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CowT13. Week 5
M4: qualcosa all’improvviso
Albert fu il primo a svegliarsi, destato da pensieri che lo rincorrevano dalla sera precedente. Mycroft gli dormiva accanto, il braccio proteso nella sua direzione. Il Conte intrecciò le loro dita, stando attento a non disturbare il suo riposo. Non riusciva a smettere di guardarlo, di toccarlo, di memorizzare tutti i dettagli che riusciva a notare. L’ultima volta che Albert era rimasto nel letto di un amante tanto da svegliarsi la mattina successiva era ancora minorenne.
Si torna sempre da chi ci ha fatti stare bene.
Fare un confronto tra Sebastian e Mycroft era difficile, forse stupido. Albert li aveva conosciuti in età della vita differenti, proprio come lo erano loro. I capelli neri, la laurea a Oxford e la carriera militare erano gli unici tre punti in comune che avevano e avrebbero potuto riguardare centinaia di altri giovani uomini.
Albert non avrebbe confessato i motivi che lo avevano spinto verso Moran nemmeno in punto di morte. Parlare di Mycroft era più semplice, tanto che non aveva avuto difficoltà a uscire allo scoperto con William.
Ma entrambe le storie erano macchiate da un’oscurità più nera della notte.
La sostanziale differenza era che, come lui, Moran era destinato a essere divorato da quell’abisso. Mycroft no.
Albert lo sapeva, non si era mai concesso il lusso d’illudersi che ci fosse una via d’uscita. Mycroft non era una distrazione - non si sarebbe mai permesso di togliergli valore in quel modo - ma una concessione che faceva a se stesso.
Non poteva durare in eterno ma, anche se il loro tempo era contato, non voleva rinunciarvi.
In questo, Albert si sentiva molto vicino a William. Quando Moran aveva detto che non era da lui sopportare che qualcuno si avvicinasse a suo fratello senza permesso, aveva avuto le sue ragioni. Ma Albert non sarebbe mai andato contro i desideri di William, tantomeno ora che li sentiva così simili ai propri.
La strada che avevano scelto era una lenta discesa verso l’inferno.
I fratelli Holmes non potevano fare altro che rimandare l’inevitabile.
Mycroft gli aveva assicurato che, mentre il piano Moriarty andava avanti, lui e Sherlock non si sarebbero limitati a rispettare i ruoli che erano stati imposti loro. Albert non aveva idea di come una simile promessa potesse concretizzarsi e non possedeva abbastanza coraggio per chiederlo. Era certo che se avesse mostrato a Mycroft quanto aveva paura, qualcosa si sarebbe rotto in maniera irreparabile.
E se quelli dovevano essere i suoi ultimi respiri, Albert voleva viverli fino in fondo. Voleva che quel calore lo ustionasse e gli lasciasse addosso segni tanto profondi d’accompagnarlo nella sua condanna. Era crudele e lo sapeva.
Era complicato intuire i desideri di William, ma Albert era certo che non stesse prendendo da Sherlock tutto quello che il Detective era disposto a dargli. Non lo faceva perché sapeva che, alla fine, gli avrebbe fatto solo del male.
William era gentile. Albert no.
No, il Conte Moriarty era egoista e codardo. Mycroft gli aveva offerto qualcosa che non aveva mai osato volere per se stesso e non aveva esitato a prendersela. Nonostante tutto quello che aveva tolto nel corso della sua giovane vita, Albert si era sentito in diritto di poter prendere ancora.
E a pagare il prezzo più alto sarebbe stato Mycroft. O forse no.
Forse Albert stava esagerando tutto. In fin dei conti, non c’era nulla che potesse raccontargli quello che il Direttore provava per lui. Non nei dettagli. La passione e la sintonia erano innegabili. Serviva molto meno per essere semplici amanti ma non bastava per rappresentare qualcos'altro.
Albert non era un ragazzino con una cotta, non aveva bisogno di etichette e definizioni. Se avesse interrogato se stesso, non sarebbe riuscito a spiegare a parole l’effetto che Mycroft aveva su di lui. Non sarebbe riuscito a dargli un ruolo nella propria vita, anche se sapeva che non era solo quello che William aveva scelto.
E Mycroft che versione aveva da dare della loro storia?
Albert non lo sapeva e non era certo di volersi liberare dei dubbi. Il Direttore era un uomo razionale e pragmatico e quando aveva allungato la mano nella sua direzione, era perfettamente consapevole di chi stava invitando nel suo letto.
Ma Mycroft non ti ha invitato nel suo letto, gli ricordò una voce nella sua testa. Mycroft ti ha invitato solo a farti più vicino. Hai scelto tu di baciarlo. Hai scelto tu di farti amare. Hai scelto tu di tornare.
Albert sollevò la mano libera e affondò le dita tra quei capelli corvini. Ricordava di aver compiuto gesti simili anche con Moran, quasi un decennio prima. Eppure, con Mycroft era diverso. Col Colonnello, Albert aveva accettato l’inesistenza di un futuro con amara rassegnazione. Quando era finita, non aveva lottato, non si era voltato a cercare gli occhi grigi di Sebastian. Al contrario, se ne era andato lui per primo arruolandosi, partendo per l’India. E Moran lo aveva lasciato andare.
Quando il momento sarebbe arrivato e il Problema Finale si sarebbe abbattuto su tutti loro, Mycroft che cosa avrebbe fatto?
Ancora una volta, Albert non conosceva la risposta. C’erano troppe cose in gioco e i sentimenti personali non erano altro che dettagli sorvolabili in confronto al grande schema che tutti stavano seguendo. Eppure c’erano e facevano stare bene, facevano stare male. Non erano importanti ai fini della trama ma erano onnipresenti.
E Albert se ne stava immobile a osservare l’uomo che gli dormiva accanto, come se non fosse un complottista e un assassino. Non voleva pensare a cosa provava o a come pochi giorni erano bastati a mescolare tutti i pezzi sulla scacchiera.
Era certo che William avrebbe rimesso tutto in ordine.
Il momento di procedere non era lontano.
Furono le carezze di Albert a destare Mycroft. Si scambiarono un sorriso, dandosi il buongiorno in silenzio.
“Vieni qui.” Il padrone di casa invitò il proprio ospite a farsi più vicino e questi non si fece pregare troppo. “Da quanto tempo sei sveglio?”
“Da un po’…” Rispose Albert, accomodando la testa contro il petto dell’amante.
Mycroft ricambiò le carezze tra i capelli. “A cosa stavi pensando?”
“A come fai a dormire così serenamente accanto a me.” Non era una bugia, era solo una parte della verità.
Il corpo del Direttore vibrò con una risata. “Mi stai consigliando di tenere la pistola sotto il cuscino?”
Albert sollevò la testa per poterlo guardare negli occhi. “Onestamente, mi sorprende che tu viva in una qualunque residenza di Mayfair, con una domestica e una semplice porta a difenderti dal resto del mondo.”
Mycroft scostò una ciocca di capelli castani da quegli occhi verdi. “Per il mondo sono semplicemente un Sir che lavora al Ministero dell’Esercito.”
Albert era serio. “La prima volta che sono venuto da te, l’ho fatto seguendo delle comuni voci di corridoio. Non ho dovuto indagare, mi è bastato seguire i pettegolezzi.”
“Nessun altro si è presentato nel mio ufficio,” ribatté Mycroft. “Solo tu.”
“Non è un merito, solo fortuna.”
“Albert, non fare il finto modesto. Non ti ho dato l’MI6 perché hai gli occhi più belli di tutto il Commonwealth Britannico.”
Al Conte sfuggì un sorriso. “No, mi hai offerto il ruolo di M perché ti ho incuriosito, tanto da volermi conoscere.”
Mycroft tracciò il profilo del suo naso con la punta dell’indice. “E adesso ti conosco abbastanza per sapere che non sei qui solo per me.”
Albert si avvicinò tanto da soffiare le sue parole successiva sulla labbra dell’amante. “Non fare il finto modesto, Mycroft.”
Risero insieme e si baciarono.
“Ma temo che tu abbia ragione,” aggiunse il Conte, alzandosi dal letto. Prese in prestito la vestaglia da notte abbandonata sullo schienale del divano e la indossò come se fosse sua. “Ho mandato i miei uomini a fare qualche domanda in giro, nell’East End. Avevo un dubbio e volevo indagare.” Si avvicinò allo specchio dietro la scrivania e lo girò per avere sotto gli occhi la lavagna e le fotografie delle nove vittime. “Con i primi otto non ho avuto fortuna, ma…” Sollevò la mano e appoggiò l’indice sull’immagine del giovane Julian Evans. “Lo hanno riconosciuto con certezza in tre locali diversi. Ingenuamente, il ragazzo andava in giro vestito come un giovane del suo ceto sociale ed era impossibile non notarlo.”
Mycroft si alzò a sua volta, infilando svogliatamente i pantaloni. “Era in compagnia di un uomo che corrisponde alla descrizione di Patel?”
“È questo il punto,” proseguì Albert. “Lo hanno visto in compagnia di tre ragazzi diversi, uno per ogni locale. E abbiamo l’assoluta certezza che nessuno di loro era George Patel. Sono tre ragazzi del quartiere, li hanno chiamati con nome e cognome.”
Mycroft gli arrivò accanto, passandogli un braccio dietro la schiena solo per poterlo toccare. “E cosa ci faceva Julian Evans con dei ragazzi dell’East End?”
Albert inarcò le sopracciglia. “Forse hai bisogno di cinque minuti in più per svegliarti, Mycroft.”
L’intuizione raggiunse il Direttore subito dopo. “Oh…” Mormorò, poi cominciò a elaborare: “è possibile che Patel ed Evans si siano incontrati proprio dove i figli di una famiglia nobile non vorrebbero mai essere visti.”
Albert annuì. “L’ho pensato anche io. Non credo che George Patel pagasse i ragazzi di strada per togliersi uno sfizio.”
Mycroft lo fissò. “Come fai a esserne così sicuro?”
Albert esitò, poi si umettò le labbra. “C’è una cosa che non ti ho raccontato,” confessò, ma si rese conto che non gli pesava davvero parlarne. Era solo che non riusciva a smettere di pensare al bambino di dodici anni che era stato. “Durante quella famosa estate che io e mio padre passammo dai Patel, in Scozia, successe una cosa con George.”
Mycroft s’irrigidì e smise di accarezzargli il fianco. “Albert, stai per dirmi che-“
“No.” Il Conte scosse la testa con un sorriso rassicurante. “Avevo un fucile,” aggiunse. “I nostri padri ci avevano lasciato andare a caccia da soli in un bosco vicino al castello. Avevano detto che tra ragazzi ci saremmo divertiti di più. Io non mi divertii affatto. Non capii immediatamente che George aveva tentato di divertirsi con me.”
“Che cosa ti ha fatto, Albert?”
“Non quello che voleva. Si è avvicinato per annusarmi, io stavo puntando a un vecchio cervo. Quando ho sentito il suo fiato sul collo, ho premuto il grilletto e il contraccolpo l’ha colpito sul naso. Fui abbastanza ingenuo da raccontarlo a mio padre e toccò a lui capire per me.”
“Ti ha punito?”
Albert scosse la testa. “Ora ho il dubbio che, al tempo, George Patel avesse già dato vita a qualche pettegolezzo scabroso, perché mio padre mi credette subito. Non mi spiegò niente, si limitò a porre fine ai suoi rapporti con i Patel.”
Mycroft lo stava guardando. “Adesso capisco il tuo stupore nel venir a sapere che la passione di George Patel è la pesca.”
“George Patel è un predatore. Lo è sempre stato. La pesca è solo una scusa.” Albert guardò le nove fotografie appese sulla lavagna. “La sola differenza tra me e loro è il tempismo e la fortuna.”
Mycroft lo tirò verso di sé, posando un bacio tra i suoi capelli. “Sei sicuro di voler prendere parte a questa operazione?”
Albert si allontanò quanto bastava per poterlo guardare. “A me non è successo nulla, Mycroft,” disse. “E se mio padre mi avesse protetto davvero, non sarebbe accaduto a nessun altro. Restando zitto è divenuto complice di tutto questo, anche di quello che sarebbe potuto capitare a me.”
“Vuoi andare all’East End,” intuì Mycroft.
“Voglio trovare i tre ragazzi con cui Julian Evans si è intrattenuto,” disse Albert. “Almeno uno di loro, per avere delle conferme. Sono persuaso a credere che questi nove giovani frequentassero tutti la stessa zona. Pagavano per il sesso. George Patel vuole che i suoi amanti abbiano un buon odore e non poteva accontentarsi dei ragazzi dei bassifondi.”
“Ma i giovani delle strade erano l’esca per capire quali bravi ragazzi adescare,” proseguì Mycroft. “I primi otto sono tutti borghesi. È stato cauto, sapeva che non avrebbero mosso nessun polverone con le giuste precauzioni. Dal punto di vista logico, mettere le mani su Julian Evans è stato molto stupido.”
“È un predatore,” ripeté Albert. “Non ha nessuno spirito di autoconservazione. Vuole sempre di più e se lo prende. Dopo otto volte, i giovani della borghesia hanno cominciato ad annoiarlo. Voleva aumentare la posta in gioco e ha intuito i gusti del giovane Evans dalle compagnie per cui era disposto a pagare.”
“E ciò che succede nell’East End rimane nell’East End,” concluse Mycroft. “Per quanto riguarda il lato economico della questione, George Patel può averli sia sedotti e convinti ad accontentarlo o li ha ricattati.”
“Forse entrambe le cose, a seconda della persona che aveva davanti.” Rivolse un sorriso a Mycroft. “Temo che dobbiamo rivestirci, Sir Holmes. Questa indagine non andrà avanti da sola.”
***
Sherlock non aveva detto a nessuno dove era diretto.
Aveva decifrato il messaggio datogli dalla signorina Hudson quasi all’istante e si era limitato a dare sia a lei che a John un’informazione vaga: “Dopodomani esco, non riceverò clienti.”
In realtà, nell’ultima settimana non aveva accettato nessun nuovo caso. Era troppo preso da Liam, dal ballo dei Patel e dall’incessante vorticale dei propri pensieri. In mezzo a tutti c’era, come sempre, il Signore del Crimine. Nemmeno Shakespeare era stata una buona distrazione, anche se non si era mai ritenuto un grande appassionato di letteratura. La conosceva, certo, ma non avrebbe mai occupato spazio nella sua testa per citare i grandi classici a memoria, aveva altro a cui pensare.
Durante la notte che avevano passato insieme non ne avevano parlato, ma Sherlock era dell’idea che Liam avesse una cultura decisamente più vasta della propria. Non era una questione di nobiltà o meno. Sherlock aveva avuto la possibilità di erudirsi, ma aveva scelto una conoscenza settoriale. Liam era un matematico ma il Detective era certo che, come Mycroft, non avesse alcun problema a recitare Shakespeare a memoria.
Con quelle riflessioni ancora vive nella sua mente, non poté che scoppiare a ridere quando si rese conto che l’indirizzo dell’appuntamento corrispondeva a una vecchia biblioteca dismessa nell’East End.
“Non ci posso credere!” Esclamò, attirando anche l’attenzione di alcuni passanti. A differenza dei quartieri alti, c’era un gran via vai per quelle strade. La gente si muoveva a piedi e spesso andava di fretta. Mentre Sherlock attraversava la strada, per poco non fu investito da una combriccola di mocciosi in fuga da chissà cosa. Dovevano aver rubato qualcosa - forse la loro cena di quella sera. Al Detective non interessava: dal suo punto di vista rubare un pezzo di pane per sopravvivere a stento si poteva definire un crimine e lì di povertà ce n'era parecchia.
La biblioteca non era molto lontana dal quartiere di Whitechapel, teatro degli efferati omicidi di Jack lo Squartatore. Sherlock non si orientava molto bene in quella zona ma era certo che ci sarebbe potuto arrivare comodamente a piedi.
A quel punto, mentre con le mani in tasca ed il naso all’insù studiava l’edificio abbandonato, era impossibile non porsi una domanda: “ma Liam cosa ha a che fare con un posto come questo?”
Il fratello di un Conte di certo non aveva giocato per quelle strade, rincorrendo una palla di stracci. Una parte di Sherlock dubitava persino che un nobile riuscisse a comprendere il dialetto che si parlava in quelle zone, almeno non del tutto. Eppure, Liam gli aveva dato proprio quell'indirizzo a cui presentarsi. Le mura esterne erano attraversate da crepe più o meno profonde. L’intero edificio di due piani sembrava reggersi per puro miracolo. Le finestre erano state bloccate da travi di legno, perlopiù marce. Di certo, la biblioteca doveva versare in quello stato da diversi anni.
Incuriosito fino all’eccesso, Sherlock si avvicinò alla porta d’ingresso e si accorse di un passaggio in basso a destra. Dovette praticamente mettersi in ginocchio per passare sotto le travi e arrivare dall’altra parte. Camminò a carponi per un paio di metri, lamentandosi della polvere che gli avrebbe sporcato i vestiti - chi voleva sentirla la signorina Hudson? - ma quando arrivò nell’ingresso e poté, finalmente, alzarsi in piedi, pensò che non fosse stato così difficile.
“Bene,” disse tra sé e sé. “E adesso che si fa?”
L'interno era illuminato solo dai raggi di sole che scivolavano attraverso le travi e Sherlock dovette aspettare un po’ per abituare gli occhi a quell’atmosfera. Quando riuscì a vedere bene di fronte a sé, notò qualcosa di strano sopra il bancone della reception. Lì, in mezzo a una lampada a olio rotta e altri libri resi grigi dalla polvere, vi era un volumetto un po’ troppo recente per appartenere a quel luogo: Uno studio in rosso di Conan Doyle.
Sherlock sorrise. “Vuoi giocare, Liam?” Si sentiva terribilmente stimolato da una cosa così semplice. “Allora giochiamo.” Aprì il volumetto e trovò un biglietto incastrato tra la copertina e la prima pagina.
Catch me if you can, Mr Holmes, vi era scritto sopra con la perfetta calligrafia di Liam.
Sherlock dovette mordersi il labbro inferiore per darsi un contegno. Aveva voglia di ridere, di saltellare tra quegli scaffali dimentica fino a che non avrebbe trovato chi cercava. “Senza indizi è un po’ difficile, Liam!” Disse ad alta voce, certo che l’altro lo potesse sentire forte e chiaro. Gli occhi blu presero a esaminare la scena: era impossibile che il giovane Professore non gli avesse lasciato la pista. Si voltò e si accorse che i suoi passi aveva lasciato delle impronte sul vecchio pavimento impolverato. “Oh!” Esclamò, muovendosi con cautela per superare il bancone della reception e li vide, i segni lasciati dal passaggio di Liam.
Sherlock sollevò i pugni vittorioso ma non esclamò niente. Le impronte lo portavano al piano di sopra. Cercò di salire facendo il meno rumore possibile, tanto per sorprendere Liam, ma quella vecchia rampa lo tradì al terzo gradino. Imprecò, andò avanti. Al settimo, il legno marcio non resse il suo peso e si spezzò.
“Maledizione!” Imprecò Sherlock, sorpreso di non sentire nessun dolore particolare all’altezza di piede e caviglia. Forse se la sarebbe cavata con niente.
“Ti sei fatto male?” Domandò una voce che conosceva bene.
Un sorriso comparve sulle labbra di Sherlock prima ancora che sollevasse il viso, ma ebbe vita breve. Per i primi dieci secondi, non riconobbe il ragazzo che era comparso al piano di sopra e che lo guardava preoccupato.
Sherlock sbatté le palpebre un paio di volte. “Liam?”
L’altro fece per avvicinarsi. “Ti do una mano.”
“No, no, resta lì!” Lo rassicurò Sherlock, sollevando il piede incriminato e proseguendo su per la scala. “Non mi sono fatto niente.” Arrivato a destinazione, prese un gran respiro e tornò a sorridere. “Liam!” Chiamò solo per il puro gusto di pronunciare il suo nome. “Ma sei davvero tu?” Stentava a crederlo.
Sherlock sapeva che il fine ultimo di quell’appuntamento era sorprenderlo, ma era arrivato da meno di dieci minuti e Liam lo aveva già lasciato senza parole. Del giovane nobile che aveva conosciuto erano rimasti solo i lineamenti perfettamente disegnati, ma il vestiario si addiceva al contesto. Forse la stoffa era troppo pulita e troppo poco lisa per appartenere a un ragazzo che viveva con mezzi di fortuna, ma nessuno poteva davvero notarlo. Solo il Detective era attento a simili dettagli.
Per il resto, l’illusione funzionava.
“Sembri un ragazzino,” commentò Sherlock. Era vero: i completi formali dell’alta società erano capaci di trasformare i fanciulli in quarantenni.
“Lo prendo come un complimento,” ribatté Liam. Sorrideva.
“Ma…” Sherlock indicò la biblioteca della mano con un gesto della mano. “Come conosci un posto come questo?”
“Ogni ragazzo di strada ha i suoi segreti,” rispose Liam.
“Oh, giochiamo a facciamo finta!”
“Più o meno.” Il giovane nobile si voltò, invitandolo a seguirlo con un gesto della mano. “Vieni…”
Sherlock non aveva bisogno di farsi pregare per accettare. Liam lo condusse tra due scaffali non meno impolverati di tutti gli altri, ma vi erano poste meno assi sulla finestra tra di loro ed entrava più luce. Sherlock ne fu felice: non si sarebbe accontentato d’indovinare le espressioni di Liam nella penombra.
“Sul serio, che stiamo facendo?” Domandò il Detective.
“Vieni qui, siediti.” Liam si accomodò sul pavimento a gambe incrociate, come se non fosse più che lurido. “Che hai, Sherlock?”
Al Detective venne il dubbio che gli fosse comparsa sul viso un’espressione scandalizzata. “Ci accomodiamo per terra?”
Liam esitò, incerto. “È un problema?” Suonava costernato.
“No, no, no!” Sherlock si affrettò a raggiungerlo, prendendo posto di fronte a lui. “È che…” Sollevò lo sguardo sui vecchi libri, poi lo spostò sulla finestra. Alla fine, in assenza di parole efficaci, sbuffò e batté le mani sulle ginocchia. “Non so cosa dire, va bene? Hai vinto senza nemmeno provarci!”
Liam rise in modo contenuto. “Ma il mio fine non è mai stato vincere.”
“Bugiardo.”
“Volevo sorprenderti e ti ho sorpreso, ma questo non significa che ti lascerò libero di andare a casa così presto.”
Sì, Sherlock rischiava davvero di mettersi a saltellare come un idiota per il troppo entusiasmo. “E chi ci vuole tornare a casa? Nemmeno ho detto dove sono!”
L’espressione di Liam si fece eloquente. “Sherlock…”
“Cosa? Tu non conosci John!”
“Un giorno mi piacerebbe conoscerlo.”
“E, un giorno, sarò felice di presentartelo.” L’idea di Liam e John insieme creava in Sherlock delle emozioni contrastanti: da una parte, credeva che vedere il giovane Moriarty e il suo socio insieme gli avrebbe dato un confortevole senso di completezza; dall’altra, finché Liam non metteva piede a Baker Street, era una cosa solo sua. “Tuttavia,” aggiunse il Detective, “se avesse saputo che venivo qui, nell’East End, prima avrebbe cercato di fermarmi. Non riuscendoci, avrebbe chiamato Mycroft e mio fratello avrebbe sguinzagliato l’intera Scotland Yard qui, nei bassifondi!”
“Sembra che tu abbia molte persone che si preoccupano per te,” disse Liam. “È una bella cosa.”
Sherlock incrociò le braccia contro il petto e alzò gli occhi al cielo. “Tutti piantagrane!” Poi se ne pentì. “Non è vero…” Ritrattò con un sospiro. Non voleva spendere il pomeriggio a parlare a Liam della propria solitudine, della sua incapacità a socializzare e di come John fosse una fortunata eccezione nella sua incapacità a farsi degli amici. Se lo avesse fatto, avrebbe anche dovuto dire qualcosa sulla sua famiglia, la sua dipendenza da sostanze chimiche e altre cose spiacevoli. Quest’ultima, Liam l’aveva intuita da solo sulla Noathic ma era stato tanto gentile da non tirare più fuori l’argomento per primo.
“John è quell’amico che non credevo avrei mai avuto,” confessò, alla fine, perché era importante e voleva raccontare a Liam solo le cose belle. Le brutte le avrebbe comunque intuite da solo, non ne aveva dubbi. “Mi sopporta, mi asseconda, si preoccupa per me… Non mi sorprenderebbe se mio fratello scrivesse al Vaticano per farlo santo.”
“Addirittura?” Liam rise di nuovo.
A Sherlock piaceva farlo ridere. “Immagino che i tuoi migliori amici siano i tuoi fratelli.”
“Sì, penso si possa dire così. Sono due legami diversi, ma non è che uno sia più importante dell’altro. Albert ha ereditato il titolo di Conte di nostro padre, è il capofamiglia e ha un posto all’interno della Camera dei Lord. Ha molti obblighi da cui può esimersi, ma non si è mai sottratto quando avevo bisogno di lui. Io e Louis stiamo sempre insieme. Casa mia è molto affollata, a dire il vero.”
“Due fratelli equivalgono a un folla per me, immagino che casino sia metterci in mezzo anche tutti i servitori.” Sherlock storse la bocca in una smorfia. “Sempre ammesso che siano semplici servitori, visto il lavoro non ufficiale di tuo fratello.”
“Non posso rispondere,” disse Liam, cordiale.
“No, non farlo. Non darmi nulla che io possa usare contro Mycroft… Ma stavi leggendo qualcosa?” Sherlock lo domandò dopo aver notato che c’era un libro sul pavimento, accanto al giovane nobile.
“Oh, sì, m’intrattenevo aspettandoti,” disse Liam, sollevando il volume in modo che l’altro potesse vedere da sé di cosa si trattava.
Sherlock reclinò la testa da un lato per leggere e sorrise trionfante. “Shakespeare!” Esclamò con un po’ troppo entusiasmo.
Liam ne fu sorpreso. “Ti piace Shakespeare?”
“Beh, devo ammettere che io…” Il bluff di Sherlock finì prima ancora di cominciare. “L’ho riletto in questi due giorni,” confessò, sincero. “Non lo toccavo dai tempi della scuola.”
Liam appoggiò il libro sulle gambe. “E perché lo avresti fatto?”
“Perché immaginavo che a te piacesse. Non volevo farmi trovare impreparato, poi è arrivato mio fratello recitando i versi di Romeo e Giulietta, tanto per farmi sentire un idiota.”
Gli angoli della bocca di Liam si sollevarono in un sorriso dispettoso. “Quel teschio aveva una lingua, una volta, e sapeva cantare..“
Sherlock comprese la chiara allusione al suo anello, sollevò la mano e decise di recitare a sua volta. “Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d'oltraggiosa fortuna, o prender armi contro un mare d'affanni e, opponendosi, por loro fine?.”
“No,” disse il Professore.
“No?”
“Tutti credono che quel monologo sia lo stesso della scena in cui Amleto tiene in mano il teschio del buffone Yorick, ma in realtà sono scene diverse.”
“Ah…” Sherlock fissò il proprio anello come se lo avesse tradito. “Non me lo ricordo.” Era la pura verità, inutile negarla.
“Però ti sei ricordato il passo a memoria.”
“Ho studiato Shakespeare, come tutti gli inglesi con un minimo di cultura, alcune cose le ho memorizzate pur non volendo.”
“Ti ho portato in una biblioteca proprio per questo,” disse Liam. “Hai detto che non vuoi occupare la memoria con informazioni che non riguardano il tuo lavoro, ma permettimi di dire che ti stai ponendo un limite non necessario.”
“Oh, avanti, Liam, la memoria non è infinita. La mente ha un limite.”
“Lo so. Quando io raggiungo il mio, cado addormentato.”
Sherlock ridacchiò. “Divertente!”
“Non è uno scherzo,” insistette Liam, ma con gentilezza. “Un momento sto facendo una cosa e quello dopo perdo i sensi.”
Il Detective lo guardò stranito. “Questo non è sano…”
“Detto da te.”
“Liam, non scherziamo, se ti addormenti nella vasca e scivoli sotto l’acqua.”
“Il riflesso incondizionato nel cercare aria batte qualsiasi sonno fisiologico, dovresti saperlo.”
“Certo che lo so, ma è pericoloso lo stesso!”
Il giovane Moriarty scrollò le spalle. “Sono ancora qui.”
“E mi stai dando ragione!” Esclamò Sherlock. “Vedi cosa succede a usare la mente senza limiti? Si perde il controllo della propria volontà. Bisogna porsi dei limiti per restare lucidi!”
“E tu come perdi il controllo?” Liam lo domandò di slancio, senza cattiveria, solo curiosità. Si pentì di averlo fatto non appena Sherlock allontanò lo sguardo da lui per posarlo su qualsiasi cosa che non fosse il suo viso. Solo allora, il Professore ricordò della Noathic, quando gli aveva sentito addosso un leggero odore di oppio. “Sherlock, scusa, ho chiesto senza pensare e-“
“Da piccolo avevo degli attacchi,” confessò Sherlock, con una naturalezza che sorprese anche lui. “Non esiste un termine medico, a dire il vero. Ho provato a documentarmi, ma questo secolo è rimasto fermo all’isteria e la riconosce solo nelle donne. Che follia insensata!” Si ricompose. “E durante questi attacchi, urlavo, piangevo. Certe volte non mi si poteva toccare. Era come se qualcuno mi costringesse a sentire un rumore troppo forte per le mie orecchie e io me ne stavo lì, fuori di me, a cercare di abbassare il volume. Solo che il rumore lo producevo io, era nella mia testa e non sapevo che fare.”
Liam annuì. “È una reazione opposta alla mia. Io mi spengo, letteralmente. Tu vai in sovraccarico. Ti capita anche ora?”
Sherlock si grattò la nuca. “Ci vado vicino spesso… L’ultima volta è stato per il caso dello Studio in Rosso.”
“Ricordo di aver letto di Hope sui giornali.”
“È stato il primo caso del Signore del Crimine a cui ho lavorato. Sapevo che mi aveva messo alla prova, ma non ero certo di aver agito nel modo in cui si era aspettato da me.”
William appoggiò la nuca alla libreria alle proprie spalle. Non voleva perdersi nessun dettaglio di quel momento. Tutto era importante, dal tono che usava Sherlock per parlare, alla luce che illuminava i suoi occhi. E doveva stare attento a porre le domande giuste, con la voce più adatta. “Parli come se avessi voluto compiacerlo.”
“Sì, lo volevo.”
La sincerità di quella confessione fece sentire William disarmato già alla seconda battuta.
“Mi ha fatto cadere in un meccanismo di cui ora mi vergogno un po’,” aggiunse Sherlock.
“Sarebbe a dire?”
“Te l’ho detto: volevo compiacerlo. Sapevo che se avessi superato le sue prove, avrebbe continuato a sfidarmi e a propormi enigmi da risolvere. Dopo il caso Hope, è seguito un tempo infinito di silenzio e mi sono scoperto dipendente da qualcosa che non erano le sostanze di cui mi hai sentito l’odore addosso.” Sherlock s’indicò la testa. “Il gioco mentale, Liam. Come potevo resistere a una tentazione simile?”
William non era disposto a suggerirgli nessuna risposta.
“Subito dopo la morte di Hope in prigione, quello che mi è successo non è stato molto diverso da una crisi di astinenza. Mischiavo piccole dosi di oppio al tabacco per calmarmi e non bastava, ma non potevo tornare a quando…” Sherlock fece un gesto con la mano e chinò la testa. “Dannazione, non volevo parlare di questo.”
William gettò il libro da una parte e si sporse in avanti. “Sherlock?” Gli strinse il braccio e, timidamente, quegli occhi blu tornarono sui suoi.
“Sai quando mi sono rientrato in me?”
William scosse la testa. “Ti ascolto.”
“Quando ti ho visto su quel treno.”
Il giovane Moriarty dischiuse le labbra per dire qualcosa, le parole rimasero bloccate in gola e dissimulò il nervosismo con un sorriso di cortesia. “Sherlock, era la seconda volta che mi vedevi.”
“E Durham è stata la terza, e allora? Se siamo entrambi qui è perché quei pochi momenti sono bastati.” Gli occhi di Sherlock recuperarono parte della loro luce. “Tu mi fai bene, Liam. Non so in che altro modo spiegarlo. Tu mi fai bene.”
E William che poteva dire fronte alla profondità di quel blu? Niente, perché solo vederlo gli toglieva il respiro e sarebbe bastato niente per tradirsi, per concedere a Sherlock uno spiraglio. Tornò a interrogarsi su che cosa lo aveva spinto a camminare su di un strada tanto dissestata. Si rispose che gli piaceva. Allo stesso modo in cui gli era piaciuto provocare Sherlock durante quel loro secondo incontro sul treno.
Catch me if you can, Mr. Holmes.
Prendimi e facciamola finita. Perché Sherlock gli faceva venire voglia di rinunciare a tutto ed era la minaccia peggiore davanti a cui si fosse mai trovato. “Prendimi e basta, Sherlock.
E sarebbe bastato così poco.
William non avrebbe dovuto nemmeno aprire bocca. Erano così vicini che non sarebbe servito. Il giovane Moriarty non poteva esaurire la distanza tra loro senza spostarsi, ma Sherlock poteva venirgli incontro, trovarlo a metà strada. Se avesse deciso di farlo, William non avrebbe avuto né il tempo né lo spazio per sottrarsi.
E dopo che ti avrà preso? La dannata voce della ragione tornò a interrogarlo. Se ti arrendi cosa pensi che succederà? Tu sarai ancora il Signore del Crimine e lui la nemesi che hai scelto per te. Lui è la tua condanna, non il tuo salvatore. Non esiste un lieto fine per i Diavoli.
William non si permise di scrutare negli occhi di Sherlock. Non volle correre il rischio di vedere in quelle iridi blu il desiderio di raggiungerlo, di stare con lui. Non lo fece perché fu il primo ad allontanarsi. “Non puoi dirmi che ti faccio stare bene dopo avermi accusato di essere il Signore del Crimine.” Lo lasciò andare.
Sherlock abbassò lo sguardo sul proprio braccio, lì dove la mano di William lo aveva stretto e ora sentiva freddo.
“Perché tu credi che io lo sia, no?” Il giovane Moriarty lo domandò senza rancore. Era solo un modo per mantenere una distanza di sicurezza dal Detective. Finché c’era il Signore del Crimine tra loro, Sherlock avrebbe dato la precedenza alla sua ricerca della verità e William non sarebbe caduto per una tentazione.
“Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.” Recitò il Detective, dal nulla.
William lo fissò. “Romeo e Giulietta?” Era incredulo. “Stai citando davvero Romeo e Giulietta?”
Sherlock rise e tanto bastò a rendere l’atmosfera meno tesa. “Se fossi davvero il Signore del Crimine - e io non ne ho mai dubitato - sarebbe la storia più adatta a noi,” disse, poi proseguì: “Oh Liam, Liam, perché sei tu Liam? Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome!”
“Non ho un padre da chiamare in causa. Ho solo fratelli.” Liam sorrideva.
E Sherlock cosa ne faceva nell’orgoglio quando rendersi ridicolo gli permetteva di guadagnare quel sorriso? “O, se non lo vuoi, tienilo pure e giura di amarmi, ed io non sarò più un Holmes. Solo il tuo nome è mio nemico - intendo quello di Signore del Crimine - : tu sei tu.”
Lo aveva impressionato, lo comprese dal modo in cui William esitò a ribattere. O forse gli veniva da ridere ma era troppo educato per sbatterglielo in faccia. “Saresti una splendida Giulietta, Sherlock.”
Il Detective si rese conto solo in quel momento di aver recitato solo la parte di lei.
“Eppure, io ti vedrei di più ad arrampicarti su di un balcone,” disse William, alzandosi in piedi.
Sherlock emise un verso dolorante. “Perché continui a citare mio fratello?”
“Non so di cosa parli, mi spiace.”
Il Detective si alzò in piedi a sua volta, solo per imitazione. “Te ne vai?” Quanto tempo poteva essere passato? Il sole era ancora alto.
“No,” lo rassicurò William. “Usciamo in strada. Qui dentro l’aria non è delle migliori, c’è troppa polvere.”
***
Durante il viaggio in carrozza, parlarono ancora della strategia per la notte del ballo dei Patel.
“Avendo fatto da intermediario tra la loro famiglia e la tua, sarò obbligato a presentarsi a George Patel e suo padre, fingendo di non sapere dei vostri trascorsi,” disse Mycroft, serio. “Dopo quanto mi hai raccontato, non mi farà piacere farlo.”
