccolo.” Da qualche parte nella sua testa, il più giovane dei fratelli Moriarty sentì il Colonnello Sebastian Moran ridere di lui. “Prima dei Baskerville, lo ero anche per te. Avete questa tendenza a tenermi fuori dalle questioni degli adulti.”
“Louis…”
“Sono un adulto anche io.”
“Lo so.”
Calò di nuovo il silenzio. Il cielo si era fatto scuro e la luce era quasi del tutto sparita, si vedevano le prime stelle. E Louis decise che era arrivato il suo turno di creare il panico. “Com’è?”
William inarcò le sopracciglia. “Che cosa?”
Louis prese a tamburellare le dita sulle ginocchia, nervoso. “Hai capito.”
“No, non ho capito.”
Il fratello minore si morse il labbro inferiore, duellando con la sua mente perché gli suggerisse il modo meno imbarazzante per spiegarsi. “Com’è passare la notte con qualcuno?”
William aprì la bocca ma la richiuse immediatamente. “Lo stai chiedendo a me?”
Louis si strinse nelle spalle, come se avesse freddo. “Ci siamo io e te qui,” disse. “E non andrei mai a chiederlo ad Albert, comunque.”
L’alternativa era Sebastian Moran, ma piuttosto si sarebbe buttato da quello stesso tetto di testa.
In quel momento, William fu felice che fosse quasi buio perché non c’era qualcosa di più frustrante del sentirsi in imbarazzo col suo stesso fratello, quello che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Disse qualcosa a bassa voce che Louis non afferrò.
“Eh?”
“Non lo so,” ripeté William.
Le labbra di Louis formarono una O perfetta e prese seriamente in considerazione l’idea di fare un volo di sotto. Sarebbe stato meglio di quello che provava in quel momento. “Scusami, io-“
La risata di William lo prese di sorpresa.
“Perché ridi?”
Il fratello maggiore lo guardò con quell’espressione tenera che riservava solo a lui. “Io e te che parliamo di queste cose…”
“Non ne stiamo davvero parlando,” ribatté Louis. “Nessuno dei due a qualcosa da dire riguardo all’argomento.”
“Ma con chi credevi che fosse successo?” William riusciva a stento a controllare l’attacco d’ilarità.
Louis allargò le braccia come a dire: ovvio, no? “Non ci sono molti candidati plausibili,” disse ad alta voce.
William smise di sorridere. “Sherlock?”
“Se potessi guardarti mentre parli di lui, non etichetteresti il mio sospetto come immotivato.”
“E come ne parlo?”
“Come un miracolo, un qualcosa destinato ad accadere solo una volta nella vita e poi mai più.”
“E quando sarebbe dovuto accadere?”
“Smettila di ridere, William. Avete avuto un’intera giornata a Durham, tanto per cominciare. Avete passato insieme la notte scorsa e domani vi rivedete, all’East End.”
“L’East End è sospettoso?”
“Stai ancora ridendo.”
“Abbiamo solo parlato, Louis. A Durham abbiamo risolto un paio di cose, al più. Nulla di sconveniente.”
“L’East End esiste per fare cose sconvenienti.”
William peggiorò la situazione dandogli una risposta ragionata. “No, non lo farei mai. Pagare una stanza all’East End per contenere lo scandalo? Non è da me e nemmeno da Sherlock. Troppo da amante clandestini. Lui ha una casa e non è affollata come la nostra. Sono certo che se il nostro rapporto dovesse divenire sconveniente, l’idea di un albergo non lo sfiorerebbe neanche. Mi porterebbe a casa sua, nel suo letto, sarebbe quel genere d’intimità che gli somiglia.”
Louis lo fissò con occhi e bocca spalancati. “Non posso credere che tu lo abbia detto sul serio.”
William rise di nuovo. “Ti sto prendendo un po’ in giro. Non ricordo nemmeno l’ultima volta che abbiamo riso insieme.”
Nemmeno Louis e quello sarebbe potuto essere un momento davvero toccante, solo per loro, peccato che William gli avesse ficcato in testa l’immagine di lui e Sherlock nella camera di quest’ultimo. “Il 221B di Baker Street deve bruciare.” Non c’era altra soluzione. Il fatto che non potesse davvero risolvere col fuoco anche quel problema lo affliggeva.
“Che cosa hai detto?” Domandò William.
“Niente,” rispose Louis, sconfortato. Si alzò in piedi. “Torniamo a casa. È buio.” Porse la mano al fratello per aiutarlo ad alzarsi.
William l’accettò e lo seguì.
CowT13, Week 2
M3: 09


Miss Hudson fissava l’orologio appeso tra il tubo della stufa e la credenza con particolare insistenza. L’impasto che stava mescolando si era solidificato da un bel pezzo, troppo perché potesse essere di qualche utilità. La padrona di casa però continuava a girare il mestolo con ritmo ben cadenzato.
Solo il ticchettio delle lancette interrompeva il silenzio assoluto del 221B di Baker Street. La situazione non poteva essere più sospettosa di così.
Miss Hudson non aveva sentito Sherlock rientrare - senza ombra di dubbio, il bastardo aveva messo piede nell’ingresso con passo felpato - ma non aveva dormito abbastanza per poter pretendere di essere di buon umore. A peggiorare lo stato in cui versavano i suoi poveri nervi era la calma piatta al piano di sopra. No, Sherlock non sparava contro il muro regolarmente, ma era molto strano che non avesse annunciato il suo ritorno suonando quel dannato strumento del diavolo - il violino.
La sciacquetta doveva averlo davvero privato di tutte le energie.
Male. Molto male.
Miss Hudson poteva non essere sposata, ma non era certo una suora e sapeva cosa serviva a uomo per tenerlo tranquillo. Nel caso di Sherlock, dovevano essere andati avanti per parecchio se a mezzogiorno non sentiva ancora il bisogno fisiologico di combinare qualche guaio.
Non appena udì una porta aprirsi e richiudersi, la signorina Hudson smise di mescolare e fece saettare lo sguardo in direzione della porta della cucina. L’aveva lasciata aperta di proposito, così da vedere se Sherlock tentava di svignarsela una seconda volta.
Fu John quello che vide comparire nell’ingresso.
“Ah!” Esclamò la padrona di casa. “Alla buon’ora! Aspettando di ricevere notizie da te, hanno incoronato Re il Principe del Galles!”
“Non scherziamo su questioni politiche,” disse John, stancamente, accomodandosi al tavolo della cucina senza chiedere il permesso. “Ci manca solo che il Signor Mycroft venga colto di sorpresa da una successione reale.”
La donna inarcò le sopracciglia. “Perché ora parliamo del Signor Mycroft?”
Perché Sherlock vuole ballare un valzer con il fratello del Conte Moriarty di fronte a tutta l’alta società londinese. John prese un respiro profondo. “Questo fine settimana, io e Sherlock presenzieremo a un ballo in maschero organizzato dal Marchese Patel e suo figlio. Sembra siano stati lontano dalla scena per diverso tempo e questo evento è il loro modo per integrarsi di nuovo col resto della nobiltà.”
“Ah!” La signorina Hudson sollevò il mestolo sporco. “Il Signor Mycroft è necessario per legare Sherlock e trascinarlo in carrozza fino al ballo. Ho capito.”
“No,” spiegò John. “Sherlock vuole andare.”
Lo sfortunato mestolo cadde di mano alla proprietaria atterrando sul pavimento con un sonoro thud. Il medico notò che parte dell’impasto schizzò sul pavimento, ma alla padrona di casa non poteva importare di meno in quel momento. “No, John,” disse con aria grave, scuotendo la testa. “Qui la situazione si sta facendo veramente grave.”
Non ha idea di quanto lo sia davvero, pensò il medico.
“Scommetto che Sherlock vuole andare perché ci sarà la sciacquetta!” Aggiunse, nervosa.
“Sì, è così.”
La signorina Hudson si lasciò alle spalle la ciotola con dentro l’impasto e sbatté la mano sul tavolo, a meno di dieci centimetri dal braccio di John, che trasalì.
“Che cosa ti ha detto il pazzo?” Domandò la donna e non avrebbe mai accettando del silenzio come risposta.
John pensò quasi d’inventarsi una balla per farla contenta, ma la verità era così semplice che non valeva la pena complicarla. “Hanno parlato.”
L’altra lo guardò come se fosse un completo idiota. “Hanno parlato,” ripeté. “Tutta la notte?”
“Sì, tutta la notte.”
“E tu l’hai bevuta?” Urlò la signorina Hudson, esasperata. “Devo sempre fare tutto io in questa casa… Dov’è Sherlock?”
“Sta dormendo,” rispose John, anche se gli sembrava una risposta ovvia.
“E perché sta dormendo?”
“Perché è rimasto fuori tutta la notte?”
“No, John!” La signorina Hudson sbatté il palmo aperto sul tavolo una seconda volta. “Dorme perché è rilassato. Ora, pensaci bene, hai mai visto Sherlock rilassato? No, che non lo hai visto! E sai perché? Perché non è capace di farlo!”
John sollevò la mano per invitarla a calmarsi. “Anche ammesso che sia successo quello che state supponendo voi-“
“Io suppongo che Sherlock e la ragazza usino sostanze illegali per divertirsi!”
“Non c’è bisogno di-“ John si bloccò. “Che cosa?”
La signorina Hudson era seria, molto seria. “Avanti, John, sei un medico, so che ti sei accorto che Sherlock ha qualche vizio di troppo.”
John gesticolò nervosamente: non voleva parlare così apertamente dei lati oscuri del proprio partner, specie se lui era il primo a non conoscerli nei dettagli. “Una volta, mi ha prestato una sigaretta e stavo per soffocare. Penso avesse mischiato il tabacco ad altro, ma ora non lo fa più.”
La Hudson aggrottò la fronte. “Sicuro?”
“Sì, quando non se ne accorge, fumo una sigaretta delle sue per controllare.”
Tu pensi che non se ne accorga.”
“Ho visto Sherlock al peggio di sé solo dopo il caso di Hope,” ammise John. “Era l’inizio della storia del Signore del Crimine, ricordate? Prima ancora che Londra ne parlasse davvero. Sherlock era vittima di una stasi, al tempo. Qualunque cosa ci fosse mischiata a quel tabacco, gli dava conforto. Era un disastro, ma non si è ripetuto!”
“Oh, caro mio, tu non lo hai mai visto essere davvero un disastro.” La signorina Hudson incrociò le braccia sotto al seno, lasciando andare un sospiro triste. “In realtà, anche io ho assistito a quella fase solo di sfuggita. Mi sono accorta che qualcosa non andava, ma al tempo fu il Signor Mycroft a occuparsi di tutto. Per un certo periodo, Sherlock continuò a tenere qui le sue cose e pagare l’affitto ma visse a Mayfair da suo fratello. Fu davvero una brutta storia.” Si fermò a studiare l’espressione del medico. “Sherlock non te lo ha mai raccontato, vero?”
John scosse la testa. “No.” Non ne era sorpreso. “Credo che si vergogni, sapete?” Ipotizzò ad alta voce. “Si vergogna di essere stato dipendente da qualcosa. Forse avete ragione, lo è tutt’ora.”
“Visto!” Esclamò la padrona di casa. “La sciacquetta è nobile e i nobili si annoiano facilmente! Vizio di qua e vizio di là!”
“No, non mi riferivo a quello.” Era la prima volta che John faceva una simile riflessione e si sorprese di non averci mai pensato prima. “Parlo dell’ossessione di Sherlock per il Signore del Crimine. Dice che vuole prenderlo e io gli credo. Devo credergli.”
“Ma?”
John ci pensò bene prima di dirlo ad alta voce, perché se così fosse stato, la relazione tra Sherlock e William James Moriarty era pericolosa sotto troppi punti di vista. “Certe volte penso che lui desideri che questo gioco di misteri non finisca mai,” disse a bassa voce, come se avesse paura di essere udito dal suo coinquilino al piano di sopra. “Ne vuole di più, sempre di più. È lo stesso meccanismo di una dipendenza, anche senza il coinvolgimento di sostanze stupefacenti.”
La signorina Hudson si sedette accanto al medico, preoccupata. “Hai completamente faccia,” commentò. “A che cosa stai pensando?”
John fissò un punto qualunque del pavimento. “Guarire da una dipendenza è terribile. Non esiste una vera letteratura in medicina perché la società non riconosce la dipendenza come una malattia, ma una vergogna.”
“E non si può guarire quello che non deve esistere,” concluse la Hudson con una smorfia.
John annuì. “Per quanto terribile, è possibile disintossicarsi dall’abuso di una sostanza,” proseguì. “Ma come ci si disintossica da una persona?”
“Spiegati meglio.”
William James Moriarty si rivela essere il Signore del Crimine, Sherlock arriva a capo del mistero e la giustizia fa il suo corso. Pensò il medico. Niente più misteri. Niente più gioco. Niente più Liam.
Bussarono alla porta d’ingresso, prima che il medico potesse pronunciar parola.
“Arrivo,” disse la signorina Hudson, alzandosi. Tornò meno di cinque minuti dopo. “È un telegramma da parte del Signor Mycroft.”
John annuì. “Quando si sveglierà, lo farò avere a Sherlock.”
“No, è per te.”
Dopo un primo momento di sorpresa, il medico allungò la mano. “Vuole sapere se Sherlock è tornato a casa e sta bene,” riassunse ad alta voce.
“Il ragazzo sta aspettando la risposta qui fuori,” disse la signorina Hudson, attraversando la stanza. “Ti prendo carta e penna così puoi rispondergli che il teppista di strada sta dormendo nel suo letto.”
John alzò lo sguardo verso il soffitto. “Devi fermarti o ti farai male, Sherlock,” mormorò a voce bassissima.




Sherlock restò a letto per mezza giornata. Non dormì molto e per quel poco sognò di Liam. Quando si svegliò per l’ennesima volta, stufo di girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, si liberò delle coperte con un calcio e si alzò con un mezzo saltello.
“Oh, Liam, Liam, Liam…”
Se Lestrade avesse bussato alla sua porta in quel preciso momento per proporgli il caso più elementare della storia, Sherlock non sarebbe riuscito ad arrivare a una soluzione. Pur concentrandosi, nella sua testa non avrebbe trovato altro che Liam.
Si erano lasciati d’appena poche ore, dopo aver passato insieme tutta la notte e Sherlock ne sentiva la mancanza come se ogni minuto lontano da lui fosse uno in meno d’aria.
Quanto poteva resistere in quello stato miserabile?
Liam gli aveva chiesto di avere pazienza ma John aveva ragione: lui e il concetto di pazienza viaggiavano su due binari paralleli. E la mente di Sherlock non si fermava lì, all’aspettativa del loro prossimo incontro. No, andava avanti ancora e ancora. Si chiedeva se un’altra notte insieme sarebbe bastata a placare il suo animo inquieto o, al contrario, un’altra separazione non avrebbe fatto altro che aumentare il senso di soffocamento.
Sherlock si sedette ai piedi del letto con uno sbuffo, passando una mano tra i capelli pieni di nodi. Doveva farsi un bagno. Sì, forse l’acqua calda avrebbe rilassato i suoi nervi per una manciata di minuti.
Scosse la testa con forza. A chi voleva darla a bere? Nei suoi momenti peggiori, si era ritrovato strafatto di oppio, pur di porre un freno alla sua mente impazzita e trovare riparo all’ombra di una pace illusoria, velenosa.
Ma il pensiero di Liam non lo spingeva a farsi del male in quel modo.
Poteva essere ripetitivo, addirittura ossessivo ma Sherlock non voleva staccarsene. Voleva che Liam fosse lì, al centro della sua mente.
Liam lo faceva stare bene.
Non c’era un modo scientifico per dissezionare quel pensiero e dargli una spiegazione logica.
Liam, semplicemente, lo faceva star bene.
Quel genere di esperienza era talmente estranea a uno come Sherlock Holmes, che non poteva fare a meno di avvertire un moto di panico, sotto tutto l’entusiasmo.
“Che cosa mi stai facendo?” Domandò alla stanza vuota.
Se il suo modo di pensare non fosse stato strettamente legato alla logica, Sherlock avrebbe anche potuto sospettare che Liam gli avesse fatto una qualche sorta d’incantesimo. Era davvero possibile che un uomo come lui, che mai si era sforzato d’integrarsi e che, al contrario, rifuggeva la compagnia di qualsiasi essere umano - John era solo una fortunata eccezione - desiderasse tanto la vicinanza di un’altra persona?
La risposta se l’era data da solo il giorno prima, quando il suo partner si era dimostrato preoccupato a morte per la possibilità che William James Moriarty fosse la sua Anima Gemella.
“E chi altri, se non tu, Liam?”
Sherlock si lasciò ricadere sul letto con un sorriso sognante. Gli girava la testa, ma non c’era nessuna sostanza chimica in circolo nel suo sangue da poter biasimare.
Bastava il ricordo di Liam, del suo sorriso contenuto - forse timido, di chi non è abituato ad avere un’espressione spontanea ma solo di cortesia - e di quegli occhi dal colore impossibile. Dio, quante persone al mondo esistevano con le iridi dello stesso colore delle rose rosse?
La sua mente gli suggerì l’immagine di Louis James Moriarty e Sherlock la scacciò via di prepotenza, con un gesto della mano, manco gli fosse comparsa davanti agli occhi giusto per rovinargli il momento.
Fu la spiacevole distrazione di un istante e nulla più.
Mentre fissava il soffitto della propria camera, Sherlock tornò a Liam, a come la sua mano gli era sembrata così piccola rispetto alla propria.
Liam.
Liam, che era la sua Anima Gemella.
Liam, che era il Signore del Crimine.
Era al di fuori di ogni logica come quel sospetto non facesse altro che alimentare il desiderio di Sherlock. Se guardava al futuro, la logica gli suggeriva solo possibilità avvolte nelle tenebre. Non ne temeva neanche uno.
Doveva solo spingere Liam a confessare, a gettare la maschera.
Una volta uno di fronte all’altro, il gioco sarebbe stato solo tra loro due.
La legge di quel paese poteva anche andarsene al Diavolo!
Non è un pensiero comodo? Gli domandò una voce in fondo alla sua testa, che suonava fastidiosamente come quella di Mycroft. Vuoi rendere le indagini oggettive tramite logica e scienza. Vuoi rendere la giustizia uguale per tutti, ma per lui faresti un eccezione?
“Non mi sono mai considerato l’eroe di questa storia,” rispose Sherlock. “Non ho mai considerato Liam l’incarnazione del male. Entrambe sono realtà che esistono solo nella testa del Signore del Crimine.”
E come consideri te stesso? Lo interrogò la voce. Come consideri lui?
Sherlock si umettò le labbra. “Ci sono cose…” Lasciò la frase sospesa per un istante. “Ci sono tentazioni per cui un uomo è disposto a compromettere se stesso.”
Vuoi compromettere te stesso per qualcosa di tanto banale come una tentazione?
“Ero compromesso anche prima di Liam,” disse Sherlock, a se stesso. “E no, lui non è banale come una tentazione.”
E allora cos’è, Sherlock? Cosa spinge un uomo a mettere in discussione tutto se stesso?
“Un ideale.”
Non è il tuo caso. Riprova.
“Un sentimento?” Sherlock lo chiese a se stesso. La voce nella sua testa non gli rispose.
Basta, gli era venuto il mal di testa.
Si alzò e decise che si sarebbe fatto quel bagno.





