Mar. 17th, 2022

CowT12. Week 5
M1: Interruzione


“Il rosso è il mio colore preferito nei giorni pari,” disse Elise, riempiendo il foglio bianco con il disegno semplificato di una rosa. “Il blu lo è nei giorni dispari,” aggiunse, dopo una decina di minuti. Lasciò il pastello rosso per raccogliere quello blu e aggiunse una violetta al suo mazzolino di fiori.
“I tuoi quali sono, Osamu?” Domandò, sollevando brevemente gli occhi azzurri sul viso del suo riluttante compagno di giochi.
Dazai era seduto sul pavimento accanto a lei, con le gambe incrociate. Non dimostrava alcun interesse per l’attività ludica della bambina ma Mori, che li osservava da dietro la sua scrivania sorseggiando un caffé americano, aveva notato da un po’ come quell’unico occhio scuro la studiava.
“Ho freddo,” disse Dazai, di colpo.
Mori fece per proporgli di alzarsi da terra per sedersi sul divano, ma non era a lui che si stava rivolgendo.
Elise sollevò gli occhi azzurri. “Hai freddo, Osamu?”
“Il pavimento è freddo,” chiarì il ragazzino, che indossava un paio di jeans scuri e una felpa nera - nemmeno Kouyou era riuscita nell’intento di gettare un po’ di colore su quella macchia d’inchiostro vivente.
“Tu non senti freddo, Elise?” Domandò Dazai.
Mori sospirò, prendendo un sorso del suo caffè. “Continua a giocare, Elise.”
La bambina tornò china sul suo foglio colorato, canticchiando un motivetto che assomigliava vagamente alla Für Elise di Beethoven. Dazai era diventato invisibile ai suoi occhi e il ragazzino non ne era affatto impressionato.
“Voleva solo giocare con te,” disse Mori.
“Non può sentire freddo, vero?” Intuì Dazai. “A meno che non sia tu a inviarle un tale stimolo.”
Mori si passò una mano tra i capelli in disordine: non aveva bisogno di presentarsi in ufficio quel giorno e aveva deciso di rimanere comodo. “Ti confesso che non credo che la parola stimolo sia corretta. Presupporrebbe un sistema nervoso centrale e lei non ce l’ha.”
Fuori dagli occhi della Port Mafia, Mori camminava per le strade di Yokohama con quella bambina al fianco. La spacciava per sua figlia, anche se non gli assomigliava affatto. La portava a comprare giochi, vestitini che a lei non piacevano - ma era il suo gioco e quelle erano le sue regole - si fermava con lei a prendere un tè caldo in un locale pieno di famiglie felici.
Kouyou la tollerava per rispetto a lui. Non era la presenza della bambina a renderla a disagio, ma il modo in cui lui vi interagiva. Non glielo avrebbe mai detto, ma Mori aveva il sospetto che Kouyou intravedesse quella maledizione di cui i vecchi della Port Mafia parlavano, quando lo vedeva con Elise.
Dazai era più pratico, più schietto. Per lui, la bambina dai lunghi capelli biondi non era reale e non andava trattata come un essere umano. Non aveva importanza quanto la riproduzione fosse perfetta.
Per questo, per la prima volta da quando le aveva dato una personalità, Mori usciva dal suo stesso gioco per parlare di Elise per quello che era. Dazai non avrebbe trovato di suo interesse nessun altro discorso.
“È tutto un gioco a far finta di…” Disse il ragazzino. “Non avendo un cervello in grado di elaborare stimoli, non sa cosa sia il freddo. Finge di sentirlo perché tu desideri che lo faccia.”
“Anche qui la questione è dubbia.” Mori bevve un altro sorso di caffé e si accorse di averlo quasi finito. Bene, ora gli avrebbe fatto tanto comodo del vino per reggere a quella conversazione. “Non possedendo una volontà, l’atto di fingere non è contemplato.”
Dazai imbronciò le labbra, studiando la figura minuta avvolta nel vestitino rosso. “È un Demone?” Domandò. “Come quello di Kouyou?”
Mori scosse la testa. “Come ho detto a lei: è solo un trucchetto.”
“Un trucchetto che richiede concentrazione e dispendio di energia, senza ombra di dubbio,” disse Dazai. “Ne vale la pena?”
Per rispondere a quella domanda, Mori avrebbe dovuto riaprire capitoli del suo passato particolarmente spiacevoli. “È un gioco.”
Pur avendo un unico occhio a disposizione, la pietà riflessa nell’iride scura di Dazai fu ben evidente. “Patetico…”
La pazienza di Mori cominciò a capitolare. “Se qualcuno cerca di avere una conversazione normale con te, non apri bocca. Perché lo stesso meccanismo non funziona, quando ti viene in mente qualcosa di spiacevole da dire?”
“Quando ti ha fatto più comodo, mi sembra di aver aperto bocca. È successo in almeno due occasioni,” replicò Dazai, alzandosi in piedi. “Ma che importa?”
“Dove vai?” Domandò Mori, quando il ragazzino raggiunse la porta. “Siediti sul divano,” non voleva essere un vero ordine, ma il tono in cui lo pronunciò fu lo stesso. “Parliamo un po’.”
Dazai non obiettò, ma mentre attraversava la stanza fu attento a passare esattamente dove si trovava Elise, calpestando il suo bel mazzolino di fiori disegnato. Mentre la bambina spariva nel nulla, Mori non sentì nulla. Non un dolore, neanche un brivido. Niente.
Eppure, se una lama invisibile lo avesse trapassato da parte a parte, non avrebbe sentito la gola chiudersi in quel modo.
Dazai si accomodò e lo guardò, in attesa.
“Come hai scoperto di avere questa abilità?” Domandò Mori.
Il ragazzino sbatté la palpebra un paio di volte. “Il Sensei non te lo ha raccontato?”
“Natsume non mi ha detto nulla di te,” chiarì il Boss, una volta per tutti. “Ti ha lasciato qui dicendomi che dovevi rimanere vivo.”
Dazai alzò l’unico occhio al cielo. “Ovviamente…”
Mori si sporse sulla scrivania. “E tu rimarrai vivo,” disse, fermo. “Ti sei fatto molto male l’ultima volta. Non ti è bastata come lezione?”
Dazai abbassò lo sguardo e scosse la testa. “Non puoi capire.”
“Sono qui.” Mori allargò le braccia. “Aiutami a farlo.”
“No,” la voce di Dazai era stanca e annoiata. “Non ho alcun interesse a farlo. Finiremmo per fare un lungo discorso sul valore della vita e, te lo dico in anticipo, non riuscirai a convincermi a darti ragione.”
Mori arrivò a un’illuminante conclusione: Dazai passava dall’essere interessante a completamente noioso, da geniale a insopportabile. Gli ricordava qualcuno, ma dirlo ad alta voce avrebbe significato spararsi un colpo in testa da solo.
Il Boss aprì il primo cassetto della sua scrivania - le guide erano quasi andate e serviva un po’ troppa forza per riuscirci - e ne tirò fuori un volumetto dalla copertina bianca e rossa. “Vorresti riaverlo?”
L’occhio di Dazai s’illuminò. “Credevo di averlo perso.”
“Lo avevi addosso,” disse Mori. “Volevo gettarlo,” aggiunse.
Senza chiedere il permesso, il quattordicenne attraversò la stanza con la mano tesa verso il libro. All’ultimo, il Boss lo allontanò per tenerlo fuori dalla sua portata. “Ti piacciono i libri?” Domandò.
L’espressione di Dazai divenne rancorosa. “Ridammelo.”
“Cento modi per suicidarsi.” Mori lesse il titolo. “Gran capolavoro,” aggiunse sarcastico. “Ti piacciono i libri?” Insistette.
“Sono una compagnia migliore delle persone,” rispose Dazai, alzandosi sulle punte dei piedi e sporgendosi sulla scrivania per afferrare il volumetto.
Mori se lo lasciò strappare di mano. “Vieni con me,” disse, alzandosi in piedi.




La stanza si trovava in fondo al corridoio del primo piano, lontano dalle sale usate per operare e visitare i pazienti. Era in un angolo in un cui la luce esterna non arrivava, quasi che dovesse rimanere nascosta. Dazai aveva vagato per l’intera clinica per giorni, ma doveva ammettere che quella porta si era confusa con la parete scura a ogni suo passaggio. Quando Mori l’aprì, i cardini emisero un rumore sinistro, più di un semplice cigolio: il ragazzino non si sarebbe sorpreso di vedere il pannello di legno cadere a terra. Miracolosamente, non accadde. L’interno era un tripudio di polvere e la lampadina che pendeva dal soffitto era più patetica di quella della cucina, ma Mori non si perse il modo in cui l’unico occhio di Dazai divenne grande nel vedere tutti quei libri. Sorrise soddisfatto. “Che cosa ne pensi?” Domandò.
Dazai lo guardò storto. “Che non hai alcun rispetto per l’arte scritta.”
Mori rise. Non poteva dargli del tutto torto. C’erano tre scaffali a mo di biblioteca a riempire il centro della stanza. Uno scossone di troppo e sarebbero venuti giù come se fossero fatti di cartapesta. Altri volumi erano impilati contro la parete, in torri di diverse altezze. “In quante lingue sai leggere, oltre il giapponese?”
“So leggere russo,” rispose Dazai distrattamente, facendo un paio di passi all’interno della stanza.
Mori divenne serio di colpo. “Il russo?”
“Sì,” confermò il quattordicenne, passando la punta delle dita sul dorso di alcuni volumi.
“Non è una lingua così comune.”
“In Russia è comune.”
“Sì, intendevo che-“
“Cos’è quello?” Dazai indicò una scatola in metallo rosso sulla cima dello scaffale di mezzo.
La luce non vi arrivava così bene e Mori si chiese come fosse riuscito a notarla con un occhio solo. “Niente d’importante,” rispose, sbrigativo.
Dazai lo guardò. “È un qualcosa che nascondi, deve essere importante.”
Mori stirò le labbra in un sorriso forzato. “Conosci il tedesco?”
“No.”
“Allora non ti deve interessare. Che altre lingue conosci?”
Dazai scrollò le spalle. “Inglese, credo. Niente di speciale: tutti sanno leggere l’inglese.”
Mori fece una smorfia, appoggiando la schiena all’architrave della porta. “Fosse così facile abbattere le barriere linguistiche…”
Dazai prese a vagare per la stanza. “In Germania, che lingua parlavi?”
“La persona con cui sono partito, parlava giapponese,” raccontò Mori. “Mi ha insegnato le basi qui, a Yokohama. Ho imparato davvero solo in Europa.”
“Conosci anche il francese?” Domandò Dazai, chinandosi per leggere i titoli di alcuni libri posti alla base di una torre di volumi più alta delle altre. “Qui ci sono titoli francesi.”
“Ho viaggiato in Francia, ma non vi ho mai vissuto davvero,” rispose Mori. “Quindi non posso dire di aver davvero fatto mia quella lingua.” Lanciò un’occhiata al ragazzino, che ora girava intorno agli scaffali in una specie di girotondo labirintico. “Vorresti imparare?”
Dazai si fermò per guardarlo. “Che cosa?”
“Il tedesco e il francese,” chiarì Mori. Con un cenno del capo, indicò la cassetta rossa in metallo. “Se diventi abbastanza bravo, ti faccio leggere il libro che è chiuso lì dentro.”
A dispetto dalla noia perenne con cui guardava il mondo, Mori aveva notato in Dazai una certa propensione alla curiosità. La sua rassegnazione nei confronti della vita si alternava a improvvise ricerche di stimoli nuovi. Per questo era sempre stato attento nei momenti di maggior tensione della sua ascesa come Boss. L’adrenalina, il pericolo, muovere un passo dopo l’altro con il rischio di una morte violenta che camminava al loro fianco. Dazai era un suicida, sì, ma con riserva.
Forse la sua giovane età lo obbligava a darsi un’ulteriore possibilità, come una sorta d’istinto di sopravvivenza innato. Se Mori avesse tenuto Dazai occupato in un gioco che lo interessava, lo avrebbe tenuto lontano dai tentativi di suicidio.
“Quanto ci vuole a imparare una lingua?” Domandò Dazai.
L’angolo destro della bocca di Mori si sollevò: era riuscito a stuzzicarlo. “Tutto dipende da te,” rispose.




