Sogno Lucido
Mar. 3rd, 2023 03:11 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
CowT13, Week 2
M3: 09
Miss Hudson fissava l’orologio appeso tra il tubo della stufa e la credenza con particolare insistenza. L’impasto che stava mescolando si era solidificato da un bel pezzo, troppo perché potesse essere di qualche utilità. La padrona di casa però continuava a girare il mestolo con ritmo ben cadenzato.
Solo il ticchettio delle lancette interrompeva il silenzio assoluto del 221B di Baker Street. La situazione non poteva essere più sospettosa di così.
Miss Hudson non aveva sentito Sherlock rientrare - senza ombra di dubbio, il bastardo aveva messo piede nell’ingresso con passo felpato - ma non aveva dormito abbastanza per poter pretendere di essere di buon umore. A peggiorare lo stato in cui versavano i suoi poveri nervi era la calma piatta al piano di sopra. No, Sherlock non sparava contro il muro regolarmente, ma era molto strano che non avesse annunciato il suo ritorno suonando quel dannato strumento del diavolo - il violino.
La sciacquetta doveva averlo davvero privato di tutte le energie.
Male. Molto male.
Miss Hudson poteva non essere sposata, ma non era certo una suora e sapeva cosa serviva a uomo per tenerlo tranquillo. Nel caso di Sherlock, dovevano essere andati avanti per parecchio se a mezzogiorno non sentiva ancora il bisogno fisiologico di combinare qualche guaio.
Non appena udì una porta aprirsi e richiudersi, la signorina Hudson smise di mescolare e fece saettare lo sguardo in direzione della porta della cucina. L’aveva lasciata aperta di proposito, così da vedere se Sherlock tentava di svignarsela una seconda volta.
Fu John quello che vide comparire nell’ingresso.
“Ah!” Esclamò la padrona di casa. “Alla buon’ora! Aspettando di ricevere notizie da te, hanno incoronato Re il Principe del Galles!”
“Non scherziamo su questioni politiche,” disse John, stancamente, accomodandosi al tavolo della cucina senza chiedere il permesso. “Ci manca solo che il Signor Mycroft venga colto di sorpresa da una successione reale.”
La donna inarcò le sopracciglia. “Perché ora parliamo del Signor Mycroft?”
Perché Sherlock vuole ballare un valzer con il fratello del Conte Moriarty di fronte a tutta l’alta società londinese. John prese un respiro profondo. “Questo fine settimana, io e Sherlock presenzieremo a un ballo in maschero organizzato dal Marchese Patel e suo figlio. Sembra siano stati lontano dalla scena per diverso tempo e questo evento è il loro modo per integrarsi di nuovo col resto della nobiltà.”
“Ah!” La signorina Hudson sollevò il mestolo sporco. “Il Signor Mycroft è necessario per legare Sherlock e trascinarlo in carrozza fino al ballo. Ho capito.”
“No,” spiegò John. “Sherlock vuole andare.”
Lo sfortunato mestolo cadde di mano alla proprietaria atterrando sul pavimento con un sonoro thud. Il medico notò che parte dell’impasto schizzò sul pavimento, ma alla padrona di casa non poteva importare di meno in quel momento. “No, John,” disse con aria grave, scuotendo la testa. “Qui la situazione si sta facendo veramente grave.”
Non ha idea di quanto lo sia davvero, pensò il medico.
“Scommetto che Sherlock vuole andare perché ci sarà la sciacquetta!” Aggiunse, nervosa.
“Sì, è così.”
La signorina Hudson si lasciò alle spalle la ciotola con dentro l’impasto e sbatté la mano sul tavolo, a meno di dieci centimetri dal braccio di John, che trasalì.
“Che cosa ti ha detto il pazzo?” Domandò la donna e non avrebbe mai accettando del silenzio come risposta.
John pensò quasi d’inventarsi una balla per farla contenta, ma la verità era così semplice che non valeva la pena complicarla. “Hanno parlato.”
L’altra lo guardò come se fosse un completo idiota. “Hanno parlato,” ripeté. “Tutta la notte?”
“Sì, tutta la notte.”
“E tu l’hai bevuta?” Urlò la signorina Hudson, esasperata. “Devo sempre fare tutto io in questa casa… Dov’è Sherlock?”
“Sta dormendo,” rispose John, anche se gli sembrava una risposta ovvia.
“E perché sta dormendo?”
“Perché è rimasto fuori tutta la notte?”
“No, John!” La signorina Hudson sbatté il palmo aperto sul tavolo una seconda volta. “Dorme perché è rilassato. Ora, pensaci bene, hai mai visto Sherlock rilassato? No, che non lo hai visto! E sai perché? Perché non è capace di farlo!”
John sollevò la mano per invitarla a calmarsi. “Anche ammesso che sia successo quello che state supponendo voi-“
“Io suppongo che Sherlock e la ragazza usino sostanze illegali per divertirsi!”
“Non c’è bisogno di-“ John si bloccò. “Che cosa?”
La signorina Hudson era seria, molto seria. “Avanti, John, sei un medico, so che ti sei accorto che Sherlock ha qualche vizio di troppo.”
John gesticolò nervosamente: non voleva parlare così apertamente dei lati oscuri del proprio partner, specie se lui era il primo a non conoscerli nei dettagli. “Una volta, mi ha prestato una sigaretta e stavo per soffocare. Penso avesse mischiato il tabacco ad altro, ma ora non lo fa più.”
La Hudson aggrottò la fronte. “Sicuro?”
“Sì, quando non se ne accorge, fumo una sigaretta delle sue per controllare.”
“Tu pensi che non se ne accorga.”
“Ho visto Sherlock al peggio di sé solo dopo il caso di Hope,” ammise John. “Era l’inizio della storia del Signore del Crimine, ricordate? Prima ancora che Londra ne parlasse davvero. Sherlock era vittima di una stasi, al tempo. Qualunque cosa ci fosse mischiata a quel tabacco, gli dava conforto. Era un disastro, ma non si è ripetuto!”
“Oh, caro mio, tu non lo hai mai visto essere davvero un disastro.” La signorina Hudson incrociò le braccia sotto al seno, lasciando andare un sospiro triste. “In realtà, anche io ho assistito a quella fase solo di sfuggita. Mi sono accorta che qualcosa non andava, ma al tempo fu il Signor Mycroft a occuparsi di tutto. Per un certo periodo, Sherlock continuò a tenere qui le sue cose e pagare l’affitto ma visse a Mayfair da suo fratello. Fu davvero una brutta storia.” Si fermò a studiare l’espressione del medico. “Sherlock non te lo ha mai raccontato, vero?”
John scosse la testa. “No.” Non ne era sorpreso. “Credo che si vergogni, sapete?” Ipotizzò ad alta voce. “Si vergogna di essere stato dipendente da qualcosa. Forse avete ragione, lo è tutt’ora.”
“Visto!” Esclamò la padrona di casa. “La sciacquetta è nobile e i nobili si annoiano facilmente! Vizio di qua e vizio di là!”
“No, non mi riferivo a quello.” Era la prima volta che John faceva una simile riflessione e si sorprese di non averci mai pensato prima. “Parlo dell’ossessione di Sherlock per il Signore del Crimine. Dice che vuole prenderlo e io gli credo. Devo credergli.”
“Ma?”
John ci pensò bene prima di dirlo ad alta voce, perché se così fosse stato, la relazione tra Sherlock e William James Moriarty era pericolosa sotto troppi punti di vista. “Certe volte penso che lui desideri che questo gioco di misteri non finisca mai,” disse a bassa voce, come se avesse paura di essere udito dal suo coinquilino al piano di sopra. “Ne vuole di più, sempre di più. È lo stesso meccanismo di una dipendenza, anche senza il coinvolgimento di sostanze stupefacenti.”
La signorina Hudson si sedette accanto al medico, preoccupata. “Hai completamente faccia,” commentò. “A che cosa stai pensando?”
John fissò un punto qualunque del pavimento. “Guarire da una dipendenza è terribile. Non esiste una vera letteratura in medicina perché la società non riconosce la dipendenza come una malattia, ma una vergogna.”
“E non si può guarire quello che non deve esistere,” concluse la Hudson con una smorfia.
John annuì. “Per quanto terribile, è possibile disintossicarsi dall’abuso di una sostanza,” proseguì. “Ma come ci si disintossica da una persona?”
“Spiegati meglio.”
William James Moriarty si rivela essere il Signore del Crimine, Sherlock arriva a capo del mistero e la giustizia fa il suo corso. Pensò il medico. Niente più misteri. Niente più gioco. Niente più Liam.
Bussarono alla porta d’ingresso, prima che il medico potesse pronunciar parola.
“Arrivo,” disse la signorina Hudson, alzandosi. Tornò meno di cinque minuti dopo. “È un telegramma da parte del Signor Mycroft.”
John annuì. “Quando si sveglierà, lo farò avere a Sherlock.”
“No, è per te.”
Dopo un primo momento di sorpresa, il medico allungò la mano. “Vuole sapere se Sherlock è tornato a casa e sta bene,” riassunse ad alta voce.
“Il ragazzo sta aspettando la risposta qui fuori,” disse la signorina Hudson, attraversando la stanza. “Ti prendo carta e penna così puoi rispondergli che il teppista di strada sta dormendo nel suo letto.”
John alzò lo sguardo verso il soffitto. “Devi fermarti o ti farai male, Sherlock,” mormorò a voce bassissima.
Sherlock restò a letto per mezza giornata. Non dormì molto e per quel poco sognò di Liam. Quando si svegliò per l’ennesima volta, stufo di girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, si liberò delle coperte con un calcio e si alzò con un mezzo saltello.
“Oh, Liam, Liam, Liam…”
Se Lestrade avesse bussato alla sua porta in quel preciso momento per proporgli il caso più elementare della storia, Sherlock non sarebbe riuscito ad arrivare a una soluzione. Pur concentrandosi, nella sua testa non avrebbe trovato altro che Liam.
Si erano lasciati d’appena poche ore, dopo aver passato insieme tutta la notte e Sherlock ne sentiva la mancanza come se ogni minuto lontano da lui fosse uno in meno d’aria.