William non riusciva a chiudere occhio. Aveva tirato le tende con cura, cercando di tagliare fuori dalla camera da letto la luce del sole. Non c’era stato niente da fare: da dove si trovava, poteva vedere un singolo, galeotto, raggio dorato scivolare tra fessure della stoffa pesante, attraversare la stanza e toccare le rose blu che erano ancora appoggiate al centro della sua scrivania.
Il colore era tornato, ancor più vivido di quanto non fosse prima e William non riusciva ad allontanare lo sguardo. Non poteva.
Disteso al centro del letto, guardava quei fiori e cercava tra quei petali le sfumature degli occhi di Sherlock. Non ci riusciva.
La sua mente continuava a portarlo indietro, a quei pochi istanti sul ponte, mentre il sole tagliava l’orizzonte. L’immagine di quel viso era così nitida che avrebbe potuto disegnarlo nei particolari, se solo ne avesse avuto la capacità.
E il dettaglio dei capelli sciolti, che mai prima di allora aveva potuto vedere, non era affatto da mettere in secondo piano. William si era dovuto trattenere dal sollevare la mano ed accarezzarli, scoprire se erano morbidi come sembravano o, forse, un po’ ispidi. Sapeva solo che erano tanto neri che quando la luce del sole li toccava, avevano dei riflessi bluastri.
E poi c’era quel sorriso.
Quel luminoso, maledetto sorriso.
Poteva una cosa tanto innocente essere una tentazione così grande?
William si mise a sedere, piegò le ginocchia e le circondò con le braccia. Gli occhi scarlatti non lasciarono le rose blu nemmeno per un istante.
Aveva chiesto a Sherlock di avere pazienza e di fidarsi di lui e non erano state parole pronunciate a vuoto.
Voleva rivederlo. Doveva rivederlo.
Questa volta però una conversazione lunga una notte, all’interno di una carrozza che girava a vuoto, non sarebbe bastata. Ci voleva qualcosa di personale, di stimolante. Doveva accendere l’interesse di Sherlock ancor di più, ma non poteva scoprirsi troppo o del piano Moriarty non sarebbe rimasto nulla.
William si passò una mano tra i capelli, tirando un poco, come se quella lieve fitta di dolore fosse sufficiente a liberargli la mente da quello che era il grande schema. Non c’era nulla da pianificare, non nel modo in cui era abituato.
Era esattamente come aveva confessato a Louis: quel capitolo era per lui, non per il Signore del Crimine. Non voleva essere altro che quel Liam di cui Sherlock non la smetteva di pronunciare il nome. Anche se la vedeva tutti i giorni nel proprio riflesso nello specchio, era una persona che William non conosceva, di cui non si era mai interessato. Sherlock, invece, sì.
Il Detective stava portando alla luce qualcosa che William era sempre stato, ma che non si era mai concesso di essere. Perché la storia che aveva scritto per se stesso era un’altra, perché il suo ruolo prevedeva degli sviluppi e una conclusione che nulla avevano a che fare con un’anima legata alla propria da un vincolo impossibile da spiegare.
Sherlock Holmes era la sua Anima Gemella, era un fatto innegabile. Era il risultato di un problema matematico che non accettava opinioni.
Il destino non era sarebbe potuto essere più crudele.
William non pensava a sé. I suoi peccati erano innegabili e il suo castigo lo attendeva alla fine della strada, inevitabile come solo la morte poteva esserlo. Era Sherlock che avrebbe pagato il prezzo più alto. Sherlock, che sarebbe divenuto immortale come il Detective che aveva salvato la Gran Bretagna dalla crudeltà del Signore del Crimine, ma rinunciando a cosa?
William non si riconosceva alcun valore al di fuori del piano Moriarty, ma Sherlock lo guardava e vedeva Liam. Non c’erano dubbi sul fatto che il Detective si fosse accorto del legame che c’era tra loro. Se il giovane Moriarty aveva avuto dubbi, erano svaniti nel momento in cui Sherlock aveva cercato i suoi occhi alle prime luci dell’alba.
Era egoista e crudele da parte di William lasciarsi cullare da quella tentazione, perché regalava all’altro un’illusione che non si sarebbe mai concretizzata. Alla fine, Sherlock non lo avrebbe disprezzato solo per i suoi crimini, ma anche per aver giocato col suo cuore. E quello, almeno quello, era un peccato di cui William non avrebbe mai voluto macchiarsi.
Sì, era egoista e crudele perché quel poco tempo che era per lui e per Sherlock, William lo voleva tutto. Tutto.
Prima che fosse troppo tardi.
Ormai conscio che non sarebbe riuscito a riposare, si alzò in piedi e lasciò la camera da letto.




Sherlock chiuse la porta della sala da bagno a chiave.
John non era il tipo da entrare senza bussare, ma aveva bisogno di un po’ di tempo per sé e non voleva correre rischi. Nell’ attraversare il salotto, aveva afferrato lo Stradivari e l’archetto, entrambi abbandonati sul divano. Aprì i rubinetti della vasca da bagno e quando fu soddisfatto della temperatura del getto, si fece indietro e la guardò riempiersi. Nell’attesa, incapace di rimanere fermo per più di cinque secondi, appoggiò il violino sulla spalla e prese a suonare distrattamente. Le ragioni per cui quello strumento gli era così caro erano molteplici. Da bambino, si era accorto che suonare lo aiutava a mettere in ordine le idee e, al contempo, gli offriva una valvola di sfogo quando la sua emotività diveniva qualcosa di troppo.
Mycroft sosteneva che il violino era il suo unico tratto distintivo a regalargli un poco di eleganza. Sherlock non badava a simili particolari. La musica di quello strumento gli aveva dato qualcosa che non era riuscito a trovare da nessun’altra parte e lo aveva portate con sé per tutta la vita.
Liam era un po’ la stessa cosa, solo che non gli apparteneva.
Quel pensiero gli fece stonare una nota e, per un attimo, calò il silenzio all’interno della stanza. Sherlock lanciò un’occhiata alla vasca: l’acqua non era ancora arrivata alla metà.
Appoggiò la guancia sullo Stradivari e posizionò l’archetto. Prima di riprendere a suonare, chiuse gli occhi.
Come la prima nota venne seguita, il mondo come tutti gli altri lo conoscevano smise di esistere. Sherlock prese la distanza da tutto: dal rumore dell’acqua che scorreva, dai rumori che giungevano dalla strada, dall’odore del pranzo che proveniva dal piano di sotto. Lasciò che la musica diventasse espressione del suo mondo interiore e permise alla sua mente un gioco di fantasia a cui non si era mai lasciato andare.
Due labbra sfiorarono le sue, calde come se fossero reali. Non lo erano.
L’archetto esitò sulle corde.
“Non smettere di suonare,” ordinò una voce che conosceva bene.
Sherlock aprì gli occhi e trovò quelli scarlatti di Liam a pochi centimetri dai suoi. Il Detective dischiuse le labbra, ma l’altro vi premette contro l’indice per zittirlo. “Non smettere di suonare,” ripeté, come se fosse realmente lì.
Non lo era. Era solo una fantasia di Sherlock.
“Se la musica si ferma, tutto finisce,” disse Liam, appoggiando entrambe le mani sul suo petto, giocando coi bottoni della camicia del pigiama. Tutto mentre le proprie labbra minacciavano di toccare ancora quelle di Sherlock, ma senza mai farlo realmente.
Il Detective era pietrificato. Le dita che premevano le corde e il braccio che muoveva l’archetto erano le sole parti del suo corpo a spezzare l’immobilità.
Liam - quella fantasia con le sue fattezze - faceva tutto il resto. “Non smettere di suonare,” mormorò, contro la sua bocca. “Non smettere di suonare, Sherlock.”
Lo baciò.



William se ne stava seduto sul davanzale di una delle finestre della sua camera, quella che dava sulla serra. Poteva vedere un gran via vai da lì e dedusse che gli altri si stavano preparando per pranzare tra le rose. Vista la poca collaborazione che la sua mente dimostrava nel rilassarsi, avrebbe potuto mettersi qualche vestito addosso e raggiungerli per mangiare tutti insieme. L’idea di avere gli occhi curiosi di tutti addosso non lo allettava. Rasserenato Louis, nessuno si sarebbe permesso di dire niente - forse solo Moran avrebbe fatto uno scivolone, ma senza malizia - ma William aveva bisogno di essere solo nella sua testa, prima di poter affrontare gli altri.
E in quel momento, ciò che gli impediva di riposare era l’ingombrante presenza di Sherlock nei propri pensieri.
Aveva un libro appoggiato sulle gambe, una lettura che aveva rimandato di continuo e che non avrebbe trovato maggior fortuna quel giorno. Per disperazione, William si era messo a eseguire i suoi stessi esercizi, quelli assegnati ai suoi studenti, tanto per provare a sgombrare la testa.
Non ci era riuscito.
Nemmeno un buon libro sembrava avere un simile potere contro Sherlock Holmes.
William si alzò in piedi con un sospiro stanco e ripose il volume sullo scaffale, insieme a tutti gli altri. Appoggiò la schiena alla scrivania, cercando un modo di sfogarsi che non richiedesse il coinvolgimento di una spada. A dirla tutta, un incontro amichevole di scherma con Louis avrebbe fatto solo bene ai suoi nervi, ma non voleva svelarsi al fratello minore più di quanto aveva già fatto.
Il più giovane gli avrebbe concesso spazio di manovra in virtù del bene che gli voleva, ma mostragli quanto forte era l’ascendente di Sherlock Holmes su di sé non era cosa saggia.
No, William aveva bisogno di restare da solo e ristabilire un equilibrio in cui il Detective non aveva spazio. Sollevò gli occhi scarlatti e le rose blu sulla sua scrivania gli suggerirono che quello non era il luogo migliore per farlo. Non si disturbò ad aprire l’armadio e darsi un contegno, ma si limitò a indossare la vestaglia da camera sopra il pigiama.
La stanza che doveva raggiungere era al piano di sotto - quello comune - e non la usavano quasi mai. Avere una sala della musica era quasi la prassi in ville come quella, ma questo non significava che dovessero per forza esserci musicisti in famiglia. Albert aveva studiato pianoforte da bambino e aveva passato le basi a William. Tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, poco dopo l’incendio della tenuta dei Moriarty, William - ancora libero dai doveri della vita adulta - aveva fatto del pianoforte un piacevole passatempo. Il fatto che eccellesse in quello, come faceva in tutto, non era stata una sorpresa per nessuno. Non ne aveva mai approfittato. Aveva scelto la strada della matematica e dell’insegnamento e, ben presto, il tempo di suonare solo per voglia di farlo gli era mancato.
William era certo che il rapporto tra Sherlock e il violino fosse completamente diverso. Decise che glielo avrebbe chiesto al loro prossimo incontro. Perché era ovvio che si sarebbero rivisto, doveva solo fare mente locale e mettere insieme i dettagli.
Tuttavia, ora era necessario dare un freno al suo cuore impazzito e quando entrò nella sala della musica, il pianoforte a coda gli parve bello come una visione.
Sedendosi sullo sgabello, William sapeva di non potersi aspettare un granché da se stesso: non ricordava nemmeno l’ultima volta che si era seduto a strimpellare qualche nota.
Sollevò il coperchio, rivelando i tasti bianchi e neri. Per lui non avevano alcun significato emotivo. Era conscio della bellezza che erano in grado di produrre, ma nulla di più.
“Che cos’è la musica per te?” Domandò William alla stanza vuota, sfiorando le chiavi con la punta delle dita. Qualcosa gli diceva che non si poteva dire di conoscere Sherlock Holmes senza prima averlo sentito suonare. “Sei un violinista che non è un violinista?”
William provò a immaginarselo mentre suonava e si rese conto che faceva fatica. D’altro canto, quale strumento migliore del violino per Sherlock Holmes? Aveva letto di un musicista italiano scomparso qualche decennio prima - se non ricordava male, il nome era Paganini - di lui scrivevano di quanta impetuosità mettesse nel suonare il violino, tanto da spezzarne spesso le corde. Una passione tanto smodata da parte dell’artista aveva spinto la gente dell’epoca a ricordarlo come il violinista del Diavolo.
Ecco, William era certo che Sherlock si accostava perfettamente a quella definizione.
Ma era solo una sua fantasia. Non lo aveva mai sentito suonare.
“Impetuoso, eh?” William pensò a un pezzo che potesse rendere bene l’idea.
Lo trovò e mise le dita in posizione.
Le prime note del Fantasie-Impromptu di Chopin riempirono la stanza veloci, inesorabili, come una corsa destinata a lasciare il giovane Moriarty senza fiato. William immaginò Sherlock in ognuna di esse, come se stesse cercando di fargli un ritratto attraverso la musica. Le sue mani rallentarono, seguendo il tempo di uno spartito che ricordava a memoria, e fu allora che la fantasia del Signore del Crimine raggiunse un livello più alto. Astrazione.
“Non smettere di suonare,” la voce di Sherlock lo raggiunse alle sue spalle.
Non era reale, ovviamente. Non poteva esserlo.
Eppure, William riusciva a immaginarlo così bene da sentirlo vicino.
“Non smettere di suonare, Liam.” Una mano sinistra comparse dal nulla, ricoprendo la sua. William la ritrasse e permise a quelle dita di accompagnarlo nell’esecuzione del pezzo, come se fosse una sola persona a eseguirlo.
Quante possibilità c’erano che Sherlock sapesse suonare anche il pianoforte? William non si era posto il problema.
La fantasia divenne sempre più reale: la mano libera di Sherlock gli aggiustò un ciuffo di capelli biondi dietro l’orecchio e William avvertì l’illusione di due labbra calde premere contro il collo.
“Chiudi gli occhi,” lo istruì la voce di Sherlock nella propria vita testa.
Lo aveva già fatto.
“E continua a suonare, Liam.”




Sherlock non conosceva il sapore delle labbra di Liam.
Non poteva saperlo perché non lo aveva mai baciato.
La sua fantasia seppe colmare le lacune della sua conoscenza magnificamente, tanto che la musica del suo stesso gli arrivò lontana, ovattata, mentre immaginava la bocca del giovane Moriarty sulla sua sua.
“Era così che mi volevi ieri notte?” Domandò Liam.
Sherlock non aveva una risposta. Non ce l’aveva perché non si era mai posto la domanda. Osare era la sua seconda natura, ma neanche lui aveva avuto l'ardire di spingersi tanto oltre.
Quando a John era venuto il dubbio che lui e Liam avessero fatto qualcosa di troppo sconveniente, lo aveva deriso. Ora era la sua stessa mente a prendersi gioco di lui, a portare alla superficie un pensiero su cui non si era mai soffermato per davvero.
Dietro le palpebre chiuse vide le iridi scarlatte di Liam illuminate dal primo sole del mattino e mentre la musica proseguiva, così faceva la voce dell’illusione che aveva creato per se stesso. “Perché hai tanta paura di ammettere che mi desideri, Sherlock?”
Paura. Era un sentimento che non lo riguardava.
Sherlock era spavaldo. Lui alla morte rideva in faccia, pur sapendo che non aveva il potere di vincerla.
“Temi di essere respinto?”
Era una possibilità. Sherlock si era spinto verso Liam in ogni occasione di cui il destino aveva voluto fargli regalo - troppe poche, in ogni caso - ma il giovane Moriarty non aveva mai mosso un passo verso di lui, non prima di chiamare il suo nome alla stazione di Durham.
E tanto era bastato per destabilizzare tutto l’equilibrio di Sherlock.
Ma gli serviva qualcosa di più.
Sapere che Liam ricambiava le sue attenzioni era divenuta una necessità. Per questo aveva mandato quelle rose blu, insieme a quell’invito crittografato ed era rimasto ad aspettarlo col fiato sospeso per tutto il giorno.
“Essere respinto da me ti farebbe così male?”
“Sì,” rispose Sherlock, senza pensare. Era abituato a essere allontanato dalle persone. La solitudine era stata la sua migliore compagna da quando la sua visione del mondo non aveva più trovato punti d’incontro con quella di Mycroft. Se l’intera Londra si era accorta di lui e lo considerava un eroe non era per merito suo. No, era stato il Signore del Crimine a metterlo in quella posizione e le capacità di narratore di John avevano completato l’illusione in modo magistrale.
Il vero Sherlock Holmes era solo un eccentrico che mai si sarebbe piegato all’integrazione. Liam, al contrario, era quanto di più si avvicinasse all’eccezione comune del termine perfezione.
Se sotto la superficie erano così simili, agli occhi del mondo non sarebbero potuti essere più diversi l’uno dall’altro.
“Se hai così paura di me, perché mi hai dato un simile potere?”
“Io non ho paura di te,” rispose Sherlock, continuando a muovere l’archetto sulle corde del violino. “E non ti ho dato nessun potere. Te lo sei preso e basta, bastardo.”
C’era del timore nel suo cuore, uno a cui non riusciva a dare un nome.
Le mani di Liam lo toccavano. Prima i capelli, poi il viso.
La notte precedente, erano stati così vicini per tutto il tempo, eppure si erano toccati così poco. Troppo poco.
“E quando mi rivedrai?” Domandò Liam, posando entrambe le mani sul suo petto. “Il tuo cuore batterà veloce come sta facendo in questo momento?”
“Questa è una domanda stupida.”
“I tuoi pensieri si contraddicono tra loro, Sherlock.”
Anche se era solo una fantasia, il Detective sentì un brivido caldo lungo la schiena nel sentir pronunciare il proprio nome.
“Sai che sono la tua Anima Gemella, ma fingi che non sia così,” proseguì Liam, senza pietà. “Vuoi che io sia il Signore del Crimine, ma la tua missione è quella di acciuffarlo. Non è così?”
“Perché dici questo?”
“Perché non puoi desiderarmi e, al contempo, volere che io sia la tua nemesi.”
La risposta di Sherlock era sempre la stessa. “Chi altri se non tu, Liam?”
“Sai perché hai paura? Perché se tutte le tue speranze si rivelassero vere, ogni tuo desiderio andrebbe distrutto.”
Sherlock mise troppa forza nel far strisciare l’archetto sulle corde del violino. Il risultato fu una seria di note stridule, che gli fecero stringere di più gli occhi. “So quello che voglio!” Esclamò. “E so quello che faccio!”
“È proprio questo il problema: sai che non c’è nessun lieto fine.”
“Basta, Liam!”
“Prima o poi dovrai tradire una parte di te, Sherlock.”
“Smettila!”
“Il punto è…” Le parole di Liam gli arrivarono come un soffio caldo sul collo. “Quando arriverà il mondo, cosa sceglierai di abbracciare e cosa di sacrificare?”
“Ti ho detto basta!” Sherlock spalancò gli occhi. Non c’era nessuno con lui, era solo.
La fantasia ebbe fino come la musica del violino.
Un rumore di acqua rovesciata lo costrinse a portare gli occhi in direzione della vasca da bagno.
“Maledizione,” sibilò, abbandonando lo Stradivari sul davanzale della finestra per andare a chiudere i rubinetti. Troppo tardi, il pavimento della stanza era già mezzo allagato. Bene, ecco servito alla signorina Hudson il motivo del giorno per lamentarsi di lui. Sherlock si passò una mano tra i capelli e decise che piangere sull’acqua versata era solo una perdita di tempo. Si liberò in fretta dei vestiti e s’immerse senza grazia, consapevole che l’onda d’urto avrebbe portato il disastro a propagarsi anche sotto la porta, fino al corridoio.
John non ci mise molto ad accorgersi del guaio che aveva combinato. “Sherlock, hai allagato il bagno?” Urlò.
“Che cosa ha fatto?” Proruppe la voce della signorina Hudson dal piano di sotto.
Sherlock udì il partner imprecare, poi vide la maniglia della porta abbassarsi senza successo.
“Sherlock!” Chiamo John. “Sherlock, che stai facendo lì dentro?” Domandò. Suonava più preoccupato che arrabbiato. “Sherlock, dimmi qualcosa!”
Il Detective non lo degnò di alcuna risposta. S’immerse sotto la superficie dell’acqua, estraniandosi completamente dal mondo esterno. Anche dal dolore che sentiva all’altezza del petto.