E così cominciò il loro gioco.
Improvvisamente, Mori e Dazai parlavano.
Non lo facevano direttamente, ma attraverso i libri, le lingue, le storie che il nuovo Boss della Port Mafia aveva da raccontare sull’Europa.
Il vero colpo di scena era che Dazai ascoltava. Impiegò un tempo veramente misero a imparare a leggere tedesco e francese.
“Correggi la pronuncia,” diceva Mori, mentre cercava di cucinare una cena che fosse commestibile per tutti e due.
Puntualmente, Dazai sbuffava. “È inutile che continui a fissarti con questa pronuncia. Non è che qui ci sia qualcuno con cui parlare francese o tedesco. Nel momento in cui riesco a leggere entrambe le lingue, perché perdere tempo?”
Mori avrebbe voluto prenderlo a schiaffi: quello era il tipo di logica che avrebbe usato lui stesso per obiettare e rendersi il lavoro più semplice.
“Correggi la pronuncia,” ripeté, come un professore intransigente. Te e gli occhi fissi su una ricetta che Google aveva classificato come semplice, ma a lui sembrava scritta in una lingua morta.
“Se io correggo la pronuncia, tu impari a cucinare,” disse Dazai.
Mori fissò la macchinetta del caffè - rotta da un pezzo - chiedendosi quanto gli sarebbe costato staccarla dalla corrente e lanciargliela addosso. “Non sono ammessi ricatti.” Per il Boss la discussione era finita lì. Ci mancava solo che un ragazzino di quattordici anni riuscisse ad abbassarlo al suo livello.
“Non è un ricatto.” Dazai non parlava, lagnava e questo lo rendeva insopportabile d’ascoltare il più delle volte. “Vuoi che rimanga vivo, ma di questo passo ci ammazzerai tutti e due.”
Mori pensò che i coltelli nel ceppo accanto alla macchinetta del caffè fossero di gran lunga più adatti alla situazione, ma contò fino a dieci e si costrinse a voltare lo sguardo. “Riprendi da dove ti sei interrotto,” disse, con un sorriso sinistro.
Dazai alzò gli occhi al cielo e tornò a leggere. “I nostri cuori saranno due gran fiaccole,” lesse in francese. “Nello sprazzo a gara degli ultimi ardori: come rifletteranno i loro doppi splendori, negli specchi gemelli delle nostre anime!” Fece una pausa. “Ero convinto stessero morendo.”
“Stanno morendo,” confermò Mori, aprendo l’applicazione per ordinare la cena d’asporto senza farsi vedere.
Nello sprazzo a gara degli ultimi ardori, sembra un’altra cosa,” obiettò Dazai.
"Perché la morte non è descritta come una vera fine,” spiegò Mori, completando l’ordine e abbandonando il cellulare sul ripiano. “Certo, ci saranno pianti, ci sarà disperazione. Tuttavia, c’è una luce dopo il trapasso, una speranza… Se arrivi alla fine, parlerà di un Angelo che infonde nuova luce nelle anime dei due amanti.”
Dazai finì di leggere velocemente, poi derise la poesia e chiunque l’avesse scritta. “Che assurdità…”
Mori scrollò le spalle. “Punti di vista.”
“La morte è morte,” disse Dazai, tetro. “Dopo di essa vi è solo il nulla per chi se ne va. Per chi resta c’è il grande spettacolo della decomposizione, putrefazione, dei vermi che divorano la carne-“
Mein Gott!” Esclamò Mori, in tedesco perché fosse più incisivo. La sua esperienza in Europa gli aveva insegnato che non esisteva altra lingua al mondo che avesse un simile potere. In Germania anche la parola più dolce e poetica riusciva a trasformarsi in un suono minaccioso. Il fatto che metà della sua carriera militare fosse avvenuta sotto bandiera tedesca non lo aiutava.
“Che c’è?” Dazai era di malumore. Tutto ciò che sfiorava lo speranzoso aveva un brutto effetto su di lui. “Sei un medico, hai combattuto nella Grande Guerra. Le parole decomposizione e putrefazione non dovrebbero darti tanto fastidio.”
Mori annullò la distanza tra di loro e appoggiò la schiena al tavolo. “Hai mai visto un cadavere decomporsi?” Domandò, serio.
Dazai scosse la testa.
“E la carne putrefarsi?”
Un altro no silenzioso.
“Forse dovrei fartelo vedere. Ti passerebbe la voglia di divenire un cadavere.”
Dazai chiuse il libro di botto e lo gettò sul tavolo. “Vado in bagno,” disse, alzandosi.
Dal modo in cui sbatté la porta, Mori capì che lo aveva fatto arrabbiare. Non che fosse qualcosa per cui allarmarsi: aveva quattordici anni, avercela con tutto e tutti era praticamente fisiologico.
“Ti preferisco così, rispetto a quando fissi il vuoto con sguardo spento,” disse alla stanza vuota.
Mezz’ora dopo, quando suonarono alla porta per consegnare la cena, Dazai colse l’occasione per dargli più o meno esplicitamente dell’incapace per essere arrivato alla veneranda età - gli stava dando del vecchio? - di trentadue anni senza essere un adulto funzionale.
Mori rimpianse i giorni in cui era solito starsene zitto.




Da quando Dazai era entrato nella sua vita, Mori aveva fatto del divano di seconda mano nel suo studio il suo nuovo letto. Ogni sera, si coricava, fissava il soffitto bianco - l’umidità era tornata a ingiallirlo in alcuni punti, serviva un’imbiancata - e si pentiva di una simile scelta. Aveva trentadue anni e - a dispetto di quello che il moccioso continuava a ripetergli - era giovane, ma erano passati i tempi in cui dormire per mesi su una branda da campo non disturbava le sue attività quotidiane. Ora, Mori sentiva la schiena dargli noia per tutta la notte, per non parlare del collo. Questo gli impediva di riposare in modo adeguato - anche se non aveva più avuto sonni tranquilli dai suoi diciotto anni - e la vita frenetica che lo attendeva al mattino non si sposava bene con questa scarsa igiene del sonno.
“Adesso vado di sopra e lo butto giù dal letto,” meditò ad alta voce, con rancore.
Seduta sul bracciolo dietro la sua testa, Elise sbuffò. “Non riesci nemmeno a convivere con le conseguenze di una tua decisione, Rintarou.”
Già, era uno dei suoi peggiori difetti.
“Hai fatto dormire Kouyou in un letto con le lenzuola di carta per settimane e non si è mai lamentata,” aggiunse la bambina.
Mori reclinò la testa per guardarla. “Le avevo tolte le lenzuola di carta.”
“Sì, ma vogliamo parlare della qualità di quei materassi? Se i tuoi pazienti non muoiono sotto i ferri, quelli gli danno il colpo di grazia.”
Mori aggrottò la fronte: era la sua coscienza a muovere Elise e capitava che quella bambina riflettesse cose di cui lui stesso non era consapevole. Come il giorno in cui, su domanda di Fukuzawa, la bambina lo aveva descritto come l’ultimo dei maniaci.
L’inconscio era un’area infida, oscura, su cui nessun uomo poteva vantare un pieno controllo. Mori non era un dio - anche se molti lo definivano Demone e maledetto - e non poteva evitare che, alle volte, quell’area remota della sua mente straripasse, arrivando a toccare le corde che muovevano Elise.
Da quando era diventato Boss della Port Mafia - o forse da quando Dazai era entrato nella sua vita - la sua coscienza aveva fatto spesso simili scivoloni. Di conseguenza, Elise assomigliava a Yosano più di quanto a lui facesse piacere.
“Ti piace Dazai, Elise?” Domandò, guardando sotto sopra la bambina appollaiata sul bracciolo.
“Ti tiene testa,” disse lei, arricciando una ciocca di capelli dorati intorno all’indice. “Non può non piacermi.”
Mori tornò a rilassarsi contro il cuscino - il collo lo stava uccidendo. “Tu a lui non piaci.”
“Non è vero!” Esclamò Elise, offesa. “Non sono io che non gli piaccio. Sei tu che gli stai antipatico.”
Mori rifletté su quell’asserzione: era un dubbio che aveva, ma non ne era del tutto convinto. Kouyou aveva avuto più successo di lui, lo aveva capito dal modo casuale in cui Dazai si lasciava toccare da lei.
“Kouyou è una donna,” disse Elise.
Mori si sollevò sul gomito per poterla guardare senza rimetterci il collo. “E questo cosa cambia?”
Elise gli rivolse un’occhiata eloquente - maledizione, era troppo simile a Yosano. “Gli hai tagliato i vestiti, hai visto cosa nasconde sotto le fasciature. Lo hai violato.”
Ah, era quello il vero problema? Non che lo aveva trascinato in un complotto di dimensioni epocali - con tanto di omicidio - per prendere tra le mani le redini della Port Mafia?
“Gli ho salvato la vita,” ribatté Mori. “Sono un medico, è quello che faccio.”
Elise sbuffò. “Una vita che lui non voleva più,” ribatté. “E, no, salvare vite non è quello che fai.”




Dazai non dormiva.
La maggior parte delle ore che se ne stava disteso a letto le impiegava a guardare la città fuori dalla finestra - ancora priva di tende - della camera che Mori gli aveva dato. Difficilmente riusciva a vedere le stelle. I cinque grattacieli della Port Mafia, invece, erano sempre lì, a portata d’occhio. Spesso si chiedeva come un’organizzazione mafiosa di quelle dimensioni potesse continuare a fare i suoi comodi pur essendo sotto gli occhi di tutti. Avrebbe dovuto chiederlo a Mori. O forse no.
Parlare o non parlare con il nuovo Boss della Port Mafia era un qualcosa su cui s’interrogava spesso. Gli stava insegnando le lingue e le lezioni erano divenute il loro mezzo di comunicazione, ma Dazai imparava in fretta e non sarebbe durato ancora a lungo.
La sua incapacità nel prevedere le mosse dell’uomo lo turbava. Quando indossava gli abiti del Boss, con tanto di completi su misura, capelli perfettamente pettinati e viso sbarbato, e si sedeva dietro la scrivania che dominava su tutta Yokohama, Dazai non poteva fare a meno di guardarlo. Era un re dell’era moderna, che non aveva nemmeno bisogno di sfoggiare una corona. Era un genio nel modo in cui muoveva le persone, prevedendo a lunga scadenza le loro azioni e reazioni. La Port Mafia era un’enorme scacchiera e Mori era un ottimo giocatore.
Aveva fatto sua una partita cominciata da altri e mandata avanti in modo disastroso, eppure non stava perdendo. C’erano mille e più modi in cui Mori sarebbe potuto capitolare, ma Dazai era certo che non lo avrebbe fatto.
Osservarlo, studiare le sue mosse e vedere come queste si ripercuotevano sulla realtà era uno spettacolo da cui Dazai non riusciva ad allontanare lo sguardo. Inoltre, c’era quel qualcosa, quel prurito che il ragazzino non riusciva a grattare via: la voglia di far parte della partita, di giocare al fianco di Mori, senza limitarsi a essere un osservatore.
Sì, quello era un uomo con cui Dazai avrebbe voluto parlare e che forse sarebbe anche riuscito ad ascoltare per ore, senza annoiarsi.
Ma quando il re lasciava il suo trono, scendeva dalla torre e rimanevano solo loro due, Mori diveniva un idiota si trentadue anni, con due pantofole a forma di coniglietto ai piedi e la totale assenza di capacità che lo avrebbero reso un adulto funzionale - compresa quella di prepararsi la cena. Quando accadeva, Dazai ne era sia confuso che deluso e tutto il fascino che quell’uomo esercitava su di lui spariva in una nuvola di fumo, insieme alla sua voglia d’interagirci e saperne di più.
Perché il Sensei lo aveva lasciato con un individuo simile? Tutte le sue scelte presupponevano un determinato scopo ma, per una volta, Dazai non riusciva proprio a vederne il senso. Mori lo aveva reso la sua piccola e silenziosa ombra nella sua scalata verso il potere, e con questo? Sì, le ombre della Port Mafia affascinavano Dazai come mai gli era capitato, ma questo non significava niente. Dava alla vita lo stesso valore che lo aveva condotto mezzo morto tra le mani di Mori.
Se il Sensei credeva che il nuovo Boss della Port Mafia potesse fare qualcosa per il suo disinteresse verso la vita, aveva fatto un grosso buco nell’acqua.
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dalla porta della camera che si apriva.
Sotto le coperte, Dazai si fece rigido.
Riconobbe l’intruso dal ritmo dei suoi passi. Si fermò vicino al suo letto e lì rimase per un po’. Quando Mori si sedette sul bordo del materasso, accanto a lui, Dazai lasciò andare un sospiro simile a un gemito. Aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo.
“Sei sveglio.” Quella di Mori non era una domanda.
Lentamente, Dazai si distese sulla schiena. “Non dormo molto.”
Elise non c’era, l’uomo era da solo. Da quando il quattordicenne si era rifiutato d’interagire con lei, capitava sempre più spesso.
“Ecco spiegato perché le tue occhiaie continuano a peggiorare,” disse Mori.
“Non può essere così evidente, non puoi nemmeno a guardarmi negli occhi come si deve.”
Per tutta risposta, Mori sollevò la mano e la portò al viso del ragazzino. Quando lo vide irrigidirsi fino allo spasmo, rimase con la mano sospesa a mezz’aria. “Non ti faccio niente,” lo rassicurò, poi infilò le dita sotto le bende che gli ricoprivano l’occhio destro. Non era la procedura corretta: Mori avrebbe dovuto indossare dei guanti sterili e il tutto sarebbe dovuto avvenire sotto una luce decente. Dazai però non fece storie, si limitò a stringere le palpebre quando la pupilla nascosta fu esposta alla luce della luna.
Mori allungò l’altro braccio per accendere l’abat-jour sul comodino e il ragazzino voltò il viso nella direzione opposta. I punti che gli aveva applicato sopra il sopracciglio si era riassorbiti alla perfezione: restava un graffio rosso in rilievo, ma tempo qualche settimana e a stento si sarebbe vista la cicatrice. Sollevò la frangia di capelli scuri per valutare la ferita alla testa e la situazione era la stessa. Sorrise soddisfatto, tirando via le bende in eccesso. “Bene,” disse, più a se stesso che al giovane. “La prossima settimana, ti faccio una radiografia al braccio e proviamo a toglierti il gesso.”
Dazai non disse nulla a proposito.
Era la prima volta che Mori lo vedeva davvero in viso. Quando Natsume glielo aveva portato, non era stato attento ai dettagli: troppo sangue in troppi posti. Lo fece allora.
Mori e Dazai si guardarono come se fosse la prima volta.
Alla fine, il Boss della Port Mafia abbozzò un sorriso. “Colpo di scena: hai proprio un bel faccino.”
Nonostante il complimento, Dazai s’imbronciò come se fosse stato insultato. “Dovevi vedere la tua faccia, prima della metamorfosi in Boss della Port Mafia.”
“Sono pigro,” si giustificò Mori, con aria drammatica. “Non do il meglio di me, se non è necessario. Non serve essere in tiro per operare un moribondo.”
“Non servono nemmeno le pantofole da coniglietto,” ribatté Dazai.
“Quando ti ho salvato, non avevo le pantofole da coniglietto.”
“Non mi hai salvato, mi hai rovinato i piani.”
Mori prese un respiro profondo. “Dazai, ascolta, mi dispiace averti fatto sentire vulnerabile tagliandoti i vestiti, ma non ti chiederò scusa per averti salvato la vita.”
Dazai si mise seduto contro la testiera del letto. “Io sono Dazai Osamu,” disse. “Ma non voglio cambiare il mio corpo, non mi serve.”
Mori annuì. “Lo avevo capito.”
“Ma non mi piace essere esposto.”
“Comprensibile, ma voglio che tu capisca che nessuno in quella sala operatoria voleva umiliarti.”
“Posso capirlo, ma non lo sento,” disse il ragazzino, stringendosi le ginocchia al petto. “Per me quelle cure non erano necessarie. Quindi, sì, mi sento umiliato.”
Dazai non si stava solo aprendo, ma quella era una sfida aperta all’adulto che gli era davanti. Prova ad avere ragione, dicevano quegli occhi scuri. Voglio vedere come fai.
Mori però aveva qualche anno di esperienza in più da giocare e, a differenza di Dazai, sapeva come esporsi senza rendersi vulnerabile. “La prima volta che ho usato Vita Sexualis, ero poco più giovane di te: avevo quasi tredici anni.”
Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. “La prima volta che hai materializzato Elise?”
Mori scosse la testa. “Lei è arrivata con l’esperienza. Vita Sexualis è sempre stata con me, la sentivo nella mia testa fin da bambino. Una sorta di voce interiore, non so se mi spiego.”
“Gli psichiatri la chiamano schizofrenia.”
Mori rise. “Non è la prima volta che lo sento dire. I miei genitori erano seriamente preoccupati che qualcosa non andasse nella mia mente.” S’indicò la tempia con l’indice. “Ti ho raccontato che mia madre era la Signora della Casa dei Fiori?”
Dazai scosse la testa.
“Era molto bella, quasi regale. Mio padre era il capo famiglia, ma è da lei che ho imparato a essere uno stratega, a saper leggere le persone e prevedere i meccanismi della loro mente. Qualche volta, Kouyou me la ricorda.”
“Kouyou è più umana di te,” commentò Dazai. “Di noi,” aggiunse.
“Forse ma lascia che finisca la mia storia.” Mori portò lo sguardo altrove, rivedendo la scena come se si stesse verificando in quel momento. “Imparerai che molti membri della Port Mafia sono bambini raccolti dalla strada. Nella Casa dei Fiori, di solito, vengono educate le bambine.”
“A prostituirsi.”
“Non necessariamente. Quando avevo la tua età, la Port Mafia era diversa: alle persone veniva data una possibilità di scelta.”
Dazai inarcò il sopracciglio destro, quello ferito. “È il genere di Port Mafia che vuoi ricreare tu?”
“Dazai, lascia che finisca di raccontare,” disse Mori, fermo, tornando a guardarlo negli occhi.
Il ragazzino tenne la bocca chiusa, in attesa.
“Io ero in un’età in cui cominciavo a essere curioso,” proseguì Mori. “Sai cosa intendo, no?”
“No,” rispose Dazai, secco.
“Va bene, io ero curioso e, per farla breve, un giorno mi sono ritrovato a spiare le donne di mia madre che preparavano un gruppo di ragazze adolescenti.”
Dazai storse la bocca in una smorfia. “Maniaco…”
Bene, non bastava che Elise parlasse come Yosano, ci si metteva anche Dazai a far parte del coro.
“Se le avessi desiderate in qualche modo, sarei stato un maniaco,” convenne Mori. “Ma io non le ho desiderate. Non ho provato niente di quello che ci si aspetta da un ragazzo di tredici anni, capisci?”
“No,” un’altra risposta secca da parte di Dazai. “A tredici anni hai capito che ti piacevano gli uomini e pensi che la storia dell’evento ti aiuterà a empatizzare con me?”
Mori era a tanto così da strapparsi i capelli. “Non è quello il punto.”
“E qual è?”
“Le ho invidiate,” disse Mori. Se ci avesse girato ancora intorno, Dazai avrebbe trovato il modo di sviare di nuovo il discorso. “Le ho guardate, ho pensato che fossero perfette e le ho invidiate.”
Dazai smise di essere impertinente per fissarlo da capo a piedi. “Temo di non capire,” ammise.
Mori piegò le labbra in un sorriso malinconico. “Mentirei, se ti dicessi che posso spiegarlo a parole. Col senno di poi, alla veneranda età di trentadue anni, penso che a quell’età mi sentissi tanto in difetto, che ho attribuito l’etichetta di perfezione alla prima cosa in cui ho riconosciuto bellezza.”
“E la tua abilità che cosa ha a che fare con tutto questo?”
“Vita Sexualis mi ha dato quello che invidiavo,” concluse Mori. “Non del tutto, forse perché ero molto giovane… Ha cambiato il mio corpo solo a metà. Fu un bene, altrimenti i miei genitori non avrebbero mai saputo come nascondere l’accaduto, se non nascondendo me.”
Dazai sollevò la mano. “Rallenta,” disse. “Vita Sexualis può cambiare la natura del tuo corpo?”
Mori scrollò le spalle. “Tra le altre cose.”
“Quali altre cose, a parte Elise?”
Mori fece di no con la testa. “Non stiamo parlando della mia abilità, solo del fatto che cambiò il mio corpo in un’età particolarmente delicata. Un corpo che, come puoi immaginare, non riconoscevo come mio.”
Dazai scosse la testa. “Io riconosco il mio corpo come mio,” ribatté. “E non ho mai invidiato quello dei ragazzi, solo non sono una ragazza,” ci pensò un attimo. “Perché non hai annullato l’effetto?”
Mori scrollò le spalle. “Non ci riuscivo. Ho riavuto il mio corpo a diciotto anni.”
Dazai lo fissò. “E come hai fatto a conviverci per anni?” Domandò, incredulo. “Io non lo sopporterei neanche un minuto.”
“Per un po’... Per un bel po’, a dire il vero, ho finto che il problema non esistesse. Non funzionò molto bene, ma mi permise di arrivare a quindici anni.”
“E cosa ti è successo a quindici anni?”
Mori aprì la bocca, poi la richiuse: nella foga del discorso era arrivato a una parte della storia che non voleva condividere e che a Dazai non serviva sapere. Tutta colpa di quel ragazzino, che continuava a interromperlo e lo deconcentrava.
“Quando ho compiuto quindici anni, sono successe tante cose!” Esclamò, teatrale. “Fine della storia!”
Non contento, Dazai prese a riflettere. “A quindici anni sei fuggito in Germania.”
“Fuggito è una parola grossa. Tutti sapevano dov’ero.”
“E lo hai fatto con una persona che ti ha insegnato le basi del tedesco qui, a Yokohama.”
“Dovresti smetterla di ascoltarmi solo quando ti fa comodo e memorizzare solo quello che ti pare!” Esclamò il Boss della Port Mafia, frustrato.
Gli occhi scuri di Dazai si accesero, come se un’intuizione lo avesse raggiunto di colpo. “È il segreto che nascondi in quella cassetta rossa nella biblioteca?”
A quel punto, Mori Ougai dichiarò la resa e optò per la ritirata. “Mettiti a dormire,” ordinò, come un generale a un soldato disubbidiente. “Domani ti sveglio presto e continuiamo con le le lezioni.” Uscì dalla camera a passo di marcia.
Quando arrivò a metà corridoio, la voce di Dazai lo raggiunse: “comunque spiare la gente è da maniaci, indifferentemente dal motivo!”
Mori si fermò, inspirò profondamente dal naso e decise che neanche quella notte lo avrebbe preso a schiaffi.