Quanto poteva resistere in quello stato miserabile?
Liam gli aveva chiesto di avere pazienza ma John aveva ragione: lui e il concetto di pazienza viaggiavano su due binari paralleli. E la mente di Sherlock non si fermava lì, all’aspettativa del loro prossimo incontro. No, andava avanti ancora e ancora. Si chiedeva se un’altra notte insieme sarebbe bastata a placare il suo animo inquieto o, al contrario, un’altra separazione non avrebbe fatto altro che aumentare il senso di soffocamento.
Sherlock si sedette ai piedi del letto con uno sbuffo, passando una mano tra i capelli pieni di nodi. Doveva farsi un bagno. Sì, forse l’acqua calda avrebbe rilassato i suoi nervi per una manciata di minuti.
Scosse la testa con forza. A chi voleva darla a bere? Nei suoi momenti peggiori, si era ritrovato strafatto di oppio, pur di porre un freno alla sua mente impazzita e trovare riparo all’ombra di una pace illusoria, velenosa.
Ma il pensiero di Liam non lo spingeva a farsi del male in quel modo.
Poteva essere ripetitivo, addirittura ossessivo ma Sherlock non voleva staccarsene. Voleva che Liam fosse lì, al centro della sua mente.
Liam lo faceva stare bene.
Non c’era un modo scientifico per dissezionare quel pensiero e dargli una spiegazione logica.
Liam, semplicemente, lo faceva star bene.
Quel genere di esperienza era talmente estranea a uno come Sherlock Holmes, che non poteva fare a meno di avvertire un moto di panico, sotto tutto l’entusiasmo.
“Che cosa mi stai facendo?” Domandò alla stanza vuota.
Se il suo modo di pensare non fosse stato strettamente legato alla logica, Sherlock avrebbe anche potuto sospettare che Liam gli avesse fatto una qualche sorta d’incantesimo. Era davvero possibile che un uomo come lui, che mai si era sforzato d’integrarsi e che, al contrario, rifuggeva la compagnia di qualsiasi essere umano - John era solo una fortunata eccezione - desiderasse tanto la vicinanza di un’altra persona?
La risposta se l’era data da solo il giorno prima, quando il suo partner si era dimostrato preoccupato a morte per la possibilità che William James Moriarty fosse la sua Anima Gemella.
“E chi altri, se non tu, Liam?”
Sherlock si lasciò ricadere sul letto con un sorriso sognante. Gli girava la testa, ma non c’era nessuna sostanza chimica in circolo nel suo sangue da poter biasimare.
Bastava il ricordo di Liam, del suo sorriso contenuto - forse timido, di chi non è abituato ad avere un’espressione spontanea ma solo di cortesia - e di quegli occhi dal colore impossibile. Dio, quante persone al mondo esistevano con le iridi dello stesso colore delle rose rosse?
La sua mente gli suggerì l’immagine di Louis James Moriarty e Sherlock la scacciò via di prepotenza, con un gesto della mano, manco gli fosse comparsa davanti agli occhi giusto per rovinargli il momento.
Fu la spiacevole distrazione di un istante e nulla più.
Mentre fissava il soffitto della propria camera, Sherlock tornò a Liam, a come la sua mano gli era sembrata così piccola rispetto alla propria.
Liam.
Liam, che era la sua Anima Gemella.
Liam, che era il Signore del Crimine.
Era al di fuori di ogni logica come quel sospetto non facesse altro che alimentare il desiderio di Sherlock. Se guardava al futuro, la logica gli suggeriva solo possibilità avvolte nelle tenebre. Non ne temeva neanche uno.
Doveva solo spingere Liam a confessare, a gettare la maschera.
Una volta uno di fronte all’altro, il gioco sarebbe stato solo tra loro due.
La legge di quel paese poteva anche andarsene al Diavolo!
Non è un pensiero comodo? Gli domandò una voce in fondo alla sua testa, che suonava fastidiosamente come quella di Mycroft. Vuoi rendere le indagini oggettive tramite logica e scienza. Vuoi rendere la giustizia uguale per tutti, ma per lui faresti un eccezione?
“Non mi sono mai considerato l’eroe di questa storia,” rispose Sherlock. “Non ho mai considerato Liam l’incarnazione del male. Entrambe sono realtà che esistono solo nella testa del Signore del Crimine.”
E come consideri te stesso? Lo interrogò la voce. Come consideri lui?
Sherlock si umettò le labbra. “Ci sono cose…” Lasciò la frase sospesa per un istante. “Ci sono tentazioni per cui un uomo è disposto a compromettere se stesso.”
Vuoi compromettere te stesso per qualcosa di tanto banale come una tentazione?
“Ero compromesso anche prima di Liam,” disse Sherlock, a se stesso. “E no, lui non è banale come una tentazione.”
E allora cos’è, Sherlock? Cosa spinge un uomo a mettere in discussione tutto se stesso?
“Un ideale.”
Non è il tuo caso. Riprova.
“Un sentimento?” Sherlock lo chiese a se stesso. La voce nella sua testa non gli rispose.
Basta, gli era venuto il mal di testa.
Si alzò e decise che si sarebbe fatto quel bagno.
William non riusciva a chiudere occhio. Aveva tirato le tende con cura, cercando di tagliare fuori dalla camera da letto la luce del sole. Non c’era stato niente da fare: da dove si trovava, poteva vedere un singolo, galeotto, raggio dorato scivolare tra fessure della stoffa pesante, attraversare la stanza e toccare le rose blu che erano ancora appoggiate al centro della sua scrivania.
Il colore era tornato, ancor più vivido di quanto non fosse prima e William non riusciva ad allontanare lo sguardo. Non poteva.
Disteso al centro del letto, guardava quei fiori e cercava tra quei petali le sfumature degli occhi di Sherlock. Non ci riusciva.
La sua mente continuava a portarlo indietro, a quei pochi istanti sul ponte, mentre il sole tagliava l’orizzonte. L’immagine di quel viso era così nitida che avrebbe potuto disegnarlo nei particolari, se solo ne avesse avuto la capacità.
E il dettaglio dei capelli sciolti, che mai prima di allora aveva potuto vedere, non era affatto da mettere in secondo piano. William si era dovuto trattenere dal sollevare la mano ed accarezzarli, scoprire se erano morbidi come sembravano o, forse, un po’ ispidi. Sapeva solo che erano tanto neri che quando la luce del sole li toccava, avevano dei riflessi bluastri.
E poi c’era quel sorriso.
Quel luminoso, maledetto sorriso.
Poteva una cosa tanto innocente essere una tentazione così grande?
William si mise a sedere, piegò le ginocchia e le circondò con le braccia. Gli occhi scarlatti non lasciarono le rose blu nemmeno per un istante.
Aveva chiesto a Sherlock di avere pazienza e di fidarsi di lui e non erano state parole pronunciate a vuoto.
Voleva rivederlo. Doveva rivederlo.
Questa volta però una conversazione lunga una notte, all’interno di una carrozza che girava a vuoto, non sarebbe bastata. Ci voleva qualcosa di personale, di stimolante. Doveva accendere l’interesse di Sherlock ancor di più, ma non poteva scoprirsi troppo o del piano Moriarty non sarebbe rimasto nulla.
William si passò una mano tra i capelli, tirando un poco, come se quella lieve fitta di dolore fosse sufficiente a liberargli la mente da quello che era il grande schema. Non c’era nulla da pianificare, non nel modo in cui era abituato.
Era esattamente come aveva confessato a Louis: quel capitolo era per lui, non per il Signore del Crimine. Non voleva essere altro che quel Liam di cui Sherlock non la smetteva di pronunciare il nome. Anche se la vedeva tutti i giorni nel proprio riflesso nello specchio, era una persona che William non conosceva, di cui non si era mai interessato. Sherlock, invece, sì.
Il Detective stava portando alla luce qualcosa che William era sempre stato, ma che non si era mai concesso di essere. Perché la storia che aveva scritto per se stesso era un’altra, perché il suo ruolo prevedeva degli sviluppi e una conclusione che nulla avevano a che fare con un’anima legata alla propria da un vincolo impossibile da spiegare.
Sherlock Holmes era la sua Anima Gemella, era un fatto innegabile. Era il risultato di un problema matematico che non accettava opinioni.
Il destino non era sarebbe potuto essere più crudele.
William non pensava a sé. I suoi peccati erano innegabili e il suo castigo lo attendeva alla fine della strada, inevitabile come solo la morte poteva esserlo. Era Sherlock che avrebbe pagato il prezzo più alto. Sherlock, che sarebbe divenuto immortale come il Detective che aveva salvato la Gran Bretagna dalla crudeltà del Signore del Crimine, ma rinunciando a cosa?
William non si riconosceva alcun valore al di fuori del piano Moriarty, ma Sherlock lo guardava e vedeva Liam. Non c’erano dubbi sul fatto che il Detective si fosse accorto del legame che c’era tra loro. Se il giovane Moriarty aveva avuto dubbi, erano svaniti nel momento in cui Sherlock aveva cercato i suoi occhi alle prime luci dell’alba.
Era egoista e crudele da parte di William lasciarsi cullare da quella tentazione, perché regalava all’altro un’illusione che non si sarebbe mai concretizzata. Alla fine, Sherlock non lo avrebbe disprezzato solo per i suoi crimini, ma anche per aver giocato col suo cuore. E quello, almeno quello, era un peccato di cui William non avrebbe mai voluto macchiarsi.
Sì, era egoista e crudele perché quel poco tempo che era per lui e per Sherlock, William lo voleva tutto. Tutto.
Prima che fosse troppo tardi.
Ormai conscio che non sarebbe riuscito a riposare, si alzò in piedi e lasciò la camera da letto.
Sherlock chiuse la porta della sala da bagno a chiave.