Mentre le note di Chopin continuavano a riempire la stanza, così la sua fantasia di Sherlock faceva lo stesso con la sua testa.
“Se volevi piacere da me, avresti potuto chiederlo,” disse la voce del Detective, sfrontata. “Sai benissimo che non ti avrei detto di no.”
“Io non so un bel niente,” ribatté William, continuando a muovere la mano destra sulle chiavi del pianoforte.
Il respiro caldo di Sherlock gli solleticò il collo, come se fosse veramente lì, alle sue spalle a prendersi gioco di lui. “Un’ammissione piuttosto grave da parte vostra, Professore,” disse. “Date l’impressione di sapere sempre tutto.”
“Stai parlando di te stesso.”
“No, Liam. È che io e te siamo uguali.”
“Non sai quanto ti sbagli.” William riusciva a respirare a fatica e parlare non gli riusciva un granché bene. “Sei quanto di più dissimile ci sia da me su questa terra.”
“Perché?” Domandò Sherlock, mentre la sua mano sinistra continuava ad accompagnarlo nell’esecuzione di Fantasie-Impromptu. “Solo perché mi hai scelto come tua nemesi non significa che io sia il tuo perfetto opposto, Professor Moriarty?”
William si umettò le labbra. “Mi chiedo spesso una cosa,” ammise. “Se mi vedessi per quello che sono realmente, continueresti a guardarmi come fai?”
“E come ti guardo, Liam?”
“Come se fossi l’unica cosa che valga la pena guardare a questo mondo.”
“Allora te ne sei accorto.”
“Mi sono accorto che ti piace molto la maschera che indosso.”
“Pensi che sia solo questo?”
William prese un respiro profondo. Sentiva caldo, il respiro era affaticato e il cuore gli batteva nel petto come impazzito. Più che suonare il pianoforte, sembrava stesse correndo per la propria vita.
“Se fossi riuscito a guardare attraverso di essa, io avrei fallito nel mio compito e tu, probabilmente, ora saresti qui per arrestarmi.”
“Pensi davvero di non esserti mai tradito, Liam?”
William ingoiò aria una seconda volta. “Se lo avessi fatto, saremmo in una posizione molto diversa.”
“Sei così convinto che le tue tenebre siano sufficienti ad allontanarmi?” Sherlock suonava derisorio, insopportabile. Quello vero non si sarebbe mai permesso di rivolgersi a lui in quel modo. “Quello che dovresti chiederti è se hai ancora abbastanza il controllo di te stesso da prendere le distanze da me.”
“E cosa ti fa chiedere che non ce l’abbia?”
“Hai capito di recente di essere la mia Anima Gemella,” gli ricordò la voce di Sherlock. “Questo non fa alcuna differenza per te?”
“Il finale della storia non cambia,” disse William, fermo.
Eppure, continuò a suonare con gli occhi chiusi, reggendosi saldo a quella fantasia.
“Perché?” Domandò Sherlock. “Perché lo hai deciso tu?”
“Non esiste un’altra via.”
“Allora perché te ne stai qui a desiderare che ce ne sia una?” Le labbra di Sherlock si posarono di nuovo sul suo collo. Istintivamente, William reclinò la testa da una parte per assecondarlo.
“Non importa quel che desidero,” disse il giovane Moriarty. “Questa storia è già stata scritta dall’inizio alla fine. Non ci resta che seguirne la trama.”
“Presuntuoso da parte tua pensare che anche io lo farò.”
“Non sta a te decidere.”
“Tirannico.”
“Faccio solo quello che deve essere fatto.”
“E quello che desideri?” Domandò Sherlock. “Pensi di essere Dio? Credi che tutto andrà secondo la tua volontà e che nulla potrà tentarti?”
“Non mi sono mai creduto Dio,” disse William. “Al contrario, ho scelto di personificare il Diavolo.”
“Un Diavolo che cade in tentazione non è credibile.”
“Non sono caduto in-“ William non riuscì a mentire a se stesso fino a quel punto. Non ce la fece perché avrebbe potuto descrivere tutte le sfumature degli occhi blu di Sherlock, mentre venivano illuminati dalla prima luce del giorno.
“Toglimi una curiosità, Liam,” disse la voce di Sherlock, talmente crudele ed estranea da non sembrare nemmeno la sua. “Fa così male cadere?”
William colpì le chiavi del pianoforte con tanta forza che il pezzo di Chopin s’interruppe di colpo, con una brutta stroncatura. Gli occhi scarlatti erano di nuovo aperti e la consapevolezza di essere da solo lo destabilizzò.
Sherlock non mi parlerebbe mai così, si disse, convinto. Sherlock non mi toccherebbe mai così, quel pensiero gli fece chinare la testa, afflitto.
Non aveva ragione di esserlo perché Sherlock Holmes non era entrato nella storia per essere suo.
CowT13, Week 2
M2: Flambé




“Shouuuto!”
La gioia che provava nel sentire la voce tuonante di suo padre che lo chiamava di prima mattina, mentre scendeva le scale e non era neanche del tutto presente a se stesso, Shouto davvero non sapeva descriverla, ma era una di quelle che più gli faceva rimpiangere la vita del dormitorio.
“A questo cellulare è successo qualcosa!” Annunciò Todoroki Enji, una volta che vide il figlio minore varcare la porta della sala da pranzo.
Shouto si portò una mano davanti alla bocca per coprire uno sbadiglio.
“Avrai toccato qualcosa,” propose, proseguendo verso la cucina per versarsi del caffè.
“Io non ho toccato un bel niente!” Ribatté suo padre, offeso come se avesse ricevuto la più umiliante e ignobile delle accuse. La solita reazione, nulla di nuovo.
Shouto affogò la replica acida di rito in un sorso di caffè.
Ci pensò Touya al posto suo.
“No, tu non tocchi mai niente. Capita solo che d’incanto le tue password cambino, cose come nome-account ed email diventino irrecuperabili e, infine, dal nulla riceviamo tutti i mesi il numero di una rivista di pesca sportiva, che, diciamolo, basta ricordarsi chi sei perché faccia ridere!”
Shouto tornò in sala da pranzo appena in tempo per vedere il fratello sedersi di fronte al loro genitore.
Enji sollevò lo sguardo dal display del cellulare per rispondere al ghigno divertito del figlio maggiore con un’occhiata storta.
“E chi ti dice che non mi stia preparando per portarvi tutti e due a pesca?”
Touya si annoiò di quel gioco immediatamente.
“Avanti, Endeavor, la pesca è come la vendetta: è per chi sa pazientare.”
Enji si voltò verso Shouto.
“Sono un tipo poco paziente?” Domandò.
Il vero mistero non era come Endeavor, l’Hero Number One, potesse essere così poco cosciente di se stesso, ma perché continuasse a cercare nel più piccolo dei suoi figli un fedele alleato, quando era evidente che Shouto, che amorevole col padre non era mai stato, non vedeva l’ora di spalleggiare Touya in quelle scaramucce familiari.
“Dai, papà…” Sospirò il più giovane del trio, stanco ancor prima che la caffeina entrasse in circolo.
Dai, papà,” ripeté Enji, irritato. “Non sapete dire altro?”
“Che è successo a quel cellulare?” Domandò Shouto, alla fine, prendendo posto a capotavola.
Enji tornò a smanettare con l’apparecchio.
“Tutti i miei contatti sono scomparsi!”
“Si saranno stufati di sentirti e si saranno autodistrutti,” propose Touya.
Shouto prese il cellulare dalle mani del padre ed entrò nella rubrica. Inarcò le sopracciglia.
“I contatti ci sono,” disse. “È che qualcuno ha modificato i nomi.”
“Qualcuno chi?” Enji si allarmò in tempo zero. “Qualcuno sta hackerando la nostra linea o qualcosa del genere? Forse vogliono incastra-“
Mentre suo padre si lanciava in una serie di teorie complottiste, Shouto rivolse uno sguardo a Touya, che nascondeva il sorriso divertito dietro il pugno chiuso. Ecco trovato il colpevole. Shouto non ne era affatto sorpreso.
“Il nome di ogni contatto è stato sostituito da un soprannome, ma i contatti ci sono tutti.”
Enji si sporse verso di lui.
“Sicuro?”
“Riconosco i numeri,” confermò Shouto. “Regina di ghiaccio è la mamma.”
“Sì, ma chi-?” Enji venne colto dall’intuizione chiave un po’ troppo tardi.
Guardò Touya di traverso e il figlio maggiore smise di nascondere il suo divertimento.
“Sei un detective, papà,” lo schernì.
“Non hai altro di meglio da fare che farmi prendere un colpo?” Tuonò Enji. “Pensavo che fossimo sotto l’attacco di un quirk informatico!”
“Oh, che esagerazione…” Touya sbuffò. “Fare il Villain non va bene, organizzare scherzi innocenti neppure… Dillo che vuoi vedermi morire di noia!”
Ormai incuriosito, Shouto continuò a scorrere la lista dei contatti.
“Chi è il Flambé tra i preferiti?” Domandò al fratello.
Touya sollevò l’indice destro, muovendolo ritmicamente da destra a sinistra.
“Se non indovini, non è di divertente.”
Shouto accettò la sfida.
Il coniglio pazzo è facile, Mirko.”
“Questa era scontata, dai.”
Lentiggini… Fai sul serio, Touya.”
“I soprannomi partono da una caratteristica fisica, no? Lentiggini è indicativo, senza essere offensivo. Suvvia, ricordati che ti chiamano Semifreddo.”
“Sono Semifreddo anche in questa rubrica?”
“No, io sono un artista, non plagio.”
Enji passò lo sguardo da un figlio all’altro.
“Chi è Lentiggini?” Domandò confuso.
“Deku,” rispose in coro i due ragazzi.
Il numero successivo era quello di Bakugou. Shouto lesse e guardò suo fratello in modo eloquente: “Petardo impazzito di ‘sto cazz-… Touya…”
“Che vuoi? Non vorrebbe farsi chiamare Dio-della-morte-che-cazzo-ne-so-io?”
Stanco di essere escluso del gioco, Enji recuperò il proprio cellulare.
“Adesso tocca a me.”
Touya sbuffò.
“Bene, è finito il divertimento!”
“Sul serio, perché ho un Flambé tra i preferiti?” Endeavor non ricordava proprio di aver mai avuto un numero in quella sezione, tanto per cominciare.
Touya fece un esasperato gesto della mano.
“Non ti fossilizzare su quello,” disse. “Vai avanti.”
“Chi è Capolavoro?”
Entrambi i suoi figli lo fissarono, ammutoliti.
“Ti concedo un indizio.” Touya fu magnanimo. “È direttamente collegato ai tre sotto.”
Tentativo 2, Tentativo 3 e…” Enji corrugò la fronte. “Buona la prima?”
Più mostrava confusione, più i suoi figli sembravano divertiti. Non ebbe il tempo di lamentarsi di quell’alleanza a suo discapito che il cellulare prese a vibrare.
Il viso di Enji s’illuminò.
“Sta chiamando Flambé!”
Touya non gli permise di svelare il mistero da sé. Gli rubò il cellulare di mano e se lo portò all’orecchio.
“Keigo?”
Shouto credeva di essere una brava persona. Vista la sua storia, s’impegnava a esserlo ogni giorno, ma quando il collegamento tra Hawks e Flambé gli fu chiaro, il caffè che aveva in bocca gli andò di traverso e, in parte, gli uscì dal naso a causa delle risa che si arrampicavano su per la sua gola. Si coprì la bocca e chinò la testa, nascondendosi. Troppo tardi, si era guadagnato il suo posto all’inferno.
Enji non apprezzò quel black humor alla stessa maniera e guardò Touya lasciare la stanza con la morte negli occhi.
“Io ve lo dico, non so più davvero che pensare di voi due.”
CowT 13. Week 2
M3: 07. Due o più personaggi viaggiano insieme ed esplorano il loro rapporto lungo la strada.


“Sei sicuro che non vuoi che rimanga?” Hawks appoggiò il borsone sul bracciolo del divano e lo aprì per controllare un’ultima volta di aver raccolto tutte le sue cose.
Seduto a gambe incrociate sulla chaise longue, Touya stava facendo lo stesso.
“Ne abbiamo già parlato, Keigo,” disse, tradendo una serenità che era rara da parte sua. “È una cosa che devo fare da solo.” Chiuse la zip del suo bagaglio, come per sottolineare la definitività della sua decisione. “Inoltre, ti ricordo che hai passato più di un anno a spingermi a farla.”
“Sì, ma era prima che ti rapissi,” ribatté l’Hero.
“Non essere assurdo.” Touya rise, deridendolo un poco. “Anche se ti accusassi di rapimento, non mi crederebbe nessuno.”
Non era verosimile che Hawks potesse sequestrare con la forza Todoroki Touya senza causare due o tre incendi color blu nel processo. E la loro fuga era stata discreta, silenziosa, tanto che nemmeno la Commissione si era accorta di nulla.
“E non abbiamo fatto tutto da soli,” aggiunse Touya. “Ricorda di chi è questa casa e chi ci ha coperti nelle ultime settimane.”
“Shouto…”
“Mio fratello è l’unico che può sfilarsi da questa situazione senza subirne le conseguenze. Non è un Hero professionista, non ha il diploma e non è neanche maggiorenne."
“Solo per un paio di giorni ancora.”
“Shouto non è responsabile per me o per i guai che combino, mio padre sì e ci ha tenuto il gioco per più di un mese.” Touya parlava col sorrisetto soddisfatto di chi li teneva tutti in pugno. E lo faceva, forse con la sola eccezione proprio di Shouto.
Hawks accettò quella realtà senza ribellarsi: l’idea di fuggire e sparire per un po’ era stata sua, Touya si era limitato a proporre la casa al mare della sua famiglia come rifugio. Non se ne pentiva. No, neanche un po’ e se Mera lo fosse venuto a sapere, non sapeva se sarebbe riuscito a mentire a riguardo.
No, basta bugie. La ragione per cui Touya voleva affrontare suo padre da solo era proprio per evitare d’impilare un segreto sopra l’altro come era stato fatto in passato.
Il tempo che avevano passato in quella casa al mare non aveva senso, se non erano disposti ad accettare le lezioni impartite dagli errori di ieri per imparare a costruire un domani migliore.
Cosa ne sarebbe stato di loro due non era certo, ma Hawks era disposto a rischiare, a crederci, anche se lo infastidiva dover battere in ritirata per sgombrare il campo a Touya ed Endeavor. Ma, evidentemente, entrare in quella famiglia significava anche dover accettare che la sua presenza non era molto utile tra due fuochi - letteralmente.
“Tu sai che ti ritroverai faccia a faccia con un concentrato di ansia, vero?” Domandò Hawks, come se l’ansia al pensiero di lasciare padre e figlio da soli non ce l’avesse lui. “Un concentrato infiammabile, per di più.”
Touya scostò la frangia bianca da davanti agli occhi con uno sbuffo.
“Keigo, dai…”
“Sono solo preoccupato per voi.”
“Keigo, davvero, cosa vuoi che succeda?”
Hawks lo guardò in modo molto eloquente.
“Touya, vuoi che ti faccia un recap del vostro storico in ordine cronologico o alfabetico?”
“Sta nevicando.”
“Eh?”
“Sta nevicando,” ripeté Touya.
Hawks si voltò: la leggera pioggerellina che aveva bagnato le finestre per tutta la mattina ora era evidentemente più densa; non era ancora propriamente neve ma lo sarebbe diventata.
“Riesci a volare così?” Domandò Touya.
Hawks si aggiustò la giacca sulle spalle e prese ad abbottonarla.
“È un volo breve da qui alla città, non preoccuparti,” lo rassicurò. “Non lo è altrettanto un viaggio in macchina fino a Musutafu e se cominciano a scendere dei fiocchi in questa regione, significa che più a nord deve aver già imbiancato.”
Touya liquidò il problema con una scrollata di spalle.
“Non guido io.”
“Non è quello che mi preoccupa.”
“Non soffro il freddo.”
“Nemmeno quello.”
Dall’occhiata che l’Hero ricevette, fu evidente che il Todoroki non sarebbe stato paziente nei confronti delle sue proteste ancora per molto. Il viso di Touya tornò a essere il ritratto della noia - la sua espressione di default, quella con cui l’aveva conosciuto - e Hawks seppe di dover addolcire l’atmosfera.
“Vieni qui,” disse, allungando una mano guantata.
“Non mi va.”
Capricci, doveva aspettarselo.
Hawks percorse quei due metri e mezzo che lo separavano dalla chaise longue e si sedette di fronte a Touya.
“Mi mancherà tutto questo,” disse, abbracciando con lo sguardo tutta la zona giorno di quella casa sul mare.
“Non ci stiamo mica dicendo addio,” ribatté Touya. “Non questa volta.”
“No, lo so.” Hawks provò ad aggiustare una ciocca di capelli bianchi dietro l’orecchio di Touya, ma questa si liberò in fretta, indomita e ribelle come lo era il giovane uomo a cui apparteneva. “Ma queste settimane… Questo momento non tornerà mai più e credo proprio che il loro ricordo mi accompagnerà per tutta la vita. Tra molti anni-“
“Molti anni?” Ripeté Touya, con un ghignetto dei suoi.
“-ti guarderò e continuerò a vederti come sei in questo momento.”
Hawks si fece più vicino, tanto da toccare la punta del naso dell’altro con il proprio.
Touya non rispose immediatamente. Spostò lo sguardo sulle finestre - ormai cadevano dei veri e propri fiocchi di neve dal cielo - come se avesse paura che i suoi occhi potessero riflettere troppo. Anche se avesse voluto dire qualcosa, la vibrazione del cellulare di Hawks stroncò ogni suo tentativo di parlare sul nascere.
“È tuo padre,” disse l’Hero, leggendo il messaggio sul cellulare. “In pochi minuti sarà qui.”
Si guardarono. Erano rimasti in quella casa per meno di sei settimane e sembrava dovessero separarsi dopo un’intera vita insieme. Touya si rese conto allora, sulla soglia della fine di quel capitolo della loro storia, che cosa intendesse davvero dire Hawks con questo momento non tornerà mai più.
Una volta uscito da lì, Touya sarebbe salito in macchina con suo padre e avrebbe cominciato a raccontare, dall’inizio, omettendo le parti che nemmeno il genitore più comprensivo avrebbe voluto sapere. Una volta arrivati a casa, quel qualcosa che era stato solo suo e di Hawks non avrebbe più riguardato unicamente loro.
Non era certo che gli piacesse, ma non aveva dubbi sul fatto che fosse necessario.
“È ora che tu vada,” disse Touya, dando all’Hero quel bacio a stampo che aveva cercato qualche istante prima.
Hawks non si accontentò, fece scivolare le dita tra i suoi capelli e chiese di più, mentre Touya sorrideva contro la sua bocca. Quando gli occhiali ricaddero sul naso dell’Hero, si separarono.
“Va bene, va bene,” disse Hawks, alzandosi in piedi. “Me ne vado. Ti prego, chiamami se uno dei due sente la necessità di appiccare un incendio.”
“Sta nevicando,” gli fece notare Touya.
“Come se il ghiaccio ti avesse mai fermato,” disse Hawks, caricandosi in spalla il suo borsone. “Vado, fai il bravo.”
“Se non lo facessi, sai dove venirmi a cercare.”
“Touya…”
“Ciao, Keigo.”
Il Todoroki agitò la mano, invitandolo a prendere la via della porta.
Hawks gli lanciò un’ultima occhiata, come un uomo che non è convinto di quel che fa ma è deciso a compiere un atto di fede.
Non appena gli diede la schiena, Touya venne colto da un pensiero improvviso e aprì alla svelta il proprio borsone.
“Keigo?”
L’Hero si voltò e una t-shirt bianca lo colpì in faccia.
“Nel caso sentissi nostalgia del mio odore,” disse Touya.
Hawks prese l'indumento con la mano libera, capendo il riferimento a quella prima notte che avevano passato insieme sul divano di un locale ormai bruciato.
“L’ultima volta mi hai lasciato l’intimo,” ricordò, provocatorio.
Touya scrollò le spalle.
“Se vuoi che entri in macchina di mio padre senza mutande-“
“La maglietta mi rende felicissimo.”
Hawks mise un piede fuori dalla porta, poi cercò gli occhi turchesi per un ultimo scambio di sguardi.
“Ti cerco io.”
Se Endeavor non viene a cercarmi per primo.
“Ciao, Keigo.”
“Ciao, Touya.”