A cinque mesi dalla morte del Boss Folle, Dazai sapeva leggere alla perfezione sia il francese che il tedesco. Nel processo, il ragazzino aveva smontato - verso per verso, paragrafo per paragrafo - diversi poeti e scrittori che avevano avuto l’ardire di puntare alla speranza come concetto cardine delle loro opere.
Che Dazai non fosse un ottimista era ormai chiaro anche ai muri.
Mori si era sempre considerato un realista, ma quel quattordicenne portava il pessimismo a tutto un altro livello. Era certo che se avesse accompagnato Dazai in un campo di fiori, questi si sarebbero appassiti tutti al suo passaggio. Nel suo passato, aveva conosciuto un dotato di abilità con un potere simile, il quale non aveva potuto vantare la più allegra delle vite. Eppure, Mori era pronto a giurarlo su Elise stessa, la sua personale tragedia non lo aveva mai portato a toccare i toni scuri di Dazai.
Ovviamente, il ragazzino impiegò tempo zero a rendersi conto delle sue capacità. Decise in completa autonomia che non aveva più bisogno di alcuna lezione da parte del nuovo Boss della Port Mafia.
“Voglio la cassetta rossa.” Dazai esordì con quelle parole una mattina. Non lasciò a Mori nemmeno il tempo di sedersi accanto a lui, le mani occupate dalla loro colazione ancora impacchettata - l’incombenza di nutrirli regolarmente era ricaduta sul povero, fedele Hirotsu, che portava loro le migliori leccornie dai locali più famosi della città.
A quella richiesta - forse più un ordine - Mori rispose con “no,” secco.
Dazai non parve particolarmente sorpreso. “I patti erano chiari.”
“Non scendo a patti con un bambino capriccioso,” ribatté Mori, spingendogli la colazione sotto al naso. “Mangia.”
Il quattordicenne non si mosse. “Potrei prenderla senza che te ne accorga.”
Un sorriso divertito comparve sulle labbra del Boss. “Mi minacci, moccioso?”
“Tu hai mentito.”
“Non troveresti nulla d’interessante in quella cassetta.”
“Allora perché nascondermela?”
“Sei tanto intelligente. Arrivaci da solo.”
“È qualcosa di personale.” Dazai non dovette nemmeno rifletterci. “Qualcosa che ti è caro, ma è quel genere di ricordo bello che fa male.”
Mori si finse impressionato. “Già, ero poco più grande di te quando è scoppiata la guerra in Europa. Intuire che io abbia vissuto qualcosa di tragico in Germania è da veri detective.”
Dazai sbuffò. “Sono lettere di un amante morto?”
“Forse.”
“Oh, è un sì.”
“No, è un forse.”
“Che vuol dire sì.”
Mori sollevò la tazza di cartone su cui era scritto il suo nome in modo che fosse ben visibile anche al ragazzino. “Ora, io berrò questo caffè in santa pace,” disse, gelido. “Questo significa che tu non dovrai aprire bocca per tutto il tempo.”
Dazai alzò gli occhi al cielo. “Perché sennò cosa mi farai?” Domandò, mentre un sorrisetto derisorio compariva sulle sue labbra. “Voglio morire, ricordi? Anche se minacciassi di sgozzarmi non-“
Dazai non vide Mori estrarre la pistola, né ebbe il tempo di reagire quando si ritrovò la canna lucida a meno di mezzo metro dalla testa. L’unica cosa che il suo cervello registrò fu lo scoppio. La pallottola colpì il muro, ma Dazai ebbe l’impressione di avvertire lo spostamento d’aria provocato dal suo passaggio all’altezza dell’orecchio. Era incolume, non aveva neanche un graffio, ma non riusciva a respirare.
Nel silenzio totale che seguì, Mori rimase con la pistola puntata - la teneva con la mano sinistra - mentre sorseggiava il suo caffè nel modo più rumoroso possibile. Quando ebbe finito, lasciò la tazza di cartone sul tavolo e scoppiò a ridere.
“Tu vuoi morire?” Domandò, tra una risata e l’altra. “Guardati, sei terrorizzato.”
Dazai avrebbe voluto replicare ma non ci riuscì. Non appena dischiuse le labbra, si accorse che tremava da capo a piedi.
“Tranquillo.” Mori allungò la mano per spettinargli i capelli, poi ripose la pistola. “Non c’è nulla di male nell’aver paura della morte.”
Lo sguardo di Dazai si tramutò d’atterrito a rancoroso nel giro di un istante. Mori ne ebbe la certezza: se quegli occhi scuri avessero potuto ucciderlo, lo avrebbero fatto senza esitare.
“È tardi.” Il nuovo Boss della Port Mafia si alzò in piedi. “Andiamo in ufficio, prima che-“
Dazai lo superò con ampie falcate e corse al piano di sopra. La sua fuga si concluse con una porta che veniva sbattuta.
Mori strinse le labbra e allargò le braccia. “Vorrà dire che andrò in ufficio da solo.” Non poteva negare che una pausa da Dazai gli serviva.
Prima di andarsene, si attardò nella stanza dei libri per recuperare il contenuto della cassetta rossa: un taccuino rilegato in pelle nera e alcuni documenti che risalivano alla guerra. Mise il primo nella tasca interna sinistra e i secondi in quella destra.
“Mangia la tua colazione, non fare il bambino capriccioso!” Disse ad alta voce, una volta arrivato nell’ingresso.
Dal piano di sopra, nessuno gli rispose.
“Adolescenti…” Borbottò Mori, richiudendosi il portone della clinica alle spalle.