John non era il tipo da entrare senza bussare, ma aveva bisogno di un po’ di tempo per sé e non voleva correre rischi. Nell’ attraversare il salotto, aveva afferrato lo Stradivari e l’archetto, entrambi abbandonati sul divano. Aprì i rubinetti della vasca da bagno e quando fu soddisfatto della temperatura del getto, si fece indietro e la guardò riempiersi. Nell’attesa, incapace di rimanere fermo per più di cinque secondi, appoggiò il violino sulla spalla e prese a suonare distrattamente. Le ragioni per cui quello strumento gli era così caro erano molteplici. Da bambino, si era accorto che suonare lo aiutava a mettere in ordine le idee e, al contempo, gli offriva una valvola di sfogo quando la sua emotività diveniva qualcosa di troppo.
Mycroft sosteneva che il violino era il suo unico tratto distintivo a regalargli un poco di eleganza. Sherlock non badava a simili particolari. La musica di quello strumento gli aveva dato qualcosa che non era riuscito a trovare da nessun’altra parte e lo aveva portate con sé per tutta la vita.
Liam era un po’ la stessa cosa, solo che non gli apparteneva.
Quel pensiero gli fece stonare una nota e, per un attimo, calò il silenzio all’interno della stanza. Sherlock lanciò un’occhiata alla vasca: l’acqua non era ancora arrivata alla metà.
Appoggiò la guancia sullo Stradivari e posizionò l’archetto. Prima di riprendere a suonare, chiuse gli occhi.
Come la prima nota venne seguita, il mondo come tutti gli altri lo conoscevano smise di esistere. Sherlock prese la distanza da tutto: dal rumore dell’acqua che scorreva, dai rumori che giungevano dalla strada, dall’odore del pranzo che proveniva dal piano di sotto. Lasciò che la musica diventasse espressione del suo mondo interiore e permise alla sua mente un gioco di fantasia a cui non si era mai lasciato andare.
Due labbra sfiorarono le sue, calde come se fossero reali. Non lo erano.
L’archetto esitò sulle corde.
“Non smettere di suonare,” ordinò una voce che conosceva bene.
Sherlock aprì gli occhi e trovò quelli scarlatti di Liam a pochi centimetri dai suoi. Il Detective dischiuse le labbra, ma l’altro vi premette contro l’indice per zittirlo. “Non smettere di suonare,” ripeté, come se fosse realmente lì.
Non lo era. Era solo una fantasia di Sherlock.
“Se la musica si ferma, tutto finisce,” disse Liam, appoggiando entrambe le mani sul suo petto, giocando coi bottoni della camicia del pigiama. Tutto mentre le proprie labbra minacciavano di toccare ancora quelle di Sherlock, ma senza mai farlo realmente.
Il Detective era pietrificato. Le dita che premevano le corde e il braccio che muoveva l’archetto erano le sole parti del suo corpo a spezzare l’immobilità.
Liam - quella fantasia con le sue fattezze - faceva tutto il resto. “Non smettere di suonare,” mormorò, contro la sua bocca. “Non smettere di suonare, Sherlock.”
Lo baciò.
William se ne stava seduto sul davanzale di una delle finestre della sua camera, quella che dava sulla serra. Poteva vedere un gran via vai da lì e dedusse che gli altri si stavano preparando per pranzare tra le rose. Vista la poca collaborazione che la sua mente dimostrava nel rilassarsi, avrebbe potuto mettersi qualche vestito addosso e raggiungerli per mangiare tutti insieme. L’idea di avere gli occhi curiosi di tutti addosso non lo allettava. Rasserenato Louis, nessuno si sarebbe permesso di dire niente - forse solo Moran avrebbe fatto uno scivolone, ma senza malizia - ma William aveva bisogno di essere solo nella sua testa, prima di poter affrontare gli altri.
E in quel momento, ciò che gli impediva di riposare era l’ingombrante presenza di Sherlock nei propri pensieri.
Aveva un libro appoggiato sulle gambe, una lettura che aveva rimandato di continuo e che non avrebbe trovato maggior fortuna quel giorno. Per disperazione, William si era messo a eseguire i suoi stessi esercizi, quelli assegnati ai suoi studenti, tanto per provare a sgombrare la testa.
Non ci era riuscito.
Nemmeno un buon libro sembrava avere un simile potere contro Sherlock Holmes.
William si alzò in piedi con un sospiro stanco e ripose il volume sullo scaffale, insieme a tutti gli altri. Appoggiò la schiena alla scrivania, cercando un modo di sfogarsi che non richiedesse il coinvolgimento di una spada. A dirla tutta, un incontro amichevole di scherma con Louis avrebbe fatto solo bene ai suoi nervi, ma non voleva svelarsi al fratello minore più di quanto aveva già fatto.
Il più giovane gli avrebbe concesso spazio di manovra in virtù del bene che gli voleva, ma mostragli quanto forte era l’ascendente di Sherlock Holmes su di sé non era cosa saggia.
No, William aveva bisogno di restare da solo e ristabilire un equilibrio in cui il Detective non aveva spazio. Sollevò gli occhi scarlatti e le rose blu sulla sua scrivania gli suggerirono che quello non era il luogo migliore per farlo. Non si disturbò ad aprire l’armadio e darsi un contegno, ma si limitò a indossare la vestaglia da camera sopra il pigiama.
La stanza che doveva raggiungere era al piano di sotto - quello comune - e non la usavano quasi mai. Avere una sala della musica era quasi la prassi in ville come quella, ma questo non significava che dovessero per forza esserci musicisti in famiglia. Albert aveva studiato pianoforte da bambino e aveva passato le basi a William. Tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, poco dopo l’incendio della tenuta dei Moriarty, William - ancora libero dai doveri della vita adulta - aveva fatto del pianoforte un piacevole passatempo. Il fatto che eccellesse in quello, come faceva in tutto, non era stata una sorpresa per nessuno. Non ne aveva mai approfittato. Aveva scelto la strada della matematica e dell’insegnamento e, ben presto, il tempo di suonare solo per voglia di farlo gli era mancato.
William era certo che il rapporto tra Sherlock e il violino fosse completamente diverso. Decise che glielo avrebbe chiesto al loro prossimo incontro. Perché era ovvio che si sarebbero rivisto, doveva solo fare mente locale e mettere insieme i dettagli.
Tuttavia, ora era necessario dare un freno al suo cuore impazzito e quando entrò nella sala della musica, il pianoforte a coda gli parve bello come una visione.
Sedendosi sullo sgabello, William sapeva di non potersi aspettare un granché da se stesso: non ricordava nemmeno l’ultima volta che si era seduto a strimpellare qualche nota.
Sollevò il coperchio, rivelando i tasti bianchi e neri. Per lui non avevano alcun significato emotivo. Era conscio della bellezza che erano in grado di produrre, ma nulla di più.
“Che cos’è la musica per te?” Domandò William alla stanza vuota, sfiorando le chiavi con la punta delle dita. Qualcosa gli diceva che non si poteva dire di conoscere Sherlock Holmes senza prima averlo sentito suonare. “Sei un violinista che non è un violinista?”
William provò a immaginarselo mentre suonava e si rese conto che faceva fatica. D’altro canto, quale strumento migliore del violino per Sherlock Holmes? Aveva letto di un musicista italiano scomparso qualche decennio prima - se non ricordava male, il nome era Paganini - di lui scrivevano di quanta impetuosità mettesse nel suonare il violino, tanto da spezzarne spesso le corde. Una passione tanto smodata da parte dell’artista aveva spinto la gente dell’epoca a ricordarlo come il violinista del Diavolo.
Ecco, William era certo che Sherlock si accostava perfettamente a quella definizione.
Ma era solo una sua fantasia. Non lo aveva mai sentito suonare.
“Impetuoso, eh?” William pensò a un pezzo che potesse rendere bene l’idea.
Lo trovò e mise le dita in posizione.
Le prime note del Fantasie-Impromptu di Chopin riempirono la stanza veloci, inesorabili, come una corsa destinata a lasciare il giovane Moriarty senza fiato. William immaginò Sherlock in ognuna di esse, come se stesse cercando di fargli un ritratto attraverso la musica. Le sue mani rallentarono, seguendo il tempo di uno spartito che ricordava a memoria, e fu allora che la fantasia del Signore del Crimine raggiunse un livello più alto. Astrazione.
“Non smettere di suonare,” la voce di Sherlock lo raggiunse alle sue spalle.
Non era reale, ovviamente. Non poteva esserlo.
Eppure, William riusciva a immaginarlo così bene da sentirlo vicino.
“Non smettere di suonare, Liam.” Una mano sinistra comparse dal nulla, ricoprendo la sua. William la ritrasse e permise a quelle dita di accompagnarlo nell’esecuzione del pezzo, come se fosse una sola persona a eseguirlo.
Quante possibilità c’erano che Sherlock sapesse suonare anche il pianoforte? William non si era posto il problema.
La fantasia divenne sempre più reale: la mano libera di Sherlock gli aggiustò un ciuffo di capelli biondi dietro l’orecchio e William avvertì l’illusione di due labbra calde premere contro il collo.
“Chiudi gli occhi,” lo istruì la voce di Sherlock nella propria vita testa.
Lo aveva già fatto.
“E continua a suonare, Liam.”
Sherlock non conosceva il sapore delle labbra di Liam.
Non poteva saperlo perché non lo aveva mai baciato.
La sua fantasia seppe colmare le lacune della sua conoscenza magnificamente, tanto che la musica del suo stesso gli arrivò lontana, ovattata, mentre immaginava la bocca del giovane Moriarty sulla sua sua.
“Era così che mi volevi ieri notte?” Domandò Liam.
Sherlock non aveva una risposta. Non ce l’aveva perché non si era mai posto la domanda. Osare era la sua seconda natura, ma neanche lui aveva avuto l'ardire di spingersi tanto oltre.
Quando a John era venuto il dubbio che lui e Liam avessero fatto qualcosa di troppo sconveniente, lo aveva deriso. Ora era la sua stessa mente a prendersi gioco di lui, a portare alla superficie un pensiero su cui non si era mai soffermato per davvero.
Dietro le palpebre chiuse vide le iridi scarlatte di Liam illuminate dal primo sole del mattino e mentre la musica proseguiva, così faceva la voce dell’illusione che aveva creato per se stesso. “Perché hai tanta paura di ammettere che mi desideri, Sherlock?”