Touya sentì l’auto parcheggiare davanti le scale del portico appena una decina di minuti dopo. Si affacciò per assicurarsi che fosse chi aspettava e non si mosse dalla finestra per qualche minuto. Quando fu chiaro che suo padre non aveva alcuna intenzione di scendere - le temperature di quel giorno non erano sue alleate - Touya recuperò il borsone dal divano e uscì sul portico. Chiuse la porta d’ingresso a doppia mandata, poi infilò le chiavi nella tasca del giubbotto di pelle.
Puntò al portabagagli, ma lo trovò chiuso. Bussò un paio di volte sul lunotto posteriore e vide la sagoma scura di suo padre che prima si girava a cercare qualcosa a destra, poi a sinistra.
Cominciamo bene, pensò Touya, alzando gli occhi al cielo. Non sa nemmeno come si apre il bagagliaio della sua auto, come è riuscito ad arrivare fino a qui?
I fiocchi di neve ebbero il tempo di ricoprirgli le spalle, prima che il portellone si aprisse. Touya abbandonò il suo bagaglio e lo richiuse, poi aprì la portiera dal lato passeggero e si accomodò con i piedi sul cruscotto.
Sentì lo sguardo allibito di suo padre su di sé per alcuni, lunghissimi, istanti di silenzio e sogghignò compiaciuto.
“Cos’è questo atteggiamento?” Domandò Todoroki Enji.
Touya si decise a guardarlo: era decisamente stanco, coi nervi a fior di pelle e sembrava non radersi da un po’.
“La barba t’invecchia,” commentò. “Già che non parti in vantaggio…”
Il genitore gli diede un colpetto alla gamba.
“Siediti composto e allaccia la cintura di sicurezza.”
Lo guardava a stento, faceva discorsi pratici. Era evidente che non sapeva come cominciare un dialogo e stava prendendo tempo per mettere insieme una battuta di apertura decente. In altre occasioni, Touya avrebbe infierito, ma Hawks aveva ragione, il viaggio che li aspettava era lungo davvero e parlare serviva più a lui che al suo vecchio. Decise di concedere all’Hero Number One una piccola dose della sua pazienza, prese tempo togliendosi il giubbotto per sistemarlo sul sedile posteriore.
“Sei in t-shirt,” gli fece notare suo padre.
Touya non comprese l’obiezione.
“È un crimine?”
“Sta nevicando,” puntualizzò Enji, indicando la spiaggia per metà coperta da un sottile strato di neve e per metà divorata dal mare agitato.
“Mi hai fatto tu, te lo ricorderai che resisto molto al freddo,” disse Touya, sarcastico. “Tutti i problemi sono iniziati proprio da questo fatto, lo hai dimenticato?”
Suo padre si agitò al posto guida.
“Sì, non soffri il freddo, poi ti ammali, quaranta di febbre e corsa al pronto soccorso pediatrico!”
Touya provò a ingoiare una risata, ma non gli riuscì troppo bene.
“Se mi porti al pronto soccorso pediatrico adesso, c’internano tutti e due.”
Enji lo guardò per la prima volta da quando era entrato in macchina. Ora che si era sfogato con un paio di stronzate a caso, Touya poté vedere tutta la preoccupazione che aveva portato alle occhiaie scure sotto i suoi occhi.
“Stai bene?” Domandò l’Hero.
Il giovane annuì, niente veleno, niente sarcasmo.
“Dov’è Hawks?”
“Gli ho detto di tornare a casa. Sta bene anche lui.”
“Non m’interessa come sta lui.”
Touya fu sorpreso da quell’uscita.
“Sei arrabbiato con lui e non con me?”
Era una novità che non aveva previsto.
“Tutta questa follia è stata una sua idea, no?”
Sì, era stata la decisione giusta sottrarre Hawks da quell’equazione. Ci sarebbe stato un luogo e un momento per i due Hero di parlare dell’accaduto, ma per il bene dei futuri team-up tra il Number One e il Number Two, Touya doveva smussare qualche angolo.
“Ti ho affidato a lui,” continuo Enji.
“Tecnicamente, la Commissione mi ha affidato a lui.”
E a te.
“Hawks mi ha dato la sua parola!” Insistette Endeavor. “Mi aveva promesso che ti avrebbe protetto!”
Touya prese un respiro profondo.
“Primo, sono qui davanti a te e non mi è successo niente,” disse. “Secondo, solo tu e Keigo potete farvi promesse tanto idiote, quando rischiamo tutti la vita per lavoro ogni giorno. Terzo, so proteggermi da solo.”
“Lo so questo!” Esclamò Enji. “Lo so!”
Strinse le dita intorno al volante con tanta forza che Touya non si sarebbe sorpreso se si fosse staccato dal cruscotto.
“So che non mi crederai, ma non si tratta di non credere in te o nelle tue capacità, Touya,” continuò suo padre, tanto afflitto che sembrava sul punto di spezzarsi da un momento all’altro. “Sì, tutti noi rischiamo la vita per il nostro dovere, ma tuo fratello lo fa sotto i miei occhi, tu no! Posso contarle sulle dita le volte che ti hanno assegnato una missione insieme a me! Magra consolazione, dato che non mi ascolti mai!”
Touya non poteva negarlo.
“L’unica cosa a tenermi sano di mente, quando la Commissione arriva per mandarti non so dove a fare non so cosa, è sapere che Hawks è lì con te!”
“Ed è stato con me per tutto il tempo,” puntualizzò Touya anche se, in quel specifico caso, era più un’aggravante a carico dell’Hero alato piuttosto che una rassicurazione. “Papà sono qui, davanti a te, sto bene.” Non era molto paziente di natura, ma se suo padre avesse attaccato con la sceneggiata del genitore afflitto dalla preoccupazione, ne avrebbero avuto fino a Musutafu. Touya aveva qualcosa da dire, per le lagne di Todoroki Enji ci sarebbe stato tempo più tardi.
“Shouto che cosa ti ha detto?” Domandò.
Era certo che suo fratello non avesse spifferato più di tanto, ma era stato Touya a fare quella telefonata e a esporsi per primo.
“Oh, puoi stare tranquillo, tuo fratello è ormai un criminale consumato! Aspetterebbe di vedermi morire di ansia, prima di venderti!”
“Non è un criminale, è solo il miglior alleato in cui potessi sperare. Lo avessi saputo prima…” Touya rivolse a suo padre un ghignetto. “Dai, in fondo, ti fa piacere.”
Enji lo guardò storto.
“Alleatevi quando vi pare, ma non contro di me!”
“A che serve l’alleanza tra fratelli, se non per metterlo in quel posto ai genitori?”
“Touya, hai ventisei anni, prova a parlare e comportarti come un adulto, per piacere.”
“Ne ho venticinque per altri dieci giorni. Il che mi fa pensare… Spero che Izuku e il cane si siano attivati per organizzare qualcosa per il diciottesimo compleanno di Shouto.”
Non appena nominò gli eredi di AllMight, suo padre si massaggiò la fronte stancamente.
“Devo dirti una cosa…” Mormorò poi, tetro, come se dovesse comunicargli l’imminente funerale di Shouto o di uno degli altri due. “Tuo fratello ha una relazione coi due impiastri. Sembra che Bakugou sia un raro caso di Double Soulmate e ha inciso sulla pelle sia il nome di Shouto che quello di Deku. Non ho ben capito come funziona, ma è una cosa seria da parte di tutti e tre.”
Touya sbatté le lunghe ciglia, canzonandolo in silenzio.
“Lo so già, papà.”
Vista la situazione, era un po’ come dare a Endeavor una seconda pugnalata alle spalle e Touya poteva essere riabilitato abbastanza da starsene seduto in quella macchina a parlare, ma nessuno gli avrebbe tolto il gusto di essere un po’ sadico con suo padre quando si presentava l’occasione.
Enji fece la faccia di uno uomo a cui stava per staccarsi la mandibola.
“Che significa che lo sai?” Domandò, con un filo di voce. “Da quando?”
Touya allargò le braccia.
“Dall’inizio…”
Fu abbastanza pietoso da tenere per sé il fatto che Shouto prendesse degli anticoncezionali ormonali grazie a un permesso firmato da lui. Sadico o no, se Endeavor non fosse stato vivo per ascoltarlo, tutta la sua buona volontà di raccontarsi sarebbe andata in fumo.
Enji prese un respiro profondo e contò fino a dieci, poi cambiò discorso.
“Se Deku e Dynamight stanno organizzando qualcosa per tuo fratello, io non so niente,” disse. “Come sempre…” Aggiunse, funereo.
Questa volta, Touya rise e basta.
“Non c‘è niente di divertente!”
“Dai, parti. Devo arrivare con qualche ora di vantaggio per assicurarmi che mio fratello abbia almeno una torta.”
Sì a Enji quello faceva piacere, tanto, ma i nervi gli imponevano di fare il sostenuto.
“Tuo fratello è anche mio figlio, ti ricordo.”
“È un dettaglio ininfluente. Mio fratello è mio fratello, punto.”
“Ininflu- Come fa a essere ininfluente? Il fatto che io sia il padre sia tuo che di Shouto è la condizione necessaria perché voi siate fratelli!”
“Lo vedi quanto sei megalomane? Tutto ruota intorno a te! No, che non è necessario, basta e avanza che mamma ci abbia partoriti tutti e due.”
Enji aprì e chiuse la bocca un paio di volte, cercando una via d’uscita da quella logica ferrea. Non la trovò e passò oltre.
“Tua madre mi ha detto di controllare questa casa almeno una decina di volte nell’ultimo mese, mentre cercavo di capire dove potessi essere scappato,” disse, guardando l’edificio alle loro spalle attraverso lo specchietto laterale. “Non credevo ti ricordassi della sua esistenza.”
Touya si abbandonò contro il poggiatesta, guardando i fiocchi di neve che si posavano sul cofano scuro per sciogliersi in fretta.
“I ricordi belli ce li ho in testa come un film,” confessò. “Sono pochi e ho provato a cancellarli, ma sono lì e non se ne vanno.”
Non ebbe il coraggio di chiedere a suo padre se avesse conservato nulla di quelle poche estati in cui lui e sua madre si erano sforzati di costruire una famiglia. Qualunque risposta gli avesse dato, gli avrebbe fatto male e Touya non era lì per il loro passato, ma perché doveva dare la possibilità di un futuro a se stesso e Hawks.
“Perché hai scelto proprio questo posto?” Domandò Enji. “Perché hai deciso di portarci Hawks?”
Touya continuò a guardare di fronte a sé, come ipnotizzato dal moto delle onde che, imperterrite, continuavano a combattere contro la terra ferma, infrangendosi inesorabilmente. Forse Hawks aveva ragione e il mare in tempesta assomigliava un po’ a lui, pericoloso e indomabile.
Non disse niente. Afferrò l’orlo della maglietta e lo sollevò, mostrando il fianco destro e il nome Keigo inciso sulla sua pelle. Restò così il tempo necessario perché Enji leggesse e capisse - o perlomeno intuisse - che cosa era successo in quella casa sulla spiaggia nelle ultime cinque settimane e mezzo.
Solo quando la stoffa bianca ricadde al suo posto, Touya tornò a guardare suo padre negli occhi. Era un uomo distrutto, come previsto.
“Prenditi il tempo che ti serve,” disse Touya, simulando una sicurezza che in quel momento non sentiva proprio sua. “Aspetto dietro,” aggiunse, aprendo la portiera. “Sto più comodo.”