Mori fu di cattivo umore per tutto la mattina.
L’unico a cui fu concesso l’accesso al suo ufficio fu Hirotsu: al nuovo Boss serviva sapere come andavano le cose ai piani inferiori, se il Colonello gli dava una buona impressione e se Kouyou si era sistemata a dovere nella nuova Casa dei Fiori.
“La signorina sarebbe un’ottima Dirigente, se mi posso permettere,” disse il veterano, una volta concluso il rapporto.
“Oh, non dirlo a me!” Esclamò Mori. “Glielo ripeto da quando ho fatto mia questa poltrona e continua a ridermi in faccia.” Non aveva guardato il leader della Black Lizard in viso per più di due secondi. Il suo cellulare lo fissava minaccioso dal centro della scrivania, dove lo aveva lasciato.
Lo schermo non si era mai illuminato.
Nemmeno un Vaffanculo in formato messaggio da parte di Dazai.
Beh, non era nello stile del ragazzino.
Quando Mori prese in mano l’apparecchio per controllare che la ricezione fosse buona, Hirotsu smise di parlare.
“Qualcosa la turba, Boss?” Domandò il veterano.
“Sì, ho lasciato un quattordicenne da solo a casa e ho l’ansia!” Non appena si rese conto di averlo detto ad alta voce, Mori si bloccò e sollevò lo sguardo. “Hirotsu, confido che-“
“Nessuno lo verrà mai a sapere, Boss,” disse immediatamente il veterano, aggiustandosi il monocolo sull’occhio destro. “Le confido che anche io ero preoccupato per il signorino, quando non l’ho visto in sua compagnia.”
“No!” Mori sollevò l’indice con fare imperativo. “Signorino no. Dazai è tutto, meno che un signorino.” Senza pensarci troppo, compose il numero del non signorino in questione. Contro ogni sua aspettativa, rispose solo dopo tre squilli. “Dazai, hai mangiato la-?”
Tu-Tu-Tu
Mori sgranò gli occhi. “Mi ha attaccato in faccia,” mormorò, incredulo.
“È l’adolescenza,” commentò Hirotsu, con serenità. “Per mia esperienza, migliorerà verso i diciotto anni. Per quell’età sono più responsabili.”
Mori annuì distrattamente, poi gli venne il dubbio. “Stai parlando di me?”
Hirotsu scrollò le spalle. “Il suo è l’unico esempio di cui ho esperienza diretta.”
“Mi stai dicendo che io ero così?” Domandò Mori, sollevando il cellulare. “Avessi riattaccato in faccia a mio padre o a mia madre, mi sarei ritrovato senza gli arti inferiori non appena varcata la porta di casa!”
“Abbia pazienza con quel ragazzino,” disse Hirotsu. “È capitato di parlarne con la signorina Ozaki.”
Bene, ora anche Hirotsu faceva comunella con Kouyou contro di lui. Mori non poteva che esserne estasiato.
“Dazai sembra avere molto potenziale, a nostro avviso,” concluse il veterano. “Per quel che ho visto, mi ricorda molto qualcuno. In tempi come questi, non può che essere una buona cosa per la Port Mafia.”
Suo malgrado, Mori sollevò l’angolo destro della bocca in un mezzo sorriso. “Grazie del rapporto, Hirotsu.”
“Boss…” Dopo aver chinato la testa con rispetto, il veterano si congedò.
Rimasto solo, Mori sprofondò nella sua poltrona. Aspettò dieci minuti e poi provò a chiamare Dazai una seconda volta.
Ci furono dieci squilli, poi partì la segreteria automatica.
Mori lasciò il cellulare sulla scrivania e aspettò ancora.
Terzo tentativo. Altri dieci squilli, poi la segreteria.
Allontanò l’apparecchio da sé e lo fissò con sospetto.
Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?
Dazai gli aveva posto quella domanda quando si era risvegliato nella sua clinica e, dopo un lungo momento di caos iniziale, Mori gli aveva chiesto il motivo per cui aveva fatto quello che aveva fatto.
“Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?” Ripeté Mori, mettendosi a sedere più composto. Ricordava di essere passato per una fase simile, intorno ai vent’anni. Sì, c’era stato un momento per Mori in cui restare fermo ad aspettare la morte gli era sembrata davvero l’unica cosa da fare. Era allora che aveva conosciuto Natsume Soseki. Si poteva dire che gli doveva la vita, almeno quanto gliela doveva Dazai.
L’unica differenza era che a lui, a Mori, quel desiderio di autodistruzione si era tramutato in altro, qualcosa che si era nutrito della sua umanità rendendolo il Demone che era ora. Pur avendo visto in faccia la morte, Dazai continuava a inseguirla, imperterrito.
Quel pensiero colpì il Boss come una pugnalata alla schiena.
Non si mosse per un lungo istante, poi fissò il cellulare a cui Dazai non aveva risposto. “Ho commesso un errore…” Si alzò in piedi di colpo, recuperando le chiavi dell’auto dal primo cassetto della scrivania. “Ho commesso un fottuto errore.”
Mentre si fiondava nell’ascensore e premeva il pulsante per scendere ai garage, Mori chiamò il veterano che aveva appena lasciato il suo ufficio. “Hirotsu, cerca Kouyou e portala da me in clinica. Dille che è un’emergenza, lei capirà.”



Fu come precipitare in un’altra dimensione, una in cui Mori aveva sperato di non trovarsi mai più. Non vide se stesso guidare fino alla clinica. Il battito impazzito del suo cuore lo accompagnò per tutto il tragitto in macchina, ma sarebbe potuto benissimo essere altrove: su di un campo di battaglia, con le bombe che esplodevano a pochi metri da lui, rendendo ovattato ogni suono, tranne quello del proprio respiro affannato.
Prima di uscire dalla strada principale, Mori si allentò il nodo della cravatta, come se lo soffocasse. Poco dopo, la lanciò sul sedile del passeggero.
Fermata l’auto, scese e lasciò lo sportello aperto. Si lanciò contro il portone con tanta forza che i cardini fecero un rumore spiacevole, come se stessero per cedere.
Mori era sudato, senza fiato, come se fosse arrivato fino a lì correndo a piedi, ma trovò comunque la voce per chiamare il nome del ragazzino. “Dazai!”
Nel silenzio dell’edificio, il rumore dell'acqua che scorreva arrivò alle orecchie del Boss della Port Mafia come un inno di morte. Proveniva dal bagno in fondo al corridoio, quello adiacente alla sala operatoria.
A metà del corridoio, Mori sentì l’acqua sotto i piedi e fu costretto a muoversi con cautela per non scivolare. La porta era aperta ma la luce era spenta.
Trovare l’interruttore alla cieca fu facile. Non appena i neon si accesero, il capolavoro di Dazai si presentò in tutto il suo orrore.
C’era sangue dappertutto. Sulle pareti coperte da piastrelle, sul vetro che divideva il bagno dalla sala operatoria principale, sul carrello operatorio lasciato lì per le emergenze. Il pavimento era un lago cremisi. L’acqua rossa usciva dal lavandino e Dazai era lì, con la guancia appoggiata al bordo di metallo, un polso reciso era abbandonato lungo il fianco e l’altro ancora sotto il getto dell’acqua.
Mori lo raggiunse con un paio di ampie falcate, rese goffe dal pavimento bagnato sotto i suoi piedi. Non appena riuscì ad afferrare Dazai, Mori scivolò, ritrovandosi con tutto il peso del ragazzino inerme addosso.
Imprecò, mentre un dubbio terribile gli bloccava il respiro. Il medico infilò la mano sotto il mento del quattordicenne privo di sensi e lo costrinse a reclinare la testa sulla sua spalla: non vi era alcuna ferita sul collo.
Mori non si concesse neanche un respiro per sentirsi sollevato.
“Dazai!” Chiamò a gran voce, stringendogli i polsi con tutta la forza che possedeva, in un disperato tentativo di rallentare l'emorragia - per fermarla era necessario ben altro. Il sangue di Dazai gli bagnò le mani e i vestiti.
Da quanto tempo versava in quello stato? Quanto sangue aveva perso? Quando aveva controllato che non si fosse reciso la gola, Mori era certo di aver sentito il fantasma di una pulsazione. Era ancora vivo ma se non si fossero alzati da quel pavimento, non lo sarebbe rimasto ancora a lungo. Mori non riusciva a rimettersi in piedi, chiudere il rubinetto e sollevare Dazai, senza lasciare andare la presa sui polsi recisi.
Aveva bisogno di aiuto. Avevano bisogno di aiuto.
“Mori!” La voce di Kouyou lo raggiunse dall’ingresso.
E Mori seppe che non sarebbe mai vissuto abbastanza per dimostrare tutta la sua gratitudine a Hirotsu.
“Siamo qui!” Rispose. “In fondo al corridoio, stai attenta all’acqua!”
Kouyou comparve sulla porta e per poco non finì a terra anche lei - per fortuna aveva abiti occidentali e scarpe senza tacco. Di fronte a quello spettacolo raccapricciante, sgranò gli occhi, atterrita. “Che cosa-?”
“Il rubinetto!” Ruggì Mori, con impazienza. “Chiudi il rubinetto!”
Nonostante il pavimento scivoloso, Kouyou impiegò pochi istanti a raggiungerli e a fare come le era stato detto. A Mori parve un’eternità.
Aggrappata al bordo del lavandino, Kouyou lo guardò dall’alto al basso. "Dimmi Che cosa devo fare!”
“Stringigli i polsi con tutta la forza che hai!” Mori era a tanto così da perdere completamente il suo autocontrollo. Gli serviva un ago chirurgico, del filo di sutura e delle garze sterili. Doveva concentrarsi su qualcosa che sapeva fare e doveva farlo in fretta. “Lo sollevo io! Dobbiamo portarlo di là, nella sala operatoria!”
Prima che fosse troppo tardi.




Una volta applicato l’ultimo punto di sutura, sia Mori che Kouyou tornarono a respirare. Il bip-bip regolare emesso dal monitor era un suono ipnotico, confortante. Lo era meno la sacca di sangue attaccava al braccio di Dazai e la maschera dell’ossigeno che gli copriva il viso.
Nessuno dei due disse nulla, mentre il medico afferrava il rotolo di garze sterili e vi fasciava entrambi i polsi del ragazzino. Una volta finito, Mori sollevò lo sguardo sulla vetrata che divideva la sala operatoria dal bagno adiacente. Qualcosa gli diceva che non sarebbe mai riuscito a ripulire tutto in modo efficiente, ma quel disastro gli offrì una buona via di fuga.
“Resta con lui,” disse a Kouyou, senza nessuna particolare intonazione nella voce. Aveva bisogno di restare solo, di prendere le distanze da Dazai e di occupare la mente con qualcosa di pratico. E, sì, il sangue era difficile da mandare via anche su superfici facilmente lavabili. Quel lavoro lo avrebbe occupato per un po’, forse fino a notte inoltrata - anche se non sapeva nemmeno che ore fossero.
Mori lasciò cadere il cappotto nero su una sedia vicino alla porta e uscì dalla sala operatoria: il corridoio era mezzo allagato e dovette procedere con cautela. Tutto quello che gli serviva era nascosto nella lavanderia adiacente alla cucina.
Da dove si trovava, Kouyou lo vide sparire in direzione dell’entrata e tornare con un secchio e uno scopettone stretti in una mano, una bottiglia di varechina e una spugna nell’altra - entrambe ricoperte con guanti di lattice.
Allungò una carezza tra i capelli bagnati di Dazai, poi si allontanò. Il battito riportato sul monitor era ancora regolare.
Kouyou si affacciò sul bagno e vide gli utensili da pulizia abbandonati in un angolo: Mori era impegnato a gettare diversi strumenti chirurgici in un contenitore apposito. Si lamentava a bassa voce.
“Che cos’hai?” Gli chiese, diretta.
Quando Mori non parlava, l’atmosfera diveniva impossibile da tollerare per chiunque gli stava intorno. Kouyou non pretendeva che fosse di buon umore, ma spezzare quel silenzio sarebbe stato utile a tutti.
“Quanti diavolo di bisturi ha usato?” Sibilò il Boss della Port Mafia, gettandone tre nel sacco per rifiuti ospedalieri. “Eppure, quel moccioso lo sa quanto costa sia in tempo che in soldi trovare del buon materiale da usare!”
Kouyou appoggiò la schiena all’architrave della porta, per tenersi salda sul pavimento scivoloso. Mori non era realmente arrabbiato per i bisturi sprecati - o forse un po’ sì - ma non era la ragione per cui parlava tra sé e sé, invece di lagnarsi con tutti come era suo solito.
“Ti sei spaventato?”
Essere diretta era uno dei maggiori pregi che Mori riconosceva a Kouyou, ma non ne aveva bisogno in quel momento. Non rispose, si limitò a ripulire il carrello operatorio da tutti gli strumenti non più utilizzabili, poi allungò la mano verso lo scopettone.
La giovane gli afferrò il polso con gentilezza. “Lasciati aiutare.”
Mori glielo concesse.
Ci vollero diverse ore per arrivare a un buon risultato e quando dichiararono l’impresa finita, il sole era calato da un pezzo dietro le montagne di Yokohama.
“Dazai hai i vestiti sporchi di sangue,” disse Kouyou, lavandosi le mani nello stesso lavandino su cui il ragazzino aveva tentato di dissanguarsi. “E sono bagnati. Non può dormire così o si prenderà un-“
Mori appoggiò un paio di forbici sul primo ripiano del carrello operatorio, senza alcuna gentilezza. “Almeno queste si sono salvate,” disse, dando le spalle alla giovane donna. “Vado a prendere dei vestiti in camera e te li lascio in corridoio. Quando hai finito di cambiarlo, lo spostiamo in uno dei letti. Non ci tengo a mettergli di nuovo le mani addosso per farmi dare del maniaco.”




Una volta pulito e cambiato, Dazai fu trasferito nella camerata dei degenti. Kouyou gli rimboccò le coperte, stando attenta a non toccare l’ago che collegava la sacca di sangue al braccio. Era certa che non si sarebbe svegliato ancora per un po’, ma era tornato un po’ di colore su quelle guance pallide. Accese la lampada sul comodino e lo lasciò riposare.
Trovò Mori seduto sulle scale, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento alle dita intrecciate. Fissava un punto nel vuoto di fronte a sé. Aveva ancora i capelli legati ma le ciocche più lunghe si erano liberate, incorniciandogli il viso. I polsini della camicia erano completamente rossi, e le gocce di sangue erano scivolate fino al gomito. Era da buttare.
Kouyou non aveva bisogno di chiedere il permesso, si sedette sullo stesso gradino del Boss, lasciando tra loro mezzo metro di distanza. Non fissò il suo profilo: lo avrebbe messo sotto una pressione ulteriore e non era il caso.
“Devi lavarti quel sangue di dosso,” disse, schietta. “Devi rimetterti in piedi. Domani la Port Mafia sarà ancora dove l’hai lasciata.”
Mori lasciò andare un sospiro stanco. “Sono già in piedi.”
“Bene,” commentò lei. “Che cosa è successo?”
“Era chiaro, vero?” Domandò Mori di rimando, come se non l’avesse udita affatto.
Kouyou inarcò le sopracciglia. “Di cosa stai parlando?”
“Del sangue,” rispose il Boss della Port Mafia. “Nell’immaginario delle persone è di color rosso vivo,” gli sfuggì un sorriso. “Nella vita di tutti i giorni, le persone non ne versano più di qualche goccia e in modo completamente casuale o, in taluni casi, fisiologico. In realtà, quando è in grande quantità, il colore si avvicina di più al nero. Suonerà assurdo, ma il colore scuro fa meno paura. Dazai ha versato una grande quantità di acqua, per questo il sangue sul pavimento era così rosso.” Mori inspirò aria attraverso il naso. “Peserà quarantacinque chili, se va bene… No, è sottopeso, forse meno. Non gli serve perdere una gran quantità di sangue per collassare e-“
Kouyou gli schioccò le dita davanti agli occhi e il medico sobbalzò. Un istante dopo, gli occhi scuri erano su di lei e la guardarono come se la vedessero per la prima volta.
“Ti eri perso nella tua testa,” disse lei. “Che cosa è successo?” Domandò di nuovo. “Perché lo hai lasciato a casa da solo? Sapevi che non era sicuro.”
“Abbiamo litigato,” raccontò Mori. “O meglio, lui mi ha irritato, io gli ho dato una lezione e lui si è arrabbiato.”
“Che genere di lezione?”
“Gli ho sparato.”
Il modo in cui Kouyou lo guardò bastò a esprimere il suo pensiero. “Che vuol dire che gli hai sparato?” Si alzò in piedi, portandosi di fronte a lui.
Mori allargò le braccia. “Pensi che sia facile conviverci?” Domandò. “Io so cos’è la morte. L’ho toccata e, te lo confesso, c’è stato un momento in cui l’ho anche desiderata, ma lui non fa che parlare di questo.”
Kouyou dischiuse le labbra, ma non seppe che cosa replicare.
“Sì, ho insistito io perché parlasse. Lo rendo partecipe dei miei piani per la Port Mafia perché voglio che impari. Lo distraggo con lezioni sulle lingue straniere che conosco perchè, in realtà, è curioso!” Esclamò. “Gli piacciono i libri, gli piacciono i segreti… Prova interesse! Lui dice di voler morire ma, in realtà, ci prova ancora! Cerca qualcosa che non riesce a trovare, penso si sia convinto che non la troverà mai!”
“Perché gli hai sparato?” Kouyou alzò la voce.
Mori lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Volevo provargli qualcosa,” rispose. “E ci sono riuscito: tremava come un pulcino. L’ho spaventato ed era quello che volevo: l’ho messo davanti al fatto che è umano e ha paura della morte.” Una pausa. “Si è tagliano le vene per dimostrarmi il contrario.”
“Era una sfida?” Kouyou non riusciva a credere alle sue orecchie. “Hai sfidato un ragazzino con tendenze suicide a farsi del male per contraddirti?”
Mori alzò gli occhi al cielo. “Non è stata la migliore delle mie azioni.”
“Prima di pensare alle tue azioni, chiediti se vuoi che Dazai resti vivo,” replicò Kouyou, scendendo gli ultimi gradini che la separavano dall’ingresso. “Perché la tua terapia d’urto non è stata molto utile!” Aggiunse, astiosa, mentre tornava dal ragazzino nella camerata dei degenti.