Paura. Era un sentimento che non lo riguardava.
Sherlock era spavaldo. Lui alla morte rideva in faccia, pur sapendo che non aveva il potere di vincerla.
“Temi di essere respinto?”
Era una possibilità. Sherlock si era spinto verso Liam in ogni occasione di cui il destino aveva voluto fargli regalo - troppe poche, in ogni caso - ma il giovane Moriarty non aveva mai mosso un passo verso di lui, non prima di chiamare il suo nome alla stazione di Durham.
E tanto era bastato per destabilizzare tutto l’equilibrio di Sherlock.
Ma gli serviva qualcosa di più.
Sapere che Liam ricambiava le sue attenzioni era divenuta una necessità. Per questo aveva mandato quelle rose blu, insieme a quell’invito crittografato ed era rimasto ad aspettarlo col fiato sospeso per tutto il giorno.
“Essere respinto da me ti farebbe così male?”
“Sì,” rispose Sherlock, senza pensare. Era abituato a essere allontanato dalle persone. La solitudine era stata la sua migliore compagna da quando la sua visione del mondo non aveva più trovato punti d’incontro con quella di Mycroft. Se l’intera Londra si era accorta di lui e lo considerava un eroe non era per merito suo. No, era stato il Signore del Crimine a metterlo in quella posizione e le capacità di narratore di John avevano completato l’illusione in modo magistrale.
Il vero Sherlock Holmes era solo un eccentrico che mai si sarebbe piegato all’integrazione. Liam, al contrario, era quanto di più si avvicinasse all’eccezione comune del termine perfezione.
Se sotto la superficie erano così simili, agli occhi del mondo non sarebbero potuti essere più diversi l’uno dall’altro.
“Se hai così paura di me, perché mi hai dato un simile potere?”
“Io non ho paura di te,” rispose Sherlock, continuando a muovere l’archetto sulle corde del violino. “E non ti ho dato nessun potere. Te lo sei preso e basta, bastardo.”
C’era del timore nel suo cuore, uno a cui non riusciva a dare un nome.
Le mani di Liam lo toccavano. Prima i capelli, poi il viso.
La notte precedente, erano stati così vicini per tutto il tempo, eppure si erano toccati così poco. Troppo poco.
“E quando mi rivedrai?” Domandò Liam, posando entrambe le mani sul suo petto. “Il tuo cuore batterà veloce come sta facendo in questo momento?”
“Questa è una domanda stupida.”
“I tuoi pensieri si contraddicono tra loro, Sherlock.”
Anche se era solo una fantasia, il Detective sentì un brivido caldo lungo la schiena nel sentir pronunciare il proprio nome.
“Sai che sono la tua Anima Gemella, ma fingi che non sia così,” proseguì Liam, senza pietà. “Vuoi che io sia il Signore del Crimine, ma la tua missione è quella di acciuffarlo. Non è così?”
“Perché dici questo?”
“Perché non puoi desiderarmi e, al contempo, volere che io sia la tua nemesi.”
La risposta di Sherlock era sempre la stessa. “Chi altri se non tu, Liam?”
“Sai perché hai paura? Perché se tutte le tue speranze si rivelassero vere, ogni tuo desiderio andrebbe distrutto.”
Sherlock mise troppa forza nel far strisciare l’archetto sulle corde del violino. Il risultato fu una seria di note stridule, che gli fecero stringere di più gli occhi. “So quello che voglio!” Esclamò. “E so quello che faccio!”
“È proprio questo il problema: sai che non c’è nessun lieto fine.”
“Basta, Liam!”
“Prima o poi dovrai tradire una parte di te, Sherlock.”
“Smettila!”
“Il punto è…” Le parole di Liam gli arrivarono come un soffio caldo sul collo. “Quando arriverà il mondo, cosa sceglierai di abbracciare e cosa di sacrificare?”
“Ti ho detto basta!” Sherlock spalancò gli occhi. Non c’era nessuno con lui, era solo.
La fantasia ebbe fino come la musica del violino.
Un rumore di acqua rovesciata lo costrinse a portare gli occhi in direzione della vasca da bagno.
“Maledizione,” sibilò, abbandonando lo Stradivari sul davanzale della finestra per andare a chiudere i rubinetti. Troppo tardi, il pavimento della stanza era già mezzo allagato. Bene, ecco servito alla signorina Hudson il motivo del giorno per lamentarsi di lui. Sherlock si passò una mano tra i capelli e decise che piangere sull’acqua versata era solo una perdita di tempo. Si liberò in fretta dei vestiti e s’immerse senza grazia, consapevole che l’onda d’urto avrebbe portato il disastro a propagarsi anche sotto la porta, fino al corridoio.
John non ci mise molto ad accorgersi del guaio che aveva combinato. “Sherlock, hai allagato il bagno?” Urlò.
“Che cosa ha fatto?” Proruppe la voce della signorina Hudson dal piano di sotto.
Sherlock udì il partner imprecare, poi vide la maniglia della porta abbassarsi senza successo.
“Sherlock!” Chiamo John. “Sherlock, che stai facendo lì dentro?” Domandò. Suonava più preoccupato che arrabbiato. “Sherlock, dimmi qualcosa!”
Il Detective non lo degnò di alcuna risposta. S’immerse sotto la superficie dell’acqua, estraniandosi completamente dal mondo esterno. Anche dal dolore che sentiva all’altezza del petto.
Mentre le note di Chopin continuavano a riempire la stanza, così la sua fantasia di Sherlock faceva lo stesso con la sua testa.
“Se volevi piacere da me, avresti potuto chiederlo,” disse la voce del Detective, sfrontata. “Sai benissimo che non ti avrei detto di no.”
“Io non so un bel niente,” ribatté William, continuando a muovere la mano destra sulle chiavi del pianoforte.
Il respiro caldo di Sherlock gli solleticò il collo, come se fosse veramente lì, alle sue spalle a prendersi gioco di lui. “Un’ammissione piuttosto grave da parte vostra, Professore,” disse. “Date l’impressione di sapere sempre tutto.”
“Stai parlando di te stesso.”
“No, Liam. È che io e te siamo uguali.”
“Non sai quanto ti sbagli.” William riusciva a respirare a fatica e parlare non gli riusciva un granché bene. “Sei quanto di più dissimile ci sia da me su questa terra.”
“Perché?” Domandò Sherlock, mentre la sua mano sinistra continuava ad accompagnarlo nell’esecuzione di Fantasie-Impromptu. “Solo perché mi hai scelto come tua nemesi non significa che io sia il tuo perfetto opposto, Professor Moriarty?”
William si umettò le labbra. “Mi chiedo spesso una cosa,” ammise. “Se mi vedessi per quello che sono realmente, continueresti a guardarmi come fai?”
“E come ti guardo, Liam?”
“Come se fossi l’unica cosa che valga la pena guardare a questo mondo.”
“Allora te ne sei accorto.”
“Mi sono accorto che ti piace molto la maschera che indosso.”
“Pensi che sia solo questo?”
William prese un respiro profondo. Sentiva caldo, il respiro era affaticato e il cuore gli batteva nel petto come impazzito. Più che suonare il pianoforte, sembrava stesse correndo per la propria vita.
“Se fossi riuscito a guardare attraverso di essa, io avrei fallito nel mio compito e tu, probabilmente, ora saresti qui per arrestarmi.”
“Pensi davvero di non esserti mai tradito, Liam?”
William ingoiò aria una seconda volta. “Se lo avessi fatto, saremmo in una posizione molto diversa.”
“Sei così convinto che le tue tenebre siano sufficienti ad allontanarmi?” Sherlock suonava derisorio, insopportabile. Quello vero non si sarebbe mai permesso di rivolgersi a lui in quel modo. “Quello che dovresti chiederti è se hai ancora abbastanza il controllo di te stesso da prendere le distanze da me.”
“E cosa ti fa chiedere che non ce l’abbia?”
“Hai capito di recente di essere la mia Anima Gemella,” gli ricordò la voce di Sherlock. “Questo non fa alcuna differenza per te?”
“Il finale della storia non cambia,” disse William, fermo.
Eppure, continuò a suonare con gli occhi chiusi, reggendosi saldo a quella fantasia.
“Perché?” Domandò Sherlock. “Perché lo hai deciso tu?”
“Non esiste un’altra via.”
“Allora perché te ne stai qui a desiderare che ce ne sia una?” Le labbra di Sherlock si posarono di nuovo sul suo collo. Istintivamente, William reclinò la testa da una parte per assecondarlo.
“Non importa quel che desidero,” disse il giovane Moriarty. “Questa storia è già stata scritta dall’inizio alla fine. Non ci resta che seguirne la trama.”
“Presuntuoso da parte tua pensare che anche io lo farò.”
“Non sta a te decidere.”
“Tirannico.”
“Faccio solo quello che deve essere fatto.”
“E quello che desideri?” Domandò Sherlock. “Pensi di essere Dio? Credi che tutto andrà secondo la tua volontà e che nulla potrà tentarti?”
“Non mi sono mai creduto Dio,” disse William. “Al contrario, ho scelto di personificare il Diavolo.”
“Un Diavolo che cade in tentazione non è credibile.”
“Non sono caduto in-“ William non riuscì a mentire a se stesso fino a quel punto. Non ce la fece perché avrebbe potuto descrivere tutte le sfumature degli occhi blu di Sherlock, mentre venivano illuminati dalla prima luce del giorno.
“Toglimi una curiosità, Liam,” disse la voce di Sherlock, talmente crudele ed estranea da non sembrare nemmeno la sua. “Fa così male cadere?”
William colpì le chiavi del pianoforte con tanta forza che il pezzo di Chopin s’interruppe di colpo, con una brutta stroncatura. Gli occhi scarlatti erano di nuovo aperti e la consapevolezza di essere da solo lo destabilizzò.
Sherlock non mi parlerebbe mai così, si disse, convinto. Sherlock non mi toccherebbe mai così, quel pensiero gli fece chinare la testa, afflitto.
Non aveva ragione di esserlo perché Sherlock Holmes non era entrato nella storia per essere suo.