Enji mise la macchina in strada senza dire una parola e fece come se suo figlio non fosse nemmeno lì. Per un po’ il rumore dei tergicristalli fu l’unica cosa a spezzare il silenzio.
Touya puntò il gomito nell’angolo tra il finestrino e il sedile e appoggiò il viso al pugno chiuso. Il mutismo da shock era una cosa che si era aspettato, ma per quanto ancora sarebbero andati avanti così? Di pazienza ne aveva poca e la stava perdendo velocemente, senza considerare il pensiero intrusivo che si stava affacciando all’interno della sua mente, suggerendogli che suo padre lo stava scansando di nuovo per qualcosa che il destino aveva deciso senza interpellarlo.
Poi Enji parlò, senza rabbia, ma Touya sussultò come se gli avesse urlato addosso.
“Quando è comparso?”
Il ragazzo impiegò qualche istante per mettere insieme i pensieri, cercò gli occhi di suo padre nel riflesso dello specchietto retrovisore, ma Endeavor guardava la strada.
“Poco dopo che è nato Shouto,” rispose.
Enji corrugò la fronte. “Eri un bambino,” disse, come se la cosa non avesse alcun senso. “Hai chiesto a tua madre di non dirmelo?”
“Mamma non se n’è mai accorta.”
“Com’è possibile, Tou-?”
“Mi scottavo di proposito il fianco perché non si vedesse,” raccontò Touya. “Speravo che continuando a cancellarlo sarebbe sparito. Lo detestavo. Quando è successo quel che è successo, le ustioni hanno coperto tutto.”
“E, dopo la guerra, è ricomparso,” intuì Enji.
Touya annuì.
“Sì, ma ho continuato a bruciarmi per nasconderlo.”
Enji gli lanciò un’occhiata veloce.
“Hai un quirk di guarigione, ora.”
“Se resistevo abbastanza da provocarmi un’ustione di quarto grado, il marchio impiegava qualche giorno a tornare completamente visibile.”
“Touya, per l’amor del-“
“Non lo faccio più,” lo interruppe prontamente Touya. “Non devo più nascondere niente.”
Il sollievo sul viso di Enji fu evidente dal suo riflesso nello specchietto.
“Questo significa che Hawks ha…” Lasciò la frase sospesa.
Aveva,” puntualizzò Touya, appoggiando la tempia al finestrino freddo. “Il suo marchio era sulla schiena, tra le ali, vicino alla scapola sinistra.” Si tenne per sé la parte della storia in cui s’impegnava a cancellare il suo nome dalla pelle di Hawks con il fuoco, mentre le sue ali divenivano cenere.
Dabi aveva alimentato quelle fiamme con un odio che Touya non provava più.
Enji fu abbastanza gentile da passare oltre.
“E quando… Come…?” Fece un gesto nervoso con la mano. “Ti va di raccontarmi com'è andata?”
Touya era lì appositamente per farlo, ma sul momento gli mancarono le parole. Da dove doveva cominciare? Prima di tutto, pensò fosse importante riabilitare Hawks agli occhi di suo padre e, per farlo, doveva spiegargli le ragioni per cui erano spariti per più di un mese.
“Durante la guerra, mentre Hawks lavorava per la Commissione sotto copertura, mi è capitato di vedere il suo marchio. Touya è un nome come un altro, ma mi è parsa una strana coincidenza. Quando ho scoperto che il suo vero nome è Takami Keigo, ho messo insieme i pezzi.”
“Gliel’hai detto?”
Touya si umettò le labbra.
“Tu sai che io e Keigo ci siamo visti, prima della battaglia decisiva?”
Seguì una pausa troppo lunga, che fu già una risposta di per sé.
“No…” Enji si stava palesemente sforzando di rimanere calmo.
Touya non ne era sorpreso. Ancora una volta, Hawks ci avrebbe solo rimesso nell’essere onesto sul loro legame e aveva avuto già il suo bel da fare col fango che il Villain gli aveva gettato addosso in mondovisione.
“Non è un stato in incontro romantico,” puntualizzò. “Ma, dopo avergli detto il mio vero nome, ha cominciato a pensare alle coincidenze anche lui…”
Il racconto della notte in cui gli aveva chiesto di chiamarlo Touya durante il sesso lo poteva evitare.
“Gli ho mentito. Gli ho detto che non eravamo Soulmate.”
Enji lo spiò attraverso lo specchietto.
“Perché?” Domandò.
Touya inarcò il sopracciglio destro.
“Papà, ti ricordi la situazione o il trauma ti ha cancellato la memoria?”
L’Hero allargò le braccia, la macchina sbandò e riprese il volante velocemente.
“Potevi usare la cosa a tuo vantaggio. Che ne so?”
Touya decise che non era saggio lasciare al genitore troppo tempo per pensare e arrivò al dunque: “per farla breve, durante l’ultima missione mi sono distratto e Keigo ha letto il suo nome addosso a me. Ha capito che ho mentito per quasi due anni e non l’ha presa bene.”
“Beh… Ha ragione, però-“
“Ah, adesso ha ragione!” Esclamò Touya. “Mezz’ora fa lo odiavi, ma se l’ex Villain brutto e cattivo lo inganna, allora povero Hawks!”
“Se tu e i tuoi fratelli foste brutti, io avrei meno pensieri.”
“Dovevi pensarci mentre ti sceglievi una moglie. Se siamo belli, non è certo grazie a te.”
“Vabbè, Touya, torniamo al punto…”
“Niente, Keigo si è arrabbiato e abbiamo litigato.”
Enji non riusciva a immaginarselo Hawks che litigava. Di norma, era lui a far saltare i nervi agli altri e non il contrario, ma se avesse dovuto analizzare la situazione con sguardo oggettivamente critico - e con Touya di mezzo era difficile - avrebbe detto che il Number Two forse si era sentito tradito. Ciò nonostante, Hawks e suo figlio erano spariti dal radar per settimane, insieme, ingannando la Commissione e trascinando sia lui che Shouto nel complotto - senza contare i due mocciosi di AllMight che non si facevano mai gli affari loro. Non avevano certo scelto di chiudere fuori tutto e tutti in una casa in riva al mare per litigare meglio.
Ma Touya aveva scelto proprio quel punto della storia per fare il timido.
“E che è successo dopo?”
Touya si agitò sul sedile per una manciata di secondi.
“Keigo ha suggerito di scappare per un po’ e affrontare la cosa solo noi due, senza intromissioni esterne.”
Ed era qui che Todoroki Enji doveva affermare la sua posizione di padre ansioso.
“E non potevate farlo a casa nostra?”
Touya gli lanciò un’occhiata obliqua.
“Senza intromissioni esterne,” ripeté, scandendo ogni parola.
Enji si ritenne offeso.
“Quando mai ho-?”
“Papà.”
Papà, niente!” Tuonò l’Hero Number One, poi passò i seguenti cinque o sei chilometri a ripetere nella sua testa la scena in cui Shouto gli dava dell’ingombrante. Decise che il suo primogenito poteva tranquillamente non esserne informato. “Va bene, posso capire il fascino: una casa lontana da tutto, il silenzio, solo in mare in sottofondo. Davvero, lo posso capire.”
Era evidente dal modo in cui lo diceva che non capiva affatto, ma Touya non poteva pretendere che suo padre scoprisse il romanticismo alla soglia dei cinquant’anni. Anzi, qualcosa gli suggeriva che tutto quel discorso su la casa sul mare venisse da sua madre. L’impegno che ci metteva, però, lo faceva ridere.
“E cosa avete fatto cinque settimane e mezzo per elaborare il fatto che siete Soulmate?” Indagò Enji, ingenuamente.
Touya era indeciso se scoppiare a ridere istericamente o lanciarsi dall’auto in corsa. Scelse una versione più sobria della prima opzione.
“Dai, papà…”
E rideva.
Dai, papà, cosa?”
Touya si coprì gli occhi con un mano.
“Non lo so nemmeno io. Se non fossimo in quattro a provare il contrario, di te e mamma non avrei mai sospettato.”
Enji fece per chiedere che cosa avessero lui e Rei a che fare con tutta quella storia, poi il suo cervello mise insieme tutti i pezzi da solo, contro la sua volontà. Se ne pentì.
“Non ci posso credere…” Borbottò, come un vecchio incapace di accettare la condotta delle nuove generazioni. Si sentiva idiota da solo, ma questo non gli impediva di provare fastidio.
“Hai appena finito di ricordarmi che tra dieci giorni compio ventisei anni!”
“E allora? Sei piccolo!”
“A ventidue avevi me!”
“Erano altri tempi, c’era la guerra!”
“Che guerra? Quella nella tua testa contro AllMight e la vita?”
“Era un modo di dire!” Enji era a tanto così dall’avere un attacco isterico. “Ma Hawks…”
Touya si sporse in avanti.
“Cos’ha Keigo che non ti sta bene?” Domandò, sinceramente accigliato. “Venera la terra su cui cammini ed è praticamente il tuo unico amico!”
“Appunto, Touya! C’è una legge etica della genitorialità che impedisce ai padri di essere amici delle persone con cui i figli hanno relazioni intime!”
“Mah… A me risulta che si accolgano come figli acquisiti.”
“Quelle sono le madri. Rei sarà felicissima, al settimo cielo. Per lei non avresti potuto scegliere di meglio!”
Touya lo guardò, eloquente.
“Ma tu no, tu sei impossibile d’accontentare! Qualunque cosa facciamo, per te è un errore di dimensioni apocalittiche!”
“Non cominciare anche tu…”
“Chi altro lo ha fatto?” Il ragazzo finse di pensarci. “Fammi indovinare… Shouto! Immagino che Izuku e quell’altro fossero la cosa migliore che fosse capitata al tuo adorato capolavoro, prima che saltasse fuori che se lo baciano!”
Quell’altro….” Enji ghignò come se avesse già la vittoria in tasca. “Non approvi Dynamight.”
“Nemmeno la madre di Katsuki approva Katsuki,” ribatté suo figlio.
“A detta di Shouto, lei approva molto lui e Deku, però.”
“Grazie al caz-“
“Ragazzino, linguaggio!”
Touya ricadde contro lo schienale del sedile posteriore con uno sbuffo.
“Hai chiesto a Shouto se Izuku e Katsuki lo rendono felice?”
Due battute ed Endeavor aveva già perso il vantaggio. Scelse di rimanere in silenzio, fino a che la soluzione non gli balenò in testa con semplicità disarmante.
“Hawks ti rende felice, Touya?”
Fu il turno del suo primogenito di restare in silenzio.
Enji lo guardò attraverso lo specchietto retrovisore e lo trovò rannicchiato contro il finestrino, gli occhi rivolti all’esterno, corrucciato, con le braccia incrociato sul petto e rosso in viso.
L’Hero rise, impietoso.
“Vaffanculo di cuore, papà,” sibilò Touya, velenoso come una serpe.
“E adesso chi è che è impossibile d’accontentare?” Enji sapeva che se l’avesse presa di petto, non sarebbero andati da nessuna parte. “Sul serio, Hawks ti-“
“Keigo è a posto.”
Uno. Due. Tre.
“Sei innamorato, Touya?”
Poteva andare in due modi: suo figlio poteva chiudere quella discussione con astio e quella porta non si sarebbe riaperta mai più, oppure lo avrebbe lasciato avvicinarsi un pochino.
Da parte sua, Touya si sentiva improvvisamente piccolo. Pensò a quel ragazzino che si strappava i capelli e si massacrava per ottenere l’attenzione del padre e ora Todoroki Enji era lì, a barcamenarsi tra un’uscita idiota e le parole più giuste che avrebbe mai potuto dire. La ragione per cui Touya aveva deciso di dargli una possibilità non era perché gli serviva la sua approvazione, ma perché conosceva la lama a doppio taglio dei segreti e ne aveva abbastanza di ferite inutili.
Ma lì, di fronte a quel barlume di comprensione da parte dell’uomo che gli aveva dato il mondo solo per strapparlo dalle sue mani di bambino, voleva solo gettare l’orgoglio e mettersi a piangere.
Ingoiò aria fino a riempirsi i polmoni e tornò sulla questione che più gli stava a cuore.
“Non sto con Keigo perché aveva il mio nome scritto addosso,” disse, guardando il paesaggio ricoperto di neve che correva fuori dal finestrino. “Da piccolo, quando ho scoperto di avere il suo, l’ho odiato infinitamente, anche se non lo conoscevo. Sapevo che quelle lettere avevano solo il valore che io sarei stato disposto a dargli, ma l’idea stessa di essere marchiato, come un oggetto, una proprietà… Perché doveva essere capitato a me, che dell’amore non sapevo che farmene?” Per un attimo, gli parve di vedere nel riflesso del vetro il tredicenne che aveva versato tutte le sue lacrime, aspettando suo padre al freddo di una sera d’inverno. Si passò una mano tra i capelli e distolse lo sguardo.
“Sono stato io a scegliere Keigo, non il destino,” disse Touya.
“Lo so. Non mi sarei aspettato nulla di diverso da te.”
“Voglio stare con lui, papà. Con lui e basta, nessun altro.”
Se non avesse passato gli ultimi anni a lavorare su se stesso, probabilmente Enji avrebbe espresso ad alta voce il malumore derivato da quelle confessioni profonde. Ora riusciva a capire quanto era infantile quel fastidio e che riguardava solo lui, né Touya né Shouto.
“A me importa solo che tu sia felice, Touya.”
Il suo dovere di padre iniziava e finiva lì, ma non c’era scritto da nessuna parte che non potesse essere curioso.
“Hawks è scappato da solo o lo hai mandato via tu?” Domandò.
Suo figlio ridacchiò.
“L’ho mandato via io, non essere così duro. Se perde la tua stima, potrebbe morirne. Vuoi averlo sulla coscienza?”
“Non ha perso la mia stima,” chiarì Enji. “Ora deve solo stare molto attento a mantenerla.”
“Gli parlerai?”
Ho già pensato a un discorsetto da fargli, pensò l’Hero. “Al momento opportuno, ci scambierò due parole.” Una pausa. “Hai voglia di raccontarmi come è iniziato tutto? Quando parli ho l’impressione che non sia una storia delle ultime settimane.”
“No,” confermò Touya. “È cominciata prima.”
Enji aspettò ma quando suo figlio non articolò la risposta in altro modo, aggrottò la fronte, lanciando l’ennesima un’occhiata allo specchietto retrovisore.
“Cioè… L’anno scorso?” Tentò.
Nella superficie riflettente, vide Touya fare un gesto della mano come a dire molto prima.
“A Tartarus?!”
“Certo, perché con le telecamere anche al bagno e Himiko e Tenko a due passi c’era modo,” lo prese in giro suo figlio.
“A questo punto, non mi sorprende più nien-“
“Ci siamo incontrati poco dopo Kamino, in estate, ma la prima volta che ci siamo messi le bocche addosso è stato a novembre ed è continuata per tutto il periodo della missione sotto copertura di Keigo, fino a che voi Hero non siete marciati su di noi a fine mar-“
La macchina inchiodò, di colpo. Touya si schiantò, di faccia, contro il poggiatesta del sedile davanti. Il colpo fu tanto forte che gli occhi gli si riempirono di lacrime.
“Se… Se me lo hai rotto…” Sibilò, premendo il palmo contro il naso. “Se me lo hai rotto, giuro che-“
Endeavor si era voltato a guardarlo come se avesse appena confessato un crimine inedito, ancora assente nella sua lunga fedina penale.
“T-Tu e H-Hawks…” Balbettò. “Du-Du-Durante la missione sotto copertura…”
E fortuna che non doveva sorprenderti più niente, pensò Touya, allontanando la mano dal viso per cercare eventuali tracce di sangue. Non ve ne erano, forse il suo naso era salvo.
I nervi di suo padre sicuramente no.
“Papà, respira,” gli ricordò annoiato.
“I-Io… I-Io…”
Touya guardò fuori dal finestrino: la strada era deserta, erano nel bel mezzo del nulla e ora nevicava di brutto.
“Papà, se ti prendi un infarto qui, io non ho la patente. Sarò costretto a mangiare il tuo cadavere, aspettando che Shouto mandi i soccorsi.”
Ma Enji era perso in dei flashback di guerra tutti suoi.
“Io ho parlato con Hawks, dopo la missione,” disse, col tono di un uomo che è stato pugnalato alle spalle. “Gli ho chiesto di te… Sapevo che ti conosceva e gli ho chiesto di te…”
Quello era un dettaglio a cui Touya non aveva mai pensato e, di colpo, lo interessò più di ogni cosa. Scese dall’auto, aprì la portiera del lato passeggero e si accomodò accanto a suo padre.
“E quando gli hai chiesto di me, Keigo cosa ti ha risposto?” Domandò.
Enji boccheggiò un paio di minuti, poi divenne astioso, indice che era particolarmente nervoso.
“Perché sei passato davanti, adesso?”
“Perché non mi metti sicurezza e voglio restare nei pressi del freno a mano,” tagliò corto Touya. “Che cosa ti ha raccontato Keigo di me?”
“Mettiti la cintura di sicurezza,” disse Enji, afferrando il volante con entrambe le mani.
“Prima dimmi che ti ha detto.”
“Mettiti la cintura o non parlo.”
“Adesso scendi ai ricatti, maturo da parte tua.”
“Non mi ha parlato di lui e te!” Tuonò Enji. “Io stavo lì, distrutto per tutta la faccenda e Hawks ha parlato di te mezz’ora, senza dirmi assolutamente niente di voi!”
Touya sospirò, sollevato. Certo, al tempo, l’Hero Number Two avrebbe avuto solo da perderci nel confessare di essere stato l’amante del Villain Dabi, ma, in quel momento, il giovane Todoroki era solo grato che la deferenza di Hawks per suo padre avesse un limite e che tale limite, in qualche modo, fosse lui.
Prima che la discussione vertesse su quella stupida cintura di sicurezza, Touya l’allacciò.
“Riparti.”
“Non darmi ordini, ragazzino,” ribatté Enji, prima di ripartire. Suo figlio lo braccò in silenzio, fissandolo, fino a che non si decise a fare un racconto dettagliato della conversazione che lui e Hawks avevano avuto due anni prima, in ospedale. “Col senno di poi, fece un discorso molto impersonale.”
“Quanto impersonale?”
“Non è stato misterioso sulla modalità in cui vi siete conosciuti. Anche lui ha raccontato di averti incontrato poco dopo Kamino, che vi siete studiati per un po’, prima che tu lo mettessi alla prova.”
“Giocavo…” Mormorò Touya, senza elaborare. “E lui giocava con me.”
Era un sunto della loro storia che a stento toccava la complessità del loro rapporto, ma se Hawks non era entrato nei dettagli con suo padre, allora non avrebbe cominciato a farlo lui.
“Mi ha anche chiesto scusa per non essere riuscito a scoprire la tua identità in tempo,” aggiunse Enji. “Come se fosse colpa sua…”
Il Todoroki più giovane non ne era sorpreso.
“Pensava che lo fosse perché gli avevo raccontato tutto, papà,” spiegò. “Gli avevo raccontato di un uomo che mi aveva tradito, che mi aveva amato per poi gettarmi via e che le ustioni che mi ricoprivano erano una diretta conseguenza di quel dolore. Quindi, sì, Keigo sapeva ma, no, non aveva capito. Non poteva.”
Suo padre gli lanciò un’occhiata veloce.
“E perché lo feci?”
Touya piegò le labbra in un sorriso amaro.
“La logica di qualunque cosa ci sia stata tra me e Keigo in quel periodo penso che sfugga anche a noi,” ammise. “Non avevo un’unica percezione di lui. Lo vedevo sotto una luce diversa ogni volta che lo guardavo, a secondo dell’umore del momento. Lo chiamavo Icaro, sai? Mi piaceva l’idea di provocare la caduta di un Hero tanto forte e amato, poi è saltato fuori che tu eri il suo eroe, che lo avevi salvato da bambino e, alla fine, che era un tuo alleato. Dal mio punto di vista era il gioco sadico per eccellenza. Gli ho detto il mio nome mentre bruciava tra le mie fiamme perché volevo che sapesse che era stato proprio il suo eroe a generare la sua rovina. Era la trama perfetta per una tragedia epica, non serviva nemmeno aggiungere il dettaglio che fossimo predestinati l’uno all’altro.”
Enji accettò quella versione dei fatti senza giudicare. Touya era stato Dabi e tentare di cancellare quella scomoda verità avrebbe finito per danneggiarli di nuovo. Il passato non si poteva cambiare e se suo figlio riusciva a concedergli brevi parentesi di fiducia per parlargli del capitolo più oscuro della sua vita, doveva esserne grato e basta.
“Però c’era anche qualcos’altro,” aggiunse Touya, a voce più bassa, spostando lo sguardo sul finestrino in un gesto che tradiva un poco d’imbarazzo. “Sopravvivere non era nei piani, vendicarmi di te con tutto quello che avevo, invece, sì. A un certo punto, Keigo è entrato a far parte di quella vendetta ma, al contempo, c’erano dei momenti fugaci in cui stavo con lui e riuscivo a non pensare a te.” Ingoiò a vuoto per allentare il nodo che gli stringeva la gola. “L’odio è sfinente, papà, come il dolore. Keigo mi permetteva di riprendere fiato. Sia ben chiaro, la tentazione di vivere non mi ha mai toccato, nemmeno quando riuscivamo a ridere insieme. Tuttavia, mi sono detto che se proprio dovevo morire, almeno avrei saputo cosa si prova nell’essere stretto tra le braccia di qualcuno.”
Enji non disse niente e Touya continuò a guardare fuori dal finestrino, indisturbato. Si voltò solo quando sentì il suo vecchio tirare su col naso e lo trovò che piangeva a dirotto, con gli occhi fissi sulla strada. Se Touya aveva creduto che ci fosse un limite al dramma…
“Papà…” Buttò lì, sinceramente esasperato.
“Shhh… Zitto!”
“Zitto un corno, mi metti in imbarazzo così!”
“Con chi? Siamo nel bel mezzo del nulla!”
Touya si massaggiò il naso, ricordandosi che l’intelligenza di suo padre - già opinabile di base - subiva un grosso tracollo ogni volta che si lasciava andare a uno di quei piagnistei.
“Sei un piagnone anche tu,” gli ricordò la voce di Keigo nella sua testa.
“Mi disse che eri troppo consumato dall’odio,” disse Enji, “che se avessi permesso a Shouto di affrontarti con l’obiettivo di salvarti, vi avrei persi entrambi.”
Come previsto, Hawks aveva coperto tutto quello che c’era stato con un’analisi molto lucida. Touya non poteva biasimarlo.
“Beh… Aveva ragione,” disse.