Al sorgere del sole, Dazai mostrò i primi segni di coscienza. Accanto a lui, quando riuscì ad prime gli occhi scuri, trovò l’ultimo figlio maledetto della Port Mafia ad accoglierlo.
“Ben tornato,” disse Mori, con un sorriso gentile che faceva a pugni con l’oscurità riflessa nelle sue iridi. Indossava la giacca da Boss della Port Mafia, ma la camicia costosa era stata sostituita con una maglietta nera a caso.
Restarono a guardarsi per quella che parve un’eternità, poi le labbra screpolate di Dazai si dischiusero,
“Non pronunciare una parola,” disse Mori, recuperando un bicchiere d’acqua dal comodino accanto al letto. “Prova a dire qualcosa e giuro che rovino questo tuo bel faccino a suon di schiaffi.”
Nonostante le parole minacciose, quelle mani aiutarono Dazai a sollevare la testa e a ingoiare un paio di sorsi d’acqua. Nessun ringraziamento, non che l’altro se lo aspettasse.
Mori se ne stava appollaiato su uno sgabello regolabile, che cigolava a ogni suo minimo movimento. Continuava a sorridere ma aveva la morte negli occhi.
Ti sei spaventato? Aveva chiesto Kouyou. Non aveva avuto voce per risponderle che il lusso di provare paura lo aveva lasciato in Germania, con le spoglie di Rintarou.
“Devi essere maledettamente orgoglioso per arrivare a questo punto, pur di non darmi ragione,” commentò Mori, “di per sé è una caratteristica che apprezzo, ma tu porti tutto a livello estremo. Non mi piacciono gli estremismi.”
“Fino a che non sei tu a compierli.”
Il dorso della mano di Mori si abbatté sul giovane viso con tanta velocità che il medico stesso se ne sorprese. Si pentì del suo gesto ancor prima che Dazai avesse il tempo di lamentarsi del dolore. “Scusa,” disse, comprendo la guancia lesa col palmo. “Ho agito d’impulso, non avrei dovuto.” Fu attento a non mostrare alcuna emozione, come se si stesse scusando con un suo superiore sul campo di battaglia. La carezza sul giovane viso era un dettaglio su cui non si attardò a riflettere.
“Hai la mano calda,” commentò Dazai, il viso ancora girato di lato, verso quegli schermi che indicavano il suo battito cardiaco, il livello di saturazione del suo sangue e altre cose. “Non credevo avessi le mani calde.”
Se ce l'aveva con lui per lo schiaffo ricevuto, Mori non riuscì a comprenderlo. “Non ti chiederò cosa ti è passato per la testa,” disse il medico.
“Non ti chiederò se sei arrabbiato,” ribatté Dazai.
Suo malgrado, gli angoli della bocca di Mori si sollevarono. Allontanò la mano dal viso del ragazzo e quei due grandi occhi scuri cercarono immediatamente i suoi. “Fino a nuovo ordine, non sarai più lasciato da solo,” comunicò Mori. “Io sono in clinica, tu sei in clinica. Io devo restare in ufficio, tu resti in ufficio.”
A fatica, Dazai si mise seduto contro il cuscino. “E cosa farò tutto il giorno? Ho imparato le lingue che volevi imparassi.”
“Strategia.”
Dazai fece una smorfia disgustata. “Strategia?” Ripeté.
“E filosofia. Avrai tanto tempo da spendere e ci sono tante cose che voglio insegnarti. Dici di conoscere il russo, parli e scrivi giapponese come un madrelingua, ma che altro puoi dirmi della tua educazione?”
“Ho appena tentato il suicidio e tu ti preoccupi della mia educazione?”
“Sto pensando a come colmare l’infinita noia che ti affligge. Hai un’intelligenza fuori dalla norma, ma questo devono avertelo già detto.”
Dazai annuì per confermare.
“Chi ti ha cresciuto, Dazai?” Mori se lo era chiesto dal primo giorno, ma non aveva mai trovato il coraggio di fare una domanda tanto diretta. Un fanciullo non ancora sbocciato che respirava violenza come se fosse aria, parlava russo e non dava alla vita alcun valore: tutto preannunciava una storia dell’orrore.
“Non me lo ricordo,” Dazai rispose senza esitare, guardandolo dritto negli occhi. Non stava mentendo, non c’era nulla di meccanico nel modo in cui pronunciò quelle quattro parole. Per la prima volta, Mori notò un riflesso di tristezza in quelle iridi scure. Era la verità.
Il nuovo Boss dell Port Mafia avvicinò il letto allo sgabello. “Qual è il tuo primo ricordo?”
“Non saprei dirlo,” rispose Dazai. “Ho delle immagini, ma sono frammentate. Alle volte, può capitare che un suono, un odore o qualcos’altro attragga la mia attenzione. Credo di essere cresciuto in Russia ma non saprei dirti qualcosa di preciso neanche volendo.”
Mori si accorse che stava artigliando la stoffa dei suoi stessi pantaloni, inspirò dal naso e rilassò le dita. “La memoria funziona in un modo che la scienza non è ancora in grado di spiegare del tutto,” spiegò. “Forse non ricordi i fatti, ma sai leggere e scrivere normalmente. Alle volte, forse neanche te ne rendi conto, usi parole piuttosto forbite, questo mi porta a pensare che tu sia abituato a testi di un certo calibro fin da bambino.”
“Non mi piace ricordare,” disse Dazai, di colpo.
Mori inarcò un sopracciglio. “Non hai il desiderio di sapere chi sei?”
Il nulla,” rispose il fanciullo, sicuro.
Mori scosse la testa. “Tu sei Dazai Osamu.”
“Dazai Osamu è il nulla, cosa cambia?”
“Il nulla non può essere partorito, Dazai,” ribatté Mori. “E qualcuno ti ha portato in grembo, ti ha messo al mondo e-“
“Sì, in una casa di accoglienza da una donna che, con ogni probabilità, si presentava lì a partorire ogni due o tre anni… Solo i feti di cui non riusciva a liberarsi da sola, ovvio.”
Mori si passò una mano sul viso: quel genere di scene non gli erano nuove - tanto in Europa quanto lì, a Yokohama - e le trovava più disturbarti di molte altre che aveva collezionato sul campo di battaglia. “Questa è la storia che ti sei raccontato?”
Continuando a guardare di fronte a sé, Dazai inspirò aria dalla bocca. “La mia mamma non mi ha cercato, ma mi voleva bene,” persino il tono della sua voce era diverso, suonava come un bambino che non ha più nessuna speranza a cui aggrapparsi ed è sul punto di scoppiare a piangere. “La mia mamma non mi ha tenuto con sé perché non avrebbe saputo come crescermi. La mia mamma ha rinunciato a me per permettermi di avere un futuro migliore.”
Mori si sentì gelare da capo a piedi. Se Elise era inquietante per chi gli era vicino, quello come avrebbe dovuto descriverlo? La voce e l’espressione di Dazai erano quelle di un bambolotto rotto che emette ancora un rantolo sul fondo di un armadio, nella vana speranza che qualcuno si accorga di lui, lo prenda tra le braccia e lo riempia di calore.
Tutto finì con un sonoro sbuffo. “Che noia!” Esclamò Dazai. “Tutti gli orfani hanno la loro personale favola con cui cullarsi la notte. Io non perdo tempo con certe cose.”
“No,” confermò Mori, infilando la mano nella tasca destra della giacca. “Certo che no.”
Dazai non fu interessato a quel che stava facendo, fino a che l’uomo non gli porse il taccuino rilegato in pelle nera.
“E questo cosa dovrebbe essere?” Domandò il fanciullo.
“Volevi avere l’ultima parola e darmi torto, no?” Disse Mori. “Sebbene io abbia molto da ridire sul modo in cui lo hai fatto, non posso negare che tu sia riuscito nell’impresa. Questo è il tuo premio.”
Dazai lo prese tra le mani e Mori non poté fare a meno d’indugiare lo sguardo sulle fasciature strette intorno a quegli esili polsi.
“Questo è il tesoro che nascondevi in quella cassetta rossa?” Domandò il fanciullo.
Mori pensò ai documenti nascosti nella tasca sinistra del suo cappotto, quelli di cui Dazai non doveva conoscere l’esistenza. “Questa è la favola con cui mi cullo la notte,” ammise. “Solo che non è quella di un orfano triste, è accaduta davvero. È accaduta a Rintarou ed è l’unica cosa di lui che conservo.”
Si scambiarono uno sguardo che conteneva un sacco di sfumature impossibili da tramutare in parole, poi Dazai aprì il taccuino e cominciò a leggere.
Alla luce calda dell’abat-jour sul comodino, Mori Ougai, nato Rintarou, rimase a guardare mentre Dazai Osamu leggeva la più intima delle sue confessioni, sebbene non avesse scritto neanche una parola di quelle contenute in quel taccuino.
Quando ebbe finito, il fanciullo richiuse il piccolo quaderno e lo appoggiò con cura sulle sue ginocchia.
“Non il tuo genere, vero?” Intuì Mori, con un sorrisetto. “Troppo amore, troppo destino, troppo struggimento.”
“Mi è piaciuto, invece,” disse Dazai, con una timida nota di sorpresa nella voce.
Mori non riuscì a parlare per almeno mezzo minuto. “Quelle parole non sono un inno alla morte,” disse, nel dubbio che al ragazzino fosse sfuggito il significato. “Parlano di amore e di vita, speranza!”
“Ma sono vere,” ribatté Dazai, guardandolo. “Non sono per un pubblico. Sono per qualcuno.” Restituì l’oggetto al legittimo proprietario. “Sono per te, non è vero?”
Gli occhi scuri di Mori vennero ricoperti da un velo di dolce amarezza. “Sì, sono per me.”
Pur sapendo di non essere al massimo delle sue capacità, Dazai non riusciva davvero a capire. “Perché consegnarmi un oggetto di un valore simile?”
Mori ripose il taccuino nella tasca interna della giacca. Avrebbe pensato dopo a rimetterlo al suo posto. “Mi hai chiesto perché, tra tutti, Natsume Soseki ha deciso di affidarti proprio a me. Io stesso gli ho posto la stessa domanda e non ho ricevuto alcuna risposta. Tuttavia, mi sono dato una da solo.” Una pausa a effetto. “Siamo legati allo stesso destino, io e te.”
CowT12 Week 5
M3: Cambiamento/ Stasi (Cambiamento)