M3: 09
Miss Hudson fissava l’orologio appeso tra il tubo della stufa e la credenza con particolare insistenza. L’impasto che stava mescolando si era solidificato da un bel pezzo, troppo perché potesse essere di qualche utilità. La padrona di casa però continuava a girare il mestolo con ritmo ben cadenzato.
Solo il ticchettio delle lancette interrompeva il silenzio assoluto del 221B di Baker Street. La situazione non poteva essere più sospettosa di così.
Miss Hudson non aveva sentito Sherlock rientrare - senza ombra di dubbio, il bastardo aveva messo piede nell’ingresso con passo felpato - ma non aveva dormito abbastanza per poter pretendere di essere di buon umore. A peggiorare lo stato in cui versavano i suoi poveri nervi era la calma piatta al piano di sopra. No, Sherlock non sparava contro il muro regolarmente, ma era molto strano che non avesse annunciato il suo ritorno suonando quel dannato strumento del diavolo - il violino.
La sciacquetta doveva averlo davvero privato di tutte le energie.
Male. Molto male.
Miss Hudson poteva non essere sposata, ma non era certo una suora e sapeva cosa serviva a uomo per tenerlo tranquillo. Nel caso di Sherlock, dovevano essere andati avanti per parecchio se a mezzogiorno non sentiva ancora il bisogno fisiologico di combinare qualche guaio.
Non appena udì una porta aprirsi e richiudersi, la signorina Hudson smise di mescolare e fece saettare lo sguardo in direzione della porta della cucina. L’aveva lasciata aperta di proposito, così da vedere se Sherlock tentava di svignarsela una seconda volta.
Fu John quello che vide comparire nell’ingresso.
“Ah!” Esclamò la padrona di casa. “Alla buon’ora! Aspettando di ricevere notizie da te, hanno incoronato Re il Principe del Galles!”
“Non scherziamo su questioni politiche,” disse John, stancamente, accomodandosi al tavolo della cucina senza chiedere il permesso. “Ci manca solo che il Signor Mycroft venga colto di sorpresa da una successione reale.”
La donna inarcò le sopracciglia. “Perché ora parliamo del Signor Mycroft?”
Perché Sherlock vuole ballare un valzer con il fratello del Conte Moriarty di fronte a tutta l’alta società londinese. John prese un respiro profondo. “Questo fine settimana, io e Sherlock presenzieremo a un ballo in maschero organizzato dal Marchese Patel e suo figlio. Sembra siano stati lontano dalla scena per diverso tempo e questo evento è il loro modo per integrarsi di nuovo col resto della nobiltà.”
“Ah!” La signorina Hudson sollevò il mestolo sporco. “Il Signor Mycroft è necessario per legare Sherlock e trascinarlo in carrozza fino al ballo. Ho capito.”
“No,” spiegò John. “Sherlock vuole andare.”
Lo sfortunato mestolo cadde di mano alla proprietaria atterrando sul pavimento con un sonoro thud. Il medico notò che parte dell’impasto schizzò sul pavimento, ma alla padrona di casa non poteva importare di meno in quel momento. “No, John,” disse con aria grave, scuotendo la testa. “Qui la situazione si sta facendo veramente grave.”
Non ha idea di quanto lo sia davvero, pensò il medico.
“Scommetto che Sherlock vuole andare perché ci sarà la sciacquetta!” Aggiunse, nervosa.
“Sì, è così.”
La signorina Hudson si lasciò alle spalle la ciotola con dentro l’impasto e sbatté la mano sul tavolo, a meno di dieci centimetri dal braccio di John, che trasalì.
“Che cosa ti ha detto il pazzo?” Domandò la donna e non avrebbe mai accettando del silenzio come risposta.
John pensò quasi d’inventarsi una balla per farla contenta, ma la verità era così semplice che non valeva la pena complicarla. “Hanno parlato.”
L’altra lo guardò come se fosse un completo idiota. “Hanno parlato,” ripeté. “Tutta la notte?”
“Sì, tutta la notte.”
“E tu l’hai bevuta?” Urlò la signorina Hudson, esasperata. “Devo sempre fare tutto io in questa casa… Dov’è Sherlock?”
“Sta dormendo,” rispose John, anche se gli sembrava una risposta ovvia.
“E perché sta dormendo?”
“Perché è rimasto fuori tutta la notte?”
“No, John!” La signorina Hudson sbatté il palmo aperto sul tavolo una seconda volta. “Dorme perché è rilassato. Ora, pensaci bene, hai mai visto Sherlock rilassato? No, che non lo hai visto! E sai perché? Perché non è capace di farlo!”
John sollevò la mano per invitarla a calmarsi. “Anche ammesso che sia successo quello che state supponendo voi-“
“Io suppongo che Sherlock e la ragazza usino sostanze illegali per divertirsi!”
“Non c’è bisogno di-“ John si bloccò. “Che cosa?”
La signorina Hudson era seria, molto seria. “Avanti, John, sei un medico, so che ti sei accorto che Sherlock ha qualche vizio di troppo.”
John gesticolò nervosamente: non voleva parlare così apertamente dei lati oscuri del proprio partner, specie se lui era il primo a non conoscerli nei dettagli. “Una volta, mi ha prestato una sigaretta e stavo per soffocare. Penso avesse mischiato il tabacco ad altro, ma ora non lo fa più.”
La Hudson aggrottò la fronte. “Sicuro?”
“Sì, quando non se ne accorge, fumo una sigaretta delle sue per controllare.”
“Tu pensi che non se ne accorga.”
“Ho visto Sherlock al peggio di sé solo dopo il caso di Hope,” ammise John. “Era l’inizio della storia del Signore del Crimine, ricordate? Prima ancora che Londra ne parlasse davvero. Sherlock era vittima di una stasi, al tempo. Qualunque cosa ci fosse mischiata a quel tabacco, gli dava conforto. Era un disastro, ma non si è ripetuto!”
“Oh, caro mio, tu non lo hai mai visto essere davvero un disastro.” La signorina Hudson incrociò le braccia sotto al seno, lasciando andare un sospiro triste. “In realtà, anche io ho assistito a quella fase solo di sfuggita. Mi sono accorta che qualcosa non andava, ma al tempo fu il Signor Mycroft a occuparsi di tutto. Per un certo periodo, Sherlock continuò a tenere qui le sue cose e pagare l’affitto ma visse a Mayfair da suo fratello. Fu davvero una brutta storia.” Si fermò a studiare l’espressione del medico. “Sherlock non te lo ha mai raccontato, vero?”
John scosse la testa. “No.” Non ne era sorpreso. “Credo che si vergogni, sapete?” Ipotizzò ad alta voce. “Si vergogna di essere stato dipendente da qualcosa. Forse avete ragione, lo è tutt’ora.”
“Visto!” Esclamò la padrona di casa. “La sciacquetta è nobile e i nobili si annoiano facilmente! Vizio di qua e vizio di là!”
“No, non mi riferivo a quello.” Era la prima volta che John faceva una simile riflessione e si sorprese di non averci mai pensato prima. “Parlo dell’ossessione di Sherlock per il Signore del Crimine. Dice che vuole prenderlo e io gli credo. Devo credergli.”
“Ma?”
John ci pensò bene prima di dirlo ad alta voce, perché se così fosse stato, la relazione tra Sherlock e William James Moriarty era pericolosa sotto troppi punti di vista. “Certe volte penso che lui desideri che questo gioco di misteri non finisca mai,” disse a bassa voce, come se avesse paura di essere udito dal suo coinquilino al piano di sopra. “Ne vuole di più, sempre di più. È lo stesso meccanismo di una dipendenza, anche senza il coinvolgimento di sostanze stupefacenti.”
La signorina Hudson si sedette accanto al medico, preoccupata. “Hai completamente faccia,” commentò. “A che cosa stai pensando?”
John fissò un punto qualunque del pavimento. “Guarire da una dipendenza è terribile. Non esiste una vera letteratura in medicina perché la società non riconosce la dipendenza come una malattia, ma una vergogna.”
“E non si può guarire quello che non deve esistere,” concluse la Hudson con una smorfia.
John annuì. “Per quanto terribile, è possibile disintossicarsi dall’abuso di una sostanza,” proseguì. “Ma come ci si disintossica da una persona?”
“Spiegati meglio.”
William James Moriarty si rivela essere il Signore del Crimine, Sherlock arriva a capo del mistero e la giustizia fa il suo corso. Pensò il medico. Niente più misteri. Niente più gioco. Niente più Liam.
Bussarono alla porta d’ingresso, prima che il medico potesse pronunciar parola.
“Arrivo,” disse la signorina Hudson, alzandosi. Tornò meno di cinque minuti dopo. “È un telegramma da parte del Signor Mycroft.”
John annuì. “Quando si sveglierà, lo farò avere a Sherlock.”
“No, è per te.”
Dopo un primo momento di sorpresa, il medico allungò la mano. “Vuole sapere se Sherlock è tornato a casa e sta bene,” riassunse ad alta voce.
“Il ragazzo sta aspettando la risposta qui fuori,” disse la signorina Hudson, attraversando la stanza. “Ti prendo carta e penna così puoi rispondergli che il teppista di strada sta dormendo nel suo letto.”
John alzò lo sguardo verso il soffitto. “Devi fermarti o ti farai male, Sherlock,” mormorò a voce bassissima.
Sherlock restò a letto per mezza giornata. Non dormì molto e per quel poco sognò di Liam. Quando si svegliò per l’ennesima volta, stufo di girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, si liberò delle coperte con un calcio e si alzò con un mezzo saltello.
“Oh, Liam, Liam, Liam…”
Se Lestrade avesse bussato alla sua porta in quel preciso momento per proporgli il caso più elementare della storia, Sherlock non sarebbe riuscito ad arrivare a una soluzione. Pur concentrandosi, nella sua testa non avrebbe trovato altro che Liam.
Si erano lasciati d’appena poche ore, dopo aver passato insieme tutta la notte e Sherlock ne sentiva la mancanza come se ogni minuto lontano da lui fosse uno in meno d’aria.