La neve li rallentò al punto che quando raggiunsero Hiroshima era ormai buio. Enji lasciò il cellulare a Touya perché indagasse sulle ultime notizie del meteo, solo per scoprire che il maltempo aveva reso internet inutilizzabile. Accesero la radio e il primo notiziario che trovarono non preannunciò una notte adatta ai lunghi viaggi.
“Se continua così, mi toccherà davvero mangiare il tuo cadavere,” disse Touya, sempre pronto a mantenere i suoi standard di allegria altissimi.
“Non siamo in Siberia,” ribatté Enji, sporgendosi oltre il volante per cercare di vedere meglio la strada. “Non c‘è pericolo che accada.”
“Se avessi uno yen per ogni volta che qualcuno ha detto non c’è pericolo che accada poco prima di una tragedia.”
“Una cosa è certa, tutti e due di freddo non muoriamo.”
Touya smise di smanettare col cellulare: la linea non funzionava e cercare di dare un senso alle scritte sul display, mentre l’auto procedeva come una nave in mezzo a un mare in tempesta, gli aveva fatto venire la nausea. Guardò fuori, certo che il malessere se ne sarebbe andato da solo. Non accadde. Anzi, nel giro di un paio di chilometri peggiorò drasticamente.
Chiedere aiuto non era la reazione spontanea di Touya di fronte alle difficoltà, così provò a risolvere da solo piegando le ginocchia contro il cruscotto.
“E stai seduto composto!” Lo rimproverò suo padre. “Se inchiodo, rischi di farti molto male alle gambe così!”
Touya non lo ascoltò. Era già troppo che riuscisse a respirare.
Quando avvertì una sensazione spiacevole, bruciante, in fondo alla gola, seppe che non se la sarebbe cavata ignorando il problema e basta. Istintivamente, abbassò il finestrino, bisognoso di aria fresca.
Dal posto del guidatore, Enji lo tirò su.
“Sei impazzito?” Domandò irritato. “Vuoi farci assiderare tutti e due?”
“Non c’è pericolo che accada…” Lo canzonò Touya, troppo nauseato per condire le parole con il giusto sarcasmo.
Enji fece per rispondergli male, ma il pallore improvviso di suo figlio lo zittì.
“Touya…” Allungò la mano per stringere quella del figlio. “Stai bene?”
Il ragazzo prese un respiro profondo.
“Devo vomitare,” gemette a bassa voce.
“Eh?”
“Accosta l’auto, papà, devo vomitare…”
Endeavor fece come richiesto e l’auto scivolò a bordo della strada per qualche metro, prima di fermarsi del tutto. Non ebbe neanche il tempo di slacciarsi la cintura che Touya era già fuori, una mano appoggiata sul cofano, mentre riversava sulla neve tutto ciò che il suo stomaco conteneva.
“Touya…” Enji lo raggiunse, il cuore in gola. Sapeva che suo figlio non soffriva il freddo, ma vederlo in preda agli spasmi con solo una misera t-shirt addosso gli fece venire l’angoscia. “Sono qui, Touya,” disse, passando la mano sulla schiena del figlio in un gesto di conforto, sebbene non riuscisse nemmeno a rassicurare se stesso. “Sono qui…”
Quando il conato di vomito finì, Touya rimase chino per riprendere fiato. L’aria gelida che gli riempiva i polmoni fu come una benedizione.
“Va meglio?” Domandò suo padre, passandogli un fazzoletto per pulirsi.
Touya accettò l’offerta e annuì.
Cinque minuti dopo, si rimisero in marcia.
Nonostante la sua risaputa resistenza al freddo, il Todoroki più giovane si ritrovò a tremare. Non era a causa delle temperature, ma una conseguenza fisiologica del malore che aveva avuto. Quando nemmeno il giubbotto di pelle servì a dargli qualche conforto, Enji allungò il braccio.
“Dammi la mano,” gli disse.
Touya lo guardò storto.
“Non ho bisogno del tuo aiuto.”
“Lo so, ora dammi la mano.”
Il giovane si concesse un altro istante di ostinazione, poi accettò la proposta del padre. Sentì il suo calore risalire lungo il braccio e propagarsi in tutto il corpo.
Un istante e Touya smise di tremare.
Cinquanta chilometri dopo Hiroshima, Enji gettò le armi.
“Cerchiamo un albergo,” propose, imboccando la prima uscita dall’autostrada che incontrarono.
“Massì!” Esclamò Touya, di nuovo padrone di se stesso. “Facciamoci vedere in pubblico, così domani comparirò sulle copertine di tutte le riviste scandalistiche del paese come il nuovo amante segreto di Endeavor!”
“Non dire sciocchezze, Touya!” Ribatté Enji con forza, per nulla divertito. “Se passo una notte in albergo con mio figlio non c’è nulla di scandaloso!”
“I paparazzi vedono solo quello che vogliono.”
Non che i Todoroki non avessero mai dato scandalo, ma Enji la trovava un’esagerazione.
“Magari non ci riconosceranno neppure.”




Bastò che varcassero la porta scorrevole del piccolo albergo - non poteva avere più di venti stanze - perché si scatenasse il panico.
La signora dietro la scrivania della reception diedi di matto ancora prima che Enji avesse il tempo di aprire bocca per chiedere se una camera fosse disponibile per la notte.
“Ma lei è Endeavor!” Esplose, come una bomba, scatenando un panico che il Number One non ricordava dalla fine della guerra. In men che non si dica, tutti i presenti nell’edificio li circondarono, dal personale alla clientela impegnata a cenare nel ristorante adiacente all’ingresso.
Ed Enji se ne rimase lì, fermo in mezzo alla stanza, mente decine di sconosciuti lo toccavano e chiedevano il suo autografo. Non aveva importanza che facesse l’Hero da trent’anni, quella era e sarebbe sempre stata la parte peggiore del suo lavoro. Cercò Touya e si accorse che, quatto quatto, suo figlio lo aveva lasciato da solo a gestire quel marasma mentre lui, con i capelli bianchi nascosti da un berretto di lana, faceva il check-in armato del suo portafoglio - quando diamine glielo aveva preso?
La scena si concluse con Touya che abbandonava l’ingresso indisturbato, salutandolo con la mano libera. Lo derideva, il moccioso.
Touuuuya!
Troppo tardi, suo figlio era già sparito dentro l’ascensore.
CowT 13. Week 2
M2: Incendio


Era una sensazione strana.
Hawks avrebbe osato dire che era quasi disturbante.
Era ormai una settima che si svegliava nel cuore della notte medico di sudore, con la t-shirt appicciata addosso come una seconda pelle. Lo detestava. Non solo le sue poche ore di sonno quotidiano non erano più riposanti, ma c’era anche un nervosismo in sottofondo che gli impediva di essere il solito Hero Number Two vivace, sempre sorridente e un po’ sbruffone.
Non era una questione di aggressività, riusciva a essere cortese con le altre persone, ma non c’era proprio verso che riuscisse a stare fermo. Consumava i suoi pasti in piedi o addirittura in volo. Era certo che se fosse stato costretto a stare seduto per più di dieci minuti, magari durante una riunione della Commissione, ne sarebbe uscito pazzo.
E poi c’era il caldo, tanto caldo. Un caldo che le temperature esterne non potevano giustificare: era a stento primavera.
Era come se il suo corpo stesse andando a fuoco in un modo che non aveva nulla a che fare con un’innalzamento anomalo della temperatura. Per sua natura, Hawks tendeva a essere sempre più caldo delle altre persone, ma si ammalava come tutti. Non era quello il caso. Sintomi d’influenza non ne aveva e nemmeno la debolezza che essa portava. Al contrario, era tanto carico di energia da non sapere che farsene.
Aveva un fuoco dentro, una forza poi propulsione che quasi lo faceva sospettare gli stessero dando degli stupefacenti contro la sua volontà.
Poi calava la sera e mentre Hawks provava a combattere quella calura di cui soffriva solo lui sedendosi in balcone, chiamava Touya. E il delirio raggiungeva tutto un altro livello.
La voce del giovane Todoroki bastava a togliergli il respiro, ad accelerare i battiti del suo cuore al punto che a Hawks veniva il dubbio gli stesse per venire un infarto - a ventiquattro anni, senza cardiopatie. E mentre stava lì, agonizzante, ma con i pantaloni che divenivano sempre più stretti all’altezza del cavallo, Touya faceva discorsi decisamente poco erotici del tipo: “cinquant’anni e non sa fare nemmeno la lavatrice, il Number One!”
E, in lontananza, Endeavor rispondeva: “ne ho quarantasette di anni!”
Davvero… Nulla di quello che stava accadendo dall’altro capo della linea poteva giustificare una simile reazione da parte di Hawks. Lui e Touya non si vedevano che da pochi giorni, non era un tempo sufficiente a una simile reazione al solo udire il tono perennemente annoiato della sua voce.
“Touya, ti devo richiamare,” era la conclusione di ogni telefonata.
E allora correva sotto la doccia, spostava il miscelatore in direzione dell’acqua fredda e tentava di rimediare al disagio come nemmeno a quindici anni era mai stato costretto a fare. Non funzionava. Mai. E allora era costretto a cercare di accontentarsi da solo, solo per ritrovarsi più scontento di prima.
Un’intuizione su quanto gli stava accadendo gli venne una mattina, mentre andava in onda il primo notiziario del giorno. Uno dei servizi di chiusura era dedicato alla primavera in anticipo che aveva colpito il Giappone quell’anno. Temperature più alte della media, ciliegi in fiore troppo presto e movimenti migratori un poco sballati.
“Movimenti migratori… Primavera in anticipo…” Ripeté, con la tazza del caffè sospesa a mezz’aria.
Improvvisamente, tutto aveva un senso.
No, in ventiquattro anni di vita non gli era mai capitato di avere un incendio dentro con l’arrivo della stagione calda - e poteva tristemente considerarsi un esperto dell’andare a fuoco - ma ora aveva una vita diversa, un circolo - molto ristretto ma molto importante - di affetti e un posto in cui aveva voglia di tornare da chiamare casa. Una sorta di nido, tanto per rimanere in tema.
E la soluzione al suo problema era proprio da ricercarsi lì, in quel posto sicuro, dove c’era Touya.
Fu Shouto ad aprirgli la porta di casa Todoroki.
“Papà non c’è.” Fu la prima cosa che gli disse, lasciandolo entrare. “Touya è nella lavanderia.”
Hawks adorava quel ragazzino: mezzo minuto e gli aveva dato le uniche che informazioni che gli servivano. Attraversò la sala da pranzo e la cucina quasi saltellando e quando si affacciò nel piccolo locale adibito alla gestione del bucato, Touya era inginocchiato a terra e stava svuotando il cesto della biancheria dentro la lavatrice.
Hawks non si era fermato a riflettere abbastanza sull’effetto che essere nella stessa stanza col suo compagno potesse fargli, ma ormai l’incendio poteva divampare e consumarlo completamente. Non gli importava, sarebbe rinato dalle sue ceneri tra le braccia di Touya,
Touya, che, tanto per cambiare, era troppo arrabbiato per essersi accorto di lui, ma che era così desiderabile in quella cornice domestica.
“È come l’inizio di un film porno…”
Hawks si rese conto di averlo detto davvero solo quando gli occhi turchesi incontrarono i suoi. Le labbra imbronciate di Touya sbocciarono in un sorriso e, niente, il mondo poteva anche finire lì, in quel momento.
“Keigo…”
Il suo nome pronunciato dalla voce del Todoroki bastò a provocargli un brivido che gli fece drizzare tutti i peli del corpo e non solo quelli.
“Non sapevo saresti tornato ogg-“ Touya corrugò la fronte. “Ma che hai?”
Sì, Hawks doveva versare in uno stato davvero miserabile. Non dormiva bene da dieci giorni ed era su di giri d’altrettanto tempo. Era anche sudato in maniera vergognosa e qualcosa nel modo in cui Touya lo guardava gli suggeriva che doveva avere l’espressione di un maniaco. Si passò una mano tra i capelli biondi perché, nulla fuga di volare fino a lì, la frangia gli ricadeva davanti agli occhi in maniera scomposta. Sebbene l’istinto da rapace gli stesso urlando prendi e fai tuo s’impose un po’ di contegno, quanto bastava per mettere Touya al corrente della situazione.
“Confesso di essere in imbarazzo.” Nonostante l’euforia che gli faceva passare il peso del corpo da un piede all’altro, lo era davvero. “Non mi è mai successo prima.” Gli scappò una risata nervosa. “Ma sei stato tu il primo a darmi del represso e avevi ragione. Penso che questo sia uno degli effetti del lasciarsi andare.”
Touya si alzò in piedi e chiuse l’oblò della lavatrice, nonostante il cesto della biancheria fosse ancora mezzo pieno.
“Sei ubriaco?” Domandò, divertito.
No, ma Hawks si sentiva come se lo fosse.
“Sto andando a fuoco…” Ribatté.
Touya inarcò le sopracciglia chiare.
“Keigo, sul serio, che cosa ti sei calato?”
Non era più tanto divertito.
“Ascoltami, per favore, mi sento già abbastanza ridicolo così.” Hawks gli arrivò davanti, deciso a non mettergli le mani addosso prima di avergli dato una spiegazione e aver avuto conferma che l’altro era disposto a essere la soluzione al suo problema. “C’è un incendio in corso qui dentro,” aggiunse l’Hero, indicando tutto il suo corpo, da capo a piedi. “Ho bisogno che mi aiuti a spegnerlo.”
Come era prevedibile, Touya rise.
“Penso che tu stia chiedendo al Todoroki sbagliato. Io sono il figlio più grande, quello che gli incendi li impicca.”
“Infatti è colpa tua.”
“Prego?”
“È primavera,” riuscì a dire Hawks, guardandolo dritto negli occhi. “Io sono un rapace ed è primavera.”
Touya era intuitivo e bastò un istante perché la sua bocca disegnasse una O perfetta, gli turchesi brillanti di stupore e delizia.
Hawks arrossì come un ragazzino alle prime armi. “Non mi è mai successo prima,” disse per la seconda volta. “Ma sei il primo amante con cui ho una relazione stabile, sentimentale e-“
“Hai una tale voglia di scopare che ti faresti il mondo, ma mi ami abbastanza da essermi fedele?” Touya incrociò le braccia contro il petto, appoggiandosi alla lavatrice.
Perché capiva sempre come gli pareva a lui?
“Non hai capito.” Hawks appoggiò entrambe le mani sulla lavatrice, ai lati del suo corpo, così da sbarrargli ogni via di fuga. “Voglio fare l’amore fino a essere completamente ubriaco di te. Te, solo te. La tua voce è sufficiente a farmi perdere la testa e se non ti bacio ora forse succederà davv-“
Fu proprio con un bacio che Touya lo zittì, poi gli afferrò l’orlo della maglietta umida di sudore e gliela tolse. Hawks gli fu subito addosso, lo spinse sulla lavatrice, mentre le divorava con foga. Promise a se stesso che la seconda volta sarebbe stata più lenta, affettuosa, ma ora il bisogno aveva la meglio. Tra un bacio e l’altro cercò il bottone dei jeans e glieli sfilò ma quando tornò su di lui, Touya gli premette una mano contro il petto.
“Aspetta…”
Se avesse appiccato di nuovo fuoco alle sue ali, avrebbe fatto meno male, ma Hawks non si sarebbe mai permesso d’imporsi con la forza. Si fece indietro, Touya scese dalla lavatrice e gli sfilò il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni senza chiedergli il permesso.
“Che cosa fai?” Domandò l’Hero confuso, ancora intontito da quel desiderio opprimenti che non riusciva proprio ad appagare.
Touya gli rivolse un sorrisetto, poi prese una generosa - forse un po’ troppo - somma di denaro e gli rese il portafogli.
“Shouto!” Chiamò, uscendo dalla lavanderia.
Hawks rimase fermo dov’era.
La voce di Shouto lo raggiunse da distante, forse dal salotto. Rideva.
“Smettila di fare lo stronzetto!” Lo rimproverò Touya. “Prendi questi, chiama Izuku e il cretino, andate al cinema, a mangiarvi una cosa, prendete una stanza in un hotel a ore… Quello che ti pare, ma non tornare prima che papà finisca il turno.”
“E me lo stai chiedendo in mutande, mentre Hawks è ancora nella lavanderia.”
“Non te lo sto chiedendo, te lo sto ordinando. Fila!”
Sì, Hawks adorava quel ragazzino. Uscì di casa senza fare storie o battute ulteriori.
Quando tornò da lui, Touya le mutande non le aveva più.
“Occupiamoci di questo incendio, prima che quelle belle ali divengano cenere.”
CowT 13, Week 1
M1: Un rifugio alla fine del mondo



Erano in alto.
Tanto in alto che quella sarebbe potuta essere la cima del mondo.
Oltre il ciglio di quella balconata naturale, un tappeto di nuvole copriva tutta la vallata sottostante, permettendo a Shouto di scorgere solo le montagne che superavano quella in altitudine.
Lì, di fronte a quell’infinito che sembrava lontanissimo dal mondo in cui era nato e che conosceva, una risata nervosa sfuggì dalle sue labbra.
“Che cosa ti prende?”
Katsuki era alle sue spalle, fermo sull’ingresso della grotta che aveva definito il rifugio della sua infanzia, il giovane viso animato da quel cipiglio che non lo abbandonava mai. Ma Shouto aveva imparato a guardare oltre quel suo atteggiamento scostante e a leggere in quegli occhi scarlatti tutto quello che gli serviva sapere.
“Perché hai voluto mostrarmi questo luogo?”
Shouto sorrideva e Katsuki, che sapeva dare voce alle proprie emozioni sono un eccesso di nervi alla volta, non ci capiva più niente.
“Non volevo solo mostrartelo.” La voce che uscì dalla sua bocca fu tanto gentile che a stento si riconobbe. “Volevo condividerlo con te.”
Non sapeva se avesse senso, non aveva importanza che lo avesse.
Gli bastava che Shouto lo capisse, anche se aveva difficoltà a comprendersi lui stesso.
“Perché?” Domandò il Principe.
Il cielo incendiato dai colori del tramonto, insieme ai ghiacciai delle Montagne Rubino erano la cornice perfetta per l’Erede della Casata dei Todoroki.
Katsuki non si era mai fermato a ponderare quanto incantevole fosse il mondo visto da lassù, ma Shouto riempiva di bellezza ogni cosa.
Se solo se ne fosse reso conto, forse avrebbe accettato i sentimenti che il giovane Drago provava per lui, senza farsi affliggere da inutili paure.
“Perché non riesco a trasformare in parole quello che sento per te.” Fu la risposta di Katsuki. “Per tanto, non mi resta che dimostrarlo.”
Shouto non sorrideva più, ma non impedì a Katsuki di farsi più vicino, di far aderire il palmo caldo al suo viso.
“Posso farti sentire quello che provo per te?”
Quella richiesta fu un sussurro sulle labbra del suo secondo Cavaliere, l’ultimo a cui Katsuki avrebbe dedicato la sua vita. Non ci sarebbe stato nessuno oltre a Shouto.
Sarebbero vissuti insieme o sarebbero caduti l’uno al fianco dell’altro, com’era giusto che fosse.
Come colto da una vertigine improvvisa, Shouto cercò le sue braccia, vi si aggrappò e Katsuki lo strinse a sé. Era saldo, incantato dai quegli occhi dal colore impossibile. Vacillava solo il tempo di tracciare con lo sguardo la linea perfetta di quelle labbra piene, che invitavano ai baci. E, maledizione, l’Erede del Clan Bakugou era certo che sarebbe andato completamente fuori di testa se non le avesse divorate con l’ingordigia che lo contraddistingueva.
Katsuki voleva Shouto.
Lo voleva nel mondo in cui aveva voluto solo un’altra persona, ma non c’era spazio per il pensiero di Izuku nei pochi millimetri che dividevano le loro bocche.
“Me lo permetti, Shouto?”
Katsuki fece scivolare la mano sul retro del suo collo, infilando le dita tra i capelli morbidi come seta.
Shouto chiuse gli occhi e si arrese.
“Sì…” Soffiò contro le labbra del Drago.
Fu l’ultimo respiro prima di quel tanto agognato bacio.