-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


“Desidera qualcosa?” Il cameriere si rivolse con cortesia al giovane dai lunghi capelli biondi. Lo aveva notato per puro caso, mentre superava l’ingresso del salotto adiacente alla sala da ballo. Giovane, ingenuo, concentrato nel fare una buona figura con tutti gli ospiti presenti per portare a casa una buona paga - e magari qualche mancia - il cameriere non si era fermato a riflettere che forse quel ragazzo vestito di bianco, troppo giovane per avere qualsiasi ruolo sia in politica che nell’esercito, si fosse rifugiato in un’altra stanza proprio per restare da solo.
Il dubbio sorse spontaneo nella sua mente un istante troppo tardi, quando quegli occhi azzurri si staccarono dal vuoto per studiare freddamente il suo viso. Bastò quello sguardo a informare il malcapitato cameriere che la sua presenza era un disturbo. D’istinto, pensò di chiedere scusa e togliere il disturbo velocemente, ma la paura di peggiorare la situazione lo pietrificò.
Fu fortunato. Il giovane dai capelli biondi decise di essere magnanimo con lui. “No, grazie.” Fu una risposta secca, ma più che sufficiente a permettere al cameriere di chinare la testa con rispetto e tornare al suo lavoro, nella sala principale di quell’evento di gala.
Per noia, quei glaciali occhi azzurri lo seguirono, fino a che non sparì tra la folla d’invitati dai nomi importanti.
Quel giovane, che sedeva sulla poltrona più in ombra del salotto, non aveva nessuno nome importante da sfoggiare.
Nessuno in Europa conosceva Paul Verlaine - non ancora.
E a lui andava benissimo così.
Arthur gli aveva spiegato con pazienza il motivo di quell’evento e perché la loro presenza era tanto importante. Alla fine dei discorsi, Paul non riusciva ancora a dare un senso logico alla situazione. C’erano buone probabilità che gli uomini in quella stanza si sarebbero dichiarati guerra il giorno dopo.
Perché perdere tempo a coprire i loro intenti sporchi di sangue con quell’illusione dorata? Se le cose fossero andate nel peggiore dei modi, l’Europa - e forse, di riflesso, il mondo intero - sarebbe stata privata di un futuro.
Paul non riusciva davvero a capire, ma non biasimava nessuno per questo. Sì, indossava un aspetto umano, ma esserlo era una cosa che non era ancora riuscito ad afferrare. Non la sentiva sua. Arthur gli diceva di darsi del tempo. Paul dubitava che sarebbe mai arrivato a comprendere il genere umano come ci si aspettava da lui. Le intenzioni che muovevano le persone lo confondevano, specie quando queste andavano a braccetto con il concetto di potere. Faun, l’uomo che dopo lunga riflessione aveva definito il suo creatore - e torturatore - era stato quel genere d’individuo. Ora, nella stanza accanto, a pochi passi da lui, decine e decine di persone fatte della stessa pasta stringevano tra le mani il destino del mondo.
No, Paul davvero non riusciva a capire.
“Non ti senti bene?”
Gli occhi azzurri si sollevarono sull’ingresso della stanza e quelli dorati di Arthur risposero al suo sguardo. Ovvio, chi altri avrebbe mai potuto notare la sua assenza? Paul Verlaine non era nessuno - non ancora.
“Ci parliamo di nuovo, io e te?” Era quello a sorprendere Paul. Ricordava benissimo la loro ultima conversazione, i toni che aveva raggiunto e perché non ne erano seguite altre, ma non aveva mai sperato che fosse proprio Arthur a porre fine a quel silenzio e demolire il muro che entrambi avevano innalzato tra loro.
Il giovane uomo dai lunghi capelli neri non rispose davvero alla domanda. “Ti sto cercando da quasi un’ora.”
L’angolo destro della bocca di Paul si sollevò e il fantasma di un sorriso sarcastico illuminò il giovane viso di una luce tetra. “Sei una delle migliori Spie… No, che dico? Sei la migliore Spia del Governo francese, Arthur. Per favore, so che i nostri rapporti sono tesi ma non prendermi in giro. Siamo arrivati insieme, io e te. Sai benissimo quando mi sono allontanato da te. Puoi non aver individuato immediatamente il mio nascondiglio, ma l’area d’interesse non è così grande da impegnarti per un’intera ora-“
“Basta, Paul.” Arthur suonava stanco.
Peccato, Paul non lo era per niente. “Hai fatto quel che dovevi con Victor,” concluse. “Ora che hai adempiuto ai tuoi doveri, io posso tornare a essere una tua priorità.”
L’altro esaurì la distanza tra loro. “Pensavo davvero che non ti fossi sentito bene,” insistette. C’era della premura in quelle parole, nascosta sotto strati di rabbia e incomprensione.
Pur guardandolo dal basso, Paul non ebbe alcun problema a tenergli testa. “Hai paura che mi succeda qualcosa, Arthur?” Domandò. “Dillo chiaramente, almeno saprò che t’interessa qualcosa di me.”
Arthur si chinò verso di lui, fino ad appoggiare entrambe le mani sui braccioli della poltrona. I lunghi capelli neri gli ricaddero sulla spalla e oscurarono la visuale sulla sala da ballo a Paul.
“Onestamente, mi ferisce che tu non lo sappia già da te,” disse Arthur. Nonostante la compostezza che lo contraddistingueva, il biondo leggeva il dolore nei suoi occhi. Era uno spettacolo che non gli era indifferente, ma che poteva sopportare.
Arthur Rimbaud non aveva il diritto di sentirsi ferito, non quando era Paul a custodire un segreto più grande di qualsiasi informazione top secret nascosta negli archivi di stato.
“Come potrei mai saperlo?” Domandò Paul. “Nel momento in cui avevo più bisogno di te, mi hai voltato le spalle.”
“No, non l’ho fatto.” Arthur scosse la testa. “Sono qui, davanti a te.”
“Forse…” Paul affondò le unghie nei braccioli nella poltrona. “Ma non sei con me.”
Arthur non replicò immediatamente e tanto bastò a Paul per avere la conferma che aveva temuto. “Bene,” disse, secco, sguardo gelido. “Fatti indietro e lasciami passare. Posso togliere il disturbo questa stessa notte. Tornerai a casa e non troverai traccia di me, come se non fossi mai esistito nella tua vita.”
“Paul…”
“Vuoi un’uscita comoda da questa situazione? Te la sto offren-“
“Smettila.” Arthur non urlò, ma appoggiò un ginocchio a terra per mettere l’altro nelle condizioni di guardarlo dall’alto in basso. Gli stava concedendo un vantaggio. Lo stava pregando: fidati di me, non sono tuo nemico.
E Paul non aveva mai dubitato di lui. Mai. Tuttavia, era certo che non ci fosse modo di arrivare a un compromesso. Lui per primo non lo voleva. Lo stato in cui versava gli permetteva di vedere solo in bianco e nero, tutto o niente.
Paul sapeva con dolorosa certezza che Arthur non solo non l’avrebbe mai pensata al suo stesso modo, ma non sarebbe mai riuscito nemmeno a provare quello che provava lui. No, Paul Verlaine non era umano ma una cosa sulle persone l’aveva capita molto bene: non si può comandare un’emozione. Se essa non nasce spontaneamente, non ha alcun senso imporla nel cuore di qualcuno.
“Sai bene che non puoi andare da nessuna parte,” disse Arthur. “Sei una mia responsabilità. Il tuo addestramento si è appena concluso, ma per renderti un agente completo serve tempo ed esperienza. Tutto sta per cambiare in Europa e non riesco a prevedere il panorama in cui tu-“
“Oh, sono tuo prigioniero, adesso?” Domandò Paul, velenoso. “Mi è proibito pensare o agire in un modo che non ha la tua approvazione? Strano, abbiamo parlato tanto di libero arbitrio e di come sia una prerogativa naturale dell’essere umano. È una delle prime questioni su cui hai insistito tanto, ricordi? Sei umano, Paul. Hai la facoltà di scegliere.
“Non distorcere le mie parole.”
“Non lo faccio. Mi limito a esporre i fatti: ho preso una posizione che non si allinea alla perfezione con le aspettative che tu e il Governo avete su di me e tanto ti è bastato a fare un passo indietro e mettere tutto in discussione.”
Arthur gli afferrò la mano, ma il biondo non ricambiò la stretta. “Mi hai chiesto se ho paura,” disse e la sua voce non era più tanto ferma. “Sì, Paul, ho paura,” confessò, senza vergogna. “Ho paura perché siamo armi nelle mani di qualcun altro, perché domani potrebbe scoppiare una guerra e perché, se dovesse accadere, non so fino a che punto riuscirò a proteggerti.” Era sincero, quasi disperato. “Ed è chiaro che tu non farai nulla per facilitarmi il compito.”
Ma io non ho bisogno che tu mi protegga. Paul bloccò quella replica in punto di lingua. Era consapevole del suo potere, di quell’arma che nascondeva sotto la pelle e che lo rendeva pericoloso - un mostro - ma anche utile agli occhi del Governo. Se fosse dipeso solo da una questione di forza, Paul non avrebbe esitato a voltare le spalle alla sua attuale vita per crearne una che seguisse, finalmente, le sue regole e non quelle che qualcun altro gli aveva imposto.
Sì, se fosse stata solo una questione di forza, sarebbe stato tutto molto più semplice. Fare i conti con il cuore era una cosa completamente diversa. Fosse stato meno orgoglioso, meno arrabbiato, Paul avrebbe detto le cose come stavano: non voleva essere da solo in quello che gli stava accadendo, desiderava Arthur al suo fianco perché quella cosa era loro. Dischiuse le labbra e ingoiò aria per imporsi una sorta di autocontrollo, ma la fierezza del suo sguardo non vacillò. “Io non ho paura.” Disse, fermo. “Se il mondo deve bruciare perché io possa tenere mio figlio tra le braccia, allora che bruci. Pensi che l’idea di tramutarlo in cenere con le mie stesse mani mi spaventi?”
Arthur scosse la testa. “No, Paul, è tutto il contrario,” rispose. “Io so che non ti fermeresti davanti a niente. È questo che mi fa paura.” Una pausa. “Ma sei sicuro di voler far ereditare a questo figlio un mondo come quello che descrivi?”
“Ho scelta?” Domandò Paul, sporgendosi verso il suo compagno. “Domani, poche decine di uomini decideranno del destino di più di sette miliardi di persone. Siamo armi nelle mani di qualcun altro, lo hai detto tu.” Tremava. “Pensi che io non sappia di non potermi sottrarre a tutto questo in alcun modo?”
“Paul, Paul, Paul.” Arthur gli afferrò le braccia, cercando di offrirgli una qualche forma di conforto con la sua vicinanza. Suo malgrado, la sua presenza aveva smesso di essere un sollievo per l’altro da un po’ ed era colpa sua, di Arthur Rimbaud e di nessun altro. “Paul, io sono qui, con te.” Lo avrebbe ripetuto all’infinito, se necessario.
“Non è questo figlio, Arthur.”
“Cosa?”
“È nostro figlio,” disse Paul, quasi fosse una preghiera. Sì, una preghiera destinata a rimanere inascoltata. “Ma tu non lo senti,” aggiunse, con rassegnazione. “Tu non lo sentirai mai.”
“Io sento te,” ribatté Arthur. “So quello che provo per te. Non mi spaventa. Non me ne vergogno. Questo è quello che posso offrirti e so che non sarà sufficiente in eterno ma, ti prego, fai in modo che ti basti per ora.”
Paul non gli rispose e nemmeno lo allontanò. Non poteva e non perché la sua posizione agli occhi del Governo glielo impediva. Certo, il solo posto al mondo che gli era stato offerto di occupare era quello al fianco della Spia Rimbaud. Non ne avrebbe voluto nessuno altro. Anche se Paul voleva quel figlio e Arthur no, smettere di far parte delle rispettive vite sarebbe stato insopportabile per entrambi.
“Vi stavo cercando.” Non appena Victor Hugo fece il suo ingresso in scena, due calici di vino tra le mani, Arthur Rimbaud si sollevò in piedi. Paul, al contrario, non si mosse.
“È accaduto qualcosa, Victor?” Domandò la Spia dai lunghi capelli neri.
Victor scosse la testa, accennando un sorriso malinconico. “Tutto accadrà domani,” disse. “Tutto cambierà domani, in un modo o nell’altro.”
Se l’Europa sia era spinta fino al punto da dover prendere in considerazione un conflitto, Paul dubitava che esistesse un modo per uscirne indenni. Anche ipotizzando che l’indomani non sarebbe successo nulla d’irreparabile, quanto sarebbe durato quell’equilibrio precario?
“Paul, a stento ti ho visto questa sera,” disse Victor, porgendo al giovane dai capelli biondi un calice di vino. “Qualcosa non va, per caso?”
Paul fissò il bicchiere, ammutolito. Arthur venne in suo soccorso: lo afferrò al suo posto, accettando quell’offerta gentile al posto suo. “Paul non si sente a suo agio in mezzo a tanta gente,” disse la Spia. “Dobbiamo comprenderlo.”
Victor passò gli occhi dall’uno all’altro e, per un attimo, Paul ebbe il dubbio che avesse intuito qualcosa. Impossibile. Si rassicurò da solo. Il nostro non è un segreto intuibile da uncalice di vino rifiutato.
Victor Hugo era una persona gentile, troppo per il suo bene. Se gli fosse stato concesso di vivere la sua vita liberamente, Paul era certo che si sarebbe tenuto fuori dalle questioni di potere. Gli occhi azzurri caddero sulle piccole mani coperte dai guanti, una misera ma indispensabile barriera per il potere letale di cui Victor Hugo era portatore. Era un giovane minuto, troppo per essere un soldato della prima linea, ma la Francia lo aveva già reso l’arma principale di quella guerra annunciata.
Improvvisamente, nella sala principale, una voce si alzò sopra tutte le altre. Paul voltò lo sguardo in modo meccanico e vide due giovani discutere al bancone dell’angolo bar. Non li conosceva. Quello adirato aveva i capelli biondi e l’altro neri.
Paul ne fu annoiato con la stessa velocità con cui avevano attirato la sua attenzione.
Non era lo stesso per Victor Hugo, che aveva smesso di parlare per osservare la scena con attenzione.
La scena s’interruppe con l’uscita di scena del tipo con i capelli biondi. Il moro rimase dov’era, ammutolito. Dall’espressione che indossava, Paul dedusse che non era abituato a terminare una discussione in cui l’ultima parola non era la sua. Tempo di un battito di ciglia e un uomo biondo comparve sull’ingresso del salotto. Era William Shakespeare. Non disse nulla, fece solo cenno a Victor di seguirlo.
“Arthur, tieni sotto controllo la sala principale, per cortesia,” disse, prima di scomparire tra la folla, al seguito dell’inglese.
Arthur posò il calice mezzo pieno sul basso tavolino al centro del salotto. “Resta qui, Paul.”
Il diretto interessato rispose con una scrollata di spalle: non aveva alcuna intenzione di muoversi da dov’era. Quando il compagno lo lasciò solo, ne fu sollevato. A cosa era servita la conversazione che avevano avuto? A niente. Quello non era né il luogo né il momento per parlare del figlio che stavano per avere. No, non era proprio il periodo storico adatto e Paul odiava sentirsi così impotente di fronte agli eventi. Si tirò la frangia bionda all’indietro, ma questa ricadde immediatamente sull’occhio destro. Fu per noia che portò di nuovo lo sguardo verso il bancone dell’angolo bar. Il giovane dai capelli corvini era ancora seduto al suo posto, il viso contratto in un’espressione dolorante. Non fu tanto quella a interessarlo, quanto il modo repentino in cui si portò una mano in grembo. Si piegò su se stesso, ma rimase col braccio aggrappato al bancone. Nessuno fece niente. Nessuno se ne accorse.
Quando Paul vide il giovane portarsi una mano alla bocca, come se fosse sul punto di vomitare, sia alzò dalla poltrona e lasciò il salotto. Certo che nessuno li stava guardando, si chinò per stringere la spalla del ragazzo in difficoltà. “Respira,” gli disse, senza nessuna intonazione particolare. “Continua a respirare e passerà.”
L’altro nemmeno lo guardò negli occhi. “Se respiro, do di stomaco qui, di fronte all’intera Europa.” Gli rispose in francese, ma l’accento era strano. Di sicuro, non era di quelle parti.
“Non accadrà,” promise Paul. “Fidati, non accadrà. Ma devi alzarti, così starai solo peggio.”
Il giovane dai capelli corvini tornò a sedersi sullo sgabello, teneva lo sguardo basso e non aveva affatto una bella cera. Paul si voltò, vide un cameriere e gli ordinò di portargli una cosa specifica. Cinque minuti dopo, un bicchiere dal contenuto giallastro venne posato sul bancone.
Paul lo spinse verso lo sconosciuto. “Bevi.”
Nonostante lo stato in cui versava, lo sconosciuto lo guardò storto. “Non so chi tu sia, ma ora so che vuoi vedermi morto.”
“Mi chiamò Paul,” rispose il francese, non c’era alcun motivo di essere formali e stare a rivelare anche il suo cognome. “E non è veleno, non ti ucciderà.”
“Non m’importa che cos’è. So che se lo bevo, vomiterò anche i miei organi interni.”
Sul viso di Paul comparve una smorfia divertita: conosceva bene la sensazione. “È limonata, ti aiuterà.”
Il moro continuò a guardarlo con diffidenza, poi il suo stomaco dovette contorcersi improvvisamente perché afferrò il bicchiere con una certa urgenza. Sorseggiò la limonata con poca convinzione, fissando Paul per tutto il tempo.
Se non dovesse funzionare, ti vomito addosso, dicevano quegli occhi scuri.
Paul aspettò in silenzio che l’attacco di nausea passasse. A metà del bicchiere, il viso dello sconosciuto dai capelli corvini riprese colore.
“Meglio, vero?” Domandò il francese. Te lo avevo detto, era quello che voleva dire.
Il giovane sconosciuto non confermò né negò. “Paul, hai detto?”
“Sì, esatto.”
“Rintarou…” Si presentò l’altro, prendendo un altro sorso di limonata.
“Oh, ecco chi sei,” disse Paul, con rinnovato interesse. “Il fio-“
“Sì sì, il il Fiore d’Oriente,” lo precedette Rintarou, sbrigativo e irritato. “Tu, invece?” Domandò. “Hai un soprannome che mi possa aiutare a riconoscerti o un cognome chiacchierato nei salotti europei?”
“Nessuno dei due,” rispose Paul. “Sono solo nessuno.”
A Rintarou dovette piacere come risposta, perché accennò un sorriso. “Mi fa piacere. Ho parlato con troppe persone importanti per un solo evento di gala.”
Dal modo in cui pronunciò la parola importanti, Paul dedusse che non le riteneva affatto tali. “Sei malato?” Domandò diretto.
“Mi piacerebbe saperlo,” ammise Mori, poi sollevò il bicchiere di limonata quasi vuoto. “Come lo sapevi? Studio medicina, ma non mi è passato per la testa questo genere di rimedio.”
“Esperienza,” disse Paul. “Ho vissuta una condizione che mi ha provocato una nausea prolungata.” Se quel giovane sapeva di cosa stava parlando, avrebbe colto l’allusione senza problema.
Da quel che lo voci raccontavano, il Fiore d’Oriente di Johann Goethe era un ragazzo, ma Paul per primo sapeva quanto era difficile leggere le sfumature di certe situazioni. La gente poteva soffrire di nausea per mille motivi e forse il suo interesse per quel ragazzo era irragionevole. Eppure, c’era qualcosa sul viso di Rintarou che persuadeva Paul a credere che fosse portatore di un segreto come il suo.
“Sei nell’esercito?” Domandò Rintarou. Paul scosse la testa e l’altro lo studiò con più attenzione. “Ma hai un’abilità, giusto?”
“Quasi tutti i giovani presenti a questo evento di gala lo sono,” rispose Paul. “È l’unica ragione per cui sono qui.”
Rintarou annuì distrattamente. “La maggior parte di noi qui non ha vissuto abbastanza nemmeno per aver completato un percorso di studi.”
“E marceremo sui campi di battaglia di tutta Europa come se fossimo soldati consumati,” concluse Paul.
Rintarou lo fissò. “Anche tu sei certo che domani scoppierà la guerra,” intuì.
“Sono convinto che, di fronte a una scelta, l’umanità sia portata per sua natura a scegliere la strada della distruzione.”
“Ah, sei un filosofo,” lo prese in giro Rintarou, ma non lo stava deridendo. “Ottimista, per di più.”
“C’è veramente qualcosa per cui essere ottimisti qui?” Paul aveva una storia troppo lunga da raccontare, ma bastava l’ultimo capitolo della sua vita per convalidare il suo pensiero: concepire un bambino per sbaglio sulla soglia di un conflitto mondiale non era proprio quello che avrebbe definito ottimo tempismo.
“No,” rispose Rintarou, giocando distrattamente col bicchiere tra le sue mani.
“Decisamente, non c’è nulla.” Prese un altro sorso di limonata. “Non resta che combattere per vincere.”
Paul aggrottò la fronte. “Questa non è la tua guerra,” disse.
Rintarou sorrise amaramente. “Se sai chi sono, dovresti sapere anche di chi sono amante, Paul.”
“Goethe ti obbliga a-?”
“Nessuno può obbligarmi a fare niente,” lo interruppe Rintarou, glaciale. “Sono dove sono perché voglio esserci, che a Johann Goethe stia bene o no.”
Stava cominciando ad aprirsi. Ora che aveva nominato il suo amante, Paul sapeva di poter osare un po’ di più. “A lui lo hai detto?” Domandò. “Della tua condizione, intendo.”
Rintarou inarcò un sopracciglio. “Quale condizione?” Domandò. “Parli della nausea?” Scrollò le spalle. “Passerà…” Disse sbrigativamente.
Allora non lo sai, si disse Paul. O forse non lo sei e sto vedendo solo cose che non esistono. Il suo istinto era convinto del contrario.
Rintarou era come lui, solo che non lo aveva ancora scoperto.
E l’indomani sarebbe scoppiata una guerra, senza che quel giovane proveniente dall’Oriente avesse la minima idea che-
“Che cosa stai facendo?”
Paul sentì sulla spalla la mano di Arthur, prima d’incontrare i suoi occhi dorati.
Rintarou lanciò un’occhiata all’ultimo arrivato, decise che la cosa non lo riguardava e tornò alla sua limonata.
Paul non rispose alla domanda fatta dal compagno e Arthur non si ripeté. “Vieni, la nostra presenza è richiesta altrove.”
Il biondo scese dallo sgabello del bar e si allontanò di un paio di passi, poi ci ripensò. “Aspetta un attimo, Arthur.” Arrivò accanto a Rintarou. “Hai detto di studiare medicina, giusto?”
Confuso, il giovane da capelli corvini annuì. “L’ho detto,” confermò. “Ma perché-?“
Paul non lo fece parlare. Lo tirò per un braccio, verso di sé e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Quando si allontanò, gli occhi scuri di Rintarou erano grandi, smarriti.
Il francese non aggiunse altro. Quello che aveva messo in moto poteva tramutarsi in niente o nell’inizio di qualcosa di nuovo.
In entrambi i casi, il mondo sarebbe andato a fuoco comunque.
“Il Governo francese ha un file aperto su Mori Rintarou?” Domandò Paul, una volta rimasto solo con il suo compagno.
“Di certo ne ha uno su Johann Goethe,” rispose Arthur. “Ma perché me lo chiedi?”
“Se non esiste un file su di lui, voglio aprirlo e voglio seguirlo personalmente,” disse Paul, diretto.
“Mori Rintarou non è considerato oggetto d’interesse per il Governo. Perché perdere tempo?”
“Perché a me interessa,” rispose Paul, schietto. “E perché ritengo che il Governo sia molto distratto.”