Quanto poteva resistere in quello stato miserabile?
Liam gli aveva chiesto di avere pazienza ma John aveva ragione: lui e il concetto di pazienza viaggiavano su due binari paralleli. E la mente di Sherlock non si fermava lì, all’aspettativa del loro prossimo incontro. No, andava avanti ancora e ancora. Si chiedeva se un’altra notte insieme sarebbe bastata a placare il suo animo inquieto o, al contrario, un’altra separazione non avrebbe fatto altro che aumentare il senso di soffocamento.
Sherlock si sedette ai piedi del letto con uno sbuffo, passando una mano tra i capelli pieni di nodi. Doveva farsi un bagno. Sì, forse l’acqua calda avrebbe rilassato i suoi nervi per una manciata di minuti.
Scosse la testa con forza. A chi voleva darla a bere? Nei suoi momenti peggiori, si era ritrovato strafatto di oppio, pur di porre un freno alla sua mente impazzita e trovare riparo all’ombra di una pace illusoria, velenosa.
Ma il pensiero di Liam non lo spingeva a farsi del male in quel modo.
Poteva essere ripetitivo, addirittura ossessivo ma Sherlock non voleva staccarsene. Voleva che Liam fosse lì, al centro della sua mente.
Liam lo faceva stare bene.
Non c’era un modo scientifico per dissezionare quel pensiero e dargli una spiegazione logica.
Liam, semplicemente, lo faceva star bene.
Quel genere di esperienza era talmente estranea a uno come Sherlock Holmes, che non poteva fare a meno di avvertire un moto di panico, sotto tutto l’entusiasmo.
“Che cosa mi stai facendo?” Domandò alla stanza vuota.
Se il suo modo di pensare non fosse stato strettamente legato alla logica, Sherlock avrebbe anche potuto sospettare che Liam gli avesse fatto una qualche sorta d’incantesimo. Era davvero possibile che un uomo come lui, che mai si era sforzato d’integrarsi e che, al contrario, rifuggeva la compagnia di qualsiasi essere umano - John era solo una fortunata eccezione - desiderasse tanto la vicinanza di un’altra persona?
La risposta se l’era data da solo il giorno prima, quando il suo partner si era dimostrato preoccupato a morte per la possibilità che William James Moriarty fosse la sua Anima Gemella.
“E chi altri, se non tu, Liam?”
Sherlock si lasciò ricadere sul letto con un sorriso sognante. Gli girava la testa, ma non c’era nessuna sostanza chimica in circolo nel suo sangue da poter biasimare.
Bastava il ricordo di Liam, del suo sorriso contenuto - forse timido, di chi non è abituato ad avere un’espressione spontanea ma solo di cortesia - e di quegli occhi dal colore impossibile. Dio, quante persone al mondo esistevano con le iridi dello stesso colore delle rose rosse?
La sua mente gli suggerì l’immagine di Louis James Moriarty e Sherlock la scacciò via di prepotenza, con un gesto della mano, manco gli fosse comparsa davanti agli occhi giusto per rovinargli il momento.
Fu la spiacevole distrazione di un istante e nulla più.
Mentre fissava il soffitto della propria camera, Sherlock tornò a Liam, a come la sua mano gli era sembrata così piccola rispetto alla propria.
Liam.
Liam, che era la sua Anima Gemella.
Liam, che era il Signore del Crimine.
Era al di fuori di ogni logica come quel sospetto non facesse altro che alimentare il desiderio di Sherlock. Se guardava al futuro, la logica gli suggeriva solo possibilità avvolte nelle tenebre. Non ne temeva neanche uno.
Doveva solo spingere Liam a confessare, a gettare la maschera.
Una volta uno di fronte all’altro, il gioco sarebbe stato solo tra loro due.
La legge di quel paese poteva anche andarsene al Diavolo!
Non è un pensiero comodo? Gli domandò una voce in fondo alla sua testa, che suonava fastidiosamente come quella di Mycroft. Vuoi rendere le indagini oggettive tramite logica e scienza. Vuoi rendere la giustizia uguale per tutti, ma per lui faresti un eccezione?
“Non mi sono mai considerato l’eroe di questa storia,” rispose Sherlock. “Non ho mai considerato Liam l’incarnazione del male. Entrambe sono realtà che esistono solo nella testa del Signore del Crimine.”
E come consideri te stesso? Lo interrogò la voce. Come consideri lui?
Sherlock si umettò le labbra. “Ci sono cose…” Lasciò la frase sospesa per un istante. “Ci sono tentazioni per cui un uomo è disposto a compromettere se stesso.”
Vuoi compromettere te stesso per qualcosa di tanto banale come una tentazione?
“Ero compromesso anche prima di Liam,” disse Sherlock, a se stesso. “E no, lui non è banale come una tentazione.”
E allora cos’è, Sherlock? Cosa spinge un uomo a mettere in discussione tutto se stesso?
“Un ideale.”
Non è il tuo caso. Riprova.
“Un sentimento?” Sherlock lo chiese a se stesso. La voce nella sua testa non gli rispose.
Basta, gli era venuto il mal di testa.
Si alzò e decise che si sarebbe fatto quel bagno.
William non riusciva a chiudere occhio. Aveva tirato le tende con cura, cercando di tagliare fuori dalla camera da letto la luce del sole. Non c’era stato niente da fare: da dove si trovava, poteva vedere un singolo, galeotto, raggio dorato scivolare tra fessure della stoffa pesante, attraversare la stanza e toccare le rose blu che erano ancora appoggiate al centro della sua scrivania.
Il colore era tornato, ancor più vivido di quanto non fosse prima e William non riusciva ad allontanare lo sguardo. Non poteva.
Disteso al centro del letto, guardava quei fiori e cercava tra quei petali le sfumature degli occhi di Sherlock. Non ci riusciva.
La sua mente continuava a portarlo indietro, a quei pochi istanti sul ponte, mentre il sole tagliava l’orizzonte. L’immagine di quel viso era così nitida che avrebbe potuto disegnarlo nei particolari, se solo ne avesse avuto la capacità.
E il dettaglio dei capelli sciolti, che mai prima di allora aveva potuto vedere, non era affatto da mettere in secondo piano. William si era dovuto trattenere dal sollevare la mano ed accarezzarli, scoprire se erano morbidi come sembravano o, forse, un po’ ispidi. Sapeva solo che erano tanto neri che quando la luce del sole li toccava, avevano dei riflessi bluastri.
E poi c’era quel sorriso.
Quel luminoso, maledetto sorriso.
Poteva una cosa tanto innocente essere una tentazione così grande?
William si mise a sedere, piegò le ginocchia e le circondò con le braccia. Gli occhi scarlatti non lasciarono le rose blu nemmeno per un istante.
Aveva chiesto a Sherlock di avere pazienza e di fidarsi di lui e non erano state parole pronunciate a vuoto.
Voleva rivederlo. Doveva rivederlo.
Questa volta però una conversazione lunga una notte, all’interno di una carrozza che girava a vuoto, non sarebbe bastata. Ci voleva qualcosa di personale, di stimolante. Doveva accendere l’interesse di Sherlock ancor di più, ma non poteva scoprirsi troppo o del piano Moriarty non sarebbe rimasto nulla.
William si passò una mano tra i capelli, tirando un poco, come se quella lieve fitta di dolore fosse sufficiente a liberargli la mente da quello che era il grande schema. Non c’era nulla da pianificare, non nel modo in cui era abituato.
Era esattamente come aveva confessato a Louis: quel capitolo era per lui, non per il Signore del Crimine. Non voleva essere altro che quel Liam di cui Sherlock non la smetteva di pronunciare il nome. Anche se la vedeva tutti i giorni nel proprio riflesso nello specchio, era una persona che William non conosceva, di cui non si era mai interessato. Sherlock, invece, sì.
Il Detective stava portando alla luce qualcosa che William era sempre stato, ma che non si era mai concesso di essere. Perché la storia che aveva scritto per se stesso era un’altra, perché il suo ruolo prevedeva degli sviluppi e una conclusione che nulla avevano a che fare con un’anima legata alla propria da un vincolo impossibile da spiegare.
Sherlock Holmes era la sua Anima Gemella, era un fatto innegabile. Era il risultato di un problema matematico che non accettava opinioni.
Il destino non era sarebbe potuto essere più crudele.
William non pensava a sé. I suoi peccati erano innegabili e il suo castigo lo attendeva alla fine della strada, inevitabile come solo la morte poteva esserlo. Era Sherlock che avrebbe pagato il prezzo più alto. Sherlock, che sarebbe divenuto immortale come il Detective che aveva salvato la Gran Bretagna dalla crudeltà del Signore del Crimine, ma rinunciando a cosa?
William non si riconosceva alcun valore al di fuori del piano Moriarty, ma Sherlock lo guardava e vedeva Liam. Non c’erano dubbi sul fatto che il Detective si fosse accorto del legame che c’era tra loro. Se il giovane Moriarty aveva avuto dubbi, erano svaniti nel momento in cui Sherlock aveva cercato i suoi occhi alle prime luci dell’alba.
Era egoista e crudele da parte di William lasciarsi cullare da quella tentazione, perché regalava all’altro un’illusione che non si sarebbe mai concretizzata. Alla fine, Sherlock non lo avrebbe disprezzato solo per i suoi crimini, ma anche per aver giocato col suo cuore. E quello, almeno quello, era un peccato di cui William non avrebbe mai voluto macchiarsi.
Sì, era egoista e crudele perché quel poco tempo che era per lui e per Sherlock, William lo voleva tutto. Tutto.
Prima che fosse troppo tardi.
Ormai conscio che non sarebbe riuscito a riposare, si alzò in piedi e lasciò la camera da letto.
Sherlock chiuse la porta della sala da bagno a chiave.