Vertigo

Feb. 24th, 2023 03:01 pm
CowT13 Week 1
M2: Lazza

La vertigine della caduta.
Era un male necessario, indispensabile per imparare a volare.
Prima di Dabi, Hawks si era illuso di sapere che cosa fosse.
Ora, avvolto in un calore che non aveva mai sperimentato con nessuno, contava i sospiri di piacere che lo separavano dallo schianto.
Dabi era una dipendenza, un abbraccio che lo trascinava giù, sempre più giù, in un abisso di oscurità che nemmeno le sue fiamme erano riuscite a illuminare.
Era sbagliato, perverso, pericoloso.
Era tutto ciò che Hawks sapeva di non dover desiderare, ma di cui non poteva più fare a meno. Aveva pensato che nulla lo avrebbe reso cosciente del suo corpo come l’adrenalina provocata dal senso di vuoto, ma giocare con il fuoco, avvertirlo crepitare sotto la pelle di Dabi con ogni carezza, era tutto un altro modo di sentire la vita che gli percuoteva il petto.
C’era un sinistro senso di liberazione nel rendersi conto che il confine tra bene e male su cui Hawks aveva regolato ogni suo agire si poteva cancellare con un bacio.
Un gesto di amore in cui di amore non vi era nulla, ma la forza che vi era dietro era altrettanto assoluta, distruttiva.
Il loro tempo veniva scandito in poche ore di piacere e giorni di miseria.
Hawks dissimulava ogni cosa con una maestria che aveva fatto sua in anni di pratica, una maschera sorridente alla volta. Era un gioco sfinente, che corrodeva le interiore ma non riusciva a dire basta.
E Dabi subiva l’intrusione di quelle stesse emozioni.
Hawks non aveva certezza ma anche pochi dubbi a riguardo.
Quello che l’Hero celava sotto sorrisi finti, il Villain lo ricopriva di veleno. Lo redarguiva con quegli occhi di ghiaccio, vibranti come il colore delle sue fiamme ma privi di qualsiasi calore, poi lo baciava, se lo tirava addosso, lo prendeva e si lasciava prendere.
Un circolo vizioso in cui si perdevano l’uno nell’altro, le tracce umide del loro piacere tra le gambe, sulla pelle, tradendo un’intimità che Hawks non aveva mai condiviso con nessuno e che Dabi non avrebbe mai concesso ad altri.
Una volta che calava di nuovo il freddo, ognuno da solo nel proprio angolo, s’illudevano di essere i padroni di quel gioco iniziato senza premeditazione e mandato avanti senza un vero scopo.
Poi c’erano quelle notti in cui la camera da letto era un po’ meno buia, quando Dabi era troppo stanco per rispettare il suo ruolo e Hawks era troppo coinvolto per fingere che non gli importasse.
Si toccavano distrattamente - Hawks aveva le mani più grandi, ma Dabi aveva le dita più lunghe - la schiena del Villain premuta contro il petto dell’Hero, mentre le ali rosse gettavano ombra su entrambi, schermandoli dalla luce argentea della luna.
Era una parentesi, una pausa, un respiro profondo preso in superficie, mentre si lottava per non annegare nell’abisso delle loro anime corrotte.
Erano rotti entrambi, portatori di ferite opposte e complementari.
Se si fossero guardati negli occhi, avrebbero visto solo le scelte differenti che avevano fatto e non sarebbero mai stati tanto lontani l’uno dall’altro, anche se sulle lenzuola il loro odore era divenuto uno unico.
Con la giusta distanza, nascosti dietro l’ombra dei loro segreti ma riscaldati dallo stesso calore, non c’era nulla all’infuori di loro.
Anche se un loro non esisteva.
Nel silenzio di quei momenti di pace strappati prepotentemente alla guerra, non c’era la minaccia di un tradimento imminente, inevitabile.
Il corpo, le carezze, i baci potevano mentire alla pari della parole ma, pur essendo attori consumati entrambi, era un’arte che non erano mai riusciti a padroneggiare.
La tragedia era che nessuno dei due lo vedeva.
Nessuno dei due ci credeva e ignoravano che il più grande inganno fosse quello che tessevano per loro stessi.
La vertigine della caduta.
Hawks si domandava se, nel momento decisivo, sarebbe riuscito ad aprire le sue ali in tempo o se il fuoco le avrebbe ridotte in cenere, condannandolo a precipitare come un Icaro moderno.
Poi Dabi si gli si stringeva addosso, un gesto inconscio, dettato dall’eco del bambino perduto che era stato e che aveva arso tra le fiamme di un odio di cui l’Hero non conosceva la storia. Eppure, Hawks era certo che quel bambino perduto sarebbe potuto essere lui.
Quanto tempo ci resta? Era la richiesta disperata del suo cuore anestetizzato dal dovere. E poi implorava: ancora una notte, solo una, questa volta per davvero.
E, allora, Hawks respirava il profumo di quei capelli corvini.
“Mi rivelerai mai il tuo nome?” Mormorò. “E mi racconterai mai dell’uomo che ti ha tradito?”
Ma Dabi si era già addormentato tra le sue braccia.
COWT13, Week 1
M2: Tananai


Todoroki Enji era un genitore ansioso.
Era una realtà con cui era riuscito a fare i conti - per modo di dire - molto tardi, durante l’adolescenza del suo quartogenito che, tanto per facilitare le cose, era avvenuta in parallelo con il più grande conflitto tra Hero e Villain della storia.
Forse era una sorta di effetto compensatorio per le sue mancanze passate o semplice stupidità, magari stava diventando pazzo o, come piaceva sostenere a Touya, era la demenza senile che avanzava, ma Todoroki Enji non poteva dichiarare chiusa la giornata senza sapere con esattezza dove fossero e cosa stessero facendo i suoi figli.
Rei era straordinariamente collaborativa nel tranquillizzarlo, mandandogli un messaggio ogni volta che Fuyumi e Natsuo rientravano a casa dai rispettivi impegni. Col maggiore e il minore, rispettivamente un agente segreto e un giovane Hero debuttante, la storia era completamente diversa.
Enji avrebbe voluto essere semplicemente felice di averli ancora entrambi a casa, con lui, essere orgoglioso di loro e dimostrarlo, ma la verità era che se Touya e Shouto erano in missione, ogni ambulanza che sfrecciava per la strada a sirene spiegate poteva essere per loro. E la colpa era sua, solo sua, perché i suoi figli non si erano messi da soli su quella strada di grandi imprese e pericoli mortali dietro ogni angolo, no, ce li avevi spinti lui - con particolare forza - e ora ne pagava le conseguenze.
Quando Enji era venuto a conoscenza della gravidanza di Touya, superato il trauma iniziale, aveva quasi - quasi - tirato un sospiro di sollievo: la situazione delicata gli concedeva almeno un anno di fronte in cui avrebbe avuto il suo primogenito sotto gli occhi, mentre Shouto, che era leggermente più gestibile, avrebbe continuato a lavorare alle sue dipendenze.
In prima battuta, Enji aveva visto solo il lato positivo - avere Touya a casa, al sicuro, con lui e abbastanza tempo a disposizione per provare a parlare di uno strappo troppo difficile da ricucire - poi la pancia aveva cominciato a vedersi e la realtà lo aveva colpito impietosa.
“Il nostro bambino sta per avere un bambino,” si disperò al telefono, sul marciapiede di fronte alla vetrata della pizzeria in cui aveva portato i ragazzi a mangiare, mentre l’emoji a cuore dell’insegna del SexyShop dall’altra parte della strada lo derideva bellamente.
La risata sobria di Rei lo raggiunse attraverso la cornetta.
“Sì, Enji, me lo ricordo.”
Bene, perfetto, lo prendeva in giro anche lei.
“E tu riesci a dormire sonni tranquilli?” Domandò il Number One. Per lui non era neanche pensabile.
“La tranquillità è una pretesa un po’ superba con dei figli come i nostri,” rispose la sua ex moglie. “E la gravidanza è un momento delicato, so cosa sta vivendo Touya, cosa lo aspetta e questo non può non darmi pensiero.”
Enji infilò la mano libera, quella sana, nella tasca del cappotto.
“Ma sembri accettarlo con tanta serenità…”
La sua era pura invidia. Se fosse riuscito a mettere in fila le sue emozioni in modo da tramutarle in parole, forse non avrebbe versato in uno stato tanto miserabile.
“Perché tu non ci riesci?” Gli domandò Rei, paziente.
Enji lanciò un’occhiata alla pizzeria alle sue spalle: il tavolo dei ragazzi era proprio accanto alla vetrata e Touya era quello seduto più vicino all’ingresso. Trafficava col cellulare - di Shouto, perché a lui non era permesso averne uno - forse per capire che cosa stesse trattenendo Hawks dal raggiungerli. Il Number One avrebbe pagato tutto l’oro del mondo per sapere che cosa gli passasse per la testa ma, occhio e croce, non sembrava afflitto da nemmeno metà dei suoi pensieri.
“Enji?”
Nel sentire la sua ex moglie pronunciare il suo nome, l’Hero si riscosse.
“Sì?”
“Che cos’è che ti spaventa tanto?”
Tutto.
“Appena ieri, Touya aveva cinque anni,” disse Enji, senza pensare. Perché quando il suo primogenito sorrideva - non a lui, mai a lui - non poteva fare a meno di rivedere quel bambino che gli mostrava il pugno avvolto dal fuoco, tutto orgoglioso. Quanto odiava se stesso per non essere riuscito a vedere la perfezione di quei momenti, per aver distrutto quell’innocenza, riducendola in cenere e ombra. Non possedeva ricordi simili con nessun altro dei suoi figli, nemmeno con Shouto.
Enji non era nemmeno sicuro che Shouto gli avesse mai sorriso da bambino.
Ed eccoli lì, i suoi ragazzi, ventisei e diciotto anni, seduti l’uno accanto all’altro in una pizzeria del centro, circondati dagli affetti che si erano creati - compreso quello che li legava l’uno all’altro - mentre lui stava avendo una crisi di panico sul marciapiede.
Appena ieri, Touya era morto. Fu quello che Enji non disse. Appena ieri, Touya era Dabi.
Quando Rei parlò di nuovo, l’Hero percepì il sorriso nella sua voce e la stessa amarezza che appesantiva il suo cuore: “Touya è diventato grande, Enji,” mormorò. “Fino a poco tempo fa, pensavamo che questo ci fosse stato strappato per sempre. Guardalo…”
Enji lo fece: Touya stava ancora digitando un messaggio sul display del cellulare ma quando Shouto allungò la mano sotto il tavolo per accarezzargli la pancia, si sorrisero l’un l’altro per un breve istante.
“Non pensi sia bellissimo?” Domandò Rei nel suo orecchio.
Enji distolse immediatamente lo sguardo per non dover affrontare una crisi di pianto nel bel mezzo della strada. Si schiarì la voce con un colpo di tosse.
“Porta quella pancia con una naturalezza…” Bofonchiò, quando fu di nuovo in grado di parlare.
“Si vede appena,” ridacchiò Rei.
“Io la vedo eccome,” ribatté Enji. “Non posso fare a meno di guardarla.” Una pausa. “C’è un bambino lì dentro, Rei.”
Punto a capo. E il delirio ricominciava, ma la sua ex moglie ormai rideva bonariamente della sua stupidità.
“Ci vorrà tempo per abituarsi all’idea,” gli concesse Rei. “Siamo solo all’inizio, forse nemmeno Touya e Hawks si rendono conto di quello che sta succedendo, ma è facile che felicità e paura si sovrappongano durante una gravidanza e anche dopo, quando ti ritrovi un bambino tra le braccia che dipende da te e non hai idea di cosa fare. Siamo gli unici genitori che hanno, dobbiamo rimanere saldi, per loro.”
Più che saldo, Enji si sentiva sull’orlo di un precipizio, ma era troppo orgoglioso per ribadirlo. L'obiettivo, in fin dei conti era sempre lo stesso: doveva - e voleva - esserci per Touya, anche se suo figlio lo avrebbe odiato per il resto della vita.
“Papà?”
Fu proprio il suo primogenito ad affacciarsi per accertarsi di cosa stesse facendo.
“Stai parlando con Keigo?” Indagò.
Enji sapeva di essere paranoico ma, prima di rispondere, lo squadrò da capo a piedi per valutare se la felpa nera che aveva addosso fosse sufficiente a coprire la pancia. Oggettivamente lo era, eppure il Number One continuava a vedere cosa ci era nascosto sotto.
“Papà?” Lo richiamò Touya, insofferente,
Enji sussultò.
“Sì?”
“Stai parlando con Keigo?”
“No, con tua madre.”
“Ah…” Commentò suo figlio, deluso. “Rientra, almeno ordiniamo. Stiamo tutti morendo di fame.”
Perché Touya non poteva avere un figlio con un bravo ragazzo qualunque, no, doveva mettere su famiglia con l’Hero Number Two del paese, addestrato dal governo stesso, coinvolto in faccende di cui Enji non poteva sapere i dettagli per la sua sicurezza e quella nazionale. In conclusione, non solo si preoccupava per Touya e per Shouto, ma si dava pensiero anche per Hawks. Poi c’erano i giorni in cui Deku e Dynamight decidevano di provare a morire sul posto di lavoro e…
Enji scosse la testa: era troppo stanco per riflettere su tutti i possibili futuri tragici dei ragazzi.
“Rei?”
“Sei più tranquillo ora?”
Decise di essere onesto: “farò finta di esserlo.”
“Hai portato i ragazzi fuori?”
“Io e AllMight abbiamo deciso di offrire a tutti una pizza.”
Faceva già ridere così, senza ulteriori spiegazioni.
“Divertitevi, allora.”
Tra un pensiero paranoico e l’altro, pensò Enji.
“Grazie, Rei.”
“Quando hai bisogno, chiama.”
Rei era una spalla in tutto ciò che riguardava i ragazzi e il Number One non si sarebbe mai permesso di chiederle qualcosa di più, anche se Touya non rendeva le cose facili a nessuno dei due.
Entrando in pizzeria, fu accolto dalle lamentele rabbiose di Katsuki, accompagnate da quelle più contenute di Touya. Izuku gli fece piacere di quietare il suo amico d’infanzia, mentre Tenko beveva la sua acqua come se non lo avesse neppure visto.
“Smettetela di fare casino e decidete cosa ordinare,” disse Enji, prendendo posto accanto all’unico uomo che, insieme a lui, alzava notevolmente l’età media di tutto il tavolo.
“Un’emergenza?” Domandò AllMight gentilmente.
Sapeva bene che i turni di un Hero erano solo una bella bugia per illudersi di avere una routine e più si era in alto in classifica, meno era facile avere una vita. Enji non si era mai fermato a rifletterci, ma l’uomo mingherlino che gli era accanto era l’unico Hero in vita, insieme a lui, a conoscere il peso del titolo di Number One.
“No,” rispose Endeavor. “Era mia moglie.”
Ex-Moglie. Doveva ancora farci l’abitudine.
“Ti hanno fatto impazzire?” Aggiunse, come se tutti e cinque i ragazzi seduti al tavolo fossero roba sua e la loro condotta fosse una sua responsabilità.
“Oh, no, i tuoi ragazzi sono molto tranquilli e quando è in compagnia, Tenko parla a stento,” rispose AllMight. “È il giovane Bakugou a portare scompiglio con i suoi malumori, di solito e il giovane Midoriya, per cercare di calmarlo, contribuisce alla confusione, ma è un terreno su cui so come muovermi.”
Già, si ricordò Enji, i due impiastri freschi di diploma che aveva assunto insieme a suo figlio si potevano definire entrambi eredi di AllMight. A volte lo dimenticava, forse perché li aveva avuti sotto gli occhi dal loro primo anno di liceo.
“So che ci siamo già visti dopo la notizia del futuro lieto evento, ma non abbiamo avuto modo di parlarne,” disse l’ex Number One, azzardando un’amichevole pacca sulla spalla del suo successo. “Congratulazioni.”
Istintivamente, Enji guardò Touya, che stava di nuovo cercando tracce di Hawks nell’archivio messaggi del cellulare di Shouto.
“Grazie,” rispose, senza nessuna particolare informazione.
“Il giovane Touya sembra stare bene,” aggiunse AllMight.
Enji non poteva dirgli che viveva nel terrore che Touya non stesse affatto bene, ma non glielo dicesse.
“Pensi che si veda?” Domandò, invece.
L’uomo al suo fianco lo guardò con perplessità.
“Prego?”
“La pancia ha cominciato a vedersi nell’ultima settimana,” spiegò Enji, cercando di celare l’imbarazzo. “Vorrei capire se un occhio esterno è in grado di notare qualcosa.”
“Ammetto che quando si è alzato per chiamarti, nulla mi è saltato all’occhio,” disse AllMight.
“Bene.”
“Quando dovrebbe nascere?”
“Ad agosto.”
“I ragazzi mi hanno detto che già sapete il sesso.”
“Sì,” confermò Enji. “È un maschio.”
La notizia lo aveva gelato senza un reale motivo. L’idea astratta di un bambino che cresceva nella pancia del suo primogenito era già traumatica di per sé, sapere che era un maschietto aveva dato a tutto maggiore concretezza. Era stato lo stesso per Hawks, ma la sua reazione non era stata quella di uno stupido pezzo di ghiaccio. No, il Number Two si era emozionato ed Enji poteva giurare di non averlo mai visto così.
Ordinarono e non appena il cameriere si fu allontanato, il Number One scorse i nomi delle pizze scritte sul menù-tovaglietta per controllare gli ingredienti di quella ordinata dal suo primogenito. C’erano alimenti pericolosi per la gravidanza e la sua ansia gli ordinava di assicurarsi che Touya non si fosse distratto nella scelta.
Gli venne un dubbio.
“Scusami,” disse, rivolgendosi ad AllMight, poi tirò fuori il cellulare dalla tasca. Questa volta, certo che sarebbe stato una conversazione veloce, non si alzò.
Rei rispose dopo tre squilli.
“Enji?”
“Rei, hai idea se Touya possa mangiare piccante?”
“Se ne ha voglia, sì, basta che sia tutto cotto. Ma, Enji, io sono certa che Touya sappia benissimo cosa può mangiare e cosa no.
“Lui sì, io no.”
E la sua mania del controllo gli imponeva di cercare certezze anche negli affari che non lo riguardavano.
“Oh, Enji, questo bambino non lo devi mica partorire tu-“
Rei lo prese in giro, poi tentò di tranquillizzarlo ma Enji si perse a metà del discorso: Hawks varcò l’ingresso della pizzeria con ancora la divisa da Hero addosso e Touya si decidete a restituire il cellulare al fratello minore.
Il suo primogenito fu contenuto, non disse niente, ma lo sguardo dei suoi occhi turchesi espresse quanto bastava.
“Mi hanno convocato per dei documenti urgenti per il tuo congedo parentale,” disse Hawks, tirando fuori tre fogli dalla tasca interna della giacca. “Due firme e poi mangiamo la pizza.”
Touya alzò gli occhi al cielo, afferrando la penna che il compagno gli offriva.
Appena il tempo di scrivere Todoroki sul primo spazio in bianco che Shouto s’intromise: “quello non è un documento per il congedo parentale.”
La mano di Touya smise di scrivere immediatamente, guardò suo fratello e poi si disturbò a leggere cosa stava firmando.
Enji vide i suoi occhi turchesi animarsi di una luce che non conosceva.
Touya abbandonò la penna sul tavolo e quando cercò lo sguardo di Hawks, era palesemente senza parole. Shouto, accanto a lui, versava nel medesimo stato.
Enji non capiva che cosa stesse succedendo. Continuava a sentire la voce di Rei nel suo orecchio, ma non riusciva a capire neanche una parola.
In quell’atmosfera attonita, Dynamight allungò il collo per capire che cosa ci fosse scritto su quei fogli di tanto sconvolgente. Tenko cercò di fare la stessa cosa, ma in modo più discreto. Quando Deku se ne accorse e li rimproverò tutti e due, era già troppo tardi.
Ci fu un breve coro di: “Ma che cazz-“
Interrotto da Hawks che si rivolgeva a Touya con fare solenne.
“Dì di sì.”
Touya si decise ad aprire la bocca, ma gli uscì solo una risata nervosa.
“Non me lo hai chiesto neanche,” obiettò.
“Vuoi che te lo chieda come comanda la tradizione? Va bene.”
Non appena Hawks appoggiò un ginocchio a terra, Enji ebbe una vaga idea di quello che stava accadendo davanti ai suoi occhi e si sentì morire.
“Todoroki Touya.” Hawks prese la mano di suo figlio come se fosse sua e ne avesse il diritto. “Vorresti essere mio complice in questa pazzia e sposarmi?”
Era quello il momento in cui Enji, in quanto padre, si alzava e tuonava un io mi oppongo? Saperlo non gli sarebbe servito a niente, perché non riusciva a respirare, figurarsi a parlare.
Preso dall’emozione della scena, AllMight mise da parte le formalità e gli strinse un braccio. Deku ebbe la stessa reazione, aggrappandosi a Katsuki a destra e a Tenko a sinistra.
Mentre tutti i presenti nella pizzeria avevano abbandonato la loro cena per essere testimoni della scena, tra qualcuno che gridava ”ma è Hawks!” e qualcun altro che ribatteva ”ma quello è il figlio di Endeavor!”, come se Enji non fosse lì di persona, ad appena un metro, Touya si decise a dischiudere le labbra per rispondere…
“Avete il Sexy Shop dietro,” disse Tenko, sollevando l’indice per indicare l’insegna che, oltre la vetrata, faceva da cornice superiore alla scena romantica. “Number Two, stai facendo la proposta di matrimonio con il SexyShop sullo sfon-“
Un bicchiere volò in direzione di Tenko, lo colpì sul naso e poi andò in mille pezzi sul pavimento.
L’atmosfera era stata distrutta e Touya, per carattere, non concedeva il perdono a nessuno.
“Ma tu perché non sei morto quando dovevi morire?” Sibilò.
“Potrei dire la stessa cosa di te!” Ribatté Tenko, con voce nasale, mentre si copriva il naso leso.
Deku si aggrappò al braccio di Tenko e AllMight corse in suo soccorso, mentre Shouto e Hawks cercavano di tenere Touya seduto.
Dynamight era l’unico personaggio in scena apparentemente felice: “rissa!” Esclamò, battendo le mani sul tavolo.
“Enji!”
La voce allarmata di Rei riscosse Endeavor dal suo stato catatonico.
“Enji, sei ancora lì? Che sta succedendo?”
“…Ti richiamo.”
CowT13, Week 1
M2: Tananai