Molto presto, nel nuovo mondo forgiato dalla Grande Guerra, il nome di Mori Rintarou si sarebbe perso tra i caduti in battaglia e quello di Paul Verlaine sarebbe divenuto tra i più conosciuti in Europa.
Il destino li avrebbe fatti incontrare di nuovo sedici anni dopo, ai margini di una storia di cui non sarebbero stati i protagonisti.



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


“Oh, povero me…” Commentò Mori, affacciandosi sul salotto adiacente alla sala da ballo.
Si accorse di Chuuya e Dazai solo alla fine della scena, quando il primo si alzò dallo sgabello da bar in tutta fretta per battere in ritirata. Non si mosse subito. Seguì Chuuya con lo sguardo per assicurarsi che non lasciasse l’evento di gala e solo quando fu sicuro che Dazai non si sarebbe mosso da dove si trovava, decise che il diciottenne dai capelli rossi aveva la priorità.
Di fatto, lo trovò seduta sulla poltrona più in ombra della salotto, con le braccia incrociate contro il petto e il broncio di un bambino che aveva appena finito di litigare e ne era uscito sconfitto.
Quelli erano i momenti in cui Mori sentiva la mancanza di Kouyou più di ogni cosa. Due adulti per due ragazzini e il gioco era fatto. Lì, a Parigi, era da solo perché, in assenza del Boss, qualcuno doveva tenere il forte e la sua unica Dirigente donna era la sola che poteva vantare della sua completa fiducia. Era una gran cosa avere un braccio destro - gli piaceva scherzare e dire che Dazai era il sinistro - lo era di meno essere inferiore numericamente a un Duo Nero di diciotto anni - per due - particolarmente turbolento per sua natura.
Mori pensò che aveva appena finito di lamentarsi con Dazai del fatto che non parlava più con Chuuya. Certo, ma non si era aspettato di essere ascoltato e preso in parola dal giovane Dirigente. Dazai avrebbe potuto benissimo aspettare di tornare a casa per ricominciare a litigare con il suo partner. No, la prospettiva di dargli noia doveva essersi rivelata troppo irresistibile per lui.
Il Boss della Port Mafia fece appello a tutta la sua pazienza e fece un paio di passo all’interno del salotto per farsi riconoscere. Arrabbiato com’era, Chuuya lo guardò con la coda dell’occhio ma non si mosse. “Io non ci vado a parlare con quello,” disse immediatamente.
“Non te lo avrei chiesto,” ammise Mori, sedendosi sul basso tavolino al centro della stanza. Era l’unico modo per poter guardare il giovane dritto negli occhi e stare comodo allo stesso tempo. “Gli ho fatto notare quanto sia assente ultimamente, ma non pensavo sarebbe venuto dritto da te per rimediare.”
Chuuya sbuffò. “Non credo volesse parlare,” disse. “Non credo volesse proprio avvicinarsi a me,” sottolineò, “ma non sta bene. Stava per vomitare, lo stronzo!”
“Sì, non sta bene da quando siamo partiti. L’ho notato anche io.”
Per la prima volta da quando Mori era entrato nella stanza, Chuuya lo guardò drittò negli occhi. “Che cos’ha?” Chiese, certo il Boss avesse già la risposta in tasca, come sempre. “È qualcosa di grave?”
Nell’udire tanta premura, Mori sorrise ma decise di non farglielo notare. In linea di massima, Chuuya era più gestibile di Dazai ma ben più rumoroso. Non voleva scenate nel bel mezzo di un evento di gala in terra europea. “Penso sia una semplice influenza o qualcosa del genere. Dazai non ne è veramente preoccupato o sarebbe già venuto da me.”
Chuuya scrollò le spalle. “Perché dovrebbe preoccuparsi delle sue condizioni fisiche?” Domandò. “Se stesse per morire, ne sarebbe felice, no?”
“Vero, ma sappiamo tutti e due quanto è insofferente al dolore,” gli ricordò Mori. “Non sopporterebbe mai un malessere prolungato.”
Chuuya concordò con un cenno del capo. “Mi ha chiesto come sto.”
“Oh…” Mori sgranò gli occhi. “Sono sinceramente e totalmente sorpreso.”
“Lo dici a me?” Chuuya sbuffò una seconda volta. “Chi dobbiamo torturare per scoprire che cosa gli prende, Boss?”
Fu il turno di Mori di scrollare le spalle. “In linea di massima, Dazai non sta facendo nulla per cui dobbiamo preoccuparci.”
“Appunto!” Esclamò il rosso. “È preoccupante che non ci dia noia… O che non venga da noi a lamentarsi di quanto è annoiato dall’essere annoiato.”
Mori non poteva che dargli ragione. Ricordava giorni in cui Dazai si stabiliva arbitrariamente nel suo ufficio solo per potergli ripetere costantemente quanto era noioso il lavoro che gli aveva affidato. Quando poi arrivava Hirotsu a portargli il caffè, attaccava a lamentarsi su come alla sua veneranda età - aveva trentasei anni - ancora non si fosse deciso a diventare un adulto autosufficiente.
C’era solo una motivo per cui Mori rimpiangeva quei giorni: ora che il piccolo demonio era maggiorenne, avrebbe potuto ribattere che aveva fatto un ottimo lavoro nel rendere un adulto non autosufficiente anche lui.
Peccato che dopo il suo diciottesimo compleanno, Dazai non gli avesse dedicato più molto del suo tempo. Ancora perlomeno rispondeva al telefono.
“È per questo che sei arrabbiato?” Domandò Mori. “Perché ti ha chiesto come stai?”
“Uhm-Uhm…”
“Magari gli è solo passata.” Quello era ottimismo e il Boss della Port Mafia tendeva a essere più realista. Tuttavia, era realisticamente possibile che Dazai fosse cresciuto abbastanza d’accantonare determinati comportamenti. Chuuya non poteva saperlo perché era arrivato dopo e osservava Dazai dal punto di vista di un suo pari, ma Mori vedeva la differenza tra il bambino di quattordici anni, che si era ritrovato tra le mani e il fanciullo di diciotto, che non faceva sfuggirgli - ed era anche bravo a farlo.
“Quattro anni…” Mormorò, tra sé e sé. “Perché sembrano molti di più?”
Chuuya, che non poteva aver seguito la sua riflessione interiore, inarcò le sopracciglia, confuso.
Il Boss accennò un sorriso. “Niente. Crescete troppo in fretta, tutto qui. Mi avevano avvertito, ma non è mia abitudine ascoltare le altre persone.”
Il diciottenne assottigliò gli occhi azzurri. “Mi prendi in giro, Boss?” Domandò, un po’ astioso. “Non cresco di un centimetro da tre fottutissimi anni.”
“Ah, i maschietti crescono fino a venticinque anni!” Mori fece un gesto con la mano, come a dirgli di non preoccuparsi. “Hai altri dieci centimetri davanti a te, ne sono sicuro.”
Gli occhi di Chuuya divennero grandi, speranzosi. “Davvero?”
“Parola di medico,” mentì il Boss. Era assai improbabile che il diciottenne dai capelli rossi avesse uno scatto di crescita dopo tre anni di nulla, ma non poteva permettersi il capriccio del suo secondo ragazzino. Dazai non aveva ancora insultato nessuno o fatto adirare nessuno - a parte Chuuya - e Mori non aveva voglia di mettere alla prova la sua fortuna più di così.
“Quindi è questa la risposta al grande enigma?” Domandò il rosso, deluso. “Dazai è cresciuto?”
“Sei cresciuto anche tu, mio caro Chuuya.”
“Perché insiste a rigirare il coltello nella piaga, Boss?”
“Il concetto di crescita non si limita a qualcosa di fisico,” spiegò Mori. “Siete cambiati. A quindici anni, sembrava che aveste il bisogno fisiologico di litigare quotidianamente. Certi schemi comportamentali possono maturare e basta. È la vita. Per evitare che questo accada, dovreste rimanere immobili e non avere alcuna esperienza del mondo. E vi sono successe molte cose negli ultimi tre anni.”
Chuuya si aggiustò il cappello sulla testa, anche se non gli dava alcun fastidio. Quando aveva messo piede al quartier generale della Port Mafia per la prima volta, a quindici anni, lo aveva fatto stringendo al petto solo tre certezze: il suo nome, la sua abilità e la consapevolezza - forse più il presentimento - di nascondere qualcosa di mostruoso dentro.
Ora, a diciotto, ogni sua domanda aveva trovato una risposta precisa e non si era risparmiati a rivelargli anche i dettagli più scomodi, oscuri. “Detesto che il mondo mi conosca come Nakahara Chuuya,” non lo aveva mai detto a nessuno. “Beh… In realtà, Chuuya è un nome che sento mio, anche se è solo una bugia di cui mi piace convincermi.”
“No, non lo è,” disse Mori, gentilmente. “È il tuo nome. Non ne abbiamo mai parlato, ma sono certo che la persona che la persona che vive nei sotterranei della Port Mafia la pensi allo stesso modo.”
Chuuya si grattò la nuca e usò quel movimento come scusa per guardare da un’altra parte. Persino il Boss gli faceva la cortesia di non nominare Paul Verlaine con lui, ma ciò non impediva al diciottenne di soffrire il peso di quella presenza invisibile. Dopo lo scontro che gli aveva visti protagonisti, Chuuya aveva impiegato meno di un mese a scendere nei suoi nuovi appartamenti per affrontarlo. Ne era uscito come una persona nuova. Più libera, ma decisamente più consapevole.
E la verità, di qualunque natura fosse, aveva sempre un peso.
“È lui che mi ha fatto crescere,” concluse Chuuya.
Mori annuì. “Sì, lo credo anche io.”
Gli occhi azzurri tornarono su quelli scuri del Boss. “E chi ha fatto crescere Dazai?”
L’uomo vestito di nero scrollò le spalle. “Un po’ io,” si permise di darsi parte del merito. “Un po’ tu.” No, non si poteva escludere Chuuya da quell’equazione, non aveva importanza quando Dazai dicesse di detestarlo.
Il diciottenne dai capelli rossi non fu del tutto soddisfatto dalla risposta. “E chi altri, Boss?” Domandò. “Perché è successo qualcosa a Dazai, ma non riesco a capire che cosa sia.”
Il sorriso di Mori si fece tirato. “È successo il Marchese De Sade.”
Chuuya sgranò gli occhi, poi passò lo sguardo su qualsiasi cosa che non fosse il viso del suo superiore, imbarazzato. “Non volevo riportare a galla-“
“Credo che nessuno di noi sia riuscito a gestire quell’evento nel modo giusto,” lo bloccò Mori. “In un primo momento, siamo divenuti paranoici e questo ha convinto Dazai a spingerci via. Più lo tenevamo sotto controllo, più lui faceva di tutto per sfuggirci. La nostra seconda tattica è stata il totale silenzio. Se non parli di una cosa non è mai successa, no?” Ora che lo diceva ad alta voce, era ragionevole che Dazai avesse preso le distanze da loro. “Col senno di poi, mio caro Chuuya, penso proprio che ci siano tutte le condizioni necessarie per spingere qualcuno a cambiare drasticamente la propria condotta.”
Riassumendo: Dazai aveva subito un trauma - più forte degli altri, più profondo di qualunque altro - e loro, le persone che avevano fallito nel proteggerlo e che avrebbero dovuto sostenerlo, si erano rivelate inadeguate ben due volte.
“C’è una cosa, Boss.” Chuuya interruppe il flusso dei suoi pensieri. “Se escludiamo il caso De Sade, non rammento l’ultima volta che qualcuno di noi lo ha raccolto in uno stato pietoso.”
Il cervello di Mori andò in blocco, si spense e si riattivò in un battito di ciglia, come un computer difettoso. “Non sta più tentando di suicidarsi?”
Perché non lo aveva notato prima? Era lui il medico di Dazai. Le sue mani lo avevano strappato alla morte, ricucito e fasciato innumerevoli volte. Sì, dopo De Sade, Dazai era finito sotto le sue cure per dei punti di sutura, un’influenza particolarmente brutta e un paio di slogature. Considerando che era un Dirigente, capo delle forze armate, perennemente presente in prima linea, non si faceva nemmeno così male.
Che fine avevano fatto i veleni e le bombe rudimentali che esplodevano per miracolo e causavano gli stessi danni di un petardo?
Quando era stata l’ultima volta che Hirotsu glielo aveva portato bagnato da capo a piedi perché, in un’alzata d’ingegno, si era buttato a mare o da un ponte?
Mori non aveva le rispose a nessuna di quelle domande e si sorprese a scoprire che gli dava terribilmente fastidio.
Per evitare che il più giovane si accorgesse del suo smarrimento, che andava a braccetto con il suo malumore, il Boss della Port Mafia fece un paio di passi indietro e cambiò completamente argomento. “Chuuya…”
“Uhm?”
“I tuoi genitori naturali ti hanno fornito un paio di cognomi tra cui scegliere, nel caso volessi cancellarti di dosso le ultime tracce che il tuo carnefice ti ha lasciato addosso,” gli propose Mori. “Nome giapponese e cognome francese. Le ragazze ne saranno molto affascinate.”
Chuuya rise e Mori seppe di averla scampata.
“Ho il permesso di tornare in albergo, Boss?” Chiese il diciottenne. “Temo che Dazai mi abbia attaccato qualsiasi malattia rara si sia preso.”
“Vai pure,” gli concesse il suo superiore con indulgenza. “Il mio sesto senso mi dice che, una volta tornati a casa, ci aspetteranno tante lunghe notti insonni.”



-1 giorno prima lo scoppio della Grande Guerra-


Rintarou uscì dalla sala da ballo in tutta fretta, il cuore a mille e il respiro accelerato. O stava per prendergli un infarto o era sulla soglia di un attacco di panico. Trovò rifugiò in un ripostiglio, di quelli abbastanza grandi d’avere una luce sul soffitto e abbastanza spazio di manovra per marciare avanti e indietro.
“Non sta succedendo, non sta succedendo,” prese a ripetersi, infilando le dita tra i capelli neri. “Non sta succedendo. No, quello sconosciuto ti ha solo messo in paranoia.” Si costrinse a riflettere, a tornare sulla strada della ragione. “Ti ha detto di essere nessuno, ma è riuscito a farti parlare.” Strinse gli occhi e si tirò i capelli. “Stupido, maledetto idiota!” S’insultò da solo. “Era francese, poteva essere una spia del governo!”
Sì, una spia del governo che gli offriva una limonata per placare la nausea e poi gli suggeriva all’orecchio di sottoporre un campione del suo sangue a un esame assolutamente banale, ma che non aveva nulla a che fare con lui.
”Ti consiglio di controllare il valore delle Beta-HCG nel tuo sangue,” aveva detto Paul Nessuno.
Rintarou si sentiva ridicolo solo per aver preso quelle parole tanto sul serio dal ridursi nello stato in cui era. La nausea era lì, certo, insieme alla stanchezza cronica e a una serie di sintomi che potevano essere ricondotti a un prolungato periodo passato sotto pressione o all’insorgenza di un tumore.
Poteva essere tutto e poteva essere niente!
Di certo non era quello!
”Perché no?” Obiettò la voce della ragione nella sua testa.
“Perché è necessario che il sesso biologico di un individuo sia femminile,” rispose Rintarou.
Quando si ritrovava davanti a un problema da risolvere, parlava da solo. Niente che centinai di migliaia di persone non facevano abitualmente, ogni giorno. Ma il suo parlare da solo era differente, perché la voce nella sua testa non era un semplice frutto della sua riflessione.
”Hai tutto quello che ti serve perché sia possibile,” gli fece notare la voce.
Rintarou smise di vagare per quello piccolo spazio e abbassò lo sguardo su se stesso, sul suo corpo. “Non sono i miei veri organi sessuali. È solo una trasformazione causata della mia abilità.”
”E questo lo renderebbe meno reale, Rintarou?”
“Non si tratta solo di quello che si vede all’esterno,” ribatté il giovane Mori. “Servono degli organi riproduttivi interni e ci sono dei sintomi ben precisi a provare la funzionalità di un simile apparato.”
”No, i sintomi non compaiono se succede quel che sta succedendo a te.”
“Sono imprigionato in questo corpo da anni e non è mai successo niente!”
”Proprio perché prima ne eri prigioniero.”
Rintarou rimase in silenzio, ma la risposta gli arrivò naturale. “Stai parlando di Hans?”
”Ti piace quando ti tocca, no?” Gli parve che la voce lo stesse deridendo. ”Quando fai l’amore con lui, non ti senti prigioniero della tua stessa pelle.”
“Già…” Rintarou annuì. “E faccio l’amore con lui da più di due anni.”
”I bambini arrivano quando devono arrivare.”
“Non c’è nessun bambino,” sibilò Rintarou, voltandosi a cercare un interlocutore che non c’era. Quanto avrebbe voluto materializzare quella voce in qualcosa, dargli una forma da mettere a tacere per sempre.
”Non puoi mettere a tacere te stesso, Rintarou. Per riuscirci, dovresti ucciderti.”
“Ma tu non sei me,” ribatté il diciassettenne. “Tu sei il Demone che è dentro di me. È diverso.”
“È strano come la realtà si distorca a seconda della verità a cui decidiamo di credere. Rifiutavi il tuo corpo e quindi l’hai etichettato come sterile, difettoso. Convinto di questo, non ti è mai venuto in mente di fare sesso protetto con il tuo amante, vero?”
Rintarou strinse i pugni e serrò i denti sul labbro inferiore. “Non voglio più parlare.”
”Ecco, hai cercato rifugio nel tuo essere realista, ma anche la ragione ti suggerisce una verità che non vuoi affrontare.”
“Taci.”
”Domani il mondo cambierà per sempre, Rintarou. E pensare che eri così pronto a combattere questa guerra al fianco di Hans.”
Una risata riecheggiò nella sua testa e Rintarou si prese la testa tra le mani, indietreggiando fino ad appoggiare la schiena alla parete della piccola stanza.
”Che cosa sceglierai di sacrificare? Manderai il tuo amore al fronte da solo, con l’alto rischio che possa morire o ucciderai vostro figlio per seguirlo sul campo di battaglio!”
“Smetti di parlare!” Urlò Rintarou, sbattendo il pugno contro il muro.
Nella sua mente tornò il silenzio, ma nulla sarebbe servito a placare il caos che si era scatenato nel suo petto. Sentiva un nodo in fondo alla gola, come se dovesse vomitare o piangere - forse tutte e due. Gli girava la testa, così si lasciò cadere lungo la parete, fino a sedersi a terra.
“Non sta succedendo,” tornò a ripetere, ma le mani tremanti gli scivolarono in grembo. “Maledizione…” Sibilò, poi strinse gli occhi. “Maledizione!”
Nello stesso istante, la porta dello sgabuzzino si aprì. Mori decise d’ignorare la cosa. Se la persona che lo aveva sorpreso era dotato di un minimo d’intelligenza, se ne sarebbe andata senza pronunciare parole.
Non era quello il caso.
“Ti senti bene?” Domandò una voce maschile, in un francese stentato, dalla pronuncia orribile.
Non fu quello ad attirare l’attenzione di Rintarou, ma l’accento marcato che avvertì in quelle parole. Sollevò gli occhi scuri e ne incontrò un paio azzurri come il cielo, più chiari di quelli di Hans.
Il giovane era alto - molto alto - aveva corti capelli chiarissimi e indossava la divisa dei camerieri della sala principale, ma non ne aveva davvero l’aspetto. “Vieni dalla zona di Tokyo?” Domandò Rintarou, in giapponese.
Preso di sorpresa, l’altro cominciò a boccheggiare. “Mi dispiace per il mio pessimo francese,” disse il cameriere, sempre incerto ma nella lingua della sua terra. “Ti senti bene?” Ripeté.
Rintarou si alzò in piedi, sorrideva. “Non parlo giapponese con qualcuno che non sia il mio maggiordomo da anni!” Esclamò. No, non era il caso di definire Hirotsu la sua guardia del corpo, sarebbe stato troppo sospetto.
“Rispondimi: vieni dalla zona di Tokyo?”
“Yokohama,” rispose il giovane dai capelli chiari.
Rintarou rise. “Non ci credo…” Era talmente sorpreso che, per pochi istanti, si dimenticò di cosa aveva risvegliato la voce nella sua testa. “E che ci fa un ragazzo di Yokohama, che parla francese in modo pessimo-“
“Ehi…”
“Con una divisa da cameriere in un evento di gala di una tale porta-“ Rintarou si bloccò e smise di sorridere. Tempo un secondo e seppe esattamente chi aveva davanti. Le sfumature del suo sorriso si fecero più sinistre. “Fammi indovinare… Governo?”
L’altro sbatté le palpebre un paio di volte. “Immagino che in Giappone siano tutti convinti che, qualunque cosa succeda domani, sia troppo lontana dai loro confini per essere interessante. Ciò nonostante, il Governo non può permettersi di rimanere completamente all’oscuro dei dettagli. Quanti anni hai?” Domandò. “Venti?” Ipotizzò subito dopo. “È la tua prima missione da Cane del Governo?”
“Non sono un cane!” Ribatté il cameriere.
“Bene, perché io sono la Port Mafia,” confessò Rintarou con candore, portandosi la mano sinistra al petto. “E i cani non mi piacciono.”
Il giovane dagli occhi azzurri lo fissò con la bocca spalancata. Definirlo basito non avrebbe