John non era il tipo da entrare senza bussare, ma aveva bisogno di un po’ di tempo per sé e non voleva correre rischi. Nell’ attraversare il salotto, aveva afferrato lo Stradivari e l’archetto, entrambi abbandonati sul divano. Aprì i rubinetti della vasca da bagno e quando fu soddisfatto della temperatura del getto, si fece indietro e la guardò riempiersi. Nell’attesa, incapace di rimanere fermo per più di cinque secondi, appoggiò il violino sulla spalla e prese a suonare distrattamente. Le ragioni per cui quello strumento gli era così caro erano molteplici. Da bambino, si era accorto che suonare lo aiutava a mettere in ordine le idee e, al contempo, gli offriva una valvola di sfogo quando la sua emotività diveniva qualcosa di troppo.
Mycroft sosteneva che il violino era il suo unico tratto distintivo a regalargli un poco di eleganza. Sherlock non badava a simili particolari. La musica di quello strumento gli aveva dato qualcosa che non era riuscito a trovare da nessun’altra parte e lo aveva portate con sé per tutta la vita.
Liam era un po’ la stessa cosa, solo che non gli apparteneva.
Quel pensiero gli fece stonare una nota e, per un attimo, calò il silenzio all’interno della stanza. Sherlock lanciò un’occhiata alla vasca: l’acqua non era ancora arrivata alla metà.
Appoggiò la guancia sullo Stradivari e posizionò l’archetto. Prima di riprendere a suonare, chiuse gli occhi.
Come la prima nota venne seguita, il mondo come tutti gli altri lo conoscevano smise di esistere. Sherlock prese la distanza da tutto: dal rumore dell’acqua che scorreva, dai rumori che giungevano dalla strada, dall’odore del pranzo che proveniva dal piano di sotto. Lasciò che la musica diventasse espressione del suo mondo interiore e permise alla sua mente un gioco di fantasia a cui non si era mai lasciato andare.
Due labbra sfiorarono le sue, calde come se fossero reali. Non lo erano.
L’archetto esitò sulle corde.
“Non smettere di suonare,” ordinò una voce che conosceva bene.
Sherlock aprì gli occhi e trovò quelli scarlatti di Liam a pochi centimetri dai suoi. Il Detective dischiuse le labbra, ma l’altro vi premette contro l’indice per zittirlo. “Non smettere di suonare,” ripeté, come se fosse realmente lì.
Non lo era. Era solo una fantasia di Sherlock.
“Se la musica si ferma, tutto finisce,” disse Liam, appoggiando entrambe le mani sul suo petto, giocando coi bottoni della camicia del pigiama. Tutto mentre le proprie labbra minacciavano di toccare ancora quelle di Sherlock, ma senza mai farlo realmente.
Il Detective era pietrificato. Le dita che premevano le corde e il braccio che muoveva l’archetto erano le sole parti del suo corpo a spezzare l’immobilità.
Liam - quella fantasia con le sue fattezze - faceva tutto il resto. “Non smettere di suonare,” mormorò, contro la sua bocca. “Non smettere di suonare, Sherlock.”
Lo baciò.
William se ne stava seduto sul davanzale di una delle finestre della sua camera, quella che dava sulla serra. Poteva vedere un gran via vai da lì e dedusse che gli altri si stavano preparando per pranzare tra le rose. Vista la poca collaborazione che la sua mente dimostrava nel rilassarsi, avrebbe potuto mettersi qualche vestito addosso e raggiungerli per mangiare tutti insieme. L’idea di avere gli occhi curiosi di tutti addosso non lo allettava. Rasserenato Louis, nessuno si sarebbe permesso di dire niente - forse solo Moran avrebbe fatto uno scivolone, ma senza malizia - ma William aveva bisogno di essere solo nella sua testa, prima di poter affrontare gli altri.
E in quel momento, ciò che gli impediva di riposare era l’ingombrante presenza di Sherlock nei propri pensieri.
Aveva un libro appoggiato sulle gambe, una lettura che aveva rimandato di continuo e che non avrebbe trovato maggior fortuna quel giorno. Per disperazione, William si era messo a eseguire i suoi stessi esercizi, quelli assegnati ai suoi studenti, tanto per provare a sgombrare la testa.
Non ci era riuscito.
Nemmeno un buon libro sembrava avere un simile potere contro Sherlock Holmes.
William si alzò in piedi con un sospiro stanco e ripose il volume sullo scaffale, insieme a tutti gli altri. Appoggiò la schiena alla scrivania, cercando un modo di sfogarsi che non richiedesse il coinvolgimento di una spada. A dirla tutta, un incontro amichevole di scherma con Louis avrebbe fatto solo bene ai suoi nervi, ma non voleva svelarsi al fratello minore più di quanto aveva già fatto.
Il più giovane gli avrebbe concesso spazio di manovra in virtù del bene che gli voleva, ma mostragli quanto forte era l’ascendente di Sherlock Holmes su di sé non era cosa saggia.
No, William aveva bisogno di restare da solo e ristabilire un equilibrio in cui il Detective non aveva spazio. Sollevò gli occhi scarlatti e le rose blu sulla sua scrivania gli suggerirono che quello non era il luogo migliore per farlo. Non si disturbò ad aprire l’armadio e darsi un contegno, ma si limitò a indossare la vestaglia da camera sopra il pigiama.
La stanza che doveva raggiungere era al piano di sotto - quello comune - e non la usavano quasi mai. Avere una sala della musica era quasi la prassi in ville come quella, ma questo non significava che dovessero per forza esserci musicisti in famiglia. Albert aveva studiato pianoforte da bambino e aveva passato le basi a William. Tra la fine dell’infanzia e l’inizio dell’adolescenza, poco dopo l’incendio della tenuta dei Moriarty, William - ancora libero dai doveri della vita adulta - aveva fatto del pianoforte un piacevole passatempo. Il fatto che eccellesse in quello, come faceva in tutto, non era stata una sorpresa per nessuno. Non ne aveva mai approfittato. Aveva scelto la strada della matematica e dell’insegnamento e, ben presto, il tempo di suonare solo per voglia di farlo gli era mancato.
William era certo che il rapporto tra Sherlock e il violino fosse completamente diverso. Decise che glielo avrebbe chiesto al loro prossimo incontro. Perché era ovvio che si sarebbero rivisto, doveva solo fare mente locale e mettere insieme i dettagli.
Tuttavia, ora era necessario dare un freno al suo cuore impazzito e quando entrò nella sala della musica, il pianoforte a coda gli parve bello come una visione.
Sedendosi sullo sgabello, William sapeva di non potersi aspettare un granché da se stesso: non ricordava nemmeno l’ultima volta che si era seduto a strimpellare qualche nota.
Sollevò il coperchio, rivelando i tasti bianchi e neri. Per lui non avevano alcun significato emotivo. Era conscio della bellezza che erano in grado di produrre, ma nulla di più.
“Che cos’è la musica per te?” Domandò William alla stanza vuota, sfiorando le chiavi con la punta delle dita. Qualcosa gli diceva che non si poteva dire di conoscere Sherlock Holmes senza prima averlo sentito suonare. “Sei un violinista che non è un violinista?”
William provò a immaginarselo mentre suonava e si rese conto che faceva fatica. D’altro canto, quale strumento migliore del violino per Sherlock Holmes? Aveva letto di un musicista italiano scomparso qualche decennio prima - se non ricordava male, il nome era Paganini - di lui scrivevano di quanta impetuosità mettesse nel suonare il violino, tanto da spezzarne spesso le corde. Una passione tanto smodata da parte dell’artista aveva spinto la gente dell’epoca a ricordarlo come il violinista del Diavolo.
Ecco, William era certo che Sherlock si accostava perfettamente a quella definizione.
Ma era solo una sua fantasia. Non lo aveva mai sentito suonare.
“Impetuoso, eh?” William pensò a un pezzo che potesse rendere bene l’idea.
Lo trovò e mise le dita in posizione.
Le prime note del Fantasie-Impromptu di Chopin riempirono la stanza veloci, inesorabili, come una corsa destinata a lasciare il giovane Moriarty senza fiato. William immaginò Sherlock in ognuna di esse, come se stesse cercando di fargli un ritratto attraverso la musica. Le sue mani rallentarono, seguendo il tempo di uno spartito che ricordava a memoria, e fu allora che la fantasia del Signore del Crimine raggiunse un livello più alto. Astrazione.
“Non smettere di suonare,” la voce di Sherlock lo raggiunse alle sue spalle.
Non era reale, ovviamente. Non poteva esserlo.
Eppure, William riusciva a immaginarlo così bene da sentirlo vicino.
“Non smettere di suonare, Liam.” Una mano sinistra comparse dal nulla, ricoprendo la sua. William la ritrasse e permise a quelle dita di accompagnarlo nell’esecuzione del pezzo, come se fosse una sola persona a eseguirlo.
Quante possibilità c’erano che Sherlock sapesse suonare anche il pianoforte? William non si era posto il problema.
La fantasia divenne sempre più reale: la mano libera di Sherlock gli aggiustò un ciuffo di capelli biondi dietro l’orecchio e William avvertì l’illusione di due labbra calde premere contro il collo.
“Chiudi gli occhi,” lo istruì la voce di Sherlock nella propria vita testa.
Lo aveva già fatto.
“E continua a suonare, Liam.”
Sherlock non conosceva il sapore delle labbra di Liam.
Non poteva saperlo perché non lo aveva mai baciato.
La sua fantasia seppe colmare le lacune della sua conoscenza magnificamente, tanto che la musica del suo stesso gli arrivò lontana, ovattata, mentre immaginava la bocca del giovane Moriarty sulla sua sua.
“Era così che mi volevi ieri notte?” Domandò Liam.
Sherlock non aveva una risposta. Non ce l’aveva perché non si era mai posto la domanda. Osare era la sua seconda natura, ma neanche lui aveva avuto l'ardire di spingersi tanto oltre.
Quando a John era venuto il dubbio che lui e Liam avessero fatto qualcosa di troppo sconveniente, lo aveva deriso. Ora era la sua stessa mente a prendersi gioco di lui, a portare alla superficie un pensiero su cui non si era mai soffermato per davvero.
Dietro le palpebre chiuse vide le iridi scarlatte di Liam illuminate dal primo sole del mattino e mentre la musica proseguiva, così faceva la voce dell’illusione che aveva creato per se stesso. “Perché hai tanta paura di ammettere che mi desideri, Sherlock?”