Katsuki era conscio, nonostante fosse circondato da persone che gli volevano bene, di non essere un gran simpaticone. Banalmente, ciò che i più trovavano divertente, per lui era solo fonte di noia o irritazione. Anche in quel momento, seduto nell coffee shop di fronte all’agenzia di Endeavor, non capiva tutta l’ilarità provocata dal giornale scandalistico tra le sue mani. Sollevò lo sguardo in cerca di un segno di comprensione dai suoi commensali, ma non fu felice di scoprire che l’unico a condividere il suo stato d’animo fosse Tenko, schiacciato nell’angolo tra la vetrata e il tavolino da Mirko, che continuava a commentare i dettagli della foto sulla rivista con Burnin’. Entrambe ridevano a crepapelle.
E Katsuki non capiva.
Nel dubbio che gli fosse sfuggito qualcosa, tornò a studiare la copertina ma riuscì a dare voce solo a un pensiero polemico: “i giornalisti non hanno altro di cui parlare?” Domandò, ricevendo subito un’occhiataccia dalle due Heroine. “Noi rischiamo il culo per salvaguardare quello degli altri e la stampa mette in copertina queste stronzate per metterci in ridi-”
“E fattela una risata, Bimbo-Bomba!” Esclamò Mirko, versando del sciroppo d’acero sulle sue frittelle. “Mangia, così smetti di essere acido.”
“Non sono acido!” Ribatté Katsuki, innervosendosi di più a ogni parola. “Ma non si può vivere con questi avvoltoi che fanno scatti a caso e li contestualizzano come cazzo pare a loro!”
“Beh…” Burnin’ si rilassò contro il divanetto. “Lavoro in quest’agenzia da anni, ma tutta quest’attenzione mediatica per il vecchio brontolone non l’ho mai vista!”
“Mi chiedo il perché…” Borbottò Katsuki, sarcastico, leggendo il titolo scritto in rosso e giallo sulla foto scura - sfocata, tra l’altro - piazzata in bella vista: Il Number Two inginocchiato di fronte a un giovane misterioso, seguito da un dov’è Hawks? in caratteri bianchi, più piccoli.
“Io sono quasi sollevata,” ammise Burnin’, ignorando deliberatamente l’occhiata scandalizzata dell’Hero più giovane. “Un tempo, si parlava di lui solo sui quotidiani, roba noiosa… Ci voleva un po’ di brio!”
“Brio?” Katsuki aveva perso il conto delle volte che la sua immagine era comparsa in testa a qualche notizia virale di poco conto - ”gossip,” sentì nella sua testa la voce di Kirishima e Kaminari che lo canzonavano, “si chiamano gossip.” - e questo fantomatico brio non lo aveva mai provato, solo una gran voglia di far esplodere una o due sedi editoriali.
“Avanti, Bimbo-Bomba!” Mirko batté l’indice sopra la rivista. “Se lo sai è divertente!”
A dirla tutta, Katsuki poteva sapere tutta la storia passata e presente di casa Todoroki, ma gli era sempre sfuggita la parte ironica del vociferato flirt tra il Number One e il Number Two. Hawks la prendeva con filosofia. Endeavor un po’ meno. Il Todoroki che si scopava il volatile per davvero - il primo uscito fuori e quello venuto peggio - sfruttava la cosa a mo’ di arma psicologica contro il padre e si divertiva senza metterci la faccia.
La copertina del giornale scandalistico aveva fatto un passo ulteriore in quella faccenda montata sul nulla: non c’erano dubbi sul fatto che l’uomo inginocchiato in mezzo al marciapiedi, come un idiota, fosse Endeavor, ma a Katsuki continuava a sfuggire cosa ci fosse di così divertente quando il ragazzo in cappotto nero che gli stava davanti era clamorosamente Touya.
“Qui si sta scambiando un figlio per un amante,” sibilò il giovane Hero, cercando di non farsi sentire dagli altri clienti del locale.
“Eeeeh!” Esclamò Burnin’.
“Ci sei arrivato!” Si aggiunse Mirko con lo stesso atteggiamento. “Certo,” aggiunse, critica. “Dopo che spieghi una battuta, non fa più ridere, ma-”
“Non è una cazzo di battuta!” Ribatté Katsuki. “E poi non ho capito questa mania di voler appioppare all’energumeno degli amanti poco più di ventenni!”
Dal suo angolino, Tenko emise un: “in effetti…”
Katsuki lo fulminò con lo sguardo.
“Stai zitto tu!”
L’ex villain gli rispose a tono: “ti stavo dando ragione!”
“Non ho bisogno che tu me la dia!”
“Buoni,” intervenne Mirko, facendo pat-pat sulla testa di Tenko con la mano protesica. Lui provò a scansare il gesto spostando la testa, ma la posizione sacrificata in cui era stato costretto non gli consentì di andare abbastanza lontano.
Ecco, quello era un genere di spettacolo che a Katsuki faceva molto ridere.
“Quanto sei bravo a fare il cane, stronzo,” infierì.
“Mai quanto te, Dynamight.”
Il giovane Hero fu a tanto così da tirargli addosso il tavolo con sopra la colazione di tutti e la dannata rivista, ma l’arrivo di Hawks lo fermò.
“Buongiorno,” disse, col tono di chi non pensava davvero lo fosse, poggiando sul tavolo una tazza di caffè nero che fece inarcare le sopracciglia persino a Katsuki.
Ooooh...” Mirko simulò un’espressione dolente. “Brusco risveglio,” dedusse.
Hawks simulò alla perfezione un sorriso amichevole, che non nascondeva così bene la sua voglia di mandare tutti al diavolo e volare il più lontano possibile dalle sue responsabilità.
“No, è facile rifiutare i bruschi risvegli,” disse, mostrando a tutti il display del cellulare, su cui risultavano ben ventisette notifiche di chiamata senza risposta. “Basta ignorare i problemi.”
Mirko incrociò le braccia sul tavolo e si sporse in avanti.
“Quindi pensi di fuggire in Messico per le prossime due settimane?”
“Fermi!” Ringhiò Katsuki. “Lui non trova questa stronzata divertente, ma non si deve sorbire le vostre critiche canzonatorie?” Domandò, sventolando la rivista con rabbia.
“Lui si prenderà le ondate d’isteria da entrambe le parti,” chiarì Burnin’, concedendo al Number Two un’occhiata comprensiva. “Non ha davvero motivo di ridere.”
“Qui è Endeavor che proprio non riesce a prenderla a ridere,” disse Hawks, facendo segno all’Hero più giovane di passargli la rivista.
“Sentito, Bimbo-Bomba? Touya è più simpatico di te,” disse Mirko, poi si rivolse all’ex villain. “E anche di te.”
Tenko fece una scrollata di spalle.
“Convivici in galera per mesi e poi ne riparliamo,” ribatté.
Hawks ignorò il battibecco per studiare con attenzione il disastro mediatico in formato cartaceo tra le sue mani.
“Oddio…” Sospirò, già stanco a inizio giornata.
“Dammi un’anteprima di quello che troverò al lavoro,” lo punzecchiò Burnin’. “Qual è il motivo per cui il Capo sta dando di matto, il fatto che abbiano scambiato Touya per il suo amante o il SexyShop davanti a cui hanno fatto la scena?”
“Le ventisette chiamate senza risposta sono lì perché non voglio saperlo,” rispose Hawks, senza smettere di sorridere in quel modo finto.
Katsuki alzò gli occhi al cielo: tempo di finire quella tazza di caffé nero e il volatile sarebbe corso - o meglio, volato - in coccorso del suo Todoroki preferito - l’energumeno. Touya era quello con cui Hawks andava a letto, ma ancora insistevano sul dichiararsi antipatia reciproca in pubblico, col risultato che Endeavor era il solo a crederci.
“Hawks, puoi anche girarlo al contrario, il SexyShop sullo sfondo è sempre bello visibile!” Esclamò Mirko, provocando un attacco d’ilarità a se stessa e a Burnin’.
Era la seconda parola che la parola SexyShop veniva pronunciata, ma Katsuki la sentì chiaramente solo in quel momento.
“Che c’entra il SexyShop?” Domandò.
Le due Heroine lo fissarono, esasperate.
“Ha spiegato la battuta senza capirla realmente,” disse Mirko. “Hawks, dai qua!” Strappò la rivista di mano all’Hero alato per obbligare il più giovane ad analizzarla una seconda volta, con rinnovata attenzione.
Katsuki si ritrovò a fissare la faccia stupidamente disperata di Endeavor, mentre se ne stava con un ginocchio a terra, implorante. Perché nessuno si stava chiedendo che cazzo avesse fatto Touya per costringerlo in una simile posizione?
Fece per esprimere tale perplessità ad alta voce, quando Mirko cominciò a battere l’indice su un dettaglio sulla parte alta della foto: l’insegna al neon viola di un SexyShop, insieme al titolo fuorviante della rivista, facevano da cornice alla foto di padre e figlio in un modo che fece venire a Katsuki dei brividi tutt’altro che piacevoli.
Allontanò il giornalaccio con un gesto secco e le altre due risero.
“Ora ha capito,” disse Mirko.
“Sì, ma è comunque troppo per i suoi occhi innocenti,” aggiunse Burnin’.
Risero di nuovo, mentre Katsuki sibilava loro di stare zitte.
Solo l’arrivo di Izuku e Shouto - di ritorno dal turno di notte - riuscì a convincerle ad avere un minimo di ritegno.
“Scusate il ritardo,” disse il primo, con l’educazione che lo contraddistingueva. “Ci hanno trattenuti in ufficio.”
Ufficio. Quello di Endeavor.
Mentre Izuku si sedeva accanto a Burnin’, Katsuki - e il resto del tavolo con lui - lanciò un’occhiata inquisitrice a Shouto, che si lasciò cadere - emettendo un sonoro thud nel processo - alla destra di Hawks. Era sfinito, il viso contratto in un broncio che lui e Izuku conoscevano dall’inizio del liceo e che era sempre segnale di sciagura - spesso familiare.
Le due stronze - Katsuki non sapeva davvero in che altro modo definirle - furono pietose per il tempo di un respiro, ma la mano comprensiva del Number Two raggiunse la spalla del giovane Todoroki prima che potessero aprire bocca e accoglierlo con altre stronzate.
Hawks prese un respiro profondo: “in una scala da uno a dieci, quanto-?”
Troppo,” lo interruppe Shouto, secco.
Katsuki sentì tanto caldo e, subito dopo, tanto freddo e l’esperienza gli suggerì che non poteva trattarsi di semplice soggezione.
Hawks si massaggiò la fronte e il giovane Bakugou poté giurare di sentire la voce dei suoi pensieri che contava fino a dieci.
“Puoi anticiparmi la dinamica degli eventi?” Domandò. Lo sforzo che stava facendo per mostrarsi sorridente e positivo sarebbe stato palese anche all’ultimo dei ciechi.
“Ho messo insieme i pezzi tra un urlo e l’altro,” cominciò a raccontare Shouto, gli occhi eterocromatici fissi in un punto nel vuoto. “Credo…”
Le labbra di Hawks disegnarono di colpo una linea retta.
“Urlava anche Touya?” Domandò, atterrito.
“Non all’inizio,” chiarì Shouto. “All’inizio rideva, prendeva in giro papà, poi penso si sia stufato…”
“Bene,” concluse Hawks, con l’atteggiamento di resa di un condannato a morte. “A tratti benissimo.”
“Hawks, a te faremo il funerale dopo,” disse Mirko, togliendo la rivista a Katsuki per farla scivolare sotto gli occhi di Shouto. “Hai idea del perché fossero lì?” Domandò, malefica, indicando l’insegna viola del SexyShop.
Il viso del giovane Todoroki si animò di nuova vita e guardò la foto come se non l’avesse mai vista prima, anche se Katsuki aveva il sospetto che gran parte delle copie stampate ora fossero nell’ufficio dell’energumeno, per essere sottratte all’occhio pubblico. Come se servisse a qualcosa nell’era del web.
“Non erano ,” disse Shouto. “Erano di passaggio lì davanti, ma non credo siano andati in un SexyShop.”
Katsuki guardò Hawks.
Hawks guardò Katsuki.
Poi entrambi fissarono le due dal lato opposto del tavolo.
“È un negozio come un altro!” Si difese Mirko, come se fosse l’inizio di un discorso contro i perbenisti e il bigottismo.
“Touya ed Endeavor,” disse il Number Two ad alta voce, come se l’idea taciuta non fosse abbastanza orribile così. “In un SexyShop.”
Burnin’ alzò le spalle.
“Magari voleva regalargli una scatola di preservativi formato scorta,” propose. “I SexyShop sono gli unici negozi che fanno quel genere di offerte ed è conveniente, lo consiglio!”
Su Endeavor che regalava dei preservativi a Touya, Hawks abbandonò tutte le armi, incrociò le braccia sul tavolo e vi nascose il viso, come se stesse per mettersi a piangere.
A peggiorare le cose fu Shouto.
“No, non credo. Papà è convinto che siamo tutti illibati,” disse, ingenuamente.
Katsuki ne era certo, se Hawks avesse potuto, sarebbe scivolato sotto il tavolo e sarebbe morto lì. E lui lo avrebbe seguito.
Tanto più quando le due sceme guardarono Shouto con perplessità e sospetto.
“Perché ha parlato al plurale?” Domandò Mirko a Tenko.
Quest’ultimo alzò le mani, come a dire che non aveva nulla da nascondere.
“Io non so niente!” Esclamò, manco lo avessero accusato di un crimine - l’ennesimo - orribile. “Non chiedermi niente!”
Tipico atteggiamento di chi, palesemente, sapeva, eccome se sapeva.
Izuku, che aveva ben pensato di togliersi dall’impaccio per tutta la conversazione fissando qualsiasi cosa che non fosse il viso dei presenti, scelse proprio quel momento per iniziare a panicare.
“O-Ordiniamo che ne pensate?!” Domandò, con una voce di almeno tre ottave più alta del normale.
Katsuki decise di riportare l’ordine spostando l’attenzione di tutti sull’argomento principale di quel teatrino.
“Ma perché Endeavor era in ginocchio?” Domandò, senza gentilezza, come se l’atto l’offendesse in prima persona.
Anche Hawks sollevò il viso, animato dalla stessa curiosità.
“Penso che papà abbia proposto a mio fratello qualcosa, forse prendere un caffè insieme e fare due parole,” rispose Shouto. “Con certezza so solo che Touya gli ha risposto: prova a chiedermelo in ginocchio. E papà si è inginocchiato.”
Fu il turno di Katsuki di avere una crisi di panico.
Premette forte le labbra e cominciò ad affettare le sue frittelle - ormai fredde. Tutto pur di cacciare indietro l’attacco d’ilarità che lo aveva colpito tra capo e collo non appena Shouto aveva finito di parlare. Non sapeva se era la storia in sé o il fatto che potesse vedere la scena davanti ai suoi occhi come un film, ma improvvisamente tutta la storia della foto davanti al SexyShop lo faceva ridere, ma non voleva dare alle due cretine la soddisfazione di scendere al loro livello.
S’infilò un pezzo di frittella in bocca come se dovesse cacciarselo direttamente in gola, e prese a masticare con rabbia. Un po’ alla volta, sentì la tensione delle risa non sfogate passare e s’illuse di essere al sicuro. Prese il bicchiere col succo di frutta alla pesca davanti al suo bicchiere, certo che dopo aver bevuto avrebbe di nuovo avuto il pieno controllo di sé.
Tragicamente, il suo sguardo incrociò quello di Tenko, concentrato quanto lui a non scoppiare a ridere per la ridicola storiella del Todoroki padre col Todoroki figlio.
Capitolarono tutti e due, il giovane Hero più rovinosamente dell’ex villain.
Katsuki un po’ sputò, prendendo Tenko in faccia, un po’ si strozzò col poco succo di frutta che aveva ingoiato. Mentre era certo di morire, qualcuno - forse Hawks - cominciò a prenderlo a pacche sulla schiena.
Mirko, intanto, commentava vittoriosa: “almeno ha riso.”
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