“Ti ho già detto di non preoccuparti per quella storia.” Albert sorrideva, sicuro. “Se proprio non riesci a liberarti del fastidio, vedila così: se tutto andrà secondo i piani, George pagherà per tutto.”
Mycroft sollevò l’angolo destro della bocca. “Sì, penso sia un buon modo di vederla.” Rivolse poi lo sguardo fuori dal finestrino della carrozza: i bei palazzi dei quartieri signorili erano stati sostituiti da edifici di tutt’altro aspetto, la carrozza aveva anche rallentato perché in quella zona vi era un grande via vai. C’era sempre qualcuno che correva nei bassifondi e non era mai per le ragioni migliori.
“Qualcosa non va?” Domandò Albert.
Mycroft tornò a rivolgergli la propria attenzione. “È in un orfanotrofio di questa zona che hai trovato William e Louis, non è così?”
Non c’era cattiveria alcuna in quella domanda e Albert lo sapeva bene, ma non poteva fare a meno di oscurarsi un pochino ogni volta che il Direttore si riferiva al passato suo e dei suoi fratelli. Sì, si stavano conoscendo e sì, Mycroft lo stava chiedendo solo per quello.
“Sì,” rispose, infine. “Non posso fartelo vedere perché non esiste più. Quell’istituto si reggeva in piedi con le donazioni della mia famiglia e prima dei ventuno anni non sono stato padrone del mio patrimonio. Purtroppo non sono arrivato in tempo.”
Mycroft incrociò le braccia contro il petto. “Con l’industrializzazione della città, le campagne si sono svuotate e un sacco di persone sono venute a Londra in cerca di fortuna. Immagino che molti se ne siano pentiti: la città soffre di sovraffolamento.”
“Se per ogni famiglia nobile di questo paese vi fossero due bambini salvati dalla strada, gli istituti di carità diverrebbero superflui.”
“Hai ragione, Albert, ma quella di cui parli è un’utopia.”
“Ne sono tragicamente consapevole.” Il Conte sospirò. “C’è un enorme problema sociale che la classe dirigente fa finta di non vedere. Sai cosa dicono di questa gloriosa epoca vittoriana? Che verrà ricordata per la fortuna guadagnata dalle prostitute.”
Mycroft non voleva deriderlo ma quello era il genere di discorsi che si aspettava da Sherlock, non dal Conte Moriarty. “Nei salotti dell’alta società si parla di questo?”
“Rimembranze del college. Al tempo, a molti piaceva di essere rivoluzioni, come dovrebbe esserlo questa epoca. indovina come è finita? Siamo divenuti tutti dei Lord rispettabili, con dei segreti raccapriccianti da nascondere.”
“Sì, è una storia che ho già sentito. Penso che sia accaduto lo stesso ai miei colleghi di Oxford.”
“Ma non a te,” intuì Albert. “Tu sei la rivoluzione. Non sei figlio di nobile, nessuna famiglia ricca e famosa alle spalle. Ci sei solo tu… E Sherlock, naturalmente.”
Un velo di amarezza rese più scuri gli occhi blu di Mycroft. “Sai perché ti ho fatto quella domanda sui tuoi fratelli? Perché anche io provengo da questo angolo di mondo, anche se non direttamente.”
Albert inarcò le sopracciglia. “Credevo che gli Holmes servissero la corona da generazioni.”
“Ti faccio solo un piccolo appunto: noi serviano la Gran Bretagna. Nel caso salga al trono un sovrano incapace o, peggio, pericoloso, ho il permesso di agire.”
Questo Albert non lo sapeva. “Oh…”
“Ti sarei grato se questa confidenza restasse tra noi.”
“Certamente, ma non fai che confermare la mia teoria secondo cui la Regina Vittoria è solo una carica di facciata.”
“Albert, quello che hai appena commesso è delitto di Lesa Maestà.”
Il sorriso del Conte si fece malizioso. “Quando mi avete scelto, sapevate che ero un criminale, Sir Holmes.”
Il viso di Mycroft si addolcì ma non lasciò cadere la questione. “So che ti senti libero di parlare in mia presenza, ma ti chiedo prudenza.”
“Tranquillo, non farei mai nulla che possa danneggiarti direttamente.”
“Lo dico per la tua incolumità, non per la mia,” sottolineò Mycroft. “Per risponderti: no, la Regina Vittoria non è solo una faccia. Io sono un burattino incastrato tra diversi organi di potere e, al contempo, sono al di sopra di tutti loro, ma non della corona.”
“A meno che un sovrano non minacci l’intera nazione con la propria follia.”
“Non succede di rado come sembra. Basta aprire un libro di storia.”
“Lo so, ma ora spiegami perché anche tu vieni dell’East End, anche se in modo indiretto.”
“Mia madre,” disse Mycroft e gli sfuggì un sorriso più tenero degli altri, ma un poco triste. “Mia madre era una fanciulla dei bassifondi. Quando hai preso Irene Adler sotto la tua ala, hai avuto modo di parlare con mio fratello, no?”
Albert fece appello ai ricordi e annuì. “Ti riferisci al suo modo di parlare?” Se Mycroft era stato a Oxford, c’erano buone probabilità che Sherlock avesse seguito la stessa strada. Tuttavia, il dialetto del più giovane dei fratelli Holmes non lo sorprendeva più di tanto. “Ti è mai capitato d’intrattenere una conversazione con Colonnello Sebastian Moran?”
Mycroft scosse la testa. “So solo che è l’agente 006, che ha ottenuto la qualifica di agente con licenza di uccidere dopo quell’incidente in India e che, per il mondo, è ufficialmente morto. In fondo, questo lo rende perfetto per il suo lavoro.”
“Bene, lui è uscito da Oxford e ancora a casa mia non riusciamo a farcene una ragione,” raccontò Albert. “Se pensi che tuo fratello sia sgraziato, dovresti prendere un té con il Colonnello. Pochi minuti e Sherlock ti sembrerà un principe.”
“Oh, ma Sherlock è sempre stato un principe,” ribatté Mycroft. “Capriccioso come pochi e ribelle come anche meno.”
“Fammi indovinare… Tu sei di tuo padre e Sherlock è di tua madre.”
Mycroft ci pensò. “Sì, forse possiamo metterla sotto questa luce. Mi è parso di capire che anche tu eri di tuo padre?”
“Sì, come potrebbe esserlo un cane d’ammaestrare. Non ricordo che mi abbia mai picchiato o, almeno, non tanto violentemente da ricordarmelo. Mio padre è sempre stato un uomo distratto: un amante qui, una là. Potrei dire in giro che Louis è un suo figlio illegittimo e la sua somiglianza con Will acquisterebbe improvvisamente senso. Loro due li ho scelti, ma qualcosa mi dice che devo avere dei fratellastri da qualche parte.”
“È un pensiero che ti disturba?”
“No, è solo un pensiero,” rispose Albert. “Non è il sangue a fare una famiglia.”
Mycroft annuì. “Non sai quanto hai ragione.”
Il più giovane si pentì immediatamente di aver parlato. “Non intendevo far un riferimento al tuo rapporto con Sherlock.”
“Oh, Albert, Sherly è la mia famiglia,” disse Mycroft. “Forse io non sono la sua. Un tempo, so di esserlo stato ma la vita non procede in linea retta per nessuno.”
Il Conte si umettò le labbra. “Perché con tuo fratello sei tanto accondiscendente?”
“Se ne parlassi con Sherly, lui di certo non mi definirebbe così.”
“Parliamone tra fratelli maggiori, allora,” propose Albert. “Ti prende a scarpe in faccia e tu continui a tornare da lui. È amore familiare nella sua forma più pura e non posso credere che Sherlock non lo veda.”
Eccolo di nuovo, quel velo di malinconia sul viso di Mycroft. “Anche Sherlock ha un cuore ferito, come immagino lo abbia William. Sono accondiscente perché ho contribuito a provocare quella ferita,” raccontò. “E chiedere scusa non basta.”
Una parte di Albert gridava per sapere che cosa era successo all’interno della famiglia Holmes per crescere due fratelli tanto diversi. Sì, c’era la questione della maledizione di famiglia, ma il maggiore era l’unico a esserne a conoscenza. William per primo era rimasto colpito dal modo in cui Mycroft si era esposto per assicurarsi che Sherlock rimanesse all’oscuro di quel fardello.
Se William e Sherlock erano simili nell’avere un cuore ferito, lui e Mycroft lo erano in un altro modo.
“Le maledizioni si ereditano come i titoli nobiliari, vero?” Domandò Albert. “Vieni al mondo e solo perché sei vivo verrai investito di qualcosa per cui non hai né colpa né merito. È successo anche te, non è così? Non hai potuto scegliere chi essere. Sei venuto al mondo e loro lo hanno deciso per te.”
Mycroft non rispose immediatamente. Allungò la mano, cercando quella del Conte. Il più giovane lo accontentò. “Sotto certi aspetti, sì, anche noi abbiamo parecchio in comune, come i nostri fratelli. Ma sappi, Albert, che c’è un motivo personale che mi tiene saldo sulla mia posizione.”
Sherlock. Non c’era bisogno che il Direttore lo dicesse ad alta voce e Albert non aveva bisogno di chiedere.
“Vuoi sapere che cosa mi ha convinto a fidarmi di te, Mycroft?"
“Certo che lo voglio sapere.”
Alberti dischiuse le labbra, ma la carrozza si arrestò proprio in quel momento. “Siamo arrivati,” disse. “Te ne parlerò con calma quando saremo a casa, promesso,” aggiunse. “Se i miei agenti hanno fatto un buon lavoro, non dovremo metterci troppo.”
Mycroft aggrottò la fronte, rendendosi conto di essersi perso una parte degli eventi. “I tuoi agenti?”
Albert gli fece l’occhiolino. “Credevi davvero che saremmo andati a passeggio per l’East End vestiti da gentiluomini?”
“Touchè.”
“Andiamo, avrò l’occasione di presentarti ufficialmente l’agente 006, il Colonnello Sebastian Moran.”
La locanda era deserta. Tavoli e sedie erano in ordine in modo innaturale e i pavimenti erano stati puliti da poco. A Mycroft bastò un’occhiata per capire che erano attesi. Albert lo precedeva.
“Avanti, Sebastian, dimmi dove sei stato in questi mesi. Mi sei mancato, sai?”
“Servimi da bere, moccioso, e non fare domande.”
Pochi passi e il bancone comparve nel campo visivo di entrambi.
La figura del Colonnello Sebastian Moran fu la prima ad attirare l’attenzione di Mycroft Holmes e solo in un secondo momento si accorse del ragazzo che gli stava versando del whisky nel bicchiere: aveva i capelli chiari e il viso stanco di chi avrebbe volentieri mollato tutto per farsi una bella dormita. Ma non da solo. Dal modo sfacciato in cui guardava il Colonnello, era evidente che i due si conoscevano e non solo di vista.
Anche Albert dovette notare che vi era dell’intimità fuori posto in quella scena. Quando parlò, la sua voce tradì una nota di fastidio. “Colonnello Moran,” salutò, formale.
L’agente 006 si voltò di scatto. Non si alzò in piedi, non mostrò alcun segnò di rispetto per i suoi superiori. Si limitò a sollevare il bicchiere e bere il suo whisky in un solo sorso. “Te la sei presa comoda,” commentò, annoiato. “Ti aspettavo almeno due ore fa.”
Mycroft inarcò le sopracciglia, disturbato da un simile atteggiamento nei confronti del giovane Conte. Tuttavia, Albert si dimostrò capace di gestire la situazione con facilità, come se quel genere di scene gli fossero familiari. “Vi siete messo comodo, non devono essere state due ore così massacranti.”
Moran fu a un passo da ignorare completamente la gerarchia e rispondere a tono, ma il suo sguardo incontrò quello di Mycroft Holmes e dovette trattenersi. Simulò un colpo di tosse e cercò di fingersi professionale. “Lui è Josh Finn,” disse, indicando il giovane dal lato opposto del bancone. “Questo posto è di proprietà dei suoi fratelli maggiori, lui è solo un dipendente. Avanti, Joshi, racconta ai signori quello che hai detto anche a me.”
Al soprannome, Albert lasciò andare un sospirò esasperato. “Buongiorno, signor Finn.”
Il ragazzo abbozzò un inchino maldestro. “My Lords.”
“Calmo, ragazzo,” intervenne Mycroft superando il Conte per sedersi al bancone a sua volta, a debita distanza dall’agente. “Non sei nei guai e qualunque cosa dirai non sarà usata contro di te.” Si tolse il cappello e lo appoggiò sulla superficie di legno.
Non si presentarono. Offrire un nome e un cognome in quell’ambiente non era sicuro.
Josh Finn era molto giovane, forse della stessa età di Sherlock, ma li guardava come un bambino beccato a commettere un misfatto.
“Joshi, avanti, hai già detto tutto a me,” lo spronò Moran. “Non deve essere così difficile ripeterti.”
Il Colonnello si guadagnò un’occhiataccia. “Un conto è parlare con un buzzurro come te, un altro è rivolgersi a dei gentlemen.”
Di fronte all’espressione indignata di Moran, Albert simulò un colpo di tosse per non scoppiare a ridere. “Comprendo l’imbarazzo, signor Finn,” disse, prendendo posto tra il Direttore e il Colonnello. “Tuttavia, vi esorto a essere sincero. Come vi abbiamo già detto, non siamo qui per voi. Se può servire a farvi sentire al sicuro, sappiate che qualunque informazione potrete darci sarà utile a salvare delle persone.”
Josh inspirò profondamente dal naso. “D’accordo,” disse, ancora reticente. “Posso offrirvi da bere?”
“Quello che avete dato al Colonnello va bene per tutti e due.” Albert guardò Mycroft per avere conferma e il Direttore annuì.
Un paio di bicchieri di whisky dopo, Josh cominciò a parlare. “Julian Evans veniva qui spesso,” raccontò. “Mi ha rivelato il suo nome solo molto tempo dopo il nostro primo incontro. Quando lo ha fatto, gli ho dato dell’idiota: anche se è un terzo figlio, non è sicuro andare in giro per queste strade sbandierando un titolo nobiliare.”
“Da quanto tempo non vedete Julian Evans?” Domandò Mycroft.
“Almeno sei mesi.”
“E dopo tutto questo tempo, lo ricordate così bene?” Indagò Albert. “Sono certo che non è l’unico giovane nobile che passa da queste parti credendo di passare inosservato.”
“No, non lo è.” Josh abbassò lo sguardo e arrossì. “Diciamo che Julian era un cliente abituale. Quando veniva qui, parlava un sacco. Credo che nel suo ambiente avesse dei problemi ad aprirsi davvero… Senza offesa, My Lords,” aggiunse in fretta.
Albert sorrise, comprensivo. “Nessuna offesa,” disse. “Sappiamo che si vedeva anche con altri giovani. Due in particolare.”
Josh scrollò le spalle. “Julian era convinto che facendosi vedere in luoghi differenti, avrebbe dato meno nell’occhio. Non so da dove gli sia venuta questa folle idea. Sì, ha fatto il giro del quartiere e, immagino, abbia avuto delle frequentazioni altrove… Ma, alla fine, tornava sempre qui.”
“Perché?” Domandò Mycroft.
Le labbra di Josh si piegarono in un sorriso troppo amaro per la sua età. “Perché qui si sentiva al sicuro e si fidava di me.”
“Prima di sparire, si è confidato, non è vero?” Intuì Albert.
Il giovane annuì ma i suoi occhi cercarono quelli di Moran.
Il Colonnello sbuffò. “Quante volte devo dirti che puoi stare tranquillo?” Si sporse oltre il bancone per prendere la bottiglia di whisky e servirsi da solo.
“E vi assicuro che il Colonnello Moran pagherà per il disturbo,” aggiunse Albert, serafico. “Ora, Josh, potete raccontarmi dell’ultima volta che avete visto Julian Evans?”
Josh storse la bocca in una smorfia. “Lo stupido si è innamorato.”
Preso contropiede, Albert smise di sorridere. “Innamorato?”
“Sì e di brutto!” Esclamò Josh. Era evidente che non gli faceva piacere parlarne. “Per un po’ di tempo mi ha parlato di un uomo del suo ambiente. So che era più grande e che il suo nome era George. All’inizio, non stetti molto ad ascoltare e anche Josh faceva il sostenuto: gli interessava ma non voleva darlo a vedere.”
“George,” ripeté Mycroft. Lui e Albert si scambiarono un’occhiata veloce.
Il Conte riprese con la domande. “E, a un certo punto, qualcosa è cambiato…” Intuì.
Josh annuì. “L’ultima notte che ho visto Julian, era venuto qui solo per salutarmi. Mi disse che sarebbe fuggito con George, che avrebbero passato la vita insieme e altre stronzate!” Nel rendersi conto di aver usato un linguaggio scurrile, abbassò lo sguardo. “Scusatemi…”
Albert scosse la testa. “Non c’è bisogno di chiedere scusa,” disse, gentile. “Immagino che non deve essere stato facile dirgli addio.”
Josh scosse la testa. “Quando il figlio di una famiglia nobile viene da queste parti è solo per sfuggire all’inevitabile. Credo che Julian fosse convinto che il suo finale sarebbe stato diverso. Se siete qui, immagino che non sia andata bene come sperava.”
Né Mycroft né Albert potevano dargli alcuna spiegazione. Josh Finn lo comprese e non chiese altro. “Finite pure quella bottiglia di whiskey, offre la casa.”
“Temo che dobbiamo rifiutare,” disse Albert. “Il Colonnello sarà felice di offrire per tutti.”
Dopo essere stato in silenzio per tutto l’interrogatorio, Moran si animò di nuovo. “E chi ti dice che io possa pagare?”
“Me lo dice il vitto e alloggio di cui godete a mie spese.” Per Albert la questione era chiusa. “Fate quello che dovete, vi aspettiamo fuori.” Poi si rivolse al giovane dietro il bancone. “Le vostre informazioni ci torneranno molto utili, signor Josh Finn. Avete la nostra gratitudine.”
Il Conte si alzò per primo. Mycroft recuperò il cappello e lo seguì.
La loro uscita di scena fu accompagnata dall’incessante borbottare di Moran.
***
“Provo a indovinare.” Sherlock camminava a fianco di William, le mani nelle tasche dei pantaloni e quel sorriso da eterno ragazzino a illuminargli il volto. “Ciò che succede nell’East End rimane nell’East End. Qui possiamo essere compromettenti senza destare sospetti.”
“È una buona teoria.”
Era William a guidare.
Sherlock lo seguiva. “Mi vuoi rivelare il tuo segreto?”
“Ho molti segreti,” scherzò il giovane Moriarty. “E non voglio derubarti del divertimento di svelarli tutti da te.”
Così rendi tutto troppo eccitante, Liam. Il Detective si morse la lingua per non dirlo ad alta voce. Non lo faceva spesso e dubitava che William si sarebbe offeso per i suoi modi sfacciati - a tratti scandalosi - ma il momento era prezioso e voleva che durasse quanto più possibile.
“Ti sei anche travestito da ragazzo dei bassifondi per non attirare l’attenzione,” disse Sherlock. “Ho l’impressione che questa non sia la prima volta che lo fai. Inoltre, io qui mi perderei, tu passeggi come se fossi a Hyde Park o in qualche altro luogo simile.”
“Te l’ho appena detto: ho molti segreti.”
“Ah, sei furbo, Liam!” Esclamò Sherlock. “Un sacco di nobili passano da queste parti per soddisfare qualche vizietto poco apprezzato nei salotti dell’alta società. Se uno volesse, basterebbe fare un paio di domande nei posti giusti e si avrebbero le prigioni piene di nobili per i crimini più stupidi.”
Nessuno lo sapeva meglio di William, ma stette al gioco. “Interessante,” commentò. “Immagino che tu sappia esattamente quali sono i luoghi giusti.”
“Non uso sempre metodi corretti,” confessò Sherlock, con una smorfietta. “Quando ero alle prime armi, mi ritrovavo quasi sempre a sbattere contro il muro dei privilegi nobiliari.”
“E avere informazioni scomode su di loro era utile,” concluse William.
“Non mi piace il ricatto,” aggiunse immediatamente il Detective. “Lo usano i potenti per schiacciare i più deboli. Il mio scopo è creare un metodo d’indagine basato sulla ricerca di prove oggettive.”
“E trovo che il tuo scopo sia nobile, ma non ti giudicherò per aver fatto degli errori,” lo rassicurò William. “Ti sei accorto del mio bluff sul treno, no?”
Sherlock accennò il sorriso. “Sì, ma l’intuizione era giusta e hai salvato il mio socio, quindi…”
“Quindi il fine giustifica i mezzi?”
“Non lo so, Liam. Tu cosa ne pensi?”
Era un argomento spinoso, di quelli che toccavano da vicino la natura stessa del Signore del Crimine e delle sua azioni. Era evidente che nessuno dei due voleva dare voce a proprio punto di vista troppo facilmente.
Non ebbero il tempo di elaborare.
“Ma è lui?”
“Sì, è proprio lui!”
Riconoscendo le voci, Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Liam, scusa. Scusami davvero.”
Il nobile inarcò le sopracciglia. “Per cosa?” La risposta gli comparve sotto gli occhi: sei ragazzini li superarono correndo e si pararono di fronte a loro.
“Ah, sei proprio tu!” Esclamò quello alla testa del gruppo. “E lui chi è?” Chiese, indicando sfacciatamente il giovane Moriarty. “È il tuo fidanzato segreto o è solo un altro amico a cui stai estorcendo i soldi dell’affitto di questo mese?”
William, smarrito, guardò il Detective con la coda dell’occhio e si accorse il suo viso stava man mano divenendo sempre più rosso.
“E abbassa la voce, Wiggins!” Esclamò Sherlock, che attirò l’attenzione dei passanti più di quanto aveva fatto il gruppetto. “E non indicare!” Aggiunse, dando una manata sul braccio del ragazzino.
“Sherlock, mi vuoi spiegare?” Domandò William, educatamente.
“Sì, Sherlock, fai le presentazioni,” incalzò Wiggins, deridendolo apertamente e provocando un attacco d’ilarità nei propri compagni.
Il Detective dovette trattenersi dal prenderlo a schiaffi. “Parlando di errori nel mio lavoro, loro sono il più grande che ho commesso.”
“Non è vero,” ribatté Wiggins, guardando William. “Quando non sa dove sbattere la testa, viene sempre a chiedere aiuto a noi.”
“Sì e vi dico sempre cosa cercare, dove farlo e come!” S’intromise Sherlock. “Siete solo bravi a fare i compiti!”
Per nulla disturbato da tutta quella confusione, William si rispose da solo. “Sono i tuoi informatori?”
Sul viso del Detective comparve un’espressione sconfitta. “Liam, loro sono gli Irregolari di Baker Street. Mocciosi, lui è Liam, trattatelo con rispetto o ve la vedrete con me.”
“Piacere di conoscervi,” disse William con il solito, impeccabile sorriso cortese.
Wiggins lo guardò con gli occhi sgranati. “Che cosa ci fa un giovane signore così a modo con buzzurro come te?” Domandò, rivolgendosi al Detective.
Sherlock stirò le labbra in un sorriso inquietante. “Se vi pago la cena, ve ne andate senza farmi perdere altro tempo?” A mali estremi, estremi rimedi. Poteva tollerare John che lo rimproverava e gli dava dello spendaccione, ma non poteva permettere a nessuno di rovinare la sua giornata con William.
Wiggins si convinse in fretta. “Affare fatto,” rispose, compiaciuto, porgendo la mano destra.
“E tornate a Baker Street,” aggiunse Sherlock. “Queste strade non sono sicure nemmeno per voi.”
Per tutta risposta, Wiggins salutò solo il nobile travestito da ragazzo di strada. “Arrivederci, Liam. Se accetti un consiglio, trovati un fidanzato segreto migliore di questo.”
“Piccolo farabutto!” Sherlock si mosse per acciuffarlo ma il ragazzino fu più veloce e fuggì, seguito dai propri compagni.
“Non metterti nei guai, Sherlock.”
“Pensate per voi!” Tuonò il Detective, poi guardò l’uomo al suo fianco in visibile imbarazzo. “Liam-“
“Sembrano in gamba,” commentò William, che si era voltato per guardare il gruppetto scomparire in fondo alla strada.
“Lo sono,” ammise Sherlock a mezza bocca. “Sono più bravi degli agenti di Scotland Yard ed è tutto un dire.” Il suo sguardo cadde su un’insegna alla sua destra. “Vieni, ti offro da bere.”
William scosse la testa. “Non è necessario, poss-“
“Liam, per una volta, fammi fare il gentiluomo,” lo pregò Sherlock, passandogli un braccio dietro la schiena per spingerlo verso l’entrata del locale. “Così quando conoscerai John e mio fratello potrai dire loro che sono un vero signore e ne saranno contenti.”
Non c’erano molte persone nella saletta del pub. Sherlock decise che era abbastanza tranquillo e pulito per potervi portare il fratello di un Conte in incognito. Scelse un tavolino vicino alla finestra, il più lontano possibile dagli altri clienti: a quell’ora potevano essere lì solo gli ubriaconi di quartiere. Alzò una mano per richiamare l’attenzione della cameriera. “Tu che prendi, Liam?” Domandò, mentre la ragazza si avvicinava.
William scrollò le spalle. “Quello che prendi tu.”
Sherlock storse il naso, poco convinto. “Tu non sei un tipo da birra.”
“Bevo anche la birra, Sherlock.”
“Oh, allora vada per la birra.”
La cameriera, che non poteva avere più di vent’anni, segnò l’ordine su un foglio di carta. William non si perse il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulla figura di Sherlock. Il Detective, al contrario, non la vedeva neppure e nemmeno la ringraziò quando lei si allontanò da loro.
“Liam, perché stai ridendo?”
“Perché la tua idea di nasconderci qui dentro per allontanarci dagli sguardi indiscreti non ha funzionato molto bene,” rispose William.
Sherlock ci mise un po’ a capire a cosa si riferiva. Quando ci arrivò, cercò la cameriera con lo sguardo. Per sua fortuna, la trovò di spalle. “Ah, ho capito,” disse sbrigativamente. “Comunque, stavo dicendo-“
“Non ti lusinga neanche un po’?” Domandò William, curioso.
“Ma cosa?” Sherlock era irritato, come se stessero perdendo tempo su un’assurdità. “Non mi piacciono le donne.”
William non aveva mai sentito una confessione tanto pericolosa, buttata lì con tanta schiettezza. Appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo e si sporse verso il Detective. “Dovresti fare attenzione a chi riveli certi segreti,” disse, serio.
Sherlock gli sorrise. “Come se per te fosse un segreto.”
“Quando ti ho conosciuto, eri circondato da donne.”
“Sono state loro ad accerchiare me. Non ricordo neanche come è successo con precisione. Penso di averle udite parlare mentre fantasticavano sugli uomini presenti in sala.”
“E tu che hai fatto?”
“Ho distrutto tutte le loro illusioni con le mie intuizioni.”
“Ovviamente.”
“Poi hanno deciso di fare quello stupido gioco: indovinare il mestiere di dieci persone a caso. Tu sei stato la decima, il resto della storia lo sai.”
William abbassò lo sguardo per un istante. Seguì le venature della superficie di legno e si accorse che era consumata in più punti, come se qualcuno l’avesse sfregata con forza. “Da quanto tempo mi stavi guardando?” Domandò, riportando gli occhi sul viso del Detective.
Sherlock non giocò, fu onesto fin da subito. “Da un po’.”
Ora era William a sentirsi lusingato. Non lo nascose, voleva che si vedesse. “Ti ho guardato anche io.”
“Davvero?”
“Le tue donne facevano una gran confusione, era impossibile non dare un’occhiata a cosa le emozionasse tanto.”
“Non erano le mie donne, per carità,” disse Sherlock, facendo un gesto della mano, come se stesse scacciando una mosca invisibile.
“E perché mi guardavi?” William voleva i dettagli.
Sherlock si sporse verso la vetrata, guardando in alto.
Il Professore provò a fare lo stesso, ma non comprese cosa aveva attirato la sua attenzione. “Che stai facendo?”
“Controllo che il cielo sia ancora azzurro, così possiamo parlare di un’altra ovvietà.”
William scosse la testa, dandosi dello stupido per esserci cascato. Sorrideva. “Sherlock…”
“Facciamo una cosa, Liam,” disse il Detective, tornando seduto composto. “Al ballo di dopodomani, quando arriverai con i tuoi nobili, belli e scapoli fratelli, guardati intorno e accorgiti dell’effetto che hai sulla gente.”
“Lo hai detto tu: nobili e scapoli.”
“Ho detto anche belli e lo stai ignorando deliberatamente.”
“Scusate l’interruzione.” La cameriera comparve al fianco del loro tavolo. Appoggiò i due boccali di birra sul tavolo e tolse il disturbo. Questa volta, fu William a prendere la parola è ringraziarla. Lei gli rispose con un sorriso cortese che non raggiunse i suoi occhi e tornò al proprio lavoro.
“Visto?” Domandò il Professore, rivolgendosi al Detective.
Sherlock, che stava già bevendo, corrugò la fronte. “E allora?”
“Non mi ha nemmeno guardato in faccia.”
“Perché è stupida.”
“Sherlock, modera i termini. Ha un’evidente preferenza per te. Questo avvalora la mia teoria: la maggior parte degli sguardi che ricevo sono dovute al nome Moriarty. Questo mi porta a insistere: perché i guardavi?”
Sherlock sbuffò, annoiato come un bambino che è costretto a recitare una poesia il giorno di Natale. Non gliela diede vinta. “Secondo te?”
William appoggiò il mento al palmo della mano. “Non puoi avermi capito tanto solo guardandomi mentre osservavo una scala.”
“No, infatti. Te lo confesso: ero convinto che mi avresti risposto in modo snob e mi avresti annoiato subito. Mai avrei pensato che avresti usato la mia stessa carta contro di me.”
“Ciò spiega tutto quello che è successo dopo, ma perché guardarmi anche prima?”
Sherlock si sforzò di dargli la risposta più neutrale possibile. “So che non si direbbe, ma anche io ho senso estetico, sai?”
“Mi guardavi perché mi trovi bello?”
“Banale, vero? Ti ho deluso, ammettilo.”
Dubito che tu possa fare qualcosa in grado di deludermi, Sherlock. William decise di tacere e di dare una possibilità al suo boccale di birra: aveva la gola secca. “Se fossi stato solo bello, mi avresti cercato quando siamo attraccati?”
“No.” Sherlock spostò il calice da una parte e si sporse verso il giovane Moriarty. “È questa che ti ha fregato,” disse, appoggiando la punta dell’indice in mezzo alla sua fronte. “È questa che ha fregato anche me,” aggiunse, ritraendo la mano. “Quando una cosa ti entra in testa, è come averla sotto la pelle.”
William prese un altro sorso di birra. “Sotto la pelle arrivano solo due emozioni: l’odio e l’amore.”
“Oh, matematico e anche poeta. È chiaro che hai una predilezione per Shakespeare.”
“Non è poesia.” William era serio. “È quello che credo.”
Il sorriso da canaglia sparì dal viso di Sherlock, ma non ebbe il tempo di dire nulla.
“Hai mai odiato, Sherlock?” Domandò il giovane Moriarty. “Non parlo dell’indifferenza che provi per la maggior parte delle persone. Mi riferisco all’odio, quello che ti rende cieco, che mette a tacere tutto il resto e ti lascia solo con il desiderio di distruggere.” Era tanto da far intravvedere, forse troppo.
Non aveva importanza. William voleva conoscere i confini di Sherlock, sapere fin dove la vita prima di lui lo aveva spinto. Entrambi erano il prodotto di una storia ben più antica di quella del Detective Holmes e del Signore del Crimine. E William era solo un crudele egoista in questo: perché non poteva cedere la propria, ma aveva bisogno che Sherlock gli confessasse la sua.
“L’odio è il prezzo che bisogna essere disposti a pagare per vivere questa vita,” disse Sherlock, lo sguardo ancora basso. “Altrimenti, perché vivere?”
“Che cosa intendi?”
“Intendo dire che serve passione per odiare, ma è l’amore il vero maestro della passione. Mi capisci? Non si possono dividere le due cose. E quando parlo di passione, non intendo quella carnale… Riesci a seguirmi?”
William annuì. “La passione è l’intensità del sentimento. Non si può amare e odiare moderatamente.”
Sherlock annuì ma piuttosto che guardarlo in faccia, si voltò verso la vetrata. Per un po’ rimase in silenzio, osservando i passanti in strada. “Da come parli del legame con i tuoi fratelli, qualcuno ti ha insegnato l’amore, Liam.”
“E a te chi ha insegnato l’odio, Sherlock?”
Gli occhi blu tornarono su quelli scarlatti.
Sulla labbra del Detective comparve un sorriso malinconico. “Ricordi quando mi hai avuto quell’intuizione su mia madre?”
William non se lo era aspettato. “Ho parlato senza conoscerti, Sherlock.”
“L’ho fatto anche io,” ribatté Sherlock, rassicurante. “Stai tranquillo, non mi sono mica offeso. Volevo solo dirti che avevi ragione, su tutto. Mia madre è cresciuta da queste parti… Credo… Non so bene dove sia nata e vissuta, ma era una ragazza dell’East End.” Per la prima volta da quando si erano incontrati, in quella biblioteca abbandonata, infilò una mano nella tasca della giacca alla ricerca di sigarette e fiammiferi. “Ed ecco spiegato il mio modo di parlare.”
E William che cosa aveva da offrire di altrettanto intimo?
“Mio fratello, Louis, da bambino soffriva di una malattia cardiaca,” raccontò. Non era un segreto, chiunque avrebbe potuto verificarlo. Ancora qualcuno ne parlava anche nei salotti dell’alta società, sottolineando come la vita di Louis fosse un’evidente prova della nobiltà d’animo dei Moriarty, “Gli ultimi tempi, prima dell’operazione, m’infilavo nel suo letto e restavo tutta la notte a guardarlo dormire. Ascoltavo il suo respiro, mi assicuravo che fosse regolare. Mi terrorizzava la possibilità che potesse morire nel sonno.” William non lo aveva mai raccontato a nessuno. Solo Albert lo sapeva, perché era stato diretto testimone di tutti gli eventi.
Sherlock non prese neanche un tiro dalla sigaretta che si era acceso. Ammutolito dal racconto del Professore, rimase con la mano sospesa a mezz’aria fino a che non si scottò le dita. “Ahi!” Esclamò, lasciando cadere il mozzicone sul pavimento.
Fu un incidente fortunato, perché fu utile ad alleggerire l’atmosfera che si era creata.
“Ti sei fatto male?” Domandò William.
Sherlock simulò una risata. “Niente di grave. In realtà, mi capita spesso. Sono un tipo distratto.”
William lo ignorò e gli afferrò il polso per valutare il danno. “Devi averne cura,” disse, felice di scoprire che la sigaretta a stento aveva lasciato un segno. “Sono le mani di un violinista.”
Sherlock stirò le labbra in un sorriso nervoso. “Non mi hai mai sentito suonare,” gli ricordò. “Non puoi sapere se ne valga davvero la pena.”
“È la prima intuizione che ho avuto su di te, Sherlock. Se non fosse importante, non sarebbe stata la prima cosa a catturare la mia attenzione.”
“Ho così tanto la faccia da violinista?”
“Mi piacerebbe sentirti suonare,” disse William, lasciando andare la sua mano. “Solleva la mano e distendi le dita.”
Incuriosito, Sherlock fece come gli era stato detto. Quando il giovane Moriarty fece aderire il palmo al proprio, ingoiò a vuoto.
“Come sospettavo,” disse William, osservando le loro mani unite. “Hai la mano più grande della mia. Saresti un pianista più abile di me.”
“Me lo hanno già detto,” raccontò Sherlock. “Ci ho provato con il pianoforte ma non faceva per me.”
“Non dire niente,” lo zittì il Professore. “Fammi indovinare: ti da fastidio dover restare fermo su di uno sgabello mentre suoni.”
In un primo momento, Sherlock non disse nulla. Il sorriso sorpreso che sbocciò sulle sue labbra ebbe il potere d’illuminare la stanza. “Sì…” Confermò. “Sì, è così.”
“Non guardarmi in quel modo, Mr. Detective. È un’intuizione da poco, basta guardarti.”
“Non è vero. Nessuno ci è mai arrivato.” Era proprio questo che a Sherlock faceva piacere. “Quando parlo con te, mi sembra di conoscerti da sempre. È strano. C’è solo una persona al mondo che mi conosce da tutta la vita ed è Mycroft… E non mi sa prendere bene come te.”
“Ti hanno mai detto che è più facile parlare con un estraneo che con un fratello?” Domandò William, ignorando deliberatamente quanto le parole del Detective fossero state simile a una confessione. “Ci sono cose di me che non riesco a spiegare alla mia famiglia, così evito di dirle.”
“Naaah!” Rispose Sherlock. “Così ci stai male soltanto tu e non conviene mai. Fidati, ci sono passato.”
“Sei così libero dal giudizio della gente, Sherlock. T’invidio e stimo, a dire il vero, vorrei potermi permettere una simile libertà ma a rimetterci sarebbero i miei fratelli.”
Sherlock divenne serio di colpo. “Il bene di qualcun altro non vale quanto la propria libertà,” disse e ne era convinto. “Nemmeno se quel qualcun altro è un fratello.”
Ecco, erano arrivati a toccare il punto in cui William sapeva cose della famiglia Holmes che persino Sherlock ignorava. Pensò a Mycroft che diceva: vorrei anche almeno lui vivesse liberamente. William non aveva detto niente, si era limitato a sorridergli e si erano capiti così. Perché anche lui avrebbe fatto lo stesso per Louis, anche se tra loro correva poco più di un anno. L’errore stava proprio lì, nel troppo amore, perché suo fratello minore non gli avrebbe mai perdonato di portare sulle spalle i peccati del loro nome da solo.
Paragonare Louis a Sherlock lo fece sorridere.
“Che cosa c’è di divertente?” Domandò il Detective.
“Nulla, mi hai ricordato Louis?”
“Chi?!” Sherlock allungò la mano e allontanò il boccale di birra dalla portata del Professore. “Forse è meglio che non bevi più, Liam. Comincia a dare segni di vaneggiamento."
William rise. “Non sto vaneggiando. È che sono un fratello maggiore.”
“Ma se siete quasi gemelli! Sette anni di differenza non sono molti ma neanche pochi. Quando io ho cominciato la scuola, Mycroft era già un’adolescente. Eravamo e siamo due mondi a parte, nulla di paragonabili alla simbiosi tua e di Louis.”
“Diamo l’impressione di vivere in simbiosi?”
“Non fare il finto tonto, mio fratello non ha mai ucciso nessuno con lo sguardo solo perché mi rivolgeva la parola.”
Forse non lo ha fatto con lo sguardo ma in un modo più letterale. Pensò William. A dispetto di quello che raccontava il Detective, non aveva alcuna difficoltà a immaginare Sherlock cacciarsi in qualche guaio più grosso di lui e Mycroft correre, segretamente, ai ripari. “C’è una stagione della vita in cui anche pochi anni di differenza possono essere un abisso,” disse. “Mi è capitato di percepire una simile distanza tra me e Albert, ma è passata.”
Sherlock scosse la testa. “A me no. Mycroft era lontano allora ed è lontano anche adesso.”
“Forse si sente responsabile per te,” ipotizzò William.
“Albert lo fa?”
“Per me è diverso. A differenza di molti miei coetanei della classe nobiliare, io non dipendo dal patrimonio di famiglia. Ho un lavoro ordinario a Durham che mi permetterebbe di essere indipendente dal nome Moriarty, se lo volessi.”
“Ordinario,” ripeté Sherlock. Gli veniva da ridere. “Non è affatto ordinario avere una cattedra universitaria appena maggiorenni, mio caro Liam.”
“Mettiamo a paragone i nostri lavori: il massimo che può succedere a me è che mi sporchi la giacca con il gesso, tu hai a che fare con criminali ogni giorno.”
Sherlock assottigliò gli occhi. “Perché ci tieni tanto a prendere le parti di mio fratello?”
“Perché faccio parte della stessa categoria di fratelli maggiori ansiosi. Se riesci a capire me, magari puoi fare lo stesso con Mycroft,” rispose William. “Non molto tempo fa, Louis è venuto da me a farmi notare che lo proteggo troppo. È vero, lo faccio. Se non me lo avesse detto, non avrei mai corretto il mio comportamento.”
Sherlock scosse la testa, rassegnato. “Con Mycroft non si può parlare. È bravo solo a fare i dispetti.”
“Se non lo fosse, non sarebbe tuo fratello.”
“Ma Liam! Ma da che parte stai?”
William rifletté su quel fidati, ci sono passato. “C’è stato un periodo in cui volevi l’approvazione di Mycroft a qualsiasi costo?”
Per la prima volta dall’inizio della loro conversazione, Sherlock evitò completamente la domanda e il giovane Moriarty seppe di aver toccato un nervo scoperto. “C’è stato un periodo in cui volevo tante cose, poi ho capito che l’unico modo per essere me era accettare la solitudine,” ammise il Detective, non nascose l’amarezza ma fu svelto a cercare una via di fuga. “Ma cambiamo discorso! Finiamo queste birre e torniamo in strada. Ho deciso che le occhiate della gente sono meno stressanti di quelle della cameriera laggiù!”
E William lasciò che gli sfuggisse.
***
“Riesco a sentire il rumore dei tuoi pensieri fino a qui, Albert.” Fu la prima cosa che disse Mycroft, una volta che furono fuori dalla locanda.
Albert arrivò di fronte alla carrozza e si voltò a guardarlo. “Tu lo avevi intuito, non è vero?”
“Che Julian Evans fosse andato con George Patel di sua iniziativa? Era un sospetto, ma non avevo prove,” ammise il Direttore. “Quello che ci ha raccontato Josh Finn mette in discussione il ruolo del giovane Evans all’interno della storia. È una vittima e un complice?”
“Si può essere sedotti e ingannati,” propose Albert. “Forse quando ha derubato la sua famiglia, Julian Evans era convinto che lui e George Patel sarebbero fuggiti insieme.”
Mycroft guardò la porta della locanda. “Questo Josh Finn non sembrava molto sicuro della buona fede del George di cui Evans gli ha parlato.”
Albert sospirò. “È disincantato. Al posto suo, chi non lo sarebbe?” Non aspettò una risposta. “So solo che George Patel è abbastanza furbo da non farsi vedere in giro con le sue vittime. Quanti George possono esserci soltanto a Londra? Sa giocare e lo fa senza correre rischi.”
Mycroft annuì. “Se non fosse così, non sarebbe arrivato a nove vittime senza far parlare di sé.” Si portò una mano sotto il mento, pensandoci. “Oppure…”
Albert lo guardò, curioso. “A che cosa stai pensando?”
“Al fatto che se George Patel avesse continuato a cercare le sue vittime lontano dalla nobiltà, a quest’ora non staremmo parlando di lui.”
“Julian Evans era il suo pesce grosso, lo hai detto tu,” gli ricordò Albert. “Un giovane nobile della famiglia giusta gli ha fruttato più degli otto borghesi che lo hanno preceduto.”
“Sì, è vero.” Mycroft non sembrava convinto. “Forse Patel si è solo fatto prendere dalla fretta. Suo padre è anziano e, senza il vecchio Marchese, l'elite di Londra non gli avrebbe concesso una seconda possibilità. Il suo nome è già stato macchiato dal pettegolezzo anni fa.”
“Questo l’ho detto io ma non ho prove.”
“Il modo in cui tuo padre ha reagito prontamente alla tua storia, senza aver paura di offendere un Marchese è una prova più che sufficiente.” Ribatté Mycroft. “È il Marchese Robert Patel che si sta reintegrando nella società nobiliare, non suo figlio. Se George avrà un futuro, potrà cominciare a costruirlo dal ballo di dopodomani in avanti.”
Albert sorrise. “C’è qualcosa che non ti torna. Te lo leggo in faccia.”
Mycroft ricambiò il sorriso. “Dovrei parlare con George Patel per farmi un’idea,” disse. “Temo accadrà la notte stessa dell’operazione dell’MI6. A quel punto, sarà tardi avere delle intuizioni utili.”
Albert si avvicinò di un paio di passi. “Condividi i tuoi pensieri con me.”
Mycroft rivolse un’occhiata veloce alla porta della locanda. “Josh Finn ha parlato di amore,” disse, pronunciando l’ultima parola più lentamente delle altre. “Non voglio riconoscere in George Patel virtù che non possiede, ma se il nostro errore fosse alla base? Scegliere un nobile è stato il suo unico inciampo, ma se fosse calcolato anche questo?”
Albert aggrottò la fronte. “Spiegati meglio.”
“Accantona la questione economica della famiglia Patel, per un momento,” gli suggerì Mycroft. “A George Patel piacciono i ragazzi con un buon odore, lo hai detto tu. E se Julian Evans non fosse né un complice né una vittima?”
“Allora che qual è il suo ruolo?”
“Quello che Josh Finn ci ha detto e nulla di più: l’innamorato.”
Il Conte Moriarty impiegò qualche minuto a mettere insieme i pezzi. “Mi stai dicendo che credi che Patel ricambi il sentimento di Julian Evans?”
Mycroft scrollò le spalle. “Può darsi. Forse vuole riscattare il nome della propria famiglia per scappare all’estero col suo amante, senza perdere i privilegi di un nobile.”
Albert provò a figurarsi la cosa, ma non ci riusciva. “Temo che quell’episodio della mia infanzia m’influenzi troppo per riconoscere in George Patel un innamorato,” ammise. “Ma anche se fosse, lui è ancora qui e Julian Evans è scomparso. Non sono certo scappati insieme come quest’ultimo credeva.”
“Non è da escludere che Patel stia nascondendo l’amante per tenerlo al sicuro,” buttò lì Mycroft.
Il Conte lo osservò per un lungo minuto. “Mi sorprende…”
“Che cosa, Albert?”
“La tenacia con cui mandi avanti questa tua teoria che vede la vittima e il carnefice come innamorati.”
Mycroft sorrise, paziente. “Julian Evans non vede un carnefice in George Patel. È su questo che hai difficoltà ed è comprensibile.”
Il Colonnello Sebastian Moran uscì dalla locanda in quel preciso momento, irritato come non mai. Fossero stati da soli, Albert era certo che lo avrebbe apostrofato nel peggiore dei modi. Era divertente restarlo a guardare mentre cuoceva nel suo stesso brodo, con lo sguardo truce e le labbra ridotte a una linea sottile.
“Ottimo lavoro d’indagine, Colonnello,” disse Mycroft con tono formale.
Moran si mise subito sull’attenti, come un riflesso incondizionato. “Dovere, Sir.”
Albert inarcò le sopracciglia. “E tu chi saresti?” Domandò, sarcastico. “Che fine ha fatto il Colonnello Sebastian Moran?”
Spingere l’uomo sulla soglia di una crisi di nervi era uno dei passatempi preferiti del Conte Moriarty. La presenza del Direttore Holmes non faceva che rendere la scena più esilarante.
“Io con te non ci parlo!” Bofonchiò Moran, permettendosi di avvicinarsi alla carrozza per aprire la porta ai due gentiluomini. “Andate, questo non è luogo per signori ben vestiti.”
Mycroft ringraziò per la cordialità, poi invitò Albert a salire per primo. Tanta cavalleria tutta insieme strappò un sorriso al Conte, che scosse la testa. “Vai pure. Permettimi due parole con il mio agente.”
Il Direttore non fece obiezioni, sparendo all’interno della carrozza.
“Quando fai così mi convinco che nell’esercito ci hai combattuto davvero,” disse Albert, le mani incrociate dietro la schiena. “Hai avuto i complimenti del Direttore, congratulazioni.”
“Smettila di adularmi,” ribatté Moran. “È stato Fred a passare le ultime notti fuori per recuperare qualche informazione. L’unico motivo per cui sono qui è perché conosco Josh Finn.”
“Sei un suo cliente?” Albert sottolineò l’ultima parola.
Sebastian alzò gli occhi al cielo. “Non sono un santo, lo sai.”
“Se è utile all’indagine, chiamiamola coincidenza fortunata. Dubito che Josh Finn avrebbe parlato con noi se non avessi fatto da mediatore, più o meno.”
“Mi togli una curiosità.” Moran cercò il pacchetto di sigarette nella tasca della giacca. “Questo George Patel è lo stesso di quella tua storia della Scozia?”
Albert restò ammutolito per una manciata di secondi. “Te la ricordi?”
Il Colonnello scrollò le spalle. “Ricordo di aver pensato tanti insulti per lui quanto per tuo padre. Duro com’è, il mio avrebbe tirato su un colpo di stato.”
“E sarebbe stato un genitore migliore del mio,” concluse Albert. “Se siamo qui, è perché lui è altri sono rimasti in silenzio. È una storia che già conosciamo. Il male è banale.”
“Noi siamo banali?”
“No, siamo necessari.”
Per salire sulla carrozza, Albert si fece leva sulla spalla del Colonnello.
Moran non ebbe il tempo di lamentarsene: vide qualcosa - no, qualcuno - in strada lo ammutolì. “Che ci fa William qui?”
Albert, che non si era ancora seduto, gli lanciò uno sguardo perplesso. “William non è qui.”
Moran alzò il braccio, come per indicare qualcosa, ma perse le staffe prima di offrire al giovane Conte una direzione in cui guardare. “E che cazzo ci fa appiccicato a quello stronzo di Holmes?” Sbraitò, dimenticando completamente che l’altro Holmes, il fratello maggiore, era a poco più di un metro da lui.
Per sua fortuna, Mycroft ignorò i toni per concentrarsi sui fatti. “Scendi, Albert.”
Ma il Conte era già tornato sul marciapiede.
“Non mi sono ancora ripreso dall’averti visto bere un boccale di birra,” disse Sherlock, divertito. “Uno come te non vive di Earl Grey?”
“Vivi con un medico, dovresti sapere che è consigliato vivere di acqua,” ribatté William.
Entrambi si stavano impegnando a mantenere una certa leggerezza. Il momento di confidenza che avevano condiviso nel pub era più che sufficiente per una sola giornata. Camminavano l’uno al fianco dell’altro, senza una meta. A loro bastava parlare e stare insieme. Per quanto suonasse come una contraddizione, l’East End era il posto più sicuro per farlo alla luce del sole. In un salotto dell’alta società, non sarebbero mai potuti essere così liberi nelle parole, nei gesti e nelle reazioni.
Forse a Sherlock non sarebbe importato, ma William non poteva permettersi troppi rischi e, a lungo andare, anche lui si stancava di recitare.
“Te lo hanno mai detto che sei un comico insospettabile, Liam?”
“Si chiama English Humor, è famoso in tutto il mondo.”
“Già… Immagino che sotto la definizione di English Humor ci sia proprio quel tuo imperturbabile sorriso cortese.”
“Quando sto con te, pensi che sorrida per cortesia?” Domandò William.
Sherlock gli lanciò un’occhiata veloce. “È una domanda trabocchetto?”
“Tu rispondi.”
“Sì, è una domanda trabocchetto.” Il Detective prese un respiro profondo, grattandosi la nuca. “Come faccio a dirlo senza suonare irrispettoso?”
William rise. “Da quando ti preoccupi di suonare irrispettoso?”
“Ecco!” Esclamò Sherlock. “Questa è una reazione spontanea.”
William si fermò. “Mi trovi poco spontaneo, Sherlock?”
Il Detective si mise di fronte a lui, le mani nelle tasche dei pantaloni e quel sorrisetto da eterno ragazzino so-tutto-io. Lo guardò da capo a piedi, senza preoccuparsi di sembrare sfacciato. Veniva voglia di prenderlo a schiaffi, William doveva riconoscerlo, ma non riusciva a togliergli gli occhi di dosso proprio per questo. “Allora?” Incalzò.
“Se ti offendi, è colpa tua,” lo avvertì Sherlock. “Lo hai voluto tu.”
“Mi prendo le responsabilità delle mie decisioni.”
“Non credo che qualcuno ti abbia educato a essere come sei. Crescendo, hai studiato il mondo intorno a te e hai capito quale maschera era la migliore da indossare,” disse Sherlock. “Educato, cortese, sempre sorridente… Perché hai un sorriso in grado di destabilizzare anche la più ferma delle volontà.”
William reclinò la testa da un lato. “Mi state dando del Diavolo, Mr. Holmes?”
“Oh, se lo sei…” Sherlock si fece più vicino. Troppo. “Lo siamo entrambi, in modi diversi ma complementari. Io ho deciso di mostrarlo liberamente e di bruciare nell’inferno dell’ignominia, tu hai scelto di proteggere il nome dei Moriarty… Non per te, ben inteso, ma perché non sei l’unico a portarlo. Ma Dio solo sa quanto vorresti gettare la maschera e dare fuoco a ogni cosa perché, mio caro Liam, ti sei adattato a un mondo che odi. Sei stato al gioco, lo fai ogni giorno ma è stancante, vero? Logorante. Per questo sei qui con me. Perché io sono il cattivo ragazzo, quello ribelle, quello sempre fedele a se stesso, suo malgrado. Io sono quella libertà che non hai mai concesso a te stesso in ventiquattro anni di vita.”
Da parte di William, seguì il silenzio. Cercò alla svelta qualcosa da dire che potesse fargli recuperare un vantaggio, ma Sherlock lo zittì sollevando la mano per toccargli il viso. Gli accarezzò l’angolo destro della bocca con il polpastrello del pollice. Tornò a debita distanza prima di attirare gli sguardi dei curiosi.
“Ho indovinato,” non era una domanda. “Ma ho la netta sensazione che sia solo parte della verità. Sei un enigma, Liam. Uno di quelli che è difficile risolvere, per questo mi piaci tanto.”
Un enigma. William avvertì un tuffo al cuore, ma la voce della ragione non ebbe alcuna pietà di lui: che cosa ti eri aspettato? Lo hai scelto proprio per questo. Non può deluderti perché si è rivelato esattamente quello che volevi che fosse.
“E che cosa ti fa essere tanto sicuro di te?” Domandò il giovane Moriarty, forse con più freddezza del dovuto.
“Il fatto che non stai sorridendo più.” Sherlock lo disse con amarezza, come se gli fosse dispiaciuto aver avuto ragione. “Alle volte ci riesco a farti togliere la maschera, ma solo per pochi istanti. Sul treno ci sono riuscito un po’ di più, ma era il nostro secondo incontro e non eri preparato.”
“Non sono mai preparato a incontrarti, Sherlock.” William lo superò e riprese a camminare.
Alle sue spalle, Sherlock sospirò. Se l’era aspettato. “Lo sapevo che ti saresti offeso,” disse, seguendolo. “Come lo sapevi tu ma non mi hai fermato.”
Aveva ragione. Era facile ascoltare Sherlock quando gli diceva proprio quello che voleva sentirsi dire. Quando parlava della verità era una cosa diversa. Quello che il Detective non aveva capito - e che William non gli avrebbe mai potuto spiegare - era che il giovane Moriarty non era stato ferito dell’essere apostrofato come Diavolo, ma come enigma.
Era risaputo che gli enigmi avevano vita breve nelle mani di Sherlock Holmes e quello del Signore del Crimine - di William - non era stato creato per durare per sempre. Definendolo come aveva fatto, il Detective gli aveva rivelato la profondità del suo interesse per lui: dopo la soluzione del caso, non sarebbe rimasto più niente.
Tutto secondo i piani, sibilò la voce nella testa di William, eppure sentiva in bocca il sapore amaro della delusione. Non ne aveva alcun diritto.
“Liam?” Sherlock gli arrivò accanto, improvvisamente timido. “Ti ho detto che mi piaci tanto,” gli sussurrò, abbozzando un sorriso. “Sono stato un disastro su tutto il resto, ma possiamo concentrarci su quello?”
“Non sei tu, Sherlock,” lo rassicurò William
“Tu non mi credi,” concluse il Detective.
“Credo quello che ho detto a Durham,” disse William. “Credo che catturerai il Signore del Crimine e tornerai a essere padrone della tua vita. Il motivo per cui ti affascino è perché, nella tua testa, continui ad associare la figura della tua nemesi a me. Una volta arrivato alla verità, finirà anche questa illusione.”
“Adesso sei tu che offendi me,” ribatté Sherlock, per nulla divertito.
“Tu mi hai detto la tua verità e io ti ho detto la mia.” William sorrideva, ma nessuna luce raggiunse i suoi occhi scarlatti. “Siamo adulti, siamo in grado di accettarla, no?”
Ma Sherlock non si era guadagnato il posto da protagonista in quella storia stando zitto e dandogli ragione.
William dovette fermarsi di nuovo perché il Detective lo superò con due ampi passi e gli si piazzò davanti, bloccandogli la strada.
“Che cosa stai facendo, Sherlock?”
“Di che colore sono i miei occhi?”
“Prego?”
“Devo provare qualcosa a me stesso e, se vorrai ascoltarmi, anche a te. Dimmi di che colore sono i miei occhi.”
William non poté evitare di alzare gli occhi al cielo. “A un primo sguardo, i tuoi occhi sembrano scuri,” disse. Non poteva mentire, non su quello. “Ma quando rispondi agli sguardi, è impossibile non notare che sono blu.”
Sherlock sorrise, soddisfatto. Non gli serviva altro.
William non gli diede il tempo di voltarsi. “Colpiti dal sole, però, il colore cambia, si fa più caldo, simile al viola.”
Sherlock si voltò lentamente.
Sul viso di William era comparso lo stesso sorriso criminale che gli aveva rivolto sul treno. “Ho superato il tuo test, Detective?” Gli fece il verso della domanda che gli aveva rivolto a Durham.
“Mi accontetavo di blu,” ammise Sherlock. “Ma mi hai dato meravigliosamente ragione.”
“In che modo?”
“Dimostrandomi che mi guardi da vicino, esattamente come io faccio con te.”
William tornò serio di colpo. Sherlock lo aveva fregato e non ci aveva nemmeno provato. Aprì la bocca, pronto a sfuggire a quella situazione con eleganza. Quando si accorse di non saper ribattere in modo efficace, si mise a ridere.
Sherlock fece lo stesso. “Hai perso, Liam.”
Il giovane Moriarty provò a riscattare il proprio orgoglio distrutto, ma qualcosa a lato della strada attirò la sua attenzione, pietrificandolo. Sherlock si voltò per capire di che cosa si trattasse: la carrozza del governo fu la prima cosa che vide. Gli bastò.
Afferrò il polso di William.
“Corri, Liam!”
“Albert, è tutta colpa tua, come sempre!”
Il potere inibitore della presenza di Mycroft Holmes era svanito nel momento in cui il Colonnello aveva visto William passeggiare per le strade dell’East End Al fianco del Detective Sherlock Holmes. Ora Moran andava a briglia sciolta, come se il Direttore non fosse nemmeno lì.
Albert apriva la fila di quell’insolito trio e l’agente 006 era appena un passo dietro di lui. Mycroft si era completamente estraniato dalla discussione. Il Conte non lo biasimava ma il modo discreto in cui li accompagnava in quella ricerca tra i vicoli aveva un qualcosa di strano. Sarebbe bastata una sua parola per mettere a tacere il Colonnello, ma Mycroft li osservava senza nessuna particolare espressione.
Li stava studiando e Albert ne era infastidito. “Sapevo che si sarebbero rivisti ma non credevo che William lo avrebbe portato qui.”
“William?” Domandò Moran. “Come siamo arrivati a incolpare William?”
Fu allora che Mycroft intervenne per la prima volta nella conversazione. “Mio fratello non ha molta familiarità con l’East End, Colonnello. La sua condotta è opinabile ma non porterebbe mai il secondogenito di una famiglia nobile in questi quartieri.”
Incapace di prendersela con lui, Moran continuò a sfogarsi sul leader dell’MI6. “Albert, vuoi un bastone da passeggio? Stavano correndo, così non li raggiungeremo mai!”
Albert sbuffò apertamente. “Raggiungerli dove?” Usciti dal vicolo, si ritrovarono in un’altra strada affollata come quella in cui avevano lasciato la carrozza. Si fermarono sul bordo del marciapiede, il Conte in mezzo agli altri due uomini. Era uno schema che si ripeteva, come era accaduto all’interno del pub. Albert decise di non pensarci troppo. Sospirò, sconfitto. “Bene, Colonnello, dove si va?”
Quando Moran gli prese il polso tirandolo verso destra con determinazione, il Conte se ne sorprese.
“Per di qua,” disse il Colonnello, lasciando andare il più giovane dopo una decina di passi. “Dall’altra parte si va per una zona molto brutta anche di giorno, dubito che William ci porterebbe il Detective.”
Con Moran alla guida, Mycroft tornò a fianco del Conte.
“Mi dispiace,” disse quest’ultimo.
Il Direttore accennò un sorriso. “Sherlock è un adulto e l’ho visto chiaramente: è stato il primo a mettersi in fuga. Non c’è alcuna ragione di dispiacersi.”
“Mi dispiace per tutto,” sottolineò Albert.
Capendo che non si riferiva solo ai loro fratelli, Mycroft sollevò lo sguardo sull’uomo di quasi due metri che camminava di fronte a loro. “Avete studiato a Oxford, Colonnello?”
A quella domanda, Albert inarcò le sopracciglia ma rimase in silenzio.
Moran si voltò per una frazione di secondo e rispose: “sì, Direttore, ma non ho finito gli studi. Me ne sono andato e mi sono arruolato. Immagino che quella parte della storia la conosciate già.”
“Anche io e mio fratello siamo andati a Oxford, ma non mi ricordo di voi.”
“Siete più giovane di me, Direttore.”
Suonava come una normale conversazione ma non lo era. Albert si rifiutava di credere che Mycroft Holmes stesse facendo due parole con Sebastian Moran per il semplice gusto di farlo.
Di fatto, il Direttore impiegò davvero poche battute ad affondare la propria stoccata. “Ho conosciuto vostro padre.”
Albert trattenne il fiato e non poté evitare di guardare l’amante come se fosse un pazzo. Mycroft non lo sapeva, aveva conosciuto Sebastian Moran solo attraverso un fascicolo redatto dal leader dell’MI6 e dai documenti ufficiali presenti nell’archivio dell’esercito, ma il Colonnello tollerava ben poco ogni riferimento alla famiglia che si era lasciato alle spalle. In particolare, a quel padre troppo ligio per un figlio dalla natura ribelle.
Moran si fermò e lanciò un’occhiata al Direttore da sopra la spalla.
Ignaro - o forse sprezzante - del pericolo, Mycroft rincarò la dose. “Gli somigliate.”
Albert serrò i denti sul labbro inferiore, lanciando uno sguardo al Colonnello che sottintendeva tutte le parole che non poteva pronunciare ad alta voce: sì, ti sta provocando ma non abboccare.
Moran rispose al suo sguardo e inspirò profondamente dal naso, prima di rispondere: “quando ero vivo, me lo dicevano in molti.” Riprese a camminare.
E Albert a respirare.
***
“Corri, Liam!”
Al comando del Detective, William si era mosso senza pensarci due volte. Solo in un secondo momento si era accorto che Sherlock lo stava tenendo per mano. S’infilarono nel vicolo più vicino e sbucarono in un’altra delle strade principali.
Sherlock lo tirò verso sinistra.
William puntò saldamente i piedi a terra e lo trattenne. “Non da quella parte!” Esclamò. “Non è una bella zona. Per di qua.”
Il Detective non si fece pregare e lasciò che il nobile lo guidasse lungo il marciapiede affollato. Evitare di scontrarsi con la gente fu difficile ma William, notò Sherlock compiaciuto, aveva davvero degli ottimi riflessi.
“Se non sapessi che sei nato in una delle famiglie più illustri di Londra, direi che sei un gatto randagio!” Rise.
“Risparmia il fiato per correre, Sherlock!”
“Agli ordini!”
William lo guidò per una serie di strade secondarie e vicoli. Si erano addentrati in una zona residenziale, decisamente più tranquilla di quella da cui venivano. Sherlock non poté fare a meno di pensare che anche l’aria era più respirabile.
“Qui dovremmo essere al sicuro,” disse William, rallentando il passo. Lasciò andare la mano del Detective e s’infilò in una via senza sbocco. “Vieni.” Aveva le guance rosse, il fiato corto e i capelli in disordine. Era bellissimo.
Sherlock era curvo su se stesso. A stento riusciva respirare ma non poteva smettere di ridere.
“Ti senti bene?” Domandò il nobile.
Sherlock appoggiò la schiena al muro sporco, obbligando se stesso a darsi una calmata. “Mio caro Liam, questo tuo lato ribelle mi ucciderà per eccesso di emozioni.”
William sorrise, portandosi di fronte a lui. “Sei tu che hai cominciato a correre.”
“Non mi sembra di aver percepito esitazioni da parte tua.”
“Diciamo che non sei l’unico a essere uscito di casa senza dire dove andava.”
“Avevi paura fosse tuo fratello?”
“Non avevo paura. Era sul marciapiede, ci siamo visti a vicenda. Non lo hai notato?”
Sherlock divenne serio di colpo. “Oh, cazzo…” Si passò una mano tra i capelli. “No, ho visto la carrozza del Governo e ho agito d’istinto. Quella carrozza è sempre un segnale d’allarme per me. Ma se hai visto Albert ci sono buone probabilità che Mycroft sia qui.”
Anche William smise di sorridere. “Pensi ci siano venuti a prendere?”
“Non lo so. Quanto è ansioso tuo fratello?” Domandò Sherlock. “Quanto sono in confidenza lui e Mycroft?”
William aveva una risposta precisa e articolata a quell’ultima domanda ma se il Detective gliela poneva, era ovvio che non sapeva nulla del legame tra il proprio fratello e il suo. “Abbastanza per chiamarsi per nome,” rispose, vago.
“Oh…”
“Perché sei sorpreso?”
“Mycroft sarebbe capace di essere formale anche con un cane per strada. Io sono la sua unica eccezione, mi chiama ancora col diminutivo di quando ero bambino.”
William si sporse oltre il muro ma non vide nessuno.
“Avanti, Liam, abbiamo fatto un percorso tanto arzigogolato che mi sorprenderei di sapere che non ti sei perso anche tu,” disse Sherlock.
“Purtroppo, mio fratello era in compagnia di uno di quei nostri servitori che non sono davvero servitori e lui sa muoversi abbastanza bene in questi quartieri.”
Il Detective lo squadrò da capo a piedi, come se non lo avesse già fatto decine di volte. “Mi sorprende il modo in cui ti ci muovi tu.”
William piegò le labbra in un sorriso criptico. “Sono un enigma, lo hai detto tu.”
Sherlock rise. “E ancora non ammetti di essere il Signore del Crimine.”
“Se lo fossi e te lo dicessi, non me lo perdoneresti mai.”
“Già…” Il Detective si arrese. “È vero.”
Restarono in silenzio per un po’, permettendo a loro stessi di riprendere fiato e calmare il battito frenetico del loro cuore. Sherlock fu il secondo a sporgersi per controllare la situazione e, istintivamente, William cercò di fare lo stesso.
“No, no, Liam, fermo!” Il Detective lo prese per le spalle e lo spinse contro la parete, senza farsi male. “Ho visto un uomo sospetto in fondo alla via,” aggiunse in un sussurro. “Non fare rumore.”
William ubbidì ma tenne lo sguardo rivolto verso la strada, pronto a scattare nel caso qualcuno fosse comparso nel proprio campo visivo. Sherlock, al contrario, era molto distratto: i suoi occhi blu tracciarono la linea del profilo del nobile, memorizzando ogni dettaglio di quel giovane viso. Lo aveva guardato tante volte, ma mai così da vicino. Senza chiedersi se fosse una buona idea o meno, Sherlock chinò la testa tra il collo e la spalla della Professore.
Nel sentire il suo respiro caldo sul collo, William trattenne il proprio. “Che cosa stai facendo?” Domandò a voce bassissima.
“Ti annuso,” rispose Sherlock. “Tu sei stato tanto sfacciato da farlo con me al nostro primo incontro e non ho mai ricambiato.”
Certo che l’altro non lo potesse vedere, William si morse il labbro inferiore per obbligare la sua mente a rimanere lucida. Pochi centimetri e la fantasia dove il Detective gli baciava il collo si sarebbe concretizzata. Peccato che fossero in un vicolo lurido e non di fronte a un pianoforte a coda.
il Signore del Crimine rimase immobile, mentre il Detective Sherlock Holmes lo corteggiava senza aver paura delle conseguenze.
Sei un enigma, non dimenticarlo. William chiuse gli occhi, mentre il respiro di Sherlock sulla sua pelle metteva a tacere quella voce molesta.
“Chissà se Conan Doyle scriverà mai di noi nei suoi libri?” Domandò Sherlock, un sussurrò che scivolo in modo sensuale nell’orecchio del giovane Professore.
William dischiuse le labbra e ingoiò a aria. “Conan Doyle scrive di te. Immagino che tutto dipende da come desideri che la tua storia venga raccontata.”
Sherlock rise. Erano tanto vicini che William sentì il suo petto vibrare contro il proprio. Non riusciva a respirare, ma non possedeva la volontà di spingere il Detective lontano da sé.
“Conan Doyle ha messo su bianco una storia con un protagonista eccentrico,” disse Sherlock. “Ma è il Signore del Crimine ad aver creato entrambi.”
William credeva che fosse vero solo in parte. “Penso che il Dottor Watson avrebbe scritto di te anche senza l’aiuto di un fantomatico Signore del Crimine.”
Il Detective sollevò la testa ma non troppo da impedire all’altro di percepire il suo calore. “Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente.” Shakespeare recitato con la voce di Sherlock era un incantesimo da cui William non sapeva come proteggersi.
Si guardarono, il rosso nel blu.
“Perché hai citato proprio quella parte?” Domandò il giovane Moriarty.
“Perché se questo mondo non vedesse un crimine dove non ve n'è ombra, io e te potremmo essere immortali tra le pagine di un libro. Proprio come Romeo e Giulietta.”
“Ma tu sarai immortale, Sherlock” disse William, sicuro. “Lo sei già. Tra un secolo leggeranno ancora le storie di Conan Doyle. Qualcuno le amerà, qualcun altro meno, ma nessuno potrà ignorare l’esistenza del Detective Sherlock Holmes di Baker Street.” Una pausa. “E non paragonarci più a Romeo e Giulietta, per favore.”
Sherlock s’imbronciò. “Perché no?”
“Perché è una tragedia,” rispose William. “E la tua storia non lo sarà.”
Il Detective fece per ribattere ma la voce del Colonnello Sebastian Moran interruppe il momento: “Albert, giuro su di Dio che non li troviamo, io-“
Sherlock afferrò la mano di William, pronto a correre. La loro seconda fuga ebbe vita breve: Sherlock scivolò su qualcosa - fu impossibile capire cosa - e atterrò rovinosamente al centro di una pozzanghera, trascinando il giovane Moriarty con sé.
Appena il tempo di riprendersi dallo shock della caduta e il Detective si sporse verso il nobile per assicurarsi che non avesse nulla di rotto. “Liam, stai bene?” Domandò, preoccupato. “Ti sei fatto male?”
La caduta a terra non poteva essere stata indolore, ma William rideva. Aveva il viso, i capelli e i vestiti sporchi di fango e di Dio solo sapeva cosa, ma rideva. Non riusciva a fermarsi. Sherlock si fece contagiare. “Dai, Liam, abbiamo fatto la figura degli idioti!”
“Per una volta, la pensiamo allo stesso modo, Sherlock Holmes.”
Il divertimento per il Detective s’infranse lì, contro il suono del proprio nome completo pronunciato dalla voce di Mycroft. Non andava bene. No, proprio per niente.
Sherlock sollevò lo sguardo e due occhi identici ai suoi lo giudicarono per tutti i peccati che aveva commesso in un solo pomeriggio. Sbuffò, come se avesse cinque anni. “Mycro-“
“Alzati in piedi.” Suo fratello nemmeno gli fece la cortesia di porgergli la mano. Era proprio arrabbiato.
“È colpa mia,” si affrettò a dire William, che era già in piedi grazie all’aiuto di Albert. “L’idea di venire qui è stata mia. Sherlock non ha nulla a che fare con-”
Mycroft si permise d’interromperlo. “Sono certo che Sherlock sia in grado di difendersi da solo.” Lanciò uno sguardo al fratello minore. “Vuoi restare lì per terra per il resto della giornata?”
Sherlock si alzò in piedi. Era sporco e bagnato quanto il giovane Moriarty e Mycroft non gli risparmiò un’occhiata giudicante.
“Li abbiamo trovati,” intervenne Albert, stringendo la spalla del fratello minore in un gesto rassicurante. “Hanno fatto una sciocchezza, Direttore, ma non è successo nulla d’irreparabile.”
Per la prima volta, Sherlock si permise di guardare i due uomini che non conosceva. Il tipo alto due metri che lo fissava in cagnesco doveva essere quel servitore che non era davvero un servitore di cui William gli aveva parlato. Non ebbe alcun bisogno d’interrogarsi sull’identità del giovane Lord con gli occhi verdi.
Ecco Albert. Il primo pensiero di Sherlock fu che, a differenza di Louis, quell’uomo non assomigliava per niente a William.
Amante delle formalità come era, Mycroft non perse l’occasione per fare le presentazioni. “Conte Moriarty, vi presento mio fratello minore: Sherlock Holmes. Penso che abbiate sentito parlare delle sue imprese di Detective.”
Albert sorrise. “Non siate modesto, Direttore. Tutta la Gran Bretagna conosce le imprese di vostro fratello. Piacere di conoscervi, Sherlock Holmes.”
Il Detective stirò le labbra in un sorriso nervoso. “Piacere mio.”
“I gentiluomini si stringono la mano, Sherly,” gli ricordò Mycroft.
“Ho le mani sporche di fango!” Ribatté il più giovane.
William se ne stava in silenzio a subire la scena. Non era una cosa che gli capitava spesso e un poco lo infastidì. Non ce l’aveva con Albert per aver involontariamente interrotto il suo pomeriggio con Sherlock, ma era un altro momento per loro che finiva. Rimaneva solo il ballo in maschera dei Patel.
Moran si tolse la giacca e l’appoggiò sulle spalle di William. “Albert, lui ha i vestiti bagnati e tra poco comincerà a fare freddo.”
“Ne sono conscio, Colonnello,” disse il Conte, col sorriso tirato di chi sta per perdere la pazienza.
“Torniamo alla carrozza,” disse Mycroft. “Accompagneremo a casa il Conte Moriarty e Lord William, poi io e te parleremo.”
Sherlock storse le labbra in una smorfia poco felice: quella non era una promessa, era una minaccia.
Moran si accomodò al posto del cocchiere, insieme al vecchio Jones.
Le due coppie di fratelli si sedettero l’una davanti all’altra: William e Albert dalla parte del senso di marcia, Sherlock e Mycroft dall’altra. Fu presto chiaro che i più giovani non potevano guardarsi senza rischiare di scoppiare a ridere, forse a causa del ricordo della loro rovinosa caduta e dello stato miserabile in cui versavano entrambi.
Il silenzio di tomba che regnava all’interno della carrozza non faceva nulla per aiutarli.
Albert e Mycroft si dissero tutto senza parlare. Anche loro si erano aspettati una giornata diversa e non potevano fare altro che adattarsi.
“Hai freddo?” Domandò Albert al fratello minore.
William, che aveva ancora la giacca del Colonnello sulle spalle, scosse la testa. “No. I vestiti bagnati non sono piacevoli ma posso sopportare.”
“Siamo quasi arrivati,” lo rassicurò Albert.
Mycroft guardò Sherlock con la coda dell’occhio, sorpreso che non avesse ancora detto qualcosa di spiacevole. Suo fratello maggiore non si accorse nemmeno di essere osservato, troppo rapito dall’osservare il Moriarty più giovane. Sherlock non ci provava nemmeno a nascondere il suo interesse. William era più convincente nel fingere indifferenza, ma Mycroft non poteva ignorare il modo in cui quegli occhi scarlatti continuavano a tornare sul viso di suo fratello.
Era la prima volta che il Direttore li vedeva insieme e, sebbene non stessero facendo nulla di esplicito, percepì quel magnetismo di cui John Watson gli aveva parlato. Non poteva fare grandi intuizioni su William James Moriarty - e in quel momento nemmeno gli interessava - ma Mycroft guardava Sherlock ed era certo di averlo mai visto così. C’era un metro o poco più a separare suo fratello da quello di Albert e Sherlock guardava William come se quella distanza fosse troppo.
Solo quando la carrozza si fermò di fronte alla residenza londinese dei Moriarty, Mycroft cercò gli occhi di Albert. “Cenate con la vostra famiglia, Conte,” disse. “Se non vi è di troppo disturbo, mi piacerebbe concludere la nostra conversazione questa sera, nel vostro ufficio.”
Gli occhi verdi di Albert si fecero grandi per una frazione di secondo. Il sorriso che seguì confermò al Direttore che aveva compreso le sue intenzioni.
“No, non è affatto di troppo disturbo,” rispose Albert.
Anche gli occhi blu di Sherlock cercarono quelli scarlatti di William. Voleva salutarlo, promettergli che si sarebbero rivisti ancora.
Per la seconda volta in meno di un’ora, la voce di Moran li privò di quel momento. “Louis, aspetta!” La carrozza traballò, informando chi era al suo interno che il Colonnello era sceso dal posto del cocchiere. “No, Louis, faccio io! Louis, non ignorarmi! Louis!”
Tutto si consumò in pochi istanti. Louis James Moriarty aprì la porta, pronto ad accogliere i due fratelli maggiori. Tutte le sue buone intenzioni andarono in mille pezzi non appena si rese conto di chi erano i loro accompagnatori. Uno in particolare.
Fu proprio Sherlock a vedere il sorriso svanire dal quel giovane viso in favore di un’espressione orripilata. Nello stesso momento in cui Louis richiuse la porta sbattendola, il Detective scoppiò a ridere senza vergogna, guadagnandosi un’occhiata storta da parte del fratello maggiore.
“Era Louis?” Domandò Albert, che si era accorto di quanto successo solo a metà.
William si limitò a prendere un respiro profondo.
La porta si aprì una seconda volta e ci pensò Sebastian Moran a peggiorare la situazione. “Albert, questa è tutta colpa tua!” Tuonò. “Adesso ci parli tu! Lo convinci tu a darsi una calmata, io non voglio saperne niente!”
Il Colonnello scomparve sbattendo l’uscio a sua volta.
Non era abitudine di Albert James Moriarty provare imbarazzo - di solito, era lui a provocarlo nel prossimo - ma ora sentiva il pressante bisogno di scavarsi una fossa e buttarcisi dentro. Al suo fianco, William non versava in uno stato meno miserabile.
“Si respira una certa vivacità nella vostra casa, Conte,” commentò Mycroft.
Albert non comprese se stesse rigirando il dito nella piaga o volesse solo sdrammatizzare.
Sherlock, nel frattempo, non la smetteva di ridere.
Quando la porta si aprì per le terza volta e fu Jack a comparire sulla scena, i fratelli Moriarty non furono mai tanto felici di vederlo. “Perdonate il ritardo,” disse, chinando la testa in segno di rispetto.
Albert fu il primo ad alzarsi, ma non scese prima di aver rivolto a Mycroft un’ultima occhiata. Ti aspetto, dicevano quegli occhi verdi.
Non ti farò attendere molto, prometteva il sorriso del Direttore.
Quando fu il turno di William, Sherlock smise di ridere. Il Professore non lo guardò, non lo salutò, non fece nulla.
Dannato Louis, pensò il Detective, certo che il malumore del più giovane avesse inibito l’allegria di William. Si alzò di scatto e si sporse dalla carrozza appena in tempo per afferrare la mano del giovane Moriarty. “Promettimi che non ballerai con altri che con me.”
Era ovvio che si riferiva all’evento dei Patel, ma William non poté fare altro che sbattere le palpebre. “Come?”
“Dopodomani ballerai con me e solo me.” Sherlock ribadì il concetto con quel sorriso da canaglia che lo contraddistingueva. “Promettilo!”
William dischiuse le labbra, allibito. Sentiva la pressione degli sguardi di metà della sua famiglia e questo non lo aiutava affatto. “Sherlock…”
“Prometti!”
Era chiaro che il Detective non lo avrebbe lasciato andare senza avere una risposta affermativa. Fu il turno di William di arrendersi: “va bene,” rispose, tradendo una nota esasperata. “Te lo prometto, Sherlock.”
Soddisfatto, Sherlock lo liberò dalla propria presa. Un istante dopo, Mycroft lo afferrò per il retro della giacca e lo spinse sui sedili della carrozza.
“Andiamo, Jones,” ordinò il Diretto.
Non appena furono arrivati a metà del vialetto, Sherlock si sporse pericolosamente dal finestrino sbracciando in direzione di William. “Ci vediamo al ballo in maschera, Liam.”
Fu imbarazzante, senza dubbio.
Questo non impedì a William di restare a guardare la carrozza che spariva oltre il cancello, tra le strade di Londra.
“Hai intenzioni di mettere radici lì, fratello?” Domandò la voce di Louis, velenosa.
William si voltò appena in tempo per vedere il minore rientrare in casa a passo di marcia. Moran, fermo accanto al portone d’ingresso, fu svelto a prendersela col padrone di casa. “Albert, vedi di fare qualco-!”
“Ho capito, Colonnello!” Il Conte non sorrideva più.
“Oooh!” Moran non si fece sfuggire l’occasione per prenderlo un po’ in giro. “Ora che non c’è più il Direttore in giro, tiri fuori quel carattere di merda che hai?”
Albert piegò le labbra in un sorriso sinistro. “Quasi dieci anni e ancora non avete capito che non vi conviene sfidarmi.”
“Buoni, ragazzi,” intervenne Jack, spingendo gentilmente William a varcare il portone d’ingresso. “Se vi uccidete a vicenda, non riuscirete a cambiare molto di questo paese. Cerchiamo di arrivare tutti vivi a quel ballo in maschera.”
***
Mycroft era abituato alla lunaticità di Sherlock, ma quando suo fratello passò dall'allegria più pura al malumore più nero nel tempo necessario a uscire dalla residenza dei Moriarty, persino lui ne fu sorpreso.
“Adesso perché sei arrabbiato?” Domandò il Direttore, che non riusciva a restare serio di fronte a quel ventiquattrenne che lo fissava con lo stesso broncio di quando di anni ne aveva sette.
“Sei un genio, no? Arrivaci da solo!” Fu la replica irritata di Sherlock.
“Sherly, non sono stato io a rovinare il tuo momento con William.”
“Ah, no? Perché mi sembrava di essermi messo in fuga proprio da te.”
“Eravate nel posto sbagliato al momento sbagliato. È stata solo sfortuna.”
Sherlock sbuffò, ben consapevole che il maggiore aveva ragione e per nulla felice che non potesse prendersela con nessuno. “Dove stiamo andando?” Domandò, quando si accorse che la carrozza stava percorrendo il perimetro di Hyde Park. “Baker Street è nella direzione opposta.”
“Starai con me per il resto della giornata,” disse Mycroft, lapidario.
Sherlock sgranò gli occhi. “E chi lo ha deciso?”
“Io, ovvio. Devo parlarti di una cosa molto importante e devo portarti dal mio sarto per le ultime modifiche del tuo frac, ma non posso fare nessuna delle due cose mentre puzzi e sei sporco di fango.”
“Smettila immediatamente!” Sibilò Sherlock, per nulla divertito. “Io non ho alcuna intenzione di passare il resto della giornata con te!” Aggiunse. “E poi da dove salta questa storia del frac? E se avessi voluto presentarmi al ballo con uno smoking?”
Mycroft scrollò le spalle. “Sei alto,” rispose. “Non metterti il frac sarebbe uno spreco.”
“Non sono un bambino che puoi vestire come ti pare e piace!” Sherlock stava urlando come un isterico. E il modo in cui suo fratello rimaneva composto, con quell’insopportabile sorriso cortese - dalle sfumature sadiche però - lo mandava completamente fuori di testa.
“Avanti, Sherly, non possiedi nemmeno una cravatta,” ribatté Mycroft. “Non c’è nulla di male se decido di regalarti un frac nuovo.”
“E dove le hai trovate le misure?”
“Le conosco le tue misure. Il mio sarto ha solo bisogno di una prova per rifinire gli ultimi dettagli.” La carrozza si fermò e il Direttore sorrise soddisfatto. “Siamo arrivati.”
C’erano diverse camere nella residenza di Mycroft Holmes.
Molte di queste erano vuote, inutilizzate. Non vi erano stanze per gli ospiti: al padrone di casa non piaceva averne, la maggior parte dei suoi incontri privati si svolgeva al Diogenes Club, nella Stranger Room.
Mycroft Holmes conosceva molte persone, ma non aveva amici. Con qualcuno era in rapporti migliori rispetto ad altri ma non esisteva davvero nessuno con cui fosse in confidenza. Proprio per questo era perfetto per la vita che conduceva. Quello di Mycroft Holmes non era un lavoro, non esisteva un confine oltre il quale costruire una vita privata. Rivestire il ruolo di Direttore dei Servizi Segreti significava non poter essere altro.
Però c’era Sherlock. Per lui, Mycroft non sarebbe mai stato nulla di diverso da un fratello molesto. E proprio per lui, Mycroft aveva fatto arredare la camera in fondo al corridoio, assecondando la folle speranza che il loro legame si potesse ancora aggiustare. Non era stata completamente fatica sprecata. C’era stato un periodo in cui Sherlock aveva vissuto realmente in quella stanza, un periodo della loro vita che nessuno dei due Holmes aveva piacere di ricordare. Ma alcune cose di Sherlock erano ancora lì. Non aveva portato con sé nemmeno i vestiti che Mycroft aveva fatto confezionare a posta per lui.
“Vado a prendere qualcosa dal tuo vecchio guardaroba,” disse il padrone di casa. “Così puoi cambiarti in dei vestiti della tua misura.” Lasciò la porta socchiusa, come se avesse paura che il fratello minore potesse scivolare e affogarsi nella vasca.
Sherlock non rispose. Si era chiuso dietro un silenzio scontento, conscio di non poter sfuggire alle grinfie del fratello maggiore.
Solo dopo essersi immerso nell’acqua calda, provò a darsi una calmata. Mycorft non era diverso da quello che era sempre stato e se era sopravvissuto per ventiquattro anni senza ucciderlo, poteva sopportare la sua presenza per qualche ora. La giornata con Liam gli aveva lasciato addosso tante emozioni positive e questo lo aiutava, in particolare su quell’ultima immagine di loro due, finiti nel fango, a ridere come matti.
La voce di Mycroft non gli permise di perdersi in quei pensieri per molto. “Sei hai bisogno di qualcosa, sono di qua, Sherly.”
Sherlock sbuffò e s’immerse fino al mento. “Qual è la cosa importante di cui mi devi parlare?” Lo domandò svogliatamente, tanto per scacciar la noia. In verità, credeva che importante lo fosse solo per suo fratello.
“Goditi il bagno,” rispose Mycroft, dalla stanza adiacente. “Abbiamo tutto il tempo.”
“Io volevo avere tutto il tempo con Liam, non con te!”
“Lo rivedrai tra circa quarantotto ore. Penso che tu possa sopportare la sua assenza per questo lasso di tempo.” Senza preavviso, Mycroft entrò nella sala da bagno.
Sherlock si spinse contro il bordo di marmo, fulminandolo con lo sguardo. “Ma che fai?”
“Non t’imbarazzare,” lo rassicurò il maggiore, ancora quel sorriso sadico fermo al proprio posto. “Mi ricordo ancora del tuo sederino rosa da bambino.”
Sherlock fu indeciso se annegarsi o annegarlo. La prima opzione non gli era di alcuna utilità, la seconda era illegale. “Che cosa vuoi?” Sibilò, minaccioso.
Le labbra di Mycroft disegnarono una linea retta. “Tra due notti, intendi sul serio ballare con William sotto gli occhi di tutta l’alta società di Londra?”
Sherlock sfoderò il suo sorriso da canaglia. “Conosci benissimo la risposta, fratello.”
“Sei consapevole che potresti danneggiare lui più di te stesso?”
“Non funzionerà, Mycroft,” disse Sherlock, emergendo quanto bastava per appoggiare le braccia sul bordo della vasca. “In quel vicolo, hai detto a Liam che sono in grado di difendermi da solo. Bene, ribatto dicendo che quando inviterò Liam, nessuno lo costringerà a dirmi di sì.”
Un’intuizione prese presto forma nella testa di Mycroft. “È una prova,” concluse.
“Il termine prova è così serio!” Obiettò Sherlock. “Preferisco definirlo un gioco.”
“Un gioco che potrebbe rendervi entrambi colpevoli di reato di sodomia. Ci hai pensato?”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Saremo mascherati, saremo ubriachi e saremo a casa di un presunto sodomita. Immagino che gli occhi di tutti non saranno su di noi, ma su George Patel.”
Mycroft fissò il fratello minore, stando attento a non mostrare alcuna sorpresa. “Hai fatto ricerche su George Patel?”
“Oh, fratello, so bene che non mi trascineresti mai a un ballo in maschera senza una buona ragione. Non sia mai che decida di dare fuoco alle tende per troppa noia.”
Suo malgrado, Mycroft rise. “Se rammento bene, la volta delle tende non era un’occasione formale, ma una cena di Natale.”
Sherlock decise di non indugiare sul ricordo. “Ho fatto un po’ di domande in giro,” raccontò. “Quasi tutti i miei vecchi colleghi di Oxford hanno dei fratelli e delle sorelle maggiori.”
“Parli con i tuoi ex compagni di Oxford?”
“No, Mycroft, li interrogo. È diverso. Una volta ridevano di me, ora sbracciano per scambiare due parole col famoso Detective di Baker Street. Il solito comportamento ipocrita dell’aristocrazia.”
“E che cosa hai scoperto dai tuoi contatti di Oxford?”
“Che circa quindici anni fa, quando George Patel era un adolescente, girava il pettegolezzo di una sua preferenza per i giovani nobili di sesso maschile. E pare che sia stato proprio il Conte Moriarty, il padre di Albert e Liam, a dare conferma alle voci, interrompendo di colpo i rapporti con i Patel.”
L’espressione di Mycroft tradì compiacimento. “Non pensare che tu mi abbia sorpreso. Non mi aspettavo nulla di meno da te.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Non fingere di adularmi. Immagino tu conosca già il resto della storia: George è stato allontanato da Londra ma è dovuto tornare quando il fratello minore è morto, dopo aver sperperato gran parte del patrimonio nel gioco d’azzardo.”
Mycroft annuì. “Mi hai ufficialmente risparmiato metà del lavoro.”
“E qui torniamo alla mia domanda iniziale.” Sherlock lo guardò dritto negli occhi. “Qual è la cosa importante di cui devi parlarmi?”
Il maggiore evitò la domanda. “Whisky o scotch?”
“Birra.”
“Dammi una risposta seria o non avrai che acqua.”
Sherlock sbuffò. “Whisky.”
“E whisky sia.” Mycroft si voltò e uscì dal bagno. “Esci da quella vasca e rivestiti, dobbiamo lavorare.”
“Io non lavoro per te!” Obiettò Sherlock.
Quando Mycroft tornò in camera, dieci minuti più tardi, trovò Sherlock appoggiato alla scrivania, gli occhi blu fissi sulle nove fotografie appese alla lavagna. Si era vestito ma i capelli ancora umidi stavano bagnando il colletto della camicia. Non gli sembrava importasse. “Quelle date si riferiscono al ritrovamento di un cadavere?”
“No.” Mycroft esaurì la distanza tra loro e porse al fratello uno dei due bicchieri di whisky. “Non abbiamo nessun cadavere. Solo scomparsi.”
Sherlock bevve un sorso senza disturbarsi a dire grazie. “Immagino che George Patel sia il nostro sospettato.”
“Elementare, Sherly. Vuoi che ti dica i dettagli?”
“Non mi serve. Il ballo in maschera a cui presenzieremo è il primo evento di gala organizzato dai Patel dopo la loro riprese economica, immagino che questi ragazzi siano da ringraziare per il miracolo. Se li ha truffati, come credo, non sono vivi.” Sherlock prese un altro sorso di whisky. “Sto cercando di capire perché dopo otto borghesi abbia deciso di rischiare con nobile.”
“Conosci Julian Evans? Ha un paio d’anni meno di te.”
“No, ma i nobili li riconosci da come si mettono in posa nelle fotografie. Cercano sempre d’imitare le espressioni dei ritratti d’epoca, quelli che vedono sulle pareti delle loro case per tutta la vita.”
“Ah, pensavo avessi intuito la sua estrazione sociale dai vestiti.”
“I vestiti ingannano,” disse Sherlock. “Sta nascendo una classe sociale d’impresari industriali che non vanta nessun titolo antico ma è ricca quanto- a volte di più - le famiglie blasonate della Gran Bretagna. Ma lasciamo perdere i miei ragionamenti, perché ti occupi di questo caso? Otto borghesi presumibilmente morti non mettono in pericolo il Governo.”
“Il Marchese Patel, il padre di George, ha servito nell’esercito. Inoltre, sono nobili sia il sospettato che l’ultima vittima ed entrambi rischiano di essere accusati di reato di sodomia. Serve discrezione, non è un caso per Scotland Yard.”
Alle parole reato di sodomia, Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Oddio, che pal-“ Si bloccò da solo. “Perché entrambi?” Domandò. “Pensavo che Julian Evans fosse una vittima.”
Mycroft prese un sorso del proprio whisky e appoggiò il bicchiere sulla scrivania. “Penso che sia il caso di raccontarti cosa facevamo io e il Conte Moriarty nell’East End, Sherly.” Gli parlò di Josh Finn e di quello che aveva raccontato loro riguardo a Julian Evans e al suo innamorato di nome George. Quando il più giovane rimase in silenzio, il Direttore si azzardò a esporgli la propria teoria.
Sherlock la respinse con una smorfia. “Come ti vengono in mente certe cose?”
Mycroft rise. “Albert ha rifiutato la storia degli amanti criminali quanto te.”
“Io non nego che George Patel e Julian Evans possano essere complici,” ribatté Sherlock.
“Quindi additi Julian Evans come colpevole?”
“È una situazione da cinquanta e cinquanta: Evans può essere complice o vittima. Alla mano, non abbiamo nessuna prova che possa svelare il suo ruolo con certezza.”
“Allora perché rifiuti la mia teoria con così tanto convinzione?”
“Perché ci metti di mezzo l’amore!” Esclamò Sherlock, finendo di bere il whisky. “Otto scomparsi e nessuno, prima di te, è riuscito a creare una correlazione. No, non è sorprendente perché Scotland Yard è limitata in modo vergognoso ma, usa la ragione, a George Patel è andata bene otto volte. Solo un idiota cambierebbe il proprio schema vincente per amore.”
Mycroft scrollò le spalle. “Per quel che ne so io, l’amore è solo un altro tipo di follia.”
Sherlock rise, schernendolo. “La follia è, senza dubbio, parte di questo mondo, Mycroft. Una delle sue forme più comuni è sicuramente la rabbia, ma mi rifiuto di pensare che un uomo nel pieno delle sue facoltà possa perdere la testa per amore!” Esclamò. “E George Patel era molto presente a se stesso mentre stroncava otto vite. Se solo sapessimo dove andare a cercare i cadaveri…”
“Abbiamo una pista,” confessò Mycroft.
Sherlock lo fissò. “Perché non me lo hai detto subito?”
“Perché sarà l’MI6 a chiudere questa indagine.”
“Mi dai un mistero e poi mi dici che non è affar mio?”
“Ti ho informato dei fatti perché non voglio che i miei agenti ti abbiano tra i piedi,” disse Mycroft, poi si fece improvvisamente serio. “E perché voglio che tu resti il più lontano possibile da George Patel.”
Peccato che Sherlock avesse deciso che quello che diceva non fosse più interessante. “C’è una cosa che mi disturba da quando sono davanti a questa lavagna.” Fece un paio di passi in avanti e premette l’indice al centro della prima data di scomparsa. “Questa non è la tua calligrafia.”
Mycroft decise di giocare. “Può darsi…” Disse, criptico.
Sherlock non sapeva se essere più sorpreso o confuso. “Svolgi indagini in compagnia della tua amante?”
“E perché dovrebbe essere la scrittura della mia amante, di grazia?”
“Per favore, Mycroft, chi altro porteresti in camera da letto? Per il lavoro hai un ufficio!” Sherlock era stato privato dell’onore di smascherare George Patel, non gli restava che vendicarsi facendo qualche supposizione sulla donna di suo fratello. Quella per cui - non se lo sarebbe mai dimenticato - Mycroft lo aveva lasciato per strada. “Prima di tutto, è una donna di classe. Ha la calligrafia elegante. Prevedibile: non saresti mai andato con una borghese qualunque.”
Mycroft incrociò le braccia contro il petto. “Non sembra tu abbia bisogno della mia conferma. Che altro intuisci?”
“È una delle tue spie? Dopo Irene Adler, ho rivalutato molte cose e-“
“Non rispondo a domande dirette. Indaga e scopri.”
Sherlock si morse il labbro inferiore, studiando con attenzione il modo in cui erano scritti numeri e lettere. “A giudicare dal modo in cui ha tracciato le linee dell’8 e le lettere maiuscole, deduco che-“ Si bloccò, mentre la verità lo investiva come un fiume in piena. Quando si voltò verso suo fratello, era talmente scioccato che Mycroft gli scoppiò a ridere in faccia.
“Mi stai prendendo in giro?” Sherlock avvampò.
“Dal modo in cui sei arrossito, penso che tu sappia risponderti da solo.” Il Direttore provò a darsi un contegno. “Avanti, Sherly, lo sai…”
“Io non so un bel niente!” Il calore alle guance non accennava a passare e Sherlock maledisse se stesso.
Mycroft fece una smorfia poco convinta. “Diciamo che non vorresti saperlo ma non puoi non accorgertene. Per questo evito sempre di farti visita dopo aver passato la notte con qualcuno.”
Sherlock assottigliò gli occhi. “Come mai non ti stai nascondendo da me anche questa volta?” Indagò. “Anzi, volevi che capissi che il tuo amante è un lui. Che cosa stai cercando di dirmi?”
Mycroft scrollò le spalle. “Secondo te?” L’aria di scherno che portava sempre con sé era sparita, lasciando il posto a qualcosa che il più giovane non riuscì a identificare.
Sherlock aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Sei innamorato, Mycroft?”
Il padrone di casa rise, più per nervosismo che per ilarità. “Dai, siediti vicino al fuoco, così ti si asciugano i capelli e possiamo andare a provare il tuo frac.”
Sherlock superò la scrivania e si accomodò a gambe incrociate sul tappeto, di fronte al caminetto. “Lo conosco?”
“Ti ho detto che non rispondo a domande dirette.”
“Hai intenzione di presentarmelo?”
“Stai diventando petulante.”
“Conosci troppa gente perché io possa fare delle ipotesi!” Si lamentò Sherlock.
Mycroft recuperò il proprio bicchiere dalla scrivania e si sedette sul divano, di fronte al fratello. “L’amara verità è che, come al solito, ti distrai nei momenti chiave e perdi i dettagli.”
“Giuro che ti tiro una scarpa!”
“Sei qui da quasi un’ora e mi minaccia solo adesso. Abbiamo un nuovo record.” Mycroft prese un sorso di whisky, tanto per preparare se stesso alla domanda che stava per porre. “E tu lo sei?”
“Cosa?”
“Sei innamorato?”
Proprio come previsto, Sherlock seppe difendersi alla grande. “Non rispondo a domande dirette, fratello.”
***
L’atmosfera era indubbiamente tesa.
I tre fratelli Moriarty erano riusciti nello studio del maggiore, ognuno seduto nel proprio angolo con un drink in mano. Non si erano messi d’accordo. Finito di cenare, William era andato a cercare rifugio da Albert, conscio di dovergli dare una spiegazione per quanto accaduto quel pomeriggio. Una volta aperta la porta, aveva già trovato Louis lì.
Albert non sarebbe rimasto tutta la sera, stava solo bevendo qualcosa in attesa che una carrozza del Governo lo portasse all’MI6. Al piano di sotto, sapevano che tutti gli altri si erano radunati in salotto e che avrebbero notato la loro assenza. Allo stesso modo, erano certi che nessuno sarebbe stato tanto impavido da salire a disturbarli. Anche se non si poteva escludere che Bond convincesse Moran a sacrificarsi per la causa salendo a dare un’occhiata.
William aveva la netta sensazione che se quella porta si fosse aperta, qualcosa sarebbe esploso. Si era accomodato sulla poltrona vicino al caminetto, la testa appoggiata al pugno chiuso e gli occhi scarlatti fissi sulle fiamme - erano l’unica cosa di cui poteva vedere il colore. Albert era seduto dietro la scrivania e Louis se ne stava in piedi, dalla parte opposta della stanza.
O meglio, era lì che William lo aveva visto l’ultima volta che aveva sollevato lo sguardo. Per questo quando qualcuno gli tolse il bicchiere vuoto di mano, trasalì.
Louis lo guardò dall’alto in basso. “Stai bene?”
William annuì. “Non ti ho sentito avvicinare.”
Albert sollevò lo sguardo da qualunque documento stesse leggendo. “Hai la testa tra le nuvole, Will?” Non lo chiese con cattiveria - non lo avrebbe mai fatto, non Albert - ma il più giovane intuì perfettamente che voleva discutere degli eventi della giornata, prima di andarsene.
“Mi spiace aver interrotto le tue indagini, fratello,” disse William
Albert scosse la testa, con espressione accondiscendente. “Avevamo già fatto tutto quello che dovevamo.”
Louis tornò sui propri passi, fermandosi a metà strada per sedersi sul divano. Una volta appoggiato il bicchiere vuoto sul basso tavolino di fronte lui, parlò: “Holmes come ha commentato il luogo in cui è avvenuto il vostro incontro?”
“Tu, Louis, lo sapevi?” Albert fu sorpreso di sapere che il minore era stato informato dei fatti in anticipo e lui no.
Prima che si creasse un malinteso, William intervenne. “È venuto fuori il discorso per caso-“
“E io non ero d’accordo.” Louis si sentì in dovere di sottolinearlo.
“-in questi ultimi giorni, io e te eravamo occupati a rivedere i dettagli dell’operazione, Albert. Non ho pensato di-“
“Will, non è successo niente,” lo rassicurò Albert. "Sono felice di sapere che siete tornati a parlare.”
“Holmes non ha detto niente?” Insistette Louis. “In che luogo lo hai portato alla fine?”
William regalò ai fratelli il sorriso più dolce del suo repertorio, nella speranza che lo avrebbero perdonato. “Nella biblioteca abbandonata in cui vivevamo io e te.”
Louis lo fissò, ammutolito. “Va bene.”
Albert simulò un paio di colpi di tosse per non ridere. “È difficile credere nella tua sincerità, Louis.”
Il minore fu eccezionale nel mantenere un’espressione imperturbabile. “Fin tanto che non ha provato a toccarlo in modo sconveniente, posso anche ingoiare il boccone amaro.”
Il viso di William dovette tradire qualcosa - o forse no, forse era solo che Louis lo conosceva da tutta la vita - perché il fratello minore lo guardò attentamente e aggiunse: “ti ha toccato.” Non era una domanda.
Albert si fece improvvisamente serio.
“Non è successo nulla di sconveniente,” disse William.
“La sola presenza di Sherlock Holmes è sconveniente,” ribatté Louis. “In che modo si è permesso di toccarti?”
“Capita di toccarsi mentre si hanno lunghi dialoghi,” buttò lì William.
Non funzionò.
“Quando parlo con te, non ti tocco.” Louis era già pronto a private il Detective di Baker Street di tutti gli arti.
“Tu sei una persona composta. Sherlock è molto più-“
“Volgare, cafone, rozzo-“
William fece finta di non sentire gli ultimi due epiteti. In cuor suo, preferiva di gran lunga che Louis offendesse Sherlock di fronte a lui, piuttosto che dover fronteggiare un altro muro di silenzio.
“Perché hai deciso di portarlo all’East End?” Domandò Albert, sinceramente curioso.
William tornò a guardare le fiamme scoppiettanti nel caminetto. “Lo scopo del nostro gioco è sorprenderci a vicenda,” spiegò William. “Sherlock non fa che spuntare dal nulla e prendermi alla sprovvista. Sto pareggiando i conti.
“E ci stai riuscendo?” Domandò Louis.
“Sì, credo di sì.” William non poteva dire loro che per ogni volta che riusciva a far rimanere Sherlock senza parole, il Detective diceva qualcosa in grado di destabilizzarlo completamente.
“Io comincio seriamente a pensare che lo hai idealizzato troppo,” disse Louis. “Non fraintendermi, fratello, mi fido di te e delle tue capacità. Ciò non toglie che stai giocando col rischio in persona. Holmes è veramente così bravo?”
“Mycroft sapeva che lo stavamo usando ancor prima del caso Adler,” disse Albert. “Non mi sorprenderei se Sherlock sapesse qualcosa ma non volesse porre fine a tutto.”
William era interessato a sapere di più. “Spiegati meglio, Albert.”
“Parlo in virtù di quello che Mycroft dice a me: posso sbagliarmi, ma non credo che quella volta sul treno ti abbia accusato per gioco.”
Louis non pareva convinto. “Quella volta, Holmes era decisamente poco lucido. Delirava.”
“No.” William scosse la testa. “Lui è convinto che il Signore del Crimine sia io. Me lo ripete di continuo.”
“Allora è un idiota.”
Questa volta, Albert rise apertamente. “Louis…”
“Che cosa crede di fare dimostrando tutto questo interesse per nostro fratello?” Per qualche motivo, Louis non riusciva ad afferrare qualcosa che per il maggiore era evidente. “Se crede davvero che William sia la sua nemesi, il comportamento che ha nei suoi confronti non ha senso.”
William non poteva negare che avesse ragione. “Penso che Sherlock si sia solo fissato su un’idea,” disse. “Non ha prove contro di noi, ma riconosce sia in me che nel Signore del Crimine un suo pari. Credo che ritenga impossibile che esistano ben due persone in grado di entrargli in testa. Per tanto, non può evitare di fare un’associazione.”
Louis si diede un minuto per riflettere. “Continua a non avere senso.”
La conversazione s’interruppe quando bussarono.
“Avanti,” disse Albert.
Fred aprì la porta ma non fece neanche un passo all’interno della stanza. “È arrivata una carrozza del Governo.”
Il Conte si alzò dalla poltrona. “Io devo andare,” disse. “Ma voi restate pure quanto volete.” Se ne andò, insieme a Fred, con passo spedito.
Louis guardò la porta richiudersi, poi sospirò. “Nemmeno questo ha senso.”
William scosse la testa. “No, quella di Mycroft e nostro fratello è la situazione più semplice del mondo,” disse, alzandosi in piedi per raggiungere il minore sul divano. “Due persone sono attratte l’una dall’altra sia fisicamente che mentalmente, s’incontrano a metà strada e, inevitabilmente, si toccano. È una somma: uno più uno, uguale due.”
Louis appoggiò la nuca allo schienale del divano. “Attraverso la matematica si possono spiegare anche i rapporti interpersonali?”
“No, non per davvero,” rispose William. “Le persone non seguono le regole della logica. Al contrario, i sentimenti sono quanto di più irragionevole esista. Le variabili sono infinite. Per catturare tante sfumature, la letteratura è senz’altro più adatta dell’algebra.” Ripensò ai passi di Romeo e Giulietta recitati con la voce di Sherlock. Quanto gli sarebbe piaciuto ascoltare tutta la bibliografia di Shakespeare letta da lui.
Louis gli fece una domanda a mezza bocca.
“Che cosa hai detto?” Domandò William.
“Tu e il Detective che opera letterarie siete?” Domandò il più giovane, cercando in tutti i modi di nascondere l’inclinazione velenosa della propria voce, ma il fratello la percepì ugualmente.
Ingenuamente, Sherlock li aveva associati proprio ai tragici amanti di Verona.
Solo il tuo nome mi è nemico.
William era certo che il nome di Sherlock Holmes sarebbe diventato immortale. E se mai qualcuno si sarebbe ricordato di Moriarty, sarebbe stato solo in virtù delle storie del Detective di Baker Street. C’era un romanticismo amaro in quella prospettiva: il mondo li avrebbe sempre associati l’uno all’altro, ma in modo distorto.
Tra le pagine di un libro avrebbero sfidato le regole del tempo e sarebbero divenuti eterni e mai nessuno avrebbe rivelato il mistero nascosto dietro quelle storie distorte.
Lui e Sherlock non erano destinati a divenire amanti, ma la verità nascosta dietro al titolo di nemesi non sarebbe mai stata scritta da nessuna parte. Apparteneva a loro e a loro soltanto. In questo erano un po’ simili a Romeo e Giulietta.
Ed era la miglior promessa d’immortalità in cui William James Moriarty potesse sperare. “Immagino che questo dovremmo chiederlo a Conan Doyle,” rispose.
M4: qualcosa all’improvviso
Albert fu il primo a svegliarsi, destato da pensieri che lo rincorrevano dalla sera precedente. Mycroft gli dormiva accanto, il braccio proteso nella sua direzione. Il Conte intrecciò le loro dita, stando attento a non disturbare il suo riposo. Non riusciva a smettere di guardarlo, di toccarlo, di memorizzare tutti i dettagli che riusciva a notare. L’ultima volta che Albert era rimasto nel letto di un amante tanto da svegliarsi la mattina successiva era ancora minorenne.
Si torna sempre da chi ci ha fatti stare bene.
Fare un confronto tra Sebastian e Mycroft era difficile, forse stupido. Albert li aveva conosciuti in età della vita differenti, proprio come lo erano loro. I capelli neri, la laurea a Oxford e la carriera militare erano gli unici tre punti in comune che avevano e avrebbero potuto riguardare centinaia di altri giovani uomini.
Albert non avrebbe confessato i motivi che lo avevano spinto verso Moran nemmeno in punto di morte. Parlare di Mycroft era più semplice, tanto che non aveva avuto difficoltà a uscire allo scoperto con William.
Ma entrambe le storie erano macchiate da un’oscurità più nera della notte.
La sostanziale differenza era che, come lui, Moran era destinato a essere divorato da quell’abisso. Mycroft no.
Albert lo sapeva, non si era mai concesso il lusso d’illudersi che ci fosse una via d’uscita. Mycroft non era una distrazione - non si sarebbe mai permesso di togliergli valore in quel modo - ma una concessione che faceva a se stesso.
Non poteva durare in eterno ma, anche se il loro tempo era contato, non voleva rinunciarvi.
In questo, Albert si sentiva molto vicino a William. Quando Moran aveva detto che non era da lui sopportare che qualcuno si avvicinasse a suo fratello senza permesso, aveva avuto le sue ragioni. Ma Albert non sarebbe mai andato contro i desideri di William, tantomeno ora che li sentiva così simili ai propri.
La strada che avevano scelto era una lenta discesa verso l’inferno.
I fratelli Holmes non potevano fare altro che rimandare l’inevitabile.
Mycroft gli aveva assicurato che, mentre il piano Moriarty andava avanti, lui e Sherlock non si sarebbero limitati a rispettare i ruoli che erano stati imposti loro. Albert non aveva idea di come una simile promessa potesse concretizzarsi e non possedeva abbastanza coraggio per chiederlo. Era certo che se avesse mostrato a Mycroft quanto aveva paura, qualcosa si sarebbe rotto in maniera irreparabile.
E se quelli dovevano essere i suoi ultimi respiri, Albert voleva viverli fino in fondo. Voleva che quel calore lo ustionasse e gli lasciasse addosso segni tanto profondi d’accompagnarlo nella sua condanna. Era crudele e lo sapeva.
Era complicato intuire i desideri di William, ma Albert era certo che non stesse prendendo da Sherlock tutto quello che il Detective era disposto a dargli. Non lo faceva perché sapeva che, alla fine, gli avrebbe fatto solo del male.
William era gentile. Albert no.
No, il Conte Moriarty era egoista e codardo. Mycroft gli aveva offerto qualcosa che non aveva mai osato volere per se stesso e non aveva esitato a prendersela. Nonostante tutto quello che aveva tolto nel corso della sua giovane vita, Albert si era sentito in diritto di poter prendere ancora.
E a pagare il prezzo più alto sarebbe stato Mycroft. O forse no.
Forse Albert stava esagerando tutto. In fin dei conti, non c’era nulla che potesse raccontargli quello che il Direttore provava per lui. Non nei dettagli. La passione e la sintonia erano innegabili. Serviva molto meno per essere semplici amanti ma non bastava per rappresentare qualcos'altro.
Albert non era un ragazzino con una cotta, non aveva bisogno di etichette e definizioni. Se avesse interrogato se stesso, non sarebbe riuscito a spiegare a parole l’effetto che Mycroft aveva su di lui. Non sarebbe riuscito a dargli un ruolo nella propria vita, anche se sapeva che non era solo quello che William aveva scelto.
E Mycroft che versione aveva da dare della loro storia?
Albert non lo sapeva e non era certo di volersi liberare dei dubbi. Il Direttore era un uomo razionale e pragmatico e quando aveva allungato la mano nella sua direzione, era perfettamente consapevole di chi stava invitando nel suo letto.
Ma Mycroft non ti ha invitato nel suo letto, gli ricordò una voce nella sua testa. Mycroft ti ha invitato solo a farti più vicino. Hai scelto tu di baciarlo. Hai scelto tu di farti amare. Hai scelto tu di tornare.
Albert sollevò la mano libera e affondò le dita tra quei capelli corvini. Ricordava di aver compiuto gesti simili anche con Moran, quasi un decennio prima. Eppure, con Mycroft era diverso. Col Colonnello, Albert aveva accettato l’inesistenza di un futuro con amara rassegnazione. Quando era finita, non aveva lottato, non si era voltato a cercare gli occhi grigi di Sebastian. Al contrario, se ne era andato lui per primo arruolandosi, partendo per l’India. E Moran lo aveva lasciato andare.
Quando il momento sarebbe arrivato e il Problema Finale si sarebbe abbattuto su tutti loro, Mycroft che cosa avrebbe fatto?
Ancora una volta, Albert non conosceva la risposta. C’erano troppe cose in gioco e i sentimenti personali non erano altro che dettagli sorvolabili in confronto al grande schema che tutti stavano seguendo. Eppure c’erano e facevano stare bene, facevano stare male. Non erano importanti ai fini della trama ma erano onnipresenti.
E Albert se ne stava immobile a osservare l’uomo che gli dormiva accanto, come se non fosse un complottista e un assassino. Non voleva pensare a cosa provava o a come pochi giorni erano bastati a mescolare tutti i pezzi sulla scacchiera.
Era certo che William avrebbe rimesso tutto in ordine.
Il momento di procedere non era lontano.
Furono le carezze di Albert a destare Mycroft. Si scambiarono un sorriso, dandosi il buongiorno in silenzio.
“Vieni qui.” Il padrone di casa invitò il proprio ospite a farsi più vicino e questi non si fece pregare troppo. “Da quanto tempo sei sveglio?”
“Da un po’…” Rispose Albert, accomodando la testa contro il petto dell’amante.
Mycroft ricambiò le carezze tra i capelli. “A cosa stavi pensando?”
“A come fai a dormire così serenamente accanto a me.” Non era una bugia, era solo una parte della verità.
Il corpo del Direttore vibrò con una risata. “Mi stai consigliando di tenere la pistola sotto il cuscino?”
Albert sollevò la testa per poterlo guardare negli occhi. “Onestamente, mi sorprende che tu viva in una qualunque residenza di Mayfair, con una domestica e una semplice porta a difenderti dal resto del mondo.”
Mycroft scostò una ciocca di capelli castani da quegli occhi verdi. “Per il mondo sono semplicemente un Sir che lavora al Ministero dell’Esercito.”
Albert era serio. “La prima volta che sono venuto da te, l’ho fatto seguendo delle comuni voci di corridoio. Non ho dovuto indagare, mi è bastato seguire i pettegolezzi.”
“Nessun altro si è presentato nel mio ufficio,” ribatté Mycroft. “Solo tu.”
“Non è un merito, solo fortuna.”
“Albert, non fare il finto modesto. Non ti ho dato l’MI6 perché hai gli occhi più belli di tutto il Commonwealth Britannico.”
Al Conte sfuggì un sorriso. “No, mi hai offerto il ruolo di M perché ti ho incuriosito, tanto da volermi conoscere.”
Mycroft tracciò il profilo del suo naso con la punta dell’indice. “E adesso ti conosco abbastanza per sapere che non sei qui solo per me.”
Albert si avvicinò tanto da soffiare le sue parole successiva sulla labbra dell’amante. “Non fare il finto modesto, Mycroft.”
Risero insieme e si baciarono.
“Ma temo che tu abbia ragione,” aggiunse il Conte, alzandosi dal letto. Prese in prestito la vestaglia da notte abbandonata sullo schienale del divano e la indossò come se fosse sua. “Ho mandato i miei uomini a fare qualche domanda in giro, nell’East End. Avevo un dubbio e volevo indagare.” Si avvicinò allo specchio dietro la scrivania e lo girò per avere sotto gli occhi la lavagna e le fotografie delle nove vittime. “Con i primi otto non ho avuto fortuna, ma…” Sollevò la mano e appoggiò l’indice sull’immagine del giovane Julian Evans. “Lo hanno riconosciuto con certezza in tre locali diversi. Ingenuamente, il ragazzo andava in giro vestito come un giovane del suo ceto sociale ed era impossibile non notarlo.”
Mycroft si alzò a sua volta, infilando svogliatamente i pantaloni. “Era in compagnia di un uomo che corrisponde alla descrizione di Patel?”
“È questo il punto,” proseguì Albert. “Lo hanno visto in compagnia di tre ragazzi diversi, uno per ogni locale. E abbiamo l’assoluta certezza che nessuno di loro era George Patel. Sono tre ragazzi del quartiere, li hanno chiamati con nome e cognome.”
Mycroft gli arrivò accanto, passandogli un braccio dietro la schiena solo per poterlo toccare. “E cosa ci faceva Julian Evans con dei ragazzi dell’East End?”
Albert inarcò le sopracciglia. “Forse hai bisogno di cinque minuti in più per svegliarti, Mycroft.”
L’intuizione raggiunse il Direttore subito dopo. “Oh…” Mormorò, poi cominciò a elaborare: “è possibile che Patel ed Evans si siano incontrati proprio dove i figli di una famiglia nobile non vorrebbero mai essere visti.”
Albert annuì. “L’ho pensato anche io. Non credo che George Patel pagasse i ragazzi di strada per togliersi uno sfizio.”
Mycroft lo fissò. “Come fai a esserne così sicuro?”
Albert esitò, poi si umettò le labbra. “C’è una cosa che non ti ho raccontato,” confessò, ma si rese conto che non gli pesava davvero parlarne. Era solo che non riusciva a smettere di pensare al bambino di dodici anni che era stato. “Durante quella famosa estate che io e mio padre passammo dai Patel, in Scozia, successe una cosa con George.”
Mycroft s’irrigidì e smise di accarezzargli il fianco. “Albert, stai per dirmi che-“
“No.” Il Conte scosse la testa con un sorriso rassicurante. “Avevo un fucile,” aggiunse. “I nostri padri ci avevano lasciato andare a caccia da soli in un bosco vicino al castello. Avevano detto che tra ragazzi ci saremmo divertiti di più. Io non mi divertii affatto. Non capii immediatamente che George aveva tentato di divertirsi con me.”
“Che cosa ti ha fatto, Albert?”
“Non quello che voleva. Si è avvicinato per annusarmi, io stavo puntando a un vecchio cervo. Quando ho sentito il suo fiato sul collo, ho premuto il grilletto e il contraccolpo l’ha colpito sul naso. Fui abbastanza ingenuo da raccontarlo a mio padre e toccò a lui capire per me.”
“Ti ha punito?”
Albert scosse la testa. “Ora ho il dubbio che, al tempo, George Patel avesse già dato vita a qualche pettegolezzo scabroso, perché mio padre mi credette subito. Non mi spiegò niente, si limitò a porre fine ai suoi rapporti con i Patel.”
Mycroft lo stava guardando. “Adesso capisco il tuo stupore nel venir a sapere che la passione di George Patel è la pesca.”
“George Patel è un predatore. Lo è sempre stato. La pesca è solo una scusa.” Albert guardò le nove fotografie appese sulla lavagna. “La sola differenza tra me e loro è il tempismo e la fortuna.”
Mycroft lo tirò verso di sé, posando un bacio tra i suoi capelli. “Sei sicuro di voler prendere parte a questa operazione?”
Albert si allontanò quanto bastava per poterlo guardare. “A me non è successo nulla, Mycroft,” disse. “E se mio padre mi avesse protetto davvero, non sarebbe accaduto a nessun altro. Restando zitto è divenuto complice di tutto questo, anche di quello che sarebbe potuto capitare a me.”
“Vuoi andare all’East End,” intuì Mycroft.
“Voglio trovare i tre ragazzi con cui Julian Evans si è intrattenuto,” disse Albert. “Almeno uno di loro, per avere delle conferme. Sono persuaso a credere che questi nove giovani frequentassero tutti la stessa zona. Pagavano per il sesso. George Patel vuole che i suoi amanti abbiano un buon odore e non poteva accontentarsi dei ragazzi dei bassifondi.”
“Ma i giovani delle strade erano l’esca per capire quali bravi ragazzi adescare,” proseguì Mycroft. “I primi otto sono tutti borghesi. È stato cauto, sapeva che non avrebbero mosso nessun polverone con le giuste precauzioni. Dal punto di vista logico, mettere le mani su Julian Evans è stato molto stupido.”
“È un predatore,” ripeté Albert. “Non ha nessuno spirito di autoconservazione. Vuole sempre di più e se lo prende. Dopo otto volte, i giovani della borghesia hanno cominciato ad annoiarlo. Voleva aumentare la posta in gioco e ha intuito i gusti del giovane Evans dalle compagnie per cui era disposto a pagare.”
“E ciò che succede nell’East End rimane nell’East End,” concluse Mycroft. “Per quanto riguarda il lato economico della questione, George Patel può averli sia sedotti e convinti ad accontentarlo o li ha ricattati.”
“Forse entrambe le cose, a seconda della persona che aveva davanti.” Rivolse un sorriso a Mycroft. “Temo che dobbiamo rivestirci, Sir Holmes. Questa indagine non andrà avanti da sola.”
***
Sherlock non aveva detto a nessuno dove era diretto.
Aveva decifrato il messaggio datogli dalla signorina Hudson quasi all’istante e si era limitato a dare sia a lei che a John un’informazione vaga: “Dopodomani esco, non riceverò clienti.”
In realtà, nell’ultima settimana non aveva accettato nessun nuovo caso. Era troppo preso da Liam, dal ballo dei Patel e dall’incessante vorticale dei propri pensieri. In mezzo a tutti c’era, come sempre, il Signore del Crimine. Nemmeno Shakespeare era stata una buona distrazione, anche se non si era mai ritenuto un grande appassionato di letteratura. La conosceva, certo, ma non avrebbe mai occupato spazio nella sua testa per citare i grandi classici a memoria, aveva altro a cui pensare.
Durante la notte che avevano passato insieme non ne avevano parlato, ma Sherlock era dell’idea che Liam avesse una cultura decisamente più vasta della propria. Non era una questione di nobiltà o meno. Sherlock aveva avuto la possibilità di erudirsi, ma aveva scelto una conoscenza settoriale. Liam era un matematico ma il Detective era certo che, come Mycroft, non avesse alcun problema a recitare Shakespeare a memoria.
Con quelle riflessioni ancora vive nella sua mente, non poté che scoppiare a ridere quando si rese conto che l’indirizzo dell’appuntamento corrispondeva a una vecchia biblioteca dismessa nell’East End.
“Non ci posso credere!” Esclamò, attirando anche l’attenzione di alcuni passanti. A differenza dei quartieri alti, c’era un gran via vai per quelle strade. La gente si muoveva a piedi e spesso andava di fretta. Mentre Sherlock attraversava la strada, per poco non fu investito da una combriccola di mocciosi in fuga da chissà cosa. Dovevano aver rubato qualcosa - forse la loro cena di quella sera. Al Detective non interessava: dal suo punto di vista rubare un pezzo di pane per sopravvivere a stento si poteva definire un crimine e lì di povertà ce n'era parecchia.
La biblioteca non era molto lontana dal quartiere di Whitechapel, teatro degli efferati omicidi di Jack lo Squartatore. Sherlock non si orientava molto bene in quella zona ma era certo che ci sarebbe potuto arrivare comodamente a piedi.
A quel punto, mentre con le mani in tasca ed il naso all’insù studiava l’edificio abbandonato, era impossibile non porsi una domanda: “ma Liam cosa ha a che fare con un posto come questo?”
Il fratello di un Conte di certo non aveva giocato per quelle strade, rincorrendo una palla di stracci. Una parte di Sherlock dubitava persino che un nobile riuscisse a comprendere il dialetto che si parlava in quelle zone, almeno non del tutto. Eppure, Liam gli aveva dato proprio quell'indirizzo a cui presentarsi. Le mura esterne erano attraversate da crepe più o meno profonde. L’intero edificio di due piani sembrava reggersi per puro miracolo. Le finestre erano state bloccate da travi di legno, perlopiù marce. Di certo, la biblioteca doveva versare in quello stato da diversi anni.
Incuriosito fino all’eccesso, Sherlock si avvicinò alla porta d’ingresso e si accorse di un passaggio in basso a destra. Dovette praticamente mettersi in ginocchio per passare sotto le travi e arrivare dall’altra parte. Camminò a carponi per un paio di metri, lamentandosi della polvere che gli avrebbe sporcato i vestiti - chi voleva sentirla la signorina Hudson? - ma quando arrivò nell’ingresso e poté, finalmente, alzarsi in piedi, pensò che non fosse stato così difficile.
“Bene,” disse tra sé e sé. “E adesso che si fa?”
L'interno era illuminato solo dai raggi di sole che scivolavano attraverso le travi e Sherlock dovette aspettare un po’ per abituare gli occhi a quell’atmosfera. Quando riuscì a vedere bene di fronte a sé, notò qualcosa di strano sopra il bancone della reception. Lì, in mezzo a una lampada a olio rotta e altri libri resi grigi dalla polvere, vi era un volumetto un po’ troppo recente per appartenere a quel luogo: Uno studio in rosso di Conan Doyle.
Sherlock sorrise. “Vuoi giocare, Liam?” Si sentiva terribilmente stimolato da una cosa così semplice. “Allora giochiamo.” Aprì il volumetto e trovò un biglietto incastrato tra la copertina e la prima pagina.
Catch me if you can, Mr Holmes, vi era scritto sopra con la perfetta calligrafia di Liam.
Sherlock dovette mordersi il labbro inferiore per darsi un contegno. Aveva voglia di ridere, di saltellare tra quegli scaffali dimentica fino a che non avrebbe trovato chi cercava. “Senza indizi è un po’ difficile, Liam!” Disse ad alta voce, certo che l’altro lo potesse sentire forte e chiaro. Gli occhi blu presero a esaminare la scena: era impossibile che il giovane Professore non gli avesse lasciato la pista. Si voltò e si accorse che i suoi passi aveva lasciato delle impronte sul vecchio pavimento impolverato. “Oh!” Esclamò, muovendosi con cautela per superare il bancone della reception e li vide, i segni lasciati dal passaggio di Liam.
Sherlock sollevò i pugni vittorioso ma non esclamò niente. Le impronte lo portavano al piano di sopra. Cercò di salire facendo il meno rumore possibile, tanto per sorprendere Liam, ma quella vecchia rampa lo tradì al terzo gradino. Imprecò, andò avanti. Al settimo, il legno marcio non resse il suo peso e si spezzò.
“Maledizione!” Imprecò Sherlock, sorpreso di non sentire nessun dolore particolare all’altezza di piede e caviglia. Forse se la sarebbe cavata con niente.
“Ti sei fatto male?” Domandò una voce che conosceva bene.
Un sorriso comparve sulle labbra di Sherlock prima ancora che sollevasse il viso, ma ebbe vita breve. Per i primi dieci secondi, non riconobbe il ragazzo che era comparso al piano di sopra e che lo guardava preoccupato.
Sherlock sbatté le palpebre un paio di volte. “Liam?”
L’altro fece per avvicinarsi. “Ti do una mano.”
“No, no, resta lì!” Lo rassicurò Sherlock, sollevando il piede incriminato e proseguendo su per la scala. “Non mi sono fatto niente.” Arrivato a destinazione, prese un gran respiro e tornò a sorridere. “Liam!” Chiamò solo per il puro gusto di pronunciare il suo nome. “Ma sei davvero tu?” Stentava a crederlo.
Sherlock sapeva che il fine ultimo di quell’appuntamento era sorprenderlo, ma era arrivato da meno di dieci minuti e Liam lo aveva già lasciato senza parole. Del giovane nobile che aveva conosciuto erano rimasti solo i lineamenti perfettamente disegnati, ma il vestiario si addiceva al contesto. Forse la stoffa era troppo pulita e troppo poco lisa per appartenere a un ragazzo che viveva con mezzi di fortuna, ma nessuno poteva davvero notarlo. Solo il Detective era attento a simili dettagli.
Per il resto, l’illusione funzionava.
“Sembri un ragazzino,” commentò Sherlock. Era vero: i completi formali dell’alta società erano capaci di trasformare i fanciulli in quarantenni.
“Lo prendo come un complimento,” ribatté Liam. Sorrideva.
“Ma…” Sherlock indicò la biblioteca della mano con un gesto della mano. “Come conosci un posto come questo?”
“Ogni ragazzo di strada ha i suoi segreti,” rispose Liam.
“Oh, giochiamo a facciamo finta!”
“Più o meno.” Il giovane nobile si voltò, invitandolo a seguirlo con un gesto della mano. “Vieni…”
Sherlock non aveva bisogno di farsi pregare per accettare. Liam lo condusse tra due scaffali non meno impolverati di tutti gli altri, ma vi erano poste meno assi sulla finestra tra di loro ed entrava più luce. Sherlock ne fu felice: non si sarebbe accontentato d’indovinare le espressioni di Liam nella penombra.
“Sul serio, che stiamo facendo?” Domandò il Detective.
“Vieni qui, siediti.” Liam si accomodò sul pavimento a gambe incrociate, come se non fosse più che lurido. “Che hai, Sherlock?”
Al Detective venne il dubbio che gli fosse comparsa sul viso un’espressione scandalizzata. “Ci accomodiamo per terra?”
Liam esitò, incerto. “È un problema?” Suonava costernato.
“No, no, no!” Sherlock si affrettò a raggiungerlo, prendendo posto di fronte a lui. “È che…” Sollevò lo sguardo sui vecchi libri, poi lo spostò sulla finestra. Alla fine, in assenza di parole efficaci, sbuffò e batté le mani sulle ginocchia. “Non so cosa dire, va bene? Hai vinto senza nemmeno provarci!”
Liam rise in modo contenuto. “Ma il mio fine non è mai stato vincere.”
“Bugiardo.”
“Volevo sorprenderti e ti ho sorpreso, ma questo non significa che ti lascerò libero di andare a casa così presto.”
Sì, Sherlock rischiava davvero di mettersi a saltellare come un idiota per il troppo entusiasmo. “E chi ci vuole tornare a casa? Nemmeno ho detto dove sono!”
L’espressione di Liam si fece eloquente. “Sherlock…”
“Cosa? Tu non conosci John!”
“Un giorno mi piacerebbe conoscerlo.”
“E, un giorno, sarò felice di presentartelo.” L’idea di Liam e John insieme creava in Sherlock delle emozioni contrastanti: da una parte, credeva che vedere il giovane Moriarty e il suo socio insieme gli avrebbe dato un confortevole senso di completezza; dall’altra, finché Liam non metteva piede a Baker Street, era una cosa solo sua. “Tuttavia,” aggiunse il Detective, “se avesse saputo che venivo qui, nell’East End, prima avrebbe cercato di fermarmi. Non riuscendoci, avrebbe chiamato Mycroft e mio fratello avrebbe sguinzagliato l’intera Scotland Yard qui, nei bassifondi!”
“Sembra che tu abbia molte persone che si preoccupano per te,” disse Liam. “È una bella cosa.”
Sherlock incrociò le braccia contro il petto e alzò gli occhi al cielo. “Tutti piantagrane!” Poi se ne pentì. “Non è vero…” Ritrattò con un sospiro. Non voleva spendere il pomeriggio a parlare a Liam della propria solitudine, della sua incapacità a socializzare e di come John fosse una fortunata eccezione nella sua incapacità a farsi degli amici. Se lo avesse fatto, avrebbe anche dovuto dire qualcosa sulla sua famiglia, la sua dipendenza da sostanze chimiche e altre cose spiacevoli. Quest’ultima, Liam l’aveva intuita da solo sulla Noathic ma era stato tanto gentile da non tirare più fuori l’argomento per primo.
“John è quell’amico che non credevo avrei mai avuto,” confessò, alla fine, perché era importante e voleva raccontare a Liam solo le cose belle. Le brutte le avrebbe comunque intuite da solo, non ne aveva dubbi. “Mi sopporta, mi asseconda, si preoccupa per me… Non mi sorprenderebbe se mio fratello scrivesse al Vaticano per farlo santo.”
“Addirittura?” Liam rise di nuovo.
A Sherlock piaceva farlo ridere. “Immagino che i tuoi migliori amici siano i tuoi fratelli.”
“Sì, penso si possa dire così. Sono due legami diversi, ma non è che uno sia più importante dell’altro. Albert ha ereditato il titolo di Conte di nostro padre, è il capofamiglia e ha un posto all’interno della Camera dei Lord. Ha molti obblighi da cui può esimersi, ma non si è mai sottratto quando avevo bisogno di lui. Io e Louis stiamo sempre insieme. Casa mia è molto affollata, a dire il vero.”
“Due fratelli equivalgono a un folla per me, immagino che casino sia metterci in mezzo anche tutti i servitori.” Sherlock storse la bocca in una smorfia. “Sempre ammesso che siano semplici servitori, visto il lavoro non ufficiale di tuo fratello.”
“Non posso rispondere,” disse Liam, cordiale.
“No, non farlo. Non darmi nulla che io possa usare contro Mycroft… Ma stavi leggendo qualcosa?” Sherlock lo domandò dopo aver notato che c’era un libro sul pavimento, accanto al giovane nobile.
“Oh, sì, m’intrattenevo aspettandoti,” disse Liam, sollevando il volume in modo che l’altro potesse vedere da sé di cosa si trattava.
Sherlock reclinò la testa da un lato per leggere e sorrise trionfante. “Shakespeare!” Esclamò con un po’ troppo entusiasmo.
Liam ne fu sorpreso. “Ti piace Shakespeare?”
“Beh, devo ammettere che io…” Il bluff di Sherlock finì prima ancora di cominciare. “L’ho riletto in questi due giorni,” confessò, sincero. “Non lo toccavo dai tempi della scuola.”
Liam appoggiò il libro sulle gambe. “E perché lo avresti fatto?”
“Perché immaginavo che a te piacesse. Non volevo farmi trovare impreparato, poi è arrivato mio fratello recitando i versi di Romeo e Giulietta, tanto per farmi sentire un idiota.”
Gli angoli della bocca di Liam si sollevarono in un sorriso dispettoso. “Quel teschio aveva una lingua, una volta, e sapeva cantare..“
Sherlock comprese la chiara allusione al suo anello, sollevò la mano e decise di recitare a sua volta. “Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire colpi di fionda e dardi d'oltraggiosa fortuna, o prender armi contro un mare d'affanni e, opponendosi, por loro fine?.”
“No,” disse il Professore.
“No?”
“Tutti credono che quel monologo sia lo stesso della scena in cui Amleto tiene in mano il teschio del buffone Yorick, ma in realtà sono scene diverse.”
“Ah…” Sherlock fissò il proprio anello come se lo avesse tradito. “Non me lo ricordo.” Era la pura verità, inutile negarla.
“Però ti sei ricordato il passo a memoria.”
“Ho studiato Shakespeare, come tutti gli inglesi con un minimo di cultura, alcune cose le ho memorizzate pur non volendo.”
“Ti ho portato in una biblioteca proprio per questo,” disse Liam. “Hai detto che non vuoi occupare la memoria con informazioni che non riguardano il tuo lavoro, ma permettimi di dire che ti stai ponendo un limite non necessario.”
“Oh, avanti, Liam, la memoria non è infinita. La mente ha un limite.”
“Lo so. Quando io raggiungo il mio, cado addormentato.”
Sherlock ridacchiò. “Divertente!”
“Non è uno scherzo,” insistette Liam, ma con gentilezza. “Un momento sto facendo una cosa e quello dopo perdo i sensi.”
Il Detective lo guardò stranito. “Questo non è sano…”
“Detto da te.”
“Liam, non scherziamo, se ti addormenti nella vasca e scivoli sotto l’acqua.”
“Il riflesso incondizionato nel cercare aria batte qualsiasi sonno fisiologico, dovresti saperlo.”
“Certo che lo so, ma è pericoloso lo stesso!”
Il giovane Moriarty scrollò le spalle. “Sono ancora qui.”
“E mi stai dando ragione!” Esclamò Sherlock. “Vedi cosa succede a usare la mente senza limiti? Si perde il controllo della propria volontà. Bisogna porsi dei limiti per restare lucidi!”
“E tu come perdi il controllo?” Liam lo domandò di slancio, senza cattiveria, solo curiosità. Si pentì di averlo fatto non appena Sherlock allontanò lo sguardo da lui per posarlo su qualsiasi cosa che non fosse il suo viso. Solo allora, il Professore ricordò della Noathic, quando gli aveva sentito addosso un leggero odore di oppio. “Sherlock, scusa, ho chiesto senza pensare e-“
“Da piccolo avevo degli attacchi,” confessò Sherlock, con una naturalezza che sorprese anche lui. “Non esiste un termine medico, a dire il vero. Ho provato a documentarmi, ma questo secolo è rimasto fermo all’isteria e la riconosce solo nelle donne. Che follia insensata!” Si ricompose. “E durante questi attacchi, urlavo, piangevo. Certe volte non mi si poteva toccare. Era come se qualcuno mi costringesse a sentire un rumore troppo forte per le mie orecchie e io me ne stavo lì, fuori di me, a cercare di abbassare il volume. Solo che il rumore lo producevo io, era nella mia testa e non sapevo che fare.”
Liam annuì. “È una reazione opposta alla mia. Io mi spengo, letteralmente. Tu vai in sovraccarico. Ti capita anche ora?”
Sherlock si grattò la nuca. “Ci vado vicino spesso… L’ultima volta è stato per il caso dello Studio in Rosso.”
“Ricordo di aver letto di Hope sui giornali.”
“È stato il primo caso del Signore del Crimine a cui ho lavorato. Sapevo che mi aveva messo alla prova, ma non ero certo di aver agito nel modo in cui si era aspettato da me.”
William appoggiò la nuca alla libreria alle proprie spalle. Non voleva perdersi nessun dettaglio di quel momento. Tutto era importante, dal tono che usava Sherlock per parlare, alla luce che illuminava i suoi occhi. E doveva stare attento a porre le domande giuste, con la voce più adatta. “Parli come se avessi voluto compiacerlo.”
“Sì, lo volevo.”
La sincerità di quella confessione fece sentire William disarmato già alla seconda battuta.
“Mi ha fatto cadere in un meccanismo di cui ora mi vergogno un po’,” aggiunse Sherlock.
“Sarebbe a dire?”
“Te l’ho detto: volevo compiacerlo. Sapevo che se avessi superato le sue prove, avrebbe continuato a sfidarmi e a propormi enigmi da risolvere. Dopo il caso Hope, è seguito un tempo infinito di silenzio e mi sono scoperto dipendente da qualcosa che non erano le sostanze di cui mi hai sentito l’odore addosso.” Sherlock s’indicò la testa. “Il gioco mentale, Liam. Come potevo resistere a una tentazione simile?”
William non era disposto a suggerirgli nessuna risposta.
“Subito dopo la morte di Hope in prigione, quello che mi è successo non è stato molto diverso da una crisi di astinenza. Mischiavo piccole dosi di oppio al tabacco per calmarmi e non bastava, ma non potevo tornare a quando…” Sherlock fece un gesto con la mano e chinò la testa. “Dannazione, non volevo parlare di questo.”
William gettò il libro da una parte e si sporse in avanti. “Sherlock?” Gli strinse il braccio e, timidamente, quegli occhi blu tornarono sui suoi.
“Sai quando mi sono rientrato in me?”
William scosse la testa. “Ti ascolto.”
“Quando ti ho visto su quel treno.”
Il giovane Moriarty dischiuse le labbra per dire qualcosa, le parole rimasero bloccate in gola e dissimulò il nervosismo con un sorriso di cortesia. “Sherlock, era la seconda volta che mi vedevi.”
“E Durham è stata la terza, e allora? Se siamo entrambi qui è perché quei pochi momenti sono bastati.” Gli occhi di Sherlock recuperarono parte della loro luce. “Tu mi fai bene, Liam. Non so in che altro modo spiegarlo. Tu mi fai bene.”
E William che poteva dire fronte alla profondità di quel blu? Niente, perché solo vederlo gli toglieva il respiro e sarebbe bastato niente per tradirsi, per concedere a Sherlock uno spiraglio. Tornò a interrogarsi su che cosa lo aveva spinto a camminare su di un strada tanto dissestata. Si rispose che gli piaceva. Allo stesso modo in cui gli era piaciuto provocare Sherlock durante quel loro secondo incontro sul treno.
Catch me if you can, Mr. Holmes.
Prendimi e facciamola finita. Perché Sherlock gli faceva venire voglia di rinunciare a tutto ed era la minaccia peggiore davanti a cui si fosse mai trovato. “Prendimi e basta, Sherlock.
E sarebbe bastato così poco.
William non avrebbe dovuto nemmeno aprire bocca. Erano così vicini che non sarebbe servito. Il giovane Moriarty non poteva esaurire la distanza tra loro senza spostarsi, ma Sherlock poteva venirgli incontro, trovarlo a metà strada. Se avesse deciso di farlo, William non avrebbe avuto né il tempo né lo spazio per sottrarsi.
E dopo che ti avrà preso? La dannata voce della ragione tornò a interrogarlo. Se ti arrendi cosa pensi che succederà? Tu sarai ancora il Signore del Crimine e lui la nemesi che hai scelto per te. Lui è la tua condanna, non il tuo salvatore. Non esiste un lieto fine per i Diavoli.
William non si permise di scrutare negli occhi di Sherlock. Non volle correre il rischio di vedere in quelle iridi blu il desiderio di raggiungerlo, di stare con lui. Non lo fece perché fu il primo ad allontanarsi. “Non puoi dirmi che ti faccio stare bene dopo avermi accusato di essere il Signore del Crimine.” Lo lasciò andare.
Sherlock abbassò lo sguardo sul proprio braccio, lì dove la mano di William lo aveva stretto e ora sentiva freddo.
“Perché tu credi che io lo sia, no?” Il giovane Moriarty lo domandò senza rancore. Era solo un modo per mantenere una distanza di sicurezza dal Detective. Finché c’era il Signore del Crimine tra loro, Sherlock avrebbe dato la precedenza alla sua ricerca della verità e William non sarebbe caduto per una tentazione.
“Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.” Recitò il Detective, dal nulla.
William lo fissò. “Romeo e Giulietta?” Era incredulo. “Stai citando davvero Romeo e Giulietta?”
Sherlock rise e tanto bastò a rendere l’atmosfera meno tesa. “Se fossi davvero il Signore del Crimine - e io non ne ho mai dubitato - sarebbe la storia più adatta a noi,” disse, poi proseguì: “Oh Liam, Liam, perché sei tu Liam? Rinnega tuo padre, e rifiuta il tuo nome!”
“Non ho un padre da chiamare in causa. Ho solo fratelli.” Liam sorrideva.
E Sherlock cosa ne faceva nell’orgoglio quando rendersi ridicolo gli permetteva di guadagnare quel sorriso? “O, se non lo vuoi, tienilo pure e giura di amarmi, ed io non sarò più un Holmes. Solo il tuo nome è mio nemico - intendo quello di Signore del Crimine - : tu sei tu.”
Lo aveva impressionato, lo comprese dal modo in cui William esitò a ribattere. O forse gli veniva da ridere ma era troppo educato per sbatterglielo in faccia. “Saresti una splendida Giulietta, Sherlock.”
Il Detective si rese conto solo in quel momento di aver recitato solo la parte di lei.
“Eppure, io ti vedrei di più ad arrampicarti su di un balcone,” disse William, alzandosi in piedi.
Sherlock emise un verso dolorante. “Perché continui a citare mio fratello?”
“Non so di cosa parli, mi spiace.”
Il Detective si alzò in piedi a sua volta, solo per imitazione. “Te ne vai?” Quanto tempo poteva essere passato? Il sole era ancora alto.
“No,” lo rassicurò William. “Usciamo in strada. Qui dentro l’aria non è delle migliori, c’è troppa polvere.”
***
Durante il viaggio in carrozza, parlarono ancora della strategia per la notte del ballo dei Patel.
“Avendo fatto da intermediario tra la loro famiglia e la tua, sarò obbligato a presentarsi a George Patel e suo padre, fingendo di non sapere dei vostri trascorsi,” disse Mycroft, serio. “Dopo quanto mi hai raccontato, non mi farà piacere farlo.”
“Ti ho già detto di non preoccuparti per quella storia.” Albert sorrideva, sicuro. “Se proprio non riesci a liberarti del fastidio, vedila così: se tutto andrà secondo i piani, George pagherà per tutto.”
Mycroft sollevò l’angolo destro della bocca. “Sì, penso sia un buon modo di vederla.” Rivolse poi lo sguardo fuori dal finestrino della carrozza: i bei palazzi dei quartieri signorili erano stati sostituiti da edifici di tutt’altro aspetto, la carrozza aveva anche rallentato perché in quella zona vi era un grande via vai. C’era sempre qualcuno che correva nei bassifondi e non era mai per le ragioni migliori.
“Qualcosa non va?” Domandò Albert.
Mycroft tornò a rivolgergli la propria attenzione. “È in un orfanotrofio di questa zona che hai trovato William e Louis, non è così?”
Non c’era cattiveria alcuna in quella domanda e Albert lo sapeva bene, ma non poteva fare a meno di oscurarsi un pochino ogni volta che il Direttore si riferiva al passato suo e dei suoi fratelli. Sì, si stavano conoscendo e sì, Mycroft lo stava chiedendo solo per quello.
“Sì,” rispose, infine. “Non posso fartelo vedere perché non esiste più. Quell’istituto si reggeva in piedi con le donazioni della mia famiglia e prima dei ventuno anni non sono stato padrone del mio patrimonio. Purtroppo non sono arrivato in tempo.”
Mycroft incrociò le braccia contro il petto. “Con l’industrializzazione della città, le campagne si sono svuotate e un sacco di persone sono venute a Londra in cerca di fortuna. Immagino che molti se ne siano pentiti: la città soffre di sovraffolamento.”
“Se per ogni famiglia nobile di questo paese vi fossero due bambini salvati dalla strada, gli istituti di carità diverrebbero superflui.”
“Hai ragione, Albert, ma quella di cui parli è un’utopia.”
“Ne sono tragicamente consapevole.” Il Conte sospirò. “C’è un enorme problema sociale che la classe dirigente fa finta di non vedere. Sai cosa dicono di questa gloriosa epoca vittoriana? Che verrà ricordata per la fortuna guadagnata dalle prostitute.”
Mycroft non voleva deriderlo ma quello era il genere di discorsi che si aspettava da Sherlock, non dal Conte Moriarty. “Nei salotti dell’alta società si parla di questo?”
“Rimembranze del college. Al tempo, a molti piaceva di essere rivoluzioni, come dovrebbe esserlo questa epoca. indovina come è finita? Siamo divenuti tutti dei Lord rispettabili, con dei segreti raccapriccianti da nascondere.”
“Sì, è una storia che ho già sentito. Penso che sia accaduto lo stesso ai miei colleghi di Oxford.”
“Ma non a te,” intuì Albert. “Tu sei la rivoluzione. Non sei figlio di nobile, nessuna famiglia ricca e famosa alle spalle. Ci sei solo tu… E Sherlock, naturalmente.”
Un velo di amarezza rese più scuri gli occhi blu di Mycroft. “Sai perché ti ho fatto quella domanda sui tuoi fratelli? Perché anche io provengo da questo angolo di mondo, anche se non direttamente.”
Albert inarcò le sopracciglia. “Credevo che gli Holmes servissero la corona da generazioni.”
“Ti faccio solo un piccolo appunto: noi serviano la Gran Bretagna. Nel caso salga al trono un sovrano incapace o, peggio, pericoloso, ho il permesso di agire.”
Questo Albert non lo sapeva. “Oh…”
“Ti sarei grato se questa confidenza restasse tra noi.”
“Certamente, ma non fai che confermare la mia teoria secondo cui la Regina Vittoria è solo una carica di facciata.”
“Albert, quello che hai appena commesso è delitto di Lesa Maestà.”
Il sorriso del Conte si fece malizioso. “Quando mi avete scelto, sapevate che ero un criminale, Sir Holmes.”
Il viso di Mycroft si addolcì ma non lasciò cadere la questione. “So che ti senti libero di parlare in mia presenza, ma ti chiedo prudenza.”
“Tranquillo, non farei mai nulla che possa danneggiarti direttamente.”
“Lo dico per la tua incolumità, non per la mia,” sottolineò Mycroft. “Per risponderti: no, la Regina Vittoria non è solo una faccia. Io sono un burattino incastrato tra diversi organi di potere e, al contempo, sono al di sopra di tutti loro, ma non della corona.”
“A meno che un sovrano non minacci l’intera nazione con la propria follia.”
“Non succede di rado come sembra. Basta aprire un libro di storia.”
“Lo so, ma ora spiegami perché anche tu vieni dell’East End, anche se in modo indiretto.”
“Mia madre,” disse Mycroft e gli sfuggì un sorriso più tenero degli altri, ma un poco triste. “Mia madre era una fanciulla dei bassifondi. Quando hai preso Irene Adler sotto la tua ala, hai avuto modo di parlare con mio fratello, no?”
Albert fece appello ai ricordi e annuì. “Ti riferisci al suo modo di parlare?” Se Mycroft era stato a Oxford, c’erano buone probabilità che Sherlock avesse seguito la stessa strada. Tuttavia, il dialetto del più giovane dei fratelli Holmes non lo sorprendeva più di tanto. “Ti è mai capitato d’intrattenere una conversazione con Colonnello Sebastian Moran?”
Mycroft scosse la testa. “So solo che è l’agente 006, che ha ottenuto la qualifica di agente con licenza di uccidere dopo quell’incidente in India e che, per il mondo, è ufficialmente morto. In fondo, questo lo rende perfetto per il suo lavoro.”
“Bene, lui è uscito da Oxford e ancora a casa mia non riusciamo a farcene una ragione,” raccontò Albert. “Se pensi che tuo fratello sia sgraziato, dovresti prendere un té con il Colonnello. Pochi minuti e Sherlock ti sembrerà un principe.”
“Oh, ma Sherlock è sempre stato un principe,” ribatté Mycroft. “Capriccioso come pochi e ribelle come anche meno.”
“Fammi indovinare… Tu sei di tuo padre e Sherlock è di tua madre.”
Mycroft ci pensò. “Sì, forse possiamo metterla sotto questa luce. Mi è parso di capire che anche tu eri di tuo padre?”
“Sì, come potrebbe esserlo un cane d’ammaestrare. Non ricordo che mi abbia mai picchiato o, almeno, non tanto violentemente da ricordarmelo. Mio padre è sempre stato un uomo distratto: un amante qui, una là. Potrei dire in giro che Louis è un suo figlio illegittimo e la sua somiglianza con Will acquisterebbe improvvisamente senso. Loro due li ho scelti, ma qualcosa mi dice che devo avere dei fratellastri da qualche parte.”
“È un pensiero che ti disturba?”
“No, è solo un pensiero,” rispose Albert. “Non è il sangue a fare una famiglia.”
Mycroft annuì. “Non sai quanto hai ragione.”
Il più giovane si pentì immediatamente di aver parlato. “Non intendevo far un riferimento al tuo rapporto con Sherlock.”
“Oh, Albert, Sherly è la mia famiglia,” disse Mycroft. “Forse io non sono la sua. Un tempo, so di esserlo stato ma la vita non procede in linea retta per nessuno.”
Il Conte si umettò le labbra. “Perché con tuo fratello sei tanto accondiscendente?”
“Se ne parlassi con Sherly, lui di certo non mi definirebbe così.”
“Parliamone tra fratelli maggiori, allora,” propose Albert. “Ti prende a scarpe in faccia e tu continui a tornare da lui. È amore familiare nella sua forma più pura e non posso credere che Sherlock non lo veda.”
Eccolo di nuovo, quel velo di malinconia sul viso di Mycroft. “Anche Sherlock ha un cuore ferito, come immagino lo abbia William. Sono accondiscente perché ho contribuito a provocare quella ferita,” raccontò. “E chiedere scusa non basta.”
Una parte di Albert gridava per sapere che cosa era successo all’interno della famiglia Holmes per crescere due fratelli tanto diversi. Sì, c’era la questione della maledizione di famiglia, ma il maggiore era l’unico a esserne a conoscenza. William per primo era rimasto colpito dal modo in cui Mycroft si era esposto per assicurarsi che Sherlock rimanesse all’oscuro di quel fardello.
Se William e Sherlock erano simili nell’avere un cuore ferito, lui e Mycroft lo erano in un altro modo.
“Le maledizioni si ereditano come i titoli nobiliari, vero?” Domandò Albert. “Vieni al mondo e solo perché sei vivo verrai investito di qualcosa per cui non hai né colpa né merito. È successo anche te, non è così? Non hai potuto scegliere chi essere. Sei venuto al mondo e loro lo hanno deciso per te.”
Mycroft non rispose immediatamente. Allungò la mano, cercando quella del Conte. Il più giovane lo accontentò. “Sotto certi aspetti, sì, anche noi abbiamo parecchio in comune, come i nostri fratelli. Ma sappi, Albert, che c’è un motivo personale che mi tiene saldo sulla mia posizione.”
Sherlock. Non c’era bisogno che il Direttore lo dicesse ad alta voce e Albert non aveva bisogno di chiedere.
“Vuoi sapere che cosa mi ha convinto a fidarmi di te, Mycroft?"
“Certo che lo voglio sapere.”
Alberti dischiuse le labbra, ma la carrozza si arrestò proprio in quel momento. “Siamo arrivati,” disse. “Te ne parlerò con calma quando saremo a casa, promesso,” aggiunse. “Se i miei agenti hanno fatto un buon lavoro, non dovremo metterci troppo.”
Mycroft aggrottò la fronte, rendendosi conto di essersi perso una parte degli eventi. “I tuoi agenti?”
Albert gli fece l’occhiolino. “Credevi davvero che saremmo andati a passeggio per l’East End vestiti da gentiluomini?”
“Touchè.”
“Andiamo, avrò l’occasione di presentarti ufficialmente l’agente 006, il Colonnello Sebastian Moran.”
La locanda era deserta. Tavoli e sedie erano in ordine in modo innaturale e i pavimenti erano stati puliti da poco. A Mycroft bastò un’occhiata per capire che erano attesi. Albert lo precedeva.
“Avanti, Sebastian, dimmi dove sei stato in questi mesi. Mi sei mancato, sai?”
“Servimi da bere, moccioso, e non fare domande.”
Pochi passi e il bancone comparve nel campo visivo di entrambi.
La figura del Colonnello Sebastian Moran fu la prima ad attirare l’attenzione di Mycroft Holmes e solo in un secondo momento si accorse del ragazzo che gli stava versando del whisky nel bicchiere: aveva i capelli chiari e il viso stanco di chi avrebbe volentieri mollato tutto per farsi una bella dormita. Ma non da solo. Dal modo sfacciato in cui guardava il Colonnello, era evidente che i due si conoscevano e non solo di vista.
Anche Albert dovette notare che vi era dell’intimità fuori posto in quella scena. Quando parlò, la sua voce tradì una nota di fastidio. “Colonnello Moran,” salutò, formale.
L’agente 006 si voltò di scatto. Non si alzò in piedi, non mostrò alcun segnò di rispetto per i suoi superiori. Si limitò a sollevare il bicchiere e bere il suo whisky in un solo sorso. “Te la sei presa comoda,” commentò, annoiato. “Ti aspettavo almeno due ore fa.”
Mycroft inarcò le sopracciglia, disturbato da un simile atteggiamento nei confronti del giovane Conte. Tuttavia, Albert si dimostrò capace di gestire la situazione con facilità, come se quel genere di scene gli fossero familiari. “Vi siete messo comodo, non devono essere state due ore così massacranti.”
Moran fu a un passo da ignorare completamente la gerarchia e rispondere a tono, ma il suo sguardo incontrò quello di Mycroft Holmes e dovette trattenersi. Simulò un colpo di tosse e cercò di fingersi professionale. “Lui è Josh Finn,” disse, indicando il giovane dal lato opposto del bancone. “Questo posto è di proprietà dei suoi fratelli maggiori, lui è solo un dipendente. Avanti, Joshi, racconta ai signori quello che hai detto anche a me.”
Al soprannome, Albert lasciò andare un sospirò esasperato. “Buongiorno, signor Finn.”
Il ragazzo abbozzò un inchino maldestro. “My Lords.”
“Calmo, ragazzo,” intervenne Mycroft superando il Conte per sedersi al bancone a sua volta, a debita distanza dall’agente. “Non sei nei guai e qualunque cosa dirai non sarà usata contro di te.” Si tolse il cappello e lo appoggiò sulla superficie di legno.
Non si presentarono. Offrire un nome e un cognome in quell’ambiente non era sicuro.
Josh Finn era molto giovane, forse della stessa età di Sherlock, ma li guardava come un bambino beccato a commettere un misfatto.
“Joshi, avanti, hai già detto tutto a me,” lo spronò Moran. “Non deve essere così difficile ripeterti.”
Il Colonnello si guadagnò un’occhiataccia. “Un conto è parlare con un buzzurro come te, un altro è rivolgersi a dei gentlemen.”
Di fronte all’espressione indignata di Moran, Albert simulò un colpo di tosse per non scoppiare a ridere. “Comprendo l’imbarazzo, signor Finn,” disse, prendendo posto tra il Direttore e il Colonnello. “Tuttavia, vi esorto a essere sincero. Come vi abbiamo già detto, non siamo qui per voi. Se può servire a farvi sentire al sicuro, sappiate che qualunque informazione potrete darci sarà utile a salvare delle persone.”
Josh inspirò profondamente dal naso. “D’accordo,” disse, ancora reticente. “Posso offrirvi da bere?”
“Quello che avete dato al Colonnello va bene per tutti e due.” Albert guardò Mycroft per avere conferma e il Direttore annuì.
Un paio di bicchieri di whisky dopo, Josh cominciò a parlare. “Julian Evans veniva qui spesso,” raccontò. “Mi ha rivelato il suo nome solo molto tempo dopo il nostro primo incontro. Quando lo ha fatto, gli ho dato dell’idiota: anche se è un terzo figlio, non è sicuro andare in giro per queste strade sbandierando un titolo nobiliare.”
“Da quanto tempo non vedete Julian Evans?” Domandò Mycroft.
“Almeno sei mesi.”
“E dopo tutto questo tempo, lo ricordate così bene?” Indagò Albert. “Sono certo che non è l’unico giovane nobile che passa da queste parti credendo di passare inosservato.”
“No, non lo è.” Josh abbassò lo sguardo e arrossì. “Diciamo che Julian era un cliente abituale. Quando veniva qui, parlava un sacco. Credo che nel suo ambiente avesse dei problemi ad aprirsi davvero… Senza offesa, My Lords,” aggiunse in fretta.
Albert sorrise, comprensivo. “Nessuna offesa,” disse. “Sappiamo che si vedeva anche con altri giovani. Due in particolare.”
Josh scrollò le spalle. “Julian era convinto che facendosi vedere in luoghi differenti, avrebbe dato meno nell’occhio. Non so da dove gli sia venuta questa folle idea. Sì, ha fatto il giro del quartiere e, immagino, abbia avuto delle frequentazioni altrove… Ma, alla fine, tornava sempre qui.”
“Perché?” Domandò Mycroft.
Le labbra di Josh si piegarono in un sorriso troppo amaro per la sua età. “Perché qui si sentiva al sicuro e si fidava di me.”
“Prima di sparire, si è confidato, non è vero?” Intuì Albert.
Il giovane annuì ma i suoi occhi cercarono quelli di Moran.
Il Colonnello sbuffò. “Quante volte devo dirti che puoi stare tranquillo?” Si sporse oltre il bancone per prendere la bottiglia di whisky e servirsi da solo.
“E vi assicuro che il Colonnello Moran pagherà per il disturbo,” aggiunse Albert, serafico. “Ora, Josh, potete raccontarmi dell’ultima volta che avete visto Julian Evans?”
Josh storse la bocca in una smorfia. “Lo stupido si è innamorato.”
Preso contropiede, Albert smise di sorridere. “Innamorato?”
“Sì e di brutto!” Esclamò Josh. Era evidente che non gli faceva piacere parlarne. “Per un po’ di tempo mi ha parlato di un uomo del suo ambiente. So che era più grande e che il suo nome era George. All’inizio, non stetti molto ad ascoltare e anche Josh faceva il sostenuto: gli interessava ma non voleva darlo a vedere.”
“George,” ripeté Mycroft. Lui e Albert si scambiarono un’occhiata veloce.
Il Conte riprese con la domande. “E, a un certo punto, qualcosa è cambiato…” Intuì.
Josh annuì. “L’ultima notte che ho visto Julian, era venuto qui solo per salutarmi. Mi disse che sarebbe fuggito con George, che avrebbero passato la vita insieme e altre stronzate!” Nel rendersi conto di aver usato un linguaggio scurrile, abbassò lo sguardo. “Scusatemi…”
Albert scosse la testa. “Non c’è bisogno di chiedere scusa,” disse, gentile. “Immagino che non deve essere stato facile dirgli addio.”
Josh scosse la testa. “Quando il figlio di una famiglia nobile viene da queste parti è solo per sfuggire all’inevitabile. Credo che Julian fosse convinto che il suo finale sarebbe stato diverso. Se siete qui, immagino che non sia andata bene come sperava.”
Né Mycroft né Albert potevano dargli alcuna spiegazione. Josh Finn lo comprese e non chiese altro. “Finite pure quella bottiglia di whiskey, offre la casa.”
“Temo che dobbiamo rifiutare,” disse Albert. “Il Colonnello sarà felice di offrire per tutti.”
Dopo essere stato in silenzio per tutto l’interrogatorio, Moran si animò di nuovo. “E chi ti dice che io possa pagare?”
“Me lo dice il vitto e alloggio di cui godete a mie spese.” Per Albert la questione era chiusa. “Fate quello che dovete, vi aspettiamo fuori.” Poi si rivolse al giovane dietro il bancone. “Le vostre informazioni ci torneranno molto utili, signor Josh Finn. Avete la nostra gratitudine.”
Il Conte si alzò per primo. Mycroft recuperò il cappello e lo seguì.
La loro uscita di scena fu accompagnata dall’incessante borbottare di Moran.
***
“Provo a indovinare.” Sherlock camminava a fianco di William, le mani nelle tasche dei pantaloni e quel sorriso da eterno ragazzino a illuminargli il volto. “Ciò che succede nell’East End rimane nell’East End. Qui possiamo essere compromettenti senza destare sospetti.”
“È una buona teoria.”
Era William a guidare.
Sherlock lo seguiva. “Mi vuoi rivelare il tuo segreto?”
“Ho molti segreti,” scherzò il giovane Moriarty. “E non voglio derubarti del divertimento di svelarli tutti da te.”
Così rendi tutto troppo eccitante, Liam. Il Detective si morse la lingua per non dirlo ad alta voce. Non lo faceva spesso e dubitava che William si sarebbe offeso per i suoi modi sfacciati - a tratti scandalosi - ma il momento era prezioso e voleva che durasse quanto più possibile.
“Ti sei anche travestito da ragazzo dei bassifondi per non attirare l’attenzione,” disse Sherlock. “Ho l’impressione che questa non sia la prima volta che lo fai. Inoltre, io qui mi perderei, tu passeggi come se fossi a Hyde Park o in qualche altro luogo simile.”
“Te l’ho appena detto: ho molti segreti.”
“Ah, sei furbo, Liam!” Esclamò Sherlock. “Un sacco di nobili passano da queste parti per soddisfare qualche vizietto poco apprezzato nei salotti dell’alta società. Se uno volesse, basterebbe fare un paio di domande nei posti giusti e si avrebbero le prigioni piene di nobili per i crimini più stupidi.”
Nessuno lo sapeva meglio di William, ma stette al gioco. “Interessante,” commentò. “Immagino che tu sappia esattamente quali sono i luoghi giusti.”
“Non uso sempre metodi corretti,” confessò Sherlock, con una smorfietta. “Quando ero alle prime armi, mi ritrovavo quasi sempre a sbattere contro il muro dei privilegi nobiliari.”
“E avere informazioni scomode su di loro era utile,” concluse William.
“Non mi piace il ricatto,” aggiunse immediatamente il Detective. “Lo usano i potenti per schiacciare i più deboli. Il mio scopo è creare un metodo d’indagine basato sulla ricerca di prove oggettive.”
“E trovo che il tuo scopo sia nobile, ma non ti giudicherò per aver fatto degli errori,” lo rassicurò William. “Ti sei accorto del mio bluff sul treno, no?”
Sherlock accennò il sorriso. “Sì, ma l’intuizione era giusta e hai salvato il mio socio, quindi…”
“Quindi il fine giustifica i mezzi?”
“Non lo so, Liam. Tu cosa ne pensi?”
Era un argomento spinoso, di quelli che toccavano da vicino la natura stessa del Signore del Crimine e delle sua azioni. Era evidente che nessuno dei due voleva dare voce a proprio punto di vista troppo facilmente.
Non ebbero il tempo di elaborare.
“Ma è lui?”
“Sì, è proprio lui!”
Riconoscendo le voci, Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Liam, scusa. Scusami davvero.”
Il nobile inarcò le sopracciglia. “Per cosa?” La risposta gli comparve sotto gli occhi: sei ragazzini li superarono correndo e si pararono di fronte a loro.
“Ah, sei proprio tu!” Esclamò quello alla testa del gruppo. “E lui chi è?” Chiese, indicando sfacciatamente il giovane Moriarty. “È il tuo fidanzato segreto o è solo un altro amico a cui stai estorcendo i soldi dell’affitto di questo mese?”
William, smarrito, guardò il Detective con la coda dell’occhio e si accorse il suo viso stava man mano divenendo sempre più rosso.
“E abbassa la voce, Wiggins!” Esclamò Sherlock, che attirò l’attenzione dei passanti più di quanto aveva fatto il gruppetto. “E non indicare!” Aggiunse, dando una manata sul braccio del ragazzino.
“Sherlock, mi vuoi spiegare?” Domandò William, educatamente.
“Sì, Sherlock, fai le presentazioni,” incalzò Wiggins, deridendolo apertamente e provocando un attacco d’ilarità nei propri compagni.
Il Detective dovette trattenersi dal prenderlo a schiaffi. “Parlando di errori nel mio lavoro, loro sono il più grande che ho commesso.”
“Non è vero,” ribatté Wiggins, guardando William. “Quando non sa dove sbattere la testa, viene sempre a chiedere aiuto a noi.”
“Sì e vi dico sempre cosa cercare, dove farlo e come!” S’intromise Sherlock. “Siete solo bravi a fare i compiti!”
Per nulla disturbato da tutta quella confusione, William si rispose da solo. “Sono i tuoi informatori?”
Sul viso del Detective comparve un’espressione sconfitta. “Liam, loro sono gli Irregolari di Baker Street. Mocciosi, lui è Liam, trattatelo con rispetto o ve la vedrete con me.”
“Piacere di conoscervi,” disse William con il solito, impeccabile sorriso cortese.
Wiggins lo guardò con gli occhi sgranati. “Che cosa ci fa un giovane signore così a modo con buzzurro come te?” Domandò, rivolgendosi al Detective.
Sherlock stirò le labbra in un sorriso inquietante. “Se vi pago la cena, ve ne andate senza farmi perdere altro tempo?” A mali estremi, estremi rimedi. Poteva tollerare John che lo rimproverava e gli dava dello spendaccione, ma non poteva permettere a nessuno di rovinare la sua giornata con William.
Wiggins si convinse in fretta. “Affare fatto,” rispose, compiaciuto, porgendo la mano destra.
“E tornate a Baker Street,” aggiunse Sherlock. “Queste strade non sono sicure nemmeno per voi.”
Per tutta risposta, Wiggins salutò solo il nobile travestito da ragazzo di strada. “Arrivederci, Liam. Se accetti un consiglio, trovati un fidanzato segreto migliore di questo.”
“Piccolo farabutto!” Sherlock si mosse per acciuffarlo ma il ragazzino fu più veloce e fuggì, seguito dai propri compagni.
“Non metterti nei guai, Sherlock.”
“Pensate per voi!” Tuonò il Detective, poi guardò l’uomo al suo fianco in visibile imbarazzo. “Liam-“
“Sembrano in gamba,” commentò William, che si era voltato per guardare il gruppetto scomparire in fondo alla strada.
“Lo sono,” ammise Sherlock a mezza bocca. “Sono più bravi degli agenti di Scotland Yard ed è tutto un dire.” Il suo sguardo cadde su un’insegna alla sua destra. “Vieni, ti offro da bere.”
William scosse la testa. “Non è necessario, poss-“
“Liam, per una volta, fammi fare il gentiluomo,” lo pregò Sherlock, passandogli un braccio dietro la schiena per spingerlo verso l’entrata del locale. “Così quando conoscerai John e mio fratello potrai dire loro che sono un vero signore e ne saranno contenti.”
Non c’erano molte persone nella saletta del pub. Sherlock decise che era abbastanza tranquillo e pulito per potervi portare il fratello di un Conte in incognito. Scelse un tavolino vicino alla finestra, il più lontano possibile dagli altri clienti: a quell’ora potevano essere lì solo gli ubriaconi di quartiere. Alzò una mano per richiamare l’attenzione della cameriera. “Tu che prendi, Liam?” Domandò, mentre la ragazza si avvicinava.
William scrollò le spalle. “Quello che prendi tu.”
Sherlock storse il naso, poco convinto. “Tu non sei un tipo da birra.”
“Bevo anche la birra, Sherlock.”
“Oh, allora vada per la birra.”
La cameriera, che non poteva avere più di vent’anni, segnò l’ordine su un foglio di carta. William non si perse il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulla figura di Sherlock. Il Detective, al contrario, non la vedeva neppure e nemmeno la ringraziò quando lei si allontanò da loro.
“Liam, perché stai ridendo?”
“Perché la tua idea di nasconderci qui dentro per allontanarci dagli sguardi indiscreti non ha funzionato molto bene,” rispose William.
Sherlock ci mise un po’ a capire a cosa si riferiva. Quando ci arrivò, cercò la cameriera con lo sguardo. Per sua fortuna, la trovò di spalle. “Ah, ho capito,” disse sbrigativamente. “Comunque, stavo dicendo-“
“Non ti lusinga neanche un po’?” Domandò William, curioso.
“Ma cosa?” Sherlock era irritato, come se stessero perdendo tempo su un’assurdità. “Non mi piacciono le donne.”
William non aveva mai sentito una confessione tanto pericolosa, buttata lì con tanta schiettezza. Appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo e si sporse verso il Detective. “Dovresti fare attenzione a chi riveli certi segreti,” disse, serio.
Sherlock gli sorrise. “Come se per te fosse un segreto.”
“Quando ti ho conosciuto, eri circondato da donne.”
“Sono state loro ad accerchiare me. Non ricordo neanche come è successo con precisione. Penso di averle udite parlare mentre fantasticavano sugli uomini presenti in sala.”
“E tu che hai fatto?”
“Ho distrutto tutte le loro illusioni con le mie intuizioni.”
“Ovviamente.”
“Poi hanno deciso di fare quello stupido gioco: indovinare il mestiere di dieci persone a caso. Tu sei stato la decima, il resto della storia lo sai.”
William abbassò lo sguardo per un istante. Seguì le venature della superficie di legno e si accorse che era consumata in più punti, come se qualcuno l’avesse sfregata con forza. “Da quanto tempo mi stavi guardando?” Domandò, riportando gli occhi sul viso del Detective.
Sherlock non giocò, fu onesto fin da subito. “Da un po’.”
Ora era William a sentirsi lusingato. Non lo nascose, voleva che si vedesse. “Ti ho guardato anche io.”
“Davvero?”
“Le tue donne facevano una gran confusione, era impossibile non dare un’occhiata a cosa le emozionasse tanto.”
“Non erano le mie donne, per carità,” disse Sherlock, facendo un gesto della mano, come se stesse scacciando una mosca invisibile.
“E perché mi guardavi?” William voleva i dettagli.
Sherlock si sporse verso la vetrata, guardando in alto.
Il Professore provò a fare lo stesso, ma non comprese cosa aveva attirato la sua attenzione. “Che stai facendo?”
“Controllo che il cielo sia ancora azzurro, così possiamo parlare di un’altra ovvietà.”
William scosse la testa, dandosi dello stupido per esserci cascato. Sorrideva. “Sherlock…”
“Facciamo una cosa, Liam,” disse il Detective, tornando seduto composto. “Al ballo di dopodomani, quando arriverai con i tuoi nobili, belli e scapoli fratelli, guardati intorno e accorgiti dell’effetto che hai sulla gente.”
“Lo hai detto tu: nobili e scapoli.”
“Ho detto anche belli e lo stai ignorando deliberatamente.”
“Scusate l’interruzione.” La cameriera comparve al fianco del loro tavolo. Appoggiò i due boccali di birra sul tavolo e tolse il disturbo. Questa volta, fu William a prendere la parola è ringraziarla. Lei gli rispose con un sorriso cortese che non raggiunse i suoi occhi e tornò al proprio lavoro.
“Visto?” Domandò il Professore, rivolgendosi al Detective.
Sherlock, che stava già bevendo, corrugò la fronte. “E allora?”
“Non mi ha nemmeno guardato in faccia.”
“Perché è stupida.”
“Sherlock, modera i termini. Ha un’evidente preferenza per te. Questo avvalora la mia teoria: la maggior parte degli sguardi che ricevo sono dovute al nome Moriarty. Questo mi porta a insistere: perché i guardavi?”
Sherlock sbuffò, annoiato come un bambino che è costretto a recitare una poesia il giorno di Natale. Non gliela diede vinta. “Secondo te?”
William appoggiò il mento al palmo della mano. “Non puoi avermi capito tanto solo guardandomi mentre osservavo una scala.”
“No, infatti. Te lo confesso: ero convinto che mi avresti risposto in modo snob e mi avresti annoiato subito. Mai avrei pensato che avresti usato la mia stessa carta contro di me.”
“Ciò spiega tutto quello che è successo dopo, ma perché guardarmi anche prima?”
Sherlock si sforzò di dargli la risposta più neutrale possibile. “So che non si direbbe, ma anche io ho senso estetico, sai?”
“Mi guardavi perché mi trovi bello?”
“Banale, vero? Ti ho deluso, ammettilo.”
Dubito che tu possa fare qualcosa in grado di deludermi, Sherlock. William decise di tacere e di dare una possibilità al suo boccale di birra: aveva la gola secca. “Se fossi stato solo bello, mi avresti cercato quando siamo attraccati?”
“No.” Sherlock spostò il calice da una parte e si sporse verso il giovane Moriarty. “È questa che ti ha fregato,” disse, appoggiando la punta dell’indice in mezzo alla sua fronte. “È questa che ha fregato anche me,” aggiunse, ritraendo la mano. “Quando una cosa ti entra in testa, è come averla sotto la pelle.”
William prese un altro sorso di birra. “Sotto la pelle arrivano solo due emozioni: l’odio e l’amore.”
“Oh, matematico e anche poeta. È chiaro che hai una predilezione per Shakespeare.”
“Non è poesia.” William era serio. “È quello che credo.”
Il sorriso da canaglia sparì dal viso di Sherlock, ma non ebbe il tempo di dire nulla.
“Hai mai odiato, Sherlock?” Domandò il giovane Moriarty. “Non parlo dell’indifferenza che provi per la maggior parte delle persone. Mi riferisco all’odio, quello che ti rende cieco, che mette a tacere tutto il resto e ti lascia solo con il desiderio di distruggere.” Era tanto da far intravvedere, forse troppo.
Non aveva importanza. William voleva conoscere i confini di Sherlock, sapere fin dove la vita prima di lui lo aveva spinto. Entrambi erano il prodotto di una storia ben più antica di quella del Detective Holmes e del Signore del Crimine. E William era solo un crudele egoista in questo: perché non poteva cedere la propria, ma aveva bisogno che Sherlock gli confessasse la sua.
“L’odio è il prezzo che bisogna essere disposti a pagare per vivere questa vita,” disse Sherlock, lo sguardo ancora basso. “Altrimenti, perché vivere?”
“Che cosa intendi?”
“Intendo dire che serve passione per odiare, ma è l’amore il vero maestro della passione. Mi capisci? Non si possono dividere le due cose. E quando parlo di passione, non intendo quella carnale… Riesci a seguirmi?”
William annuì. “La passione è l’intensità del sentimento. Non si può amare e odiare moderatamente.”
Sherlock annuì ma piuttosto che guardarlo in faccia, si voltò verso la vetrata. Per un po’ rimase in silenzio, osservando i passanti in strada. “Da come parli del legame con i tuoi fratelli, qualcuno ti ha insegnato l’amore, Liam.”
“E a te chi ha insegnato l’odio, Sherlock?”
Gli occhi blu tornarono su quelli scarlatti.
Sulla labbra del Detective comparve un sorriso malinconico. “Ricordi quando mi hai avuto quell’intuizione su mia madre?”
William non se lo era aspettato. “Ho parlato senza conoscerti, Sherlock.”
“L’ho fatto anche io,” ribatté Sherlock, rassicurante. “Stai tranquillo, non mi sono mica offeso. Volevo solo dirti che avevi ragione, su tutto. Mia madre è cresciuta da queste parti… Credo… Non so bene dove sia nata e vissuta, ma era una ragazza dell’East End.” Per la prima volta da quando si erano incontrati, in quella biblioteca abbandonata, infilò una mano nella tasca della giacca alla ricerca di sigarette e fiammiferi. “Ed ecco spiegato il mio modo di parlare.”
E William che cosa aveva da offrire di altrettanto intimo?
“Mio fratello, Louis, da bambino soffriva di una malattia cardiaca,” raccontò. Non era un segreto, chiunque avrebbe potuto verificarlo. Ancora qualcuno ne parlava anche nei salotti dell’alta società, sottolineando come la vita di Louis fosse un’evidente prova della nobiltà d’animo dei Moriarty, “Gli ultimi tempi, prima dell’operazione, m’infilavo nel suo letto e restavo tutta la notte a guardarlo dormire. Ascoltavo il suo respiro, mi assicuravo che fosse regolare. Mi terrorizzava la possibilità che potesse morire nel sonno.” William non lo aveva mai raccontato a nessuno. Solo Albert lo sapeva, perché era stato diretto testimone di tutti gli eventi.
Sherlock non prese neanche un tiro dalla sigaretta che si era acceso. Ammutolito dal racconto del Professore, rimase con la mano sospesa a mezz’aria fino a che non si scottò le dita. “Ahi!” Esclamò, lasciando cadere il mozzicone sul pavimento.
Fu un incidente fortunato, perché fu utile ad alleggerire l’atmosfera che si era creata.
“Ti sei fatto male?” Domandò William.
Sherlock simulò una risata. “Niente di grave. In realtà, mi capita spesso. Sono un tipo distratto.”
William lo ignorò e gli afferrò il polso per valutare il danno. “Devi averne cura,” disse, felice di scoprire che la sigaretta a stento aveva lasciato un segno. “Sono le mani di un violinista.”
Sherlock stirò le labbra in un sorriso nervoso. “Non mi hai mai sentito suonare,” gli ricordò. “Non puoi sapere se ne valga davvero la pena.”
“È la prima intuizione che ho avuto su di te, Sherlock. Se non fosse importante, non sarebbe stata la prima cosa a catturare la mia attenzione.”
“Ho così tanto la faccia da violinista?”
“Mi piacerebbe sentirti suonare,” disse William, lasciando andare la sua mano. “Solleva la mano e distendi le dita.”
Incuriosito, Sherlock fece come gli era stato detto. Quando il giovane Moriarty fece aderire il palmo al proprio, ingoiò a vuoto.
“Come sospettavo,” disse William, osservando le loro mani unite. “Hai la mano più grande della mia. Saresti un pianista più abile di me.”
“Me lo hanno già detto,” raccontò Sherlock. “Ci ho provato con il pianoforte ma non faceva per me.”
“Non dire niente,” lo zittì il Professore. “Fammi indovinare: ti da fastidio dover restare fermo su di uno sgabello mentre suoni.”
In un primo momento, Sherlock non disse nulla. Il sorriso sorpreso che sbocciò sulle sue labbra ebbe il potere d’illuminare la stanza. “Sì…” Confermò. “Sì, è così.”
“Non guardarmi in quel modo, Mr. Detective. È un’intuizione da poco, basta guardarti.”
“Non è vero. Nessuno ci è mai arrivato.” Era proprio questo che a Sherlock faceva piacere. “Quando parlo con te, mi sembra di conoscerti da sempre. È strano. C’è solo una persona al mondo che mi conosce da tutta la vita ed è Mycroft… E non mi sa prendere bene come te.”
“Ti hanno mai detto che è più facile parlare con un estraneo che con un fratello?” Domandò William, ignorando deliberatamente quanto le parole del Detective fossero state simile a una confessione. “Ci sono cose di me che non riesco a spiegare alla mia famiglia, così evito di dirle.”
“Naaah!” Rispose Sherlock. “Così ci stai male soltanto tu e non conviene mai. Fidati, ci sono passato.”
“Sei così libero dal giudizio della gente, Sherlock. T’invidio e stimo, a dire il vero, vorrei potermi permettere una simile libertà ma a rimetterci sarebbero i miei fratelli.”
Sherlock divenne serio di colpo. “Il bene di qualcun altro non vale quanto la propria libertà,” disse e ne era convinto. “Nemmeno se quel qualcun altro è un fratello.”
Ecco, erano arrivati a toccare il punto in cui William sapeva cose della famiglia Holmes che persino Sherlock ignorava. Pensò a Mycroft che diceva: vorrei anche almeno lui vivesse liberamente. William non aveva detto niente, si era limitato a sorridergli e si erano capiti così. Perché anche lui avrebbe fatto lo stesso per Louis, anche se tra loro correva poco più di un anno. L’errore stava proprio lì, nel troppo amore, perché suo fratello minore non gli avrebbe mai perdonato di portare sulle spalle i peccati del loro nome da solo.
Paragonare Louis a Sherlock lo fece sorridere.
“Che cosa c’è di divertente?” Domandò il Detective.
“Nulla, mi hai ricordato Louis?”
“Chi?!” Sherlock allungò la mano e allontanò il boccale di birra dalla portata del Professore. “Forse è meglio che non bevi più, Liam. Comincia a dare segni di vaneggiamento."
William rise. “Non sto vaneggiando. È che sono un fratello maggiore.”
“Ma se siete quasi gemelli! Sette anni di differenza non sono molti ma neanche pochi. Quando io ho cominciato la scuola, Mycroft era già un’adolescente. Eravamo e siamo due mondi a parte, nulla di paragonabili alla simbiosi tua e di Louis.”
“Diamo l’impressione di vivere in simbiosi?”
“Non fare il finto tonto, mio fratello non ha mai ucciso nessuno con lo sguardo solo perché mi rivolgeva la parola.”
Forse non lo ha fatto con lo sguardo ma in un modo più letterale. Pensò William. A dispetto di quello che raccontava il Detective, non aveva alcuna difficoltà a immaginare Sherlock cacciarsi in qualche guaio più grosso di lui e Mycroft correre, segretamente, ai ripari. “C’è una stagione della vita in cui anche pochi anni di differenza possono essere un abisso,” disse. “Mi è capitato di percepire una simile distanza tra me e Albert, ma è passata.”
Sherlock scosse la testa. “A me no. Mycroft era lontano allora ed è lontano anche adesso.”
“Forse si sente responsabile per te,” ipotizzò William.
“Albert lo fa?”
“Per me è diverso. A differenza di molti miei coetanei della classe nobiliare, io non dipendo dal patrimonio di famiglia. Ho un lavoro ordinario a Durham che mi permetterebbe di essere indipendente dal nome Moriarty, se lo volessi.”
“Ordinario,” ripeté Sherlock. Gli veniva da ridere. “Non è affatto ordinario avere una cattedra universitaria appena maggiorenni, mio caro Liam.”
“Mettiamo a paragone i nostri lavori: il massimo che può succedere a me è che mi sporchi la giacca con il gesso, tu hai a che fare con criminali ogni giorno.”
Sherlock assottigliò gli occhi. “Perché ci tieni tanto a prendere le parti di mio fratello?”
“Perché faccio parte della stessa categoria di fratelli maggiori ansiosi. Se riesci a capire me, magari puoi fare lo stesso con Mycroft,” rispose William. “Non molto tempo fa, Louis è venuto da me a farmi notare che lo proteggo troppo. È vero, lo faccio. Se non me lo avesse detto, non avrei mai corretto il mio comportamento.”
Sherlock scosse la testa, rassegnato. “Con Mycroft non si può parlare. È bravo solo a fare i dispetti.”
“Se non lo fosse, non sarebbe tuo fratello.”
“Ma Liam! Ma da che parte stai?”
William rifletté su quel fidati, ci sono passato. “C’è stato un periodo in cui volevi l’approvazione di Mycroft a qualsiasi costo?”
Per la prima volta dall’inizio della loro conversazione, Sherlock evitò completamente la domanda e il giovane Moriarty seppe di aver toccato un nervo scoperto. “C’è stato un periodo in cui volevo tante cose, poi ho capito che l’unico modo per essere me era accettare la solitudine,” ammise il Detective, non nascose l’amarezza ma fu svelto a cercare una via di fuga. “Ma cambiamo discorso! Finiamo queste birre e torniamo in strada. Ho deciso che le occhiate della gente sono meno stressanti di quelle della cameriera laggiù!”
E William lasciò che gli sfuggisse.
***
“Riesco a sentire il rumore dei tuoi pensieri fino a qui, Albert.” Fu la prima cosa che disse Mycroft, una volta che furono fuori dalla locanda.
Albert arrivò di fronte alla carrozza e si voltò a guardarlo. “Tu lo avevi intuito, non è vero?”
“Che Julian Evans fosse andato con George Patel di sua iniziativa? Era un sospetto, ma non avevo prove,” ammise il Direttore. “Quello che ci ha raccontato Josh Finn mette in discussione il ruolo del giovane Evans all’interno della storia. È una vittima e un complice?”
“Si può essere sedotti e ingannati,” propose Albert. “Forse quando ha derubato la sua famiglia, Julian Evans era convinto che lui e George Patel sarebbero fuggiti insieme.”
Mycroft guardò la porta della locanda. “Questo Josh Finn non sembrava molto sicuro della buona fede del George di cui Evans gli ha parlato.”
Albert sospirò. “È disincantato. Al posto suo, chi non lo sarebbe?” Non aspettò una risposta. “So solo che George Patel è abbastanza furbo da non farsi vedere in giro con le sue vittime. Quanti George possono esserci soltanto a Londra? Sa giocare e lo fa senza correre rischi.”
Mycroft annuì. “Se non fosse così, non sarebbe arrivato a nove vittime senza far parlare di sé.” Si portò una mano sotto il mento, pensandoci. “Oppure…”
Albert lo guardò, curioso. “A che cosa stai pensando?”
“Al fatto che se George Patel avesse continuato a cercare le sue vittime lontano dalla nobiltà, a quest’ora non staremmo parlando di lui.”
“Julian Evans era il suo pesce grosso, lo hai detto tu,” gli ricordò Albert. “Un giovane nobile della famiglia giusta gli ha fruttato più degli otto borghesi che lo hanno preceduto.”
“Sì, è vero.” Mycroft non sembrava convinto. “Forse Patel si è solo fatto prendere dalla fretta. Suo padre è anziano e, senza il vecchio Marchese, l'elite di Londra non gli avrebbe concesso una seconda possibilità. Il suo nome è già stato macchiato dal pettegolezzo anni fa.”
“Questo l’ho detto io ma non ho prove.”
“Il modo in cui tuo padre ha reagito prontamente alla tua storia, senza aver paura di offendere un Marchese è una prova più che sufficiente.” Ribatté Mycroft. “È il Marchese Robert Patel che si sta reintegrando nella società nobiliare, non suo figlio. Se George avrà un futuro, potrà cominciare a costruirlo dal ballo di dopodomani in avanti.”
Albert sorrise. “C’è qualcosa che non ti torna. Te lo leggo in faccia.”
Mycroft ricambiò il sorriso. “Dovrei parlare con George Patel per farmi un’idea,” disse. “Temo accadrà la notte stessa dell’operazione dell’MI6. A quel punto, sarà tardi avere delle intuizioni utili.”
Albert si avvicinò di un paio di passi. “Condividi i tuoi pensieri con me.”
Mycroft rivolse un’occhiata veloce alla porta della locanda. “Josh Finn ha parlato di amore,” disse, pronunciando l’ultima parola più lentamente delle altre. “Non voglio riconoscere in George Patel virtù che non possiede, ma se il nostro errore fosse alla base? Scegliere un nobile è stato il suo unico inciampo, ma se fosse calcolato anche questo?”
Albert aggrottò la fronte. “Spiegati meglio.”
“Accantona la questione economica della famiglia Patel, per un momento,” gli suggerì Mycroft. “A George Patel piacciono i ragazzi con un buon odore, lo hai detto tu. E se Julian Evans non fosse né un complice né una vittima?”
“Allora che qual è il suo ruolo?”
“Quello che Josh Finn ci ha detto e nulla di più: l’innamorato.”
Il Conte Moriarty impiegò qualche minuto a mettere insieme i pezzi. “Mi stai dicendo che credi che Patel ricambi il sentimento di Julian Evans?”
Mycroft scrollò le spalle. “Può darsi. Forse vuole riscattare il nome della propria famiglia per scappare all’estero col suo amante, senza perdere i privilegi di un nobile.”
Albert provò a figurarsi la cosa, ma non ci riusciva. “Temo che quell’episodio della mia infanzia m’influenzi troppo per riconoscere in George Patel un innamorato,” ammise. “Ma anche se fosse, lui è ancora qui e Julian Evans è scomparso. Non sono certo scappati insieme come quest’ultimo credeva.”
“Non è da escludere che Patel stia nascondendo l’amante per tenerlo al sicuro,” buttò lì Mycroft.
Il Conte lo osservò per un lungo minuto. “Mi sorprende…”
“Che cosa, Albert?”
“La tenacia con cui mandi avanti questa tua teoria che vede la vittima e il carnefice come innamorati.”
Mycroft sorrise, paziente. “Julian Evans non vede un carnefice in George Patel. È su questo che hai difficoltà ed è comprensibile.”
Il Colonnello Sebastian Moran uscì dalla locanda in quel preciso momento, irritato come non mai. Fossero stati da soli, Albert era certo che lo avrebbe apostrofato nel peggiore dei modi. Era divertente restarlo a guardare mentre cuoceva nel suo stesso brodo, con lo sguardo truce e le labbra ridotte a una linea sottile.
“Ottimo lavoro d’indagine, Colonnello,” disse Mycroft con tono formale.
Moran si mise subito sull’attenti, come un riflesso incondizionato. “Dovere, Sir.”
Albert inarcò le sopracciglia. “E tu chi saresti?” Domandò, sarcastico. “Che fine ha fatto il Colonnello Sebastian Moran?”
Spingere l’uomo sulla soglia di una crisi di nervi era uno dei passatempi preferiti del Conte Moriarty. La presenza del Direttore Holmes non faceva che rendere la scena più esilarante.
“Io con te non ci parlo!” Bofonchiò Moran, permettendosi di avvicinarsi alla carrozza per aprire la porta ai due gentiluomini. “Andate, questo non è luogo per signori ben vestiti.”
Mycroft ringraziò per la cordialità, poi invitò Albert a salire per primo. Tanta cavalleria tutta insieme strappò un sorriso al Conte, che scosse la testa. “Vai pure. Permettimi due parole con il mio agente.”
Il Direttore non fece obiezioni, sparendo all’interno della carrozza.
“Quando fai così mi convinco che nell’esercito ci hai combattuto davvero,” disse Albert, le mani incrociate dietro la schiena. “Hai avuto i complimenti del Direttore, congratulazioni.”
“Smettila di adularmi,” ribatté Moran. “È stato Fred a passare le ultime notti fuori per recuperare qualche informazione. L’unico motivo per cui sono qui è perché conosco Josh Finn.”
“Sei un suo cliente?” Albert sottolineò l’ultima parola.
Sebastian alzò gli occhi al cielo. “Non sono un santo, lo sai.”
“Se è utile all’indagine, chiamiamola coincidenza fortunata. Dubito che Josh Finn avrebbe parlato con noi se non avessi fatto da mediatore, più o meno.”
“Mi togli una curiosità.” Moran cercò il pacchetto di sigarette nella tasca della giacca. “Questo George Patel è lo stesso di quella tua storia della Scozia?”
Albert restò ammutolito per una manciata di secondi. “Te la ricordi?”
Il Colonnello scrollò le spalle. “Ricordo di aver pensato tanti insulti per lui quanto per tuo padre. Duro com’è, il mio avrebbe tirato su un colpo di stato.”
“E sarebbe stato un genitore migliore del mio,” concluse Albert. “Se siamo qui, è perché lui è altri sono rimasti in silenzio. È una storia che già conosciamo. Il male è banale.”
“Noi siamo banali?”
“No, siamo necessari.”
Per salire sulla carrozza, Albert si fece leva sulla spalla del Colonnello.
Moran non ebbe il tempo di lamentarsene: vide qualcosa - no, qualcuno - in strada lo ammutolì. “Che ci fa William qui?”
Albert, che non si era ancora seduto, gli lanciò uno sguardo perplesso. “William non è qui.”
Moran alzò il braccio, come per indicare qualcosa, ma perse le staffe prima di offrire al giovane Conte una direzione in cui guardare. “E che cazzo ci fa appiccicato a quello stronzo di Holmes?” Sbraitò, dimenticando completamente che l’altro Holmes, il fratello maggiore, era a poco più di un metro da lui.
Per sua fortuna, Mycroft ignorò i toni per concentrarsi sui fatti. “Scendi, Albert.”
Ma il Conte era già tornato sul marciapiede.
“Non mi sono ancora ripreso dall’averti visto bere un boccale di birra,” disse Sherlock, divertito. “Uno come te non vive di Earl Grey?”
“Vivi con un medico, dovresti sapere che è consigliato vivere di acqua,” ribatté William.
Entrambi si stavano impegnando a mantenere una certa leggerezza. Il momento di confidenza che avevano condiviso nel pub era più che sufficiente per una sola giornata. Camminavano l’uno al fianco dell’altro, senza una meta. A loro bastava parlare e stare insieme. Per quanto suonasse come una contraddizione, l’East End era il posto più sicuro per farlo alla luce del sole. In un salotto dell’alta società, non sarebbero mai potuti essere così liberi nelle parole, nei gesti e nelle reazioni.
Forse a Sherlock non sarebbe importato, ma William non poteva permettersi troppi rischi e, a lungo andare, anche lui si stancava di recitare.
“Te lo hanno mai detto che sei un comico insospettabile, Liam?”
“Si chiama English Humor, è famoso in tutto il mondo.”
“Già… Immagino che sotto la definizione di English Humor ci sia proprio quel tuo imperturbabile sorriso cortese.”
“Quando sto con te, pensi che sorrida per cortesia?” Domandò William.
Sherlock gli lanciò un’occhiata veloce. “È una domanda trabocchetto?”
“Tu rispondi.”
“Sì, è una domanda trabocchetto.” Il Detective prese un respiro profondo, grattandosi la nuca. “Come faccio a dirlo senza suonare irrispettoso?”
William rise. “Da quando ti preoccupi di suonare irrispettoso?”
“Ecco!” Esclamò Sherlock. “Questa è una reazione spontanea.”
William si fermò. “Mi trovi poco spontaneo, Sherlock?”
Il Detective si mise di fronte a lui, le mani nelle tasche dei pantaloni e quel sorrisetto da eterno ragazzino so-tutto-io. Lo guardò da capo a piedi, senza preoccuparsi di sembrare sfacciato. Veniva voglia di prenderlo a schiaffi, William doveva riconoscerlo, ma non riusciva a togliergli gli occhi di dosso proprio per questo. “Allora?” Incalzò.
“Se ti offendi, è colpa tua,” lo avvertì Sherlock. “Lo hai voluto tu.”
“Mi prendo le responsabilità delle mie decisioni.”
“Non credo che qualcuno ti abbia educato a essere come sei. Crescendo, hai studiato il mondo intorno a te e hai capito quale maschera era la migliore da indossare,” disse Sherlock. “Educato, cortese, sempre sorridente… Perché hai un sorriso in grado di destabilizzare anche la più ferma delle volontà.”
William reclinò la testa da un lato. “Mi state dando del Diavolo, Mr. Holmes?”
“Oh, se lo sei…” Sherlock si fece più vicino. Troppo. “Lo siamo entrambi, in modi diversi ma complementari. Io ho deciso di mostrarlo liberamente e di bruciare nell’inferno dell’ignominia, tu hai scelto di proteggere il nome dei Moriarty… Non per te, ben inteso, ma perché non sei l’unico a portarlo. Ma Dio solo sa quanto vorresti gettare la maschera e dare fuoco a ogni cosa perché, mio caro Liam, ti sei adattato a un mondo che odi. Sei stato al gioco, lo fai ogni giorno ma è stancante, vero? Logorante. Per questo sei qui con me. Perché io sono il cattivo ragazzo, quello ribelle, quello sempre fedele a se stesso, suo malgrado. Io sono quella libertà che non hai mai concesso a te stesso in ventiquattro anni di vita.”
Da parte di William, seguì il silenzio. Cercò alla svelta qualcosa da dire che potesse fargli recuperare un vantaggio, ma Sherlock lo zittì sollevando la mano per toccargli il viso. Gli accarezzò l’angolo destro della bocca con il polpastrello del pollice. Tornò a debita distanza prima di attirare gli sguardi dei curiosi.
“Ho indovinato,” non era una domanda. “Ma ho la netta sensazione che sia solo parte della verità. Sei un enigma, Liam. Uno di quelli che è difficile risolvere, per questo mi piaci tanto.”
Un enigma. William avvertì un tuffo al cuore, ma la voce della ragione non ebbe alcuna pietà di lui: che cosa ti eri aspettato? Lo hai scelto proprio per questo. Non può deluderti perché si è rivelato esattamente quello che volevi che fosse.
“E che cosa ti fa essere tanto sicuro di te?” Domandò il giovane Moriarty, forse con più freddezza del dovuto.
“Il fatto che non stai sorridendo più.” Sherlock lo disse con amarezza, come se gli fosse dispiaciuto aver avuto ragione. “Alle volte ci riesco a farti togliere la maschera, ma solo per pochi istanti. Sul treno ci sono riuscito un po’ di più, ma era il nostro secondo incontro e non eri preparato.”
“Non sono mai preparato a incontrarti, Sherlock.” William lo superò e riprese a camminare.
Alle sue spalle, Sherlock sospirò. Se l’era aspettato. “Lo sapevo che ti saresti offeso,” disse, seguendolo. “Come lo sapevi tu ma non mi hai fermato.”
Aveva ragione. Era facile ascoltare Sherlock quando gli diceva proprio quello che voleva sentirsi dire. Quando parlava della verità era una cosa diversa. Quello che il Detective non aveva capito - e che William non gli avrebbe mai potuto spiegare - era che il giovane Moriarty non era stato ferito dell’essere apostrofato come Diavolo, ma come enigma.
Era risaputo che gli enigmi avevano vita breve nelle mani di Sherlock Holmes e quello del Signore del Crimine - di William - non era stato creato per durare per sempre. Definendolo come aveva fatto, il Detective gli aveva rivelato la profondità del suo interesse per lui: dopo la soluzione del caso, non sarebbe rimasto più niente.
Tutto secondo i piani, sibilò la voce nella testa di William, eppure sentiva in bocca il sapore amaro della delusione. Non ne aveva alcun diritto.
“Liam?” Sherlock gli arrivò accanto, improvvisamente timido. “Ti ho detto che mi piaci tanto,” gli sussurrò, abbozzando un sorriso. “Sono stato un disastro su tutto il resto, ma possiamo concentrarci su quello?”
“Non sei tu, Sherlock,” lo rassicurò William
“Tu non mi credi,” concluse il Detective.
“Credo quello che ho detto a Durham,” disse William. “Credo che catturerai il Signore del Crimine e tornerai a essere padrone della tua vita. Il motivo per cui ti affascino è perché, nella tua testa, continui ad associare la figura della tua nemesi a me. Una volta arrivato alla verità, finirà anche questa illusione.”
“Adesso sei tu che offendi me,” ribatté Sherlock, per nulla divertito.
“Tu mi hai detto la tua verità e io ti ho detto la mia.” William sorrideva, ma nessuna luce raggiunse i suoi occhi scarlatti. “Siamo adulti, siamo in grado di accettarla, no?”
Ma Sherlock non si era guadagnato il posto da protagonista in quella storia stando zitto e dandogli ragione.
William dovette fermarsi di nuovo perché il Detective lo superò con due ampi passi e gli si piazzò davanti, bloccandogli la strada.
“Che cosa stai facendo, Sherlock?”
“Di che colore sono i miei occhi?”
“Prego?”
“Devo provare qualcosa a me stesso e, se vorrai ascoltarmi, anche a te. Dimmi di che colore sono i miei occhi.”
William non poté evitare di alzare gli occhi al cielo. “A un primo sguardo, i tuoi occhi sembrano scuri,” disse. Non poteva mentire, non su quello. “Ma quando rispondi agli sguardi, è impossibile non notare che sono blu.”
Sherlock sorrise, soddisfatto. Non gli serviva altro.
William non gli diede il tempo di voltarsi. “Colpiti dal sole, però, il colore cambia, si fa più caldo, simile al viola.”
Sherlock si voltò lentamente.
Sul viso di William era comparso lo stesso sorriso criminale che gli aveva rivolto sul treno. “Ho superato il tuo test, Detective?” Gli fece il verso della domanda che gli aveva rivolto a Durham.
“Mi accontetavo di blu,” ammise Sherlock. “Ma mi hai dato meravigliosamente ragione.”
“In che modo?”
“Dimostrandomi che mi guardi da vicino, esattamente come io faccio con te.”
William tornò serio di colpo. Sherlock lo aveva fregato e non ci aveva nemmeno provato. Aprì la bocca, pronto a sfuggire a quella situazione con eleganza. Quando si accorse di non saper ribattere in modo efficace, si mise a ridere.
Sherlock fece lo stesso. “Hai perso, Liam.”
Il giovane Moriarty provò a riscattare il proprio orgoglio distrutto, ma qualcosa a lato della strada attirò la sua attenzione, pietrificandolo. Sherlock si voltò per capire di che cosa si trattasse: la carrozza del governo fu la prima cosa che vide. Gli bastò.
Afferrò il polso di William.
“Corri, Liam!”
“Albert, è tutta colpa tua, come sempre!”
Il potere inibitore della presenza di Mycroft Holmes era svanito nel momento in cui il Colonnello aveva visto William passeggiare per le strade dell’East End Al fianco del Detective Sherlock Holmes. Ora Moran andava a briglia sciolta, come se il Direttore non fosse nemmeno lì.
Albert apriva la fila di quell’insolito trio e l’agente 006 era appena un passo dietro di lui. Mycroft si era completamente estraniato dalla discussione. Il Conte non lo biasimava ma il modo discreto in cui li accompagnava in quella ricerca tra i vicoli aveva un qualcosa di strano. Sarebbe bastata una sua parola per mettere a tacere il Colonnello, ma Mycroft li osservava senza nessuna particolare espressione.
Li stava studiando e Albert ne era infastidito. “Sapevo che si sarebbero rivisti ma non credevo che William lo avrebbe portato qui.”
“William?” Domandò Moran. “Come siamo arrivati a incolpare William?”
Fu allora che Mycroft intervenne per la prima volta nella conversazione. “Mio fratello non ha molta familiarità con l’East End, Colonnello. La sua condotta è opinabile ma non porterebbe mai il secondogenito di una famiglia nobile in questi quartieri.”
Incapace di prendersela con lui, Moran continuò a sfogarsi sul leader dell’MI6. “Albert, vuoi un bastone da passeggio? Stavano correndo, così non li raggiungeremo mai!”
Albert sbuffò apertamente. “Raggiungerli dove?” Usciti dal vicolo, si ritrovarono in un’altra strada affollata come quella in cui avevano lasciato la carrozza. Si fermarono sul bordo del marciapiede, il Conte in mezzo agli altri due uomini. Era uno schema che si ripeteva, come era accaduto all’interno del pub. Albert decise di non pensarci troppo. Sospirò, sconfitto. “Bene, Colonnello, dove si va?”
Quando Moran gli prese il polso tirandolo verso destra con determinazione, il Conte se ne sorprese.
“Per di qua,” disse il Colonnello, lasciando andare il più giovane dopo una decina di passi. “Dall’altra parte si va per una zona molto brutta anche di giorno, dubito che William ci porterebbe il Detective.”
Con Moran alla guida, Mycroft tornò a fianco del Conte.
“Mi dispiace,” disse quest’ultimo.
Il Direttore accennò un sorriso. “Sherlock è un adulto e l’ho visto chiaramente: è stato il primo a mettersi in fuga. Non c’è alcuna ragione di dispiacersi.”
“Mi dispiace per tutto,” sottolineò Albert.
Capendo che non si riferiva solo ai loro fratelli, Mycroft sollevò lo sguardo sull’uomo di quasi due metri che camminava di fronte a loro. “Avete studiato a Oxford, Colonnello?”
A quella domanda, Albert inarcò le sopracciglia ma rimase in silenzio.
Moran si voltò per una frazione di secondo e rispose: “sì, Direttore, ma non ho finito gli studi. Me ne sono andato e mi sono arruolato. Immagino che quella parte della storia la conosciate già.”
“Anche io e mio fratello siamo andati a Oxford, ma non mi ricordo di voi.”
“Siete più giovane di me, Direttore.”
Suonava come una normale conversazione ma non lo era. Albert si rifiutava di credere che Mycroft Holmes stesse facendo due parole con Sebastian Moran per il semplice gusto di farlo.
Di fatto, il Direttore impiegò davvero poche battute ad affondare la propria stoccata. “Ho conosciuto vostro padre.”
Albert trattenne il fiato e non poté evitare di guardare l’amante come se fosse un pazzo. Mycroft non lo sapeva, aveva conosciuto Sebastian Moran solo attraverso un fascicolo redatto dal leader dell’MI6 e dai documenti ufficiali presenti nell’archivio dell’esercito, ma il Colonnello tollerava ben poco ogni riferimento alla famiglia che si era lasciato alle spalle. In particolare, a quel padre troppo ligio per un figlio dalla natura ribelle.
Moran si fermò e lanciò un’occhiata al Direttore da sopra la spalla.
Ignaro - o forse sprezzante - del pericolo, Mycroft rincarò la dose. “Gli somigliate.”
Albert serrò i denti sul labbro inferiore, lanciando uno sguardo al Colonnello che sottintendeva tutte le parole che non poteva pronunciare ad alta voce: sì, ti sta provocando ma non abboccare.
Moran rispose al suo sguardo e inspirò profondamente dal naso, prima di rispondere: “quando ero vivo, me lo dicevano in molti.” Riprese a camminare.
E Albert a respirare.
***
“Corri, Liam!”
Al comando del Detective, William si era mosso senza pensarci due volte. Solo in un secondo momento si era accorto che Sherlock lo stava tenendo per mano. S’infilarono nel vicolo più vicino e sbucarono in un’altra delle strade principali.
Sherlock lo tirò verso sinistra.
William puntò saldamente i piedi a terra e lo trattenne. “Non da quella parte!” Esclamò. “Non è una bella zona. Per di qua.”
Il Detective non si fece pregare e lasciò che il nobile lo guidasse lungo il marciapiede affollato. Evitare di scontrarsi con la gente fu difficile ma William, notò Sherlock compiaciuto, aveva davvero degli ottimi riflessi.
“Se non sapessi che sei nato in una delle famiglie più illustri di Londra, direi che sei un gatto randagio!” Rise.
“Risparmia il fiato per correre, Sherlock!”
“Agli ordini!”
William lo guidò per una serie di strade secondarie e vicoli. Si erano addentrati in una zona residenziale, decisamente più tranquilla di quella da cui venivano. Sherlock non poté fare a meno di pensare che anche l’aria era più respirabile.
“Qui dovremmo essere al sicuro,” disse William, rallentando il passo. Lasciò andare la mano del Detective e s’infilò in una via senza sbocco. “Vieni.” Aveva le guance rosse, il fiato corto e i capelli in disordine. Era bellissimo.
Sherlock era curvo su se stesso. A stento riusciva respirare ma non poteva smettere di ridere.
“Ti senti bene?” Domandò il nobile.
Sherlock appoggiò la schiena al muro sporco, obbligando se stesso a darsi una calmata. “Mio caro Liam, questo tuo lato ribelle mi ucciderà per eccesso di emozioni.”
William sorrise, portandosi di fronte a lui. “Sei tu che hai cominciato a correre.”
“Non mi sembra di aver percepito esitazioni da parte tua.”
“Diciamo che non sei l’unico a essere uscito di casa senza dire dove andava.”
“Avevi paura fosse tuo fratello?”
“Non avevo paura. Era sul marciapiede, ci siamo visti a vicenda. Non lo hai notato?”
Sherlock divenne serio di colpo. “Oh, cazzo…” Si passò una mano tra i capelli. “No, ho visto la carrozza del Governo e ho agito d’istinto. Quella carrozza è sempre un segnale d’allarme per me. Ma se hai visto Albert ci sono buone probabilità che Mycroft sia qui.”
Anche William smise di sorridere. “Pensi ci siano venuti a prendere?”
“Non lo so. Quanto è ansioso tuo fratello?” Domandò Sherlock. “Quanto sono in confidenza lui e Mycroft?”
William aveva una risposta precisa e articolata a quell’ultima domanda ma se il Detective gliela poneva, era ovvio che non sapeva nulla del legame tra il proprio fratello e il suo. “Abbastanza per chiamarsi per nome,” rispose, vago.
“Oh…”
“Perché sei sorpreso?”
“Mycroft sarebbe capace di essere formale anche con un cane per strada. Io sono la sua unica eccezione, mi chiama ancora col diminutivo di quando ero bambino.”
William si sporse oltre il muro ma non vide nessuno.
“Avanti, Liam, abbiamo fatto un percorso tanto arzigogolato che mi sorprenderei di sapere che non ti sei perso anche tu,” disse Sherlock.
“Purtroppo, mio fratello era in compagnia di uno di quei nostri servitori che non sono davvero servitori e lui sa muoversi abbastanza bene in questi quartieri.”
Il Detective lo squadrò da capo a piedi, come se non lo avesse già fatto decine di volte. “Mi sorprende il modo in cui ti ci muovi tu.”
William piegò le labbra in un sorriso criptico. “Sono un enigma, lo hai detto tu.”
Sherlock rise. “E ancora non ammetti di essere il Signore del Crimine.”
“Se lo fossi e te lo dicessi, non me lo perdoneresti mai.”
“Già…” Il Detective si arrese. “È vero.”
Restarono in silenzio per un po’, permettendo a loro stessi di riprendere fiato e calmare il battito frenetico del loro cuore. Sherlock fu il secondo a sporgersi per controllare la situazione e, istintivamente, William cercò di fare lo stesso.
“No, no, Liam, fermo!” Il Detective lo prese per le spalle e lo spinse contro la parete, senza farsi male. “Ho visto un uomo sospetto in fondo alla via,” aggiunse in un sussurro. “Non fare rumore.”
William ubbidì ma tenne lo sguardo rivolto verso la strada, pronto a scattare nel caso qualcuno fosse comparso nel proprio campo visivo. Sherlock, al contrario, era molto distratto: i suoi occhi blu tracciarono la linea del profilo del nobile, memorizzando ogni dettaglio di quel giovane viso. Lo aveva guardato tante volte, ma mai così da vicino. Senza chiedersi se fosse una buona idea o meno, Sherlock chinò la testa tra il collo e la spalla della Professore.
Nel sentire il suo respiro caldo sul collo, William trattenne il proprio. “Che cosa stai facendo?” Domandò a voce bassissima.
“Ti annuso,” rispose Sherlock. “Tu sei stato tanto sfacciato da farlo con me al nostro primo incontro e non ho mai ricambiato.”
Certo che l’altro non lo potesse vedere, William si morse il labbro inferiore per obbligare la sua mente a rimanere lucida. Pochi centimetri e la fantasia dove il Detective gli baciava il collo si sarebbe concretizzata. Peccato che fossero in un vicolo lurido e non di fronte a un pianoforte a coda.
il Signore del Crimine rimase immobile, mentre il Detective Sherlock Holmes lo corteggiava senza aver paura delle conseguenze.
Sei un enigma, non dimenticarlo. William chiuse gli occhi, mentre il respiro di Sherlock sulla sua pelle metteva a tacere quella voce molesta.
“Chissà se Conan Doyle scriverà mai di noi nei suoi libri?” Domandò Sherlock, un sussurrò che scivolo in modo sensuale nell’orecchio del giovane Professore.
William dischiuse le labbra e ingoiò a aria. “Conan Doyle scrive di te. Immagino che tutto dipende da come desideri che la tua storia venga raccontata.”
Sherlock rise. Erano tanto vicini che William sentì il suo petto vibrare contro il proprio. Non riusciva a respirare, ma non possedeva la volontà di spingere il Detective lontano da sé.
“Conan Doyle ha messo su bianco una storia con un protagonista eccentrico,” disse Sherlock. “Ma è il Signore del Crimine ad aver creato entrambi.”
William credeva che fosse vero solo in parte. “Penso che il Dottor Watson avrebbe scritto di te anche senza l’aiuto di un fantomatico Signore del Crimine.”
Il Detective sollevò la testa ma non troppo da impedire all’altro di percepire il suo calore. “Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato ama il tuo peccato e sarai innocente.” Shakespeare recitato con la voce di Sherlock era un incantesimo da cui William non sapeva come proteggersi.
Si guardarono, il rosso nel blu.
“Perché hai citato proprio quella parte?” Domandò il giovane Moriarty.
“Perché se questo mondo non vedesse un crimine dove non ve n'è ombra, io e te potremmo essere immortali tra le pagine di un libro. Proprio come Romeo e Giulietta.”
“Ma tu sarai immortale, Sherlock” disse William, sicuro. “Lo sei già. Tra un secolo leggeranno ancora le storie di Conan Doyle. Qualcuno le amerà, qualcun altro meno, ma nessuno potrà ignorare l’esistenza del Detective Sherlock Holmes di Baker Street.” Una pausa. “E non paragonarci più a Romeo e Giulietta, per favore.”
Sherlock s’imbronciò. “Perché no?”
“Perché è una tragedia,” rispose William. “E la tua storia non lo sarà.”
Il Detective fece per ribattere ma la voce del Colonnello Sebastian Moran interruppe il momento: “Albert, giuro su di Dio che non li troviamo, io-“
Sherlock afferrò la mano di William, pronto a correre. La loro seconda fuga ebbe vita breve: Sherlock scivolò su qualcosa - fu impossibile capire cosa - e atterrò rovinosamente al centro di una pozzanghera, trascinando il giovane Moriarty con sé.
Appena il tempo di riprendersi dallo shock della caduta e il Detective si sporse verso il nobile per assicurarsi che non avesse nulla di rotto. “Liam, stai bene?” Domandò, preoccupato. “Ti sei fatto male?”
La caduta a terra non poteva essere stata indolore, ma William rideva. Aveva il viso, i capelli e i vestiti sporchi di fango e di Dio solo sapeva cosa, ma rideva. Non riusciva a fermarsi. Sherlock si fece contagiare. “Dai, Liam, abbiamo fatto la figura degli idioti!”
“Per una volta, la pensiamo allo stesso modo, Sherlock Holmes.”
Il divertimento per il Detective s’infranse lì, contro il suono del proprio nome completo pronunciato dalla voce di Mycroft. Non andava bene. No, proprio per niente.
Sherlock sollevò lo sguardo e due occhi identici ai suoi lo giudicarono per tutti i peccati che aveva commesso in un solo pomeriggio. Sbuffò, come se avesse cinque anni. “Mycro-“
“Alzati in piedi.” Suo fratello nemmeno gli fece la cortesia di porgergli la mano. Era proprio arrabbiato.
“È colpa mia,” si affrettò a dire William, che era già in piedi grazie all’aiuto di Albert. “L’idea di venire qui è stata mia. Sherlock non ha nulla a che fare con-”
Mycroft si permise d’interromperlo. “Sono certo che Sherlock sia in grado di difendersi da solo.” Lanciò uno sguardo al fratello minore. “Vuoi restare lì per terra per il resto della giornata?”
Sherlock si alzò in piedi. Era sporco e bagnato quanto il giovane Moriarty e Mycroft non gli risparmiò un’occhiata giudicante.
“Li abbiamo trovati,” intervenne Albert, stringendo la spalla del fratello minore in un gesto rassicurante. “Hanno fatto una sciocchezza, Direttore, ma non è successo nulla d’irreparabile.”
Per la prima volta, Sherlock si permise di guardare i due uomini che non conosceva. Il tipo alto due metri che lo fissava in cagnesco doveva essere quel servitore che non era davvero un servitore di cui William gli aveva parlato. Non ebbe alcun bisogno d’interrogarsi sull’identità del giovane Lord con gli occhi verdi.
Ecco Albert. Il primo pensiero di Sherlock fu che, a differenza di Louis, quell’uomo non assomigliava per niente a William.
Amante delle formalità come era, Mycroft non perse l’occasione per fare le presentazioni. “Conte Moriarty, vi presento mio fratello minore: Sherlock Holmes. Penso che abbiate sentito parlare delle sue imprese di Detective.”
Albert sorrise. “Non siate modesto, Direttore. Tutta la Gran Bretagna conosce le imprese di vostro fratello. Piacere di conoscervi, Sherlock Holmes.”
Il Detective stirò le labbra in un sorriso nervoso. “Piacere mio.”
“I gentiluomini si stringono la mano, Sherly,” gli ricordò Mycroft.
“Ho le mani sporche di fango!” Ribatté il più giovane.
William se ne stava in silenzio a subire la scena. Non era una cosa che gli capitava spesso e un poco lo infastidì. Non ce l’aveva con Albert per aver involontariamente interrotto il suo pomeriggio con Sherlock, ma era un altro momento per loro che finiva. Rimaneva solo il ballo in maschera dei Patel.
Moran si tolse la giacca e l’appoggiò sulle spalle di William. “Albert, lui ha i vestiti bagnati e tra poco comincerà a fare freddo.”
“Ne sono conscio, Colonnello,” disse il Conte, col sorriso tirato di chi sta per perdere la pazienza.
“Torniamo alla carrozza,” disse Mycroft. “Accompagneremo a casa il Conte Moriarty e Lord William, poi io e te parleremo.”
Sherlock storse le labbra in una smorfia poco felice: quella non era una promessa, era una minaccia.
Moran si accomodò al posto del cocchiere, insieme al vecchio Jones.
Le due coppie di fratelli si sedettero l’una davanti all’altra: William e Albert dalla parte del senso di marcia, Sherlock e Mycroft dall’altra. Fu presto chiaro che i più giovani non potevano guardarsi senza rischiare di scoppiare a ridere, forse a causa del ricordo della loro rovinosa caduta e dello stato miserabile in cui versavano entrambi.
Il silenzio di tomba che regnava all’interno della carrozza non faceva nulla per aiutarli.
Albert e Mycroft si dissero tutto senza parlare. Anche loro si erano aspettati una giornata diversa e non potevano fare altro che adattarsi.
“Hai freddo?” Domandò Albert al fratello minore.
William, che aveva ancora la giacca del Colonnello sulle spalle, scosse la testa. “No. I vestiti bagnati non sono piacevoli ma posso sopportare.”
“Siamo quasi arrivati,” lo rassicurò Albert.
Mycroft guardò Sherlock con la coda dell’occhio, sorpreso che non avesse ancora detto qualcosa di spiacevole. Suo fratello maggiore non si accorse nemmeno di essere osservato, troppo rapito dall’osservare il Moriarty più giovane. Sherlock non ci provava nemmeno a nascondere il suo interesse. William era più convincente nel fingere indifferenza, ma Mycroft non poteva ignorare il modo in cui quegli occhi scarlatti continuavano a tornare sul viso di suo fratello.
Era la prima volta che il Direttore li vedeva insieme e, sebbene non stessero facendo nulla di esplicito, percepì quel magnetismo di cui John Watson gli aveva parlato. Non poteva fare grandi intuizioni su William James Moriarty - e in quel momento nemmeno gli interessava - ma Mycroft guardava Sherlock ed era certo di averlo mai visto così. C’era un metro o poco più a separare suo fratello da quello di Albert e Sherlock guardava William come se quella distanza fosse troppo.
Solo quando la carrozza si fermò di fronte alla residenza londinese dei Moriarty, Mycroft cercò gli occhi di Albert. “Cenate con la vostra famiglia, Conte,” disse. “Se non vi è di troppo disturbo, mi piacerebbe concludere la nostra conversazione questa sera, nel vostro ufficio.”
Gli occhi verdi di Albert si fecero grandi per una frazione di secondo. Il sorriso che seguì confermò al Direttore che aveva compreso le sue intenzioni.
“No, non è affatto di troppo disturbo,” rispose Albert.
Anche gli occhi blu di Sherlock cercarono quelli scarlatti di William. Voleva salutarlo, promettergli che si sarebbero rivisti ancora.
Per la seconda volta in meno di un’ora, la voce di Moran li privò di quel momento. “Louis, aspetta!” La carrozza traballò, informando chi era al suo interno che il Colonnello era sceso dal posto del cocchiere. “No, Louis, faccio io! Louis, non ignorarmi! Louis!”
Tutto si consumò in pochi istanti. Louis James Moriarty aprì la porta, pronto ad accogliere i due fratelli maggiori. Tutte le sue buone intenzioni andarono in mille pezzi non appena si rese conto di chi erano i loro accompagnatori. Uno in particolare.
Fu proprio Sherlock a vedere il sorriso svanire dal quel giovane viso in favore di un’espressione orripilata. Nello stesso momento in cui Louis richiuse la porta sbattendola, il Detective scoppiò a ridere senza vergogna, guadagnandosi un’occhiata storta da parte del fratello maggiore.
“Era Louis?” Domandò Albert, che si era accorto di quanto successo solo a metà.
William si limitò a prendere un respiro profondo.
La porta si aprì una seconda volta e ci pensò Sebastian Moran a peggiorare la situazione. “Albert, questa è tutta colpa tua!” Tuonò. “Adesso ci parli tu! Lo convinci tu a darsi una calmata, io non voglio saperne niente!”
Il Colonnello scomparve sbattendo l’uscio a sua volta.
Non era abitudine di Albert James Moriarty provare imbarazzo - di solito, era lui a provocarlo nel prossimo - ma ora sentiva il pressante bisogno di scavarsi una fossa e buttarcisi dentro. Al suo fianco, William non versava in uno stato meno miserabile.
“Si respira una certa vivacità nella vostra casa, Conte,” commentò Mycroft.
Albert non comprese se stesse rigirando il dito nella piaga o volesse solo sdrammatizzare.
Sherlock, nel frattempo, non la smetteva di ridere.
Quando la porta si aprì per le terza volta e fu Jack a comparire sulla scena, i fratelli Moriarty non furono mai tanto felici di vederlo. “Perdonate il ritardo,” disse, chinando la testa in segno di rispetto.
Albert fu il primo ad alzarsi, ma non scese prima di aver rivolto a Mycroft un’ultima occhiata. Ti aspetto, dicevano quegli occhi verdi.
Non ti farò attendere molto, prometteva il sorriso del Direttore.
Quando fu il turno di William, Sherlock smise di ridere. Il Professore non lo guardò, non lo salutò, non fece nulla.
Dannato Louis, pensò il Detective, certo che il malumore del più giovane avesse inibito l’allegria di William. Si alzò di scatto e si sporse dalla carrozza appena in tempo per afferrare la mano del giovane Moriarty. “Promettimi che non ballerai con altri che con me.”
Era ovvio che si riferiva all’evento dei Patel, ma William non poté fare altro che sbattere le palpebre. “Come?”
“Dopodomani ballerai con me e solo me.” Sherlock ribadì il concetto con quel sorriso da canaglia che lo contraddistingueva. “Promettilo!”
William dischiuse le labbra, allibito. Sentiva la pressione degli sguardi di metà della sua famiglia e questo non lo aiutava affatto. “Sherlock…”
“Prometti!”
Era chiaro che il Detective non lo avrebbe lasciato andare senza avere una risposta affermativa. Fu il turno di William di arrendersi: “va bene,” rispose, tradendo una nota esasperata. “Te lo prometto, Sherlock.”
Soddisfatto, Sherlock lo liberò dalla propria presa. Un istante dopo, Mycroft lo afferrò per il retro della giacca e lo spinse sui sedili della carrozza.
“Andiamo, Jones,” ordinò il Diretto.
Non appena furono arrivati a metà del vialetto, Sherlock si sporse pericolosamente dal finestrino sbracciando in direzione di William. “Ci vediamo al ballo in maschera, Liam.”
Fu imbarazzante, senza dubbio.
Questo non impedì a William di restare a guardare la carrozza che spariva oltre il cancello, tra le strade di Londra.
“Hai intenzioni di mettere radici lì, fratello?” Domandò la voce di Louis, velenosa.
William si voltò appena in tempo per vedere il minore rientrare in casa a passo di marcia. Moran, fermo accanto al portone d’ingresso, fu svelto a prendersela col padrone di casa. “Albert, vedi di fare qualco-!”
“Ho capito, Colonnello!” Il Conte non sorrideva più.
“Oooh!” Moran non si fece sfuggire l’occasione per prenderlo un po’ in giro. “Ora che non c’è più il Direttore in giro, tiri fuori quel carattere di merda che hai?”
Albert piegò le labbra in un sorriso sinistro. “Quasi dieci anni e ancora non avete capito che non vi conviene sfidarmi.”
“Buoni, ragazzi,” intervenne Jack, spingendo gentilmente William a varcare il portone d’ingresso. “Se vi uccidete a vicenda, non riuscirete a cambiare molto di questo paese. Cerchiamo di arrivare tutti vivi a quel ballo in maschera.”
***
Mycroft era abituato alla lunaticità di Sherlock, ma quando suo fratello passò dall'allegria più pura al malumore più nero nel tempo necessario a uscire dalla residenza dei Moriarty, persino lui ne fu sorpreso.
“Adesso perché sei arrabbiato?” Domandò il Direttore, che non riusciva a restare serio di fronte a quel ventiquattrenne che lo fissava con lo stesso broncio di quando di anni ne aveva sette.
“Sei un genio, no? Arrivaci da solo!” Fu la replica irritata di Sherlock.
“Sherly, non sono stato io a rovinare il tuo momento con William.”
“Ah, no? Perché mi sembrava di essermi messo in fuga proprio da te.”
“Eravate nel posto sbagliato al momento sbagliato. È stata solo sfortuna.”
Sherlock sbuffò, ben consapevole che il maggiore aveva ragione e per nulla felice che non potesse prendersela con nessuno. “Dove stiamo andando?” Domandò, quando si accorse che la carrozza stava percorrendo il perimetro di Hyde Park. “Baker Street è nella direzione opposta.”
“Starai con me per il resto della giornata,” disse Mycroft, lapidario.
Sherlock sgranò gli occhi. “E chi lo ha deciso?”
“Io, ovvio. Devo parlarti di una cosa molto importante e devo portarti dal mio sarto per le ultime modifiche del tuo frac, ma non posso fare nessuna delle due cose mentre puzzi e sei sporco di fango.”
“Smettila immediatamente!” Sibilò Sherlock, per nulla divertito. “Io non ho alcuna intenzione di passare il resto della giornata con te!” Aggiunse. “E poi da dove salta questa storia del frac? E se avessi voluto presentarmi al ballo con uno smoking?”
Mycroft scrollò le spalle. “Sei alto,” rispose. “Non metterti il frac sarebbe uno spreco.”
“Non sono un bambino che puoi vestire come ti pare e piace!” Sherlock stava urlando come un isterico. E il modo in cui suo fratello rimaneva composto, con quell’insopportabile sorriso cortese - dalle sfumature sadiche però - lo mandava completamente fuori di testa.
“Avanti, Sherly, non possiedi nemmeno una cravatta,” ribatté Mycroft. “Non c’è nulla di male se decido di regalarti un frac nuovo.”
“E dove le hai trovate le misure?”
“Le conosco le tue misure. Il mio sarto ha solo bisogno di una prova per rifinire gli ultimi dettagli.” La carrozza si fermò e il Direttore sorrise soddisfatto. “Siamo arrivati.”
C’erano diverse camere nella residenza di Mycroft Holmes.
Molte di queste erano vuote, inutilizzate. Non vi erano stanze per gli ospiti: al padrone di casa non piaceva averne, la maggior parte dei suoi incontri privati si svolgeva al Diogenes Club, nella Stranger Room.
Mycroft Holmes conosceva molte persone, ma non aveva amici. Con qualcuno era in rapporti migliori rispetto ad altri ma non esisteva davvero nessuno con cui fosse in confidenza. Proprio per questo era perfetto per la vita che conduceva. Quello di Mycroft Holmes non era un lavoro, non esisteva un confine oltre il quale costruire una vita privata. Rivestire il ruolo di Direttore dei Servizi Segreti significava non poter essere altro.
Però c’era Sherlock. Per lui, Mycroft non sarebbe mai stato nulla di diverso da un fratello molesto. E proprio per lui, Mycroft aveva fatto arredare la camera in fondo al corridoio, assecondando la folle speranza che il loro legame si potesse ancora aggiustare. Non era stata completamente fatica sprecata. C’era stato un periodo in cui Sherlock aveva vissuto realmente in quella stanza, un periodo della loro vita che nessuno dei due Holmes aveva piacere di ricordare. Ma alcune cose di Sherlock erano ancora lì. Non aveva portato con sé nemmeno i vestiti che Mycroft aveva fatto confezionare a posta per lui.
“Vado a prendere qualcosa dal tuo vecchio guardaroba,” disse il padrone di casa. “Così puoi cambiarti in dei vestiti della tua misura.” Lasciò la porta socchiusa, come se avesse paura che il fratello minore potesse scivolare e affogarsi nella vasca.
Sherlock non rispose. Si era chiuso dietro un silenzio scontento, conscio di non poter sfuggire alle grinfie del fratello maggiore.
Solo dopo essersi immerso nell’acqua calda, provò a darsi una calmata. Mycorft non era diverso da quello che era sempre stato e se era sopravvissuto per ventiquattro anni senza ucciderlo, poteva sopportare la sua presenza per qualche ora. La giornata con Liam gli aveva lasciato addosso tante emozioni positive e questo lo aiutava, in particolare su quell’ultima immagine di loro due, finiti nel fango, a ridere come matti.
La voce di Mycroft non gli permise di perdersi in quei pensieri per molto. “Sei hai bisogno di qualcosa, sono di qua, Sherly.”
Sherlock sbuffò e s’immerse fino al mento. “Qual è la cosa importante di cui mi devi parlare?” Lo domandò svogliatamente, tanto per scacciar la noia. In verità, credeva che importante lo fosse solo per suo fratello.
“Goditi il bagno,” rispose Mycroft, dalla stanza adiacente. “Abbiamo tutto il tempo.”
“Io volevo avere tutto il tempo con Liam, non con te!”
“Lo rivedrai tra circa quarantotto ore. Penso che tu possa sopportare la sua assenza per questo lasso di tempo.” Senza preavviso, Mycroft entrò nella sala da bagno.
Sherlock si spinse contro il bordo di marmo, fulminandolo con lo sguardo. “Ma che fai?”
“Non t’imbarazzare,” lo rassicurò il maggiore, ancora quel sorriso sadico fermo al proprio posto. “Mi ricordo ancora del tuo sederino rosa da bambino.”
Sherlock fu indeciso se annegarsi o annegarlo. La prima opzione non gli era di alcuna utilità, la seconda era illegale. “Che cosa vuoi?” Sibilò, minaccioso.
Le labbra di Mycroft disegnarono una linea retta. “Tra due notti, intendi sul serio ballare con William sotto gli occhi di tutta l’alta società di Londra?”
Sherlock sfoderò il suo sorriso da canaglia. “Conosci benissimo la risposta, fratello.”
“Sei consapevole che potresti danneggiare lui più di te stesso?”
“Non funzionerà, Mycroft,” disse Sherlock, emergendo quanto bastava per appoggiare le braccia sul bordo della vasca. “In quel vicolo, hai detto a Liam che sono in grado di difendermi da solo. Bene, ribatto dicendo che quando inviterò Liam, nessuno lo costringerà a dirmi di sì.”
Un’intuizione prese presto forma nella testa di Mycroft. “È una prova,” concluse.
“Il termine prova è così serio!” Obiettò Sherlock. “Preferisco definirlo un gioco.”
“Un gioco che potrebbe rendervi entrambi colpevoli di reato di sodomia. Ci hai pensato?”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Saremo mascherati, saremo ubriachi e saremo a casa di un presunto sodomita. Immagino che gli occhi di tutti non saranno su di noi, ma su George Patel.”
Mycroft fissò il fratello minore, stando attento a non mostrare alcuna sorpresa. “Hai fatto ricerche su George Patel?”
“Oh, fratello, so bene che non mi trascineresti mai a un ballo in maschera senza una buona ragione. Non sia mai che decida di dare fuoco alle tende per troppa noia.”
Suo malgrado, Mycroft rise. “Se rammento bene, la volta delle tende non era un’occasione formale, ma una cena di Natale.”
Sherlock decise di non indugiare sul ricordo. “Ho fatto un po’ di domande in giro,” raccontò. “Quasi tutti i miei vecchi colleghi di Oxford hanno dei fratelli e delle sorelle maggiori.”
“Parli con i tuoi ex compagni di Oxford?”
“No, Mycroft, li interrogo. È diverso. Una volta ridevano di me, ora sbracciano per scambiare due parole col famoso Detective di Baker Street. Il solito comportamento ipocrita dell’aristocrazia.”
“E che cosa hai scoperto dai tuoi contatti di Oxford?”
“Che circa quindici anni fa, quando George Patel era un adolescente, girava il pettegolezzo di una sua preferenza per i giovani nobili di sesso maschile. E pare che sia stato proprio il Conte Moriarty, il padre di Albert e Liam, a dare conferma alle voci, interrompendo di colpo i rapporti con i Patel.”
L’espressione di Mycroft tradì compiacimento. “Non pensare che tu mi abbia sorpreso. Non mi aspettavo nulla di meno da te.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Non fingere di adularmi. Immagino tu conosca già il resto della storia: George è stato allontanato da Londra ma è dovuto tornare quando il fratello minore è morto, dopo aver sperperato gran parte del patrimonio nel gioco d’azzardo.”
Mycroft annuì. “Mi hai ufficialmente risparmiato metà del lavoro.”
“E qui torniamo alla mia domanda iniziale.” Sherlock lo guardò dritto negli occhi. “Qual è la cosa importante di cui devi parlarmi?”
Il maggiore evitò la domanda. “Whisky o scotch?”
“Birra.”
“Dammi una risposta seria o non avrai che acqua.”
Sherlock sbuffò. “Whisky.”
“E whisky sia.” Mycroft si voltò e uscì dal bagno. “Esci da quella vasca e rivestiti, dobbiamo lavorare.”
“Io non lavoro per te!” Obiettò Sherlock.
Quando Mycroft tornò in camera, dieci minuti più tardi, trovò Sherlock appoggiato alla scrivania, gli occhi blu fissi sulle nove fotografie appese alla lavagna. Si era vestito ma i capelli ancora umidi stavano bagnando il colletto della camicia. Non gli sembrava importasse. “Quelle date si riferiscono al ritrovamento di un cadavere?”
“No.” Mycroft esaurì la distanza tra loro e porse al fratello uno dei due bicchieri di whisky. “Non abbiamo nessun cadavere. Solo scomparsi.”
Sherlock bevve un sorso senza disturbarsi a dire grazie. “Immagino che George Patel sia il nostro sospettato.”
“Elementare, Sherly. Vuoi che ti dica i dettagli?”
“Non mi serve. Il ballo in maschera a cui presenzieremo è il primo evento di gala organizzato dai Patel dopo la loro riprese economica, immagino che questi ragazzi siano da ringraziare per il miracolo. Se li ha truffati, come credo, non sono vivi.” Sherlock prese un altro sorso di whisky. “Sto cercando di capire perché dopo otto borghesi abbia deciso di rischiare con nobile.”
“Conosci Julian Evans? Ha un paio d’anni meno di te.”
“No, ma i nobili li riconosci da come si mettono in posa nelle fotografie. Cercano sempre d’imitare le espressioni dei ritratti d’epoca, quelli che vedono sulle pareti delle loro case per tutta la vita.”
“Ah, pensavo avessi intuito la sua estrazione sociale dai vestiti.”
“I vestiti ingannano,” disse Sherlock. “Sta nascendo una classe sociale d’impresari industriali che non vanta nessun titolo antico ma è ricca quanto- a volte di più - le famiglie blasonate della Gran Bretagna. Ma lasciamo perdere i miei ragionamenti, perché ti occupi di questo caso? Otto borghesi presumibilmente morti non mettono in pericolo il Governo.”
“Il Marchese Patel, il padre di George, ha servito nell’esercito. Inoltre, sono nobili sia il sospettato che l’ultima vittima ed entrambi rischiano di essere accusati di reato di sodomia. Serve discrezione, non è un caso per Scotland Yard.”
Alle parole reato di sodomia, Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Oddio, che pal-“ Si bloccò da solo. “Perché entrambi?” Domandò. “Pensavo che Julian Evans fosse una vittima.”
Mycroft prese un sorso del proprio whisky e appoggiò il bicchiere sulla scrivania. “Penso che sia il caso di raccontarti cosa facevamo io e il Conte Moriarty nell’East End, Sherly.” Gli parlò di Josh Finn e di quello che aveva raccontato loro riguardo a Julian Evans e al suo innamorato di nome George. Quando il più giovane rimase in silenzio, il Direttore si azzardò a esporgli la propria teoria.
Sherlock la respinse con una smorfia. “Come ti vengono in mente certe cose?”
Mycroft rise. “Albert ha rifiutato la storia degli amanti criminali quanto te.”
“Io non nego che George Patel e Julian Evans possano essere complici,” ribatté Sherlock.
“Quindi additi Julian Evans come colpevole?”
“È una situazione da cinquanta e cinquanta: Evans può essere complice o vittima. Alla mano, non abbiamo nessuna prova che possa svelare il suo ruolo con certezza.”
“Allora perché rifiuti la mia teoria con così tanto convinzione?”
“Perché ci metti di mezzo l’amore!” Esclamò Sherlock, finendo di bere il whisky. “Otto scomparsi e nessuno, prima di te, è riuscito a creare una correlazione. No, non è sorprendente perché Scotland Yard è limitata in modo vergognoso ma, usa la ragione, a George Patel è andata bene otto volte. Solo un idiota cambierebbe il proprio schema vincente per amore.”
Mycroft scrollò le spalle. “Per quel che ne so io, l’amore è solo un altro tipo di follia.”
Sherlock rise, schernendolo. “La follia è, senza dubbio, parte di questo mondo, Mycroft. Una delle sue forme più comuni è sicuramente la rabbia, ma mi rifiuto di pensare che un uomo nel pieno delle sue facoltà possa perdere la testa per amore!” Esclamò. “E George Patel era molto presente a se stesso mentre stroncava otto vite. Se solo sapessimo dove andare a cercare i cadaveri…”
“Abbiamo una pista,” confessò Mycroft.
Sherlock lo fissò. “Perché non me lo hai detto subito?”
“Perché sarà l’MI6 a chiudere questa indagine.”
“Mi dai un mistero e poi mi dici che non è affar mio?”
“Ti ho informato dei fatti perché non voglio che i miei agenti ti abbiano tra i piedi,” disse Mycroft, poi si fece improvvisamente serio. “E perché voglio che tu resti il più lontano possibile da George Patel.”
Peccato che Sherlock avesse deciso che quello che diceva non fosse più interessante. “C’è una cosa che mi disturba da quando sono davanti a questa lavagna.” Fece un paio di passi in avanti e premette l’indice al centro della prima data di scomparsa. “Questa non è la tua calligrafia.”
Mycroft decise di giocare. “Può darsi…” Disse, criptico.
Sherlock non sapeva se essere più sorpreso o confuso. “Svolgi indagini in compagnia della tua amante?”
“E perché dovrebbe essere la scrittura della mia amante, di grazia?”
“Per favore, Mycroft, chi altro porteresti in camera da letto? Per il lavoro hai un ufficio!” Sherlock era stato privato dell’onore di smascherare George Patel, non gli restava che vendicarsi facendo qualche supposizione sulla donna di suo fratello. Quella per cui - non se lo sarebbe mai dimenticato - Mycroft lo aveva lasciato per strada. “Prima di tutto, è una donna di classe. Ha la calligrafia elegante. Prevedibile: non saresti mai andato con una borghese qualunque.”
Mycroft incrociò le braccia contro il petto. “Non sembra tu abbia bisogno della mia conferma. Che altro intuisci?”
“È una delle tue spie? Dopo Irene Adler, ho rivalutato molte cose e-“
“Non rispondo a domande dirette. Indaga e scopri.”
Sherlock si morse il labbro inferiore, studiando con attenzione il modo in cui erano scritti numeri e lettere. “A giudicare dal modo in cui ha tracciato le linee dell’8 e le lettere maiuscole, deduco che-“ Si bloccò, mentre la verità lo investiva come un fiume in piena. Quando si voltò verso suo fratello, era talmente scioccato che Mycroft gli scoppiò a ridere in faccia.
“Mi stai prendendo in giro?” Sherlock avvampò.
“Dal modo in cui sei arrossito, penso che tu sappia risponderti da solo.” Il Direttore provò a darsi un contegno. “Avanti, Sherly, lo sai…”
“Io non so un bel niente!” Il calore alle guance non accennava a passare e Sherlock maledisse se stesso.
Mycroft fece una smorfia poco convinta. “Diciamo che non vorresti saperlo ma non puoi non accorgertene. Per questo evito sempre di farti visita dopo aver passato la notte con qualcuno.”
Sherlock assottigliò gli occhi. “Come mai non ti stai nascondendo da me anche questa volta?” Indagò. “Anzi, volevi che capissi che il tuo amante è un lui. Che cosa stai cercando di dirmi?”
Mycroft scrollò le spalle. “Secondo te?” L’aria di scherno che portava sempre con sé era sparita, lasciando il posto a qualcosa che il più giovane non riuscì a identificare.
Sherlock aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Sei innamorato, Mycroft?”
Il padrone di casa rise, più per nervosismo che per ilarità. “Dai, siediti vicino al fuoco, così ti si asciugano i capelli e possiamo andare a provare il tuo frac.”
Sherlock superò la scrivania e si accomodò a gambe incrociate sul tappeto, di fronte al caminetto. “Lo conosco?”
“Ti ho detto che non rispondo a domande dirette.”
“Hai intenzione di presentarmelo?”
“Stai diventando petulante.”
“Conosci troppa gente perché io possa fare delle ipotesi!” Si lamentò Sherlock.
Mycroft recuperò il proprio bicchiere dalla scrivania e si sedette sul divano, di fronte al fratello. “L’amara verità è che, come al solito, ti distrai nei momenti chiave e perdi i dettagli.”
“Giuro che ti tiro una scarpa!”
“Sei qui da quasi un’ora e mi minaccia solo adesso. Abbiamo un nuovo record.” Mycroft prese un sorso di whisky, tanto per preparare se stesso alla domanda che stava per porre. “E tu lo sei?”
“Cosa?”
“Sei innamorato?”
Proprio come previsto, Sherlock seppe difendersi alla grande. “Non rispondo a domande dirette, fratello.”
***
L’atmosfera era indubbiamente tesa.
I tre fratelli Moriarty erano riusciti nello studio del maggiore, ognuno seduto nel proprio angolo con un drink in mano. Non si erano messi d’accordo. Finito di cenare, William era andato a cercare rifugio da Albert, conscio di dovergli dare una spiegazione per quanto accaduto quel pomeriggio. Una volta aperta la porta, aveva già trovato Louis lì.
Albert non sarebbe rimasto tutta la sera, stava solo bevendo qualcosa in attesa che una carrozza del Governo lo portasse all’MI6. Al piano di sotto, sapevano che tutti gli altri si erano radunati in salotto e che avrebbero notato la loro assenza. Allo stesso modo, erano certi che nessuno sarebbe stato tanto impavido da salire a disturbarli. Anche se non si poteva escludere che Bond convincesse Moran a sacrificarsi per la causa salendo a dare un’occhiata.
William aveva la netta sensazione che se quella porta si fosse aperta, qualcosa sarebbe esploso. Si era accomodato sulla poltrona vicino al caminetto, la testa appoggiata al pugno chiuso e gli occhi scarlatti fissi sulle fiamme - erano l’unica cosa di cui poteva vedere il colore. Albert era seduto dietro la scrivania e Louis se ne stava in piedi, dalla parte opposta della stanza.
O meglio, era lì che William lo aveva visto l’ultima volta che aveva sollevato lo sguardo. Per questo quando qualcuno gli tolse il bicchiere vuoto di mano, trasalì.
Louis lo guardò dall’alto in basso. “Stai bene?”
William annuì. “Non ti ho sentito avvicinare.”
Albert sollevò lo sguardo da qualunque documento stesse leggendo. “Hai la testa tra le nuvole, Will?” Non lo chiese con cattiveria - non lo avrebbe mai fatto, non Albert - ma il più giovane intuì perfettamente che voleva discutere degli eventi della giornata, prima di andarsene.
“Mi spiace aver interrotto le tue indagini, fratello,” disse William
Albert scosse la testa, con espressione accondiscendente. “Avevamo già fatto tutto quello che dovevamo.”
Louis tornò sui propri passi, fermandosi a metà strada per sedersi sul divano. Una volta appoggiato il bicchiere vuoto sul basso tavolino di fronte lui, parlò: “Holmes come ha commentato il luogo in cui è avvenuto il vostro incontro?”
“Tu, Louis, lo sapevi?” Albert fu sorpreso di sapere che il minore era stato informato dei fatti in anticipo e lui no.
Prima che si creasse un malinteso, William intervenne. “È venuto fuori il discorso per caso-“
“E io non ero d’accordo.” Louis si sentì in dovere di sottolinearlo.
“-in questi ultimi giorni, io e te eravamo occupati a rivedere i dettagli dell’operazione, Albert. Non ho pensato di-“
“Will, non è successo niente,” lo rassicurò Albert. "Sono felice di sapere che siete tornati a parlare.”
“Holmes non ha detto niente?” Insistette Louis. “In che luogo lo hai portato alla fine?”
William regalò ai fratelli il sorriso più dolce del suo repertorio, nella speranza che lo avrebbero perdonato. “Nella biblioteca abbandonata in cui vivevamo io e te.”
Louis lo fissò, ammutolito. “Va bene.”
Albert simulò un paio di colpi di tosse per non ridere. “È difficile credere nella tua sincerità, Louis.”
Il minore fu eccezionale nel mantenere un’espressione imperturbabile. “Fin tanto che non ha provato a toccarlo in modo sconveniente, posso anche ingoiare il boccone amaro.”
Il viso di William dovette tradire qualcosa - o forse no, forse era solo che Louis lo conosceva da tutta la vita - perché il fratello minore lo guardò attentamente e aggiunse: “ti ha toccato.” Non era una domanda.
Albert si fece improvvisamente serio.
“Non è successo nulla di sconveniente,” disse William.
“La sola presenza di Sherlock Holmes è sconveniente,” ribatté Louis. “In che modo si è permesso di toccarti?”
“Capita di toccarsi mentre si hanno lunghi dialoghi,” buttò lì William.
Non funzionò.
“Quando parlo con te, non ti tocco.” Louis era già pronto a private il Detective di Baker Street di tutti gli arti.
“Tu sei una persona composta. Sherlock è molto più-“
“Volgare, cafone, rozzo-“
William fece finta di non sentire gli ultimi due epiteti. In cuor suo, preferiva di gran lunga che Louis offendesse Sherlock di fronte a lui, piuttosto che dover fronteggiare un altro muro di silenzio.
“Perché hai deciso di portarlo all’East End?” Domandò Albert, sinceramente curioso.
William tornò a guardare le fiamme scoppiettanti nel caminetto. “Lo scopo del nostro gioco è sorprenderci a vicenda,” spiegò William. “Sherlock non fa che spuntare dal nulla e prendermi alla sprovvista. Sto pareggiando i conti.
“E ci stai riuscendo?” Domandò Louis.
“Sì, credo di sì.” William non poteva dire loro che per ogni volta che riusciva a far rimanere Sherlock senza parole, il Detective diceva qualcosa in grado di destabilizzarlo completamente.
“Io comincio seriamente a pensare che lo hai idealizzato troppo,” disse Louis. “Non fraintendermi, fratello, mi fido di te e delle tue capacità. Ciò non toglie che stai giocando col rischio in persona. Holmes è veramente così bravo?”
“Mycroft sapeva che lo stavamo usando ancor prima del caso Adler,” disse Albert. “Non mi sorprenderei se Sherlock sapesse qualcosa ma non volesse porre fine a tutto.”
William era interessato a sapere di più. “Spiegati meglio, Albert.”
“Parlo in virtù di quello che Mycroft dice a me: posso sbagliarmi, ma non credo che quella volta sul treno ti abbia accusato per gioco.”
Louis non pareva convinto. “Quella volta, Holmes era decisamente poco lucido. Delirava.”
“No.” William scosse la testa. “Lui è convinto che il Signore del Crimine sia io. Me lo ripete di continuo.”
“Allora è un idiota.”
Questa volta, Albert rise apertamente. “Louis…”
“Che cosa crede di fare dimostrando tutto questo interesse per nostro fratello?” Per qualche motivo, Louis non riusciva ad afferrare qualcosa che per il maggiore era evidente. “Se crede davvero che William sia la sua nemesi, il comportamento che ha nei suoi confronti non ha senso.”
William non poteva negare che avesse ragione. “Penso che Sherlock si sia solo fissato su un’idea,” disse. “Non ha prove contro di noi, ma riconosce sia in me che nel Signore del Crimine un suo pari. Credo che ritenga impossibile che esistano ben due persone in grado di entrargli in testa. Per tanto, non può evitare di fare un’associazione.”
Louis si diede un minuto per riflettere. “Continua a non avere senso.”
La conversazione s’interruppe quando bussarono.
“Avanti,” disse Albert.
Fred aprì la porta ma non fece neanche un passo all’interno della stanza. “È arrivata una carrozza del Governo.”
Il Conte si alzò dalla poltrona. “Io devo andare,” disse. “Ma voi restate pure quanto volete.” Se ne andò, insieme a Fred, con passo spedito.
Louis guardò la porta richiudersi, poi sospirò. “Nemmeno questo ha senso.”
William scosse la testa. “No, quella di Mycroft e nostro fratello è la situazione più semplice del mondo,” disse, alzandosi in piedi per raggiungere il minore sul divano. “Due persone sono attratte l’una dall’altra sia fisicamente che mentalmente, s’incontrano a metà strada e, inevitabilmente, si toccano. È una somma: uno più uno, uguale due.”
Louis appoggiò la nuca allo schienale del divano. “Attraverso la matematica si possono spiegare anche i rapporti interpersonali?”
“No, non per davvero,” rispose William. “Le persone non seguono le regole della logica. Al contrario, i sentimenti sono quanto di più irragionevole esista. Le variabili sono infinite. Per catturare tante sfumature, la letteratura è senz’altro più adatta dell’algebra.” Ripensò ai passi di Romeo e Giulietta recitati con la voce di Sherlock. Quanto gli sarebbe piaciuto ascoltare tutta la bibliografia di Shakespeare letta da lui.
Louis gli fece una domanda a mezza bocca.
“Che cosa hai detto?” Domandò William.
“Tu e il Detective che opera letterarie siete?” Domandò il più giovane, cercando in tutti i modi di nascondere l’inclinazione velenosa della propria voce, ma il fratello la percepì ugualmente.
Ingenuamente, Sherlock li aveva associati proprio ai tragici amanti di Verona.
Solo il tuo nome mi è nemico.
William era certo che il nome di Sherlock Holmes sarebbe diventato immortale. E se mai qualcuno si sarebbe ricordato di Moriarty, sarebbe stato solo in virtù delle storie del Detective di Baker Street. C’era un romanticismo amaro in quella prospettiva: il mondo li avrebbe sempre associati l’uno all’altro, ma in modo distorto.
Tra le pagine di un libro avrebbero sfidato le regole del tempo e sarebbero divenuti eterni e mai nessuno avrebbe rivelato il mistero nascosto dietro quelle storie distorte.
Lui e Sherlock non erano destinati a divenire amanti, ma la verità nascosta dietro al titolo di nemesi non sarebbe mai stata scritta da nessuna parte. Apparteneva a loro e a loro soltanto. In questo erano un po’ simili a Romeo e Giulietta.
Ed era la miglior promessa d’immortalità in cui William James Moriarty potesse sperare. “Immagino che questo dovremmo chiederlo a Conan Doyle,” rispose.