Paura. Era un sentimento che non lo riguardava.
Sherlock era spavaldo. Lui alla morte rideva in faccia, pur sapendo che non aveva il potere di vincerla.
“Temi di essere respinto?”
Era una possibilità. Sherlock si era spinto verso Liam in ogni occasione di cui il destino aveva voluto fargli regalo - troppe poche, in ogni caso - ma il giovane Moriarty non aveva mai mosso un passo verso di lui, non prima di chiamare il suo nome alla stazione di Durham.
E tanto era bastato per destabilizzare tutto l’equilibrio di Sherlock.
Ma gli serviva qualcosa di più.
Sapere che Liam ricambiava le sue attenzioni era divenuta una necessità. Per questo aveva mandato quelle rose blu, insieme a quell’invito crittografato ed era rimasto ad aspettarlo col fiato sospeso per tutto il giorno.
“Essere respinto da me ti farebbe così male?”
“Sì,” rispose Sherlock, senza pensare. Era abituato a essere allontanato dalle persone. La solitudine era stata la sua migliore compagna da quando la sua visione del mondo non aveva più trovato punti d’incontro con quella di Mycroft. Se l’intera Londra si era accorta di lui e lo considerava un eroe non era per merito suo. No, era stato il Signore del Crimine a metterlo in quella posizione e le capacità di narratore di John avevano completato l’illusione in modo magistrale.
Il vero Sherlock Holmes era solo un eccentrico che mai si sarebbe piegato all’integrazione. Liam, al contrario, era quanto di più si avvicinasse all’eccezione comune del termine perfezione.
Se sotto la superficie erano così simili, agli occhi del mondo non sarebbero potuti essere più diversi l’uno dall’altro.
“Se hai così paura di me, perché mi hai dato un simile potere?”
“Io non ho paura di te,” rispose Sherlock, continuando a muovere l’archetto sulle corde del violino. “E non ti ho dato nessun potere. Te lo sei preso e basta, bastardo.”
C’era del timore nel suo cuore, uno a cui non riusciva a dare un nome.
Le mani di Liam lo toccavano. Prima i capelli, poi il viso.
La notte precedente, erano stati così vicini per tutto il tempo, eppure si erano toccati così poco. Troppo poco.
“E quando mi rivedrai?” Domandò Liam, posando entrambe le mani sul suo petto. “Il tuo cuore batterà veloce come sta facendo in questo momento?”
“Questa è una domanda stupida.”
“I tuoi pensieri si contraddicono tra loro, Sherlock.”
Anche se era solo una fantasia, il Detective sentì un brivido caldo lungo la schiena nel sentir pronunciare il proprio nome.
“Sai che sono la tua Anima Gemella, ma fingi che non sia così,” proseguì Liam, senza pietà. “Vuoi che io sia il Signore del Crimine, ma la tua missione è quella di acciuffarlo. Non è così?”
“Perché dici questo?”
“Perché non puoi desiderarmi e, al contempo, volere che io sia la tua nemesi.”
La risposta di Sherlock era sempre la stessa. “Chi altri se non tu, Liam?”
“Sai perché hai paura? Perché se tutte le tue speranze si rivelassero vere, ogni tuo desiderio andrebbe distrutto.”
Sherlock mise troppa forza nel far strisciare l’archetto sulle corde del violino. Il risultato fu una seria di note stridule, che gli fecero stringere di più gli occhi. “So quello che voglio!” Esclamò. “E so quello che faccio!”
“È proprio questo il problema: sai che non c’è nessun lieto fine.”
“Basta, Liam!”
“Prima o poi dovrai tradire una parte di te, Sherlock.”
“Smettila!”
“Il punto è…” Le parole di Liam gli arrivarono come un soffio caldo sul collo. “Quando arriverà il mondo, cosa sceglierai di abbracciare e cosa di sacrificare?”
“Ti ho detto basta!” Sherlock spalancò gli occhi. Non c’era nessuno con lui, era solo.
La fantasia ebbe fino come la musica del violino.
Un rumore di acqua rovesciata lo costrinse a portare gli occhi in direzione della vasca da bagno.
“Maledizione,” sibilò, abbandonando lo Stradivari sul davanzale della finestra per andare a chiudere i rubinetti. Troppo tardi, il pavimento della stanza era già mezzo allagato. Bene, ecco servito alla signorina Hudson il motivo del giorno per lamentarsi di lui. Sherlock si passò una mano tra i capelli e decise che piangere sull’acqua versata era solo una perdita di tempo. Si liberò in fretta dei vestiti e s’immerse senza grazia, consapevole che l’onda d’urto avrebbe portato il disastro a propagarsi anche sotto la porta, fino al corridoio.
John non ci mise molto ad accorgersi del guaio che aveva combinato. “Sherlock, hai allagato il bagno?” Urlò.
“Che cosa ha fatto?” Proruppe la voce della signorina Hudson dal piano di sotto.
Sherlock udì il partner imprecare, poi vide la maniglia della porta abbassarsi senza successo.
“Sherlock!” Chiamo John. “Sherlock, che stai facendo lì dentro?” Domandò. Suonava più preoccupato che arrabbiato. “Sherlock, dimmi qualcosa!”
Il Detective non lo degnò di alcuna risposta. S’immerse sotto la superficie dell’acqua, estraniandosi completamente dal mondo esterno. Anche dal dolore che sentiva all’altezza del petto.
Mentre le note di Chopin continuavano a riempire la stanza, così la sua fantasia di Sherlock faceva lo stesso con la sua testa.
“Se volevi piacere da me, avresti potuto chiederlo,” disse la voce del Detective, sfrontata. “Sai benissimo che non ti avrei detto di no.”
“Io non so un bel niente,” ribatté William, continuando a muovere la mano destra sulle chiavi del pianoforte.
Il respiro caldo di Sherlock gli solleticò il collo, come se fosse veramente lì, alle sue spalle a prendersi gioco di lui. “Un’ammissione piuttosto grave da parte vostra, Professore,” disse. “Date l’impressione di sapere sempre tutto.”
“Stai parlando di te stesso.”
“No, Liam. È che io e te siamo uguali.”
“Non sai quanto ti sbagli.” William riusciva a respirare a fatica e parlare non gli riusciva un granché bene. “Sei quanto di più dissimile ci sia da me su questa terra.”
“Perché?” Domandò Sherlock, mentre la sua mano sinistra continuava ad accompagnarlo nell’esecuzione di Fantasie-Impromptu. “Solo perché mi hai scelto come tua nemesi non significa che io sia il tuo perfetto opposto, Professor Moriarty?”
William si umettò le labbra. “Mi chiedo spesso una cosa,” ammise. “Se mi vedessi per quello che sono realmente, continueresti a guardarmi come fai?”
“E come ti guardo, Liam?”
“Come se fossi l’unica cosa che valga la pena guardare a questo mondo.”
“Allora te ne sei accorto.”
“Mi sono accorto che ti piace molto la maschera che indosso.”
“Pensi che sia solo questo?”
William prese un respiro profondo. Sentiva caldo, il respiro era affaticato e il cuore gli batteva nel petto come impazzito. Più che suonare il pianoforte, sembrava stesse correndo per la propria vita.
“Se fossi riuscito a guardare attraverso di essa, io avrei fallito nel mio compito e tu, probabilmente, ora saresti qui per arrestarmi.”
“Pensi davvero di non esserti mai tradito, Liam?”
William ingoiò aria una seconda volta. “Se lo avessi fatto, saremmo in una posizione molto diversa.”
“Sei così convinto che le tue tenebre siano sufficienti ad allontanarmi?” Sherlock suonava derisorio, insopportabile. Quello vero non si sarebbe mai permesso di rivolgersi a lui in quel modo. “Quello che dovresti chiederti è se hai ancora abbastanza il controllo di te stesso da prendere le distanze da me.”
“E cosa ti fa chiedere che non ce l’abbia?”
“Hai capito di recente di essere la mia Anima Gemella,” gli ricordò la voce di Sherlock. “Questo non fa alcuna differenza per te?”
“Il finale della storia non cambia,” disse William, fermo.
Eppure, continuò a suonare con gli occhi chiusi, reggendosi saldo a quella fantasia.
“Perché?” Domandò Sherlock. “Perché lo hai deciso tu?”
“Non esiste un’altra via.”
“Allora perché te ne stai qui a desiderare che ce ne sia una?” Le labbra di Sherlock si posarono di nuovo sul suo collo. Istintivamente, William reclinò la testa da una parte per assecondarlo.
“Non importa quel che desidero,” disse il giovane Moriarty. “Questa storia è già stata scritta dall’inizio alla fine. Non ci resta che seguirne la trama.”
“Presuntuoso da parte tua pensare che anche io lo farò.”
“Non sta a te decidere.”
“Tirannico.”
“Faccio solo quello che deve essere fatto.”
“E quello che desideri?” Domandò Sherlock. “Pensi di essere Dio? Credi che tutto andrà secondo la tua volontà e che nulla potrà tentarti?”
“Non mi sono mai creduto Dio,” disse William. “Al contrario, ho scelto di personificare il Diavolo.”
“Un Diavolo che cade in tentazione non è credibile.”
“Non sono caduto in-“ William non riuscì a mentire a se stesso fino a quel punto. Non ce la fece perché avrebbe potuto descrivere tutte le sfumature degli occhi blu di Sherlock, mentre venivano illuminati dalla prima luce del giorno.
“Toglimi una curiosità, Liam,” disse la voce di Sherlock, talmente crudele ed estranea da non sembrare nemmeno la sua. “Fa così male cadere?”
William colpì le chiavi del pianoforte con tanta forza che il pezzo di Chopin s’interruppe di colpo, con una brutta stroncatura. Gli occhi scarlatti erano di nuovo aperti e la consapevolezza di essere da solo lo destabilizzò.
Sherlock non mi parlerebbe mai così, si disse, convinto. Sherlock non mi toccherebbe mai così, quel pensiero gli fece chinare la testa, afflitto.
Non aveva ragione di esserlo perché Sherlock Holmes non era entrato nella storia per essere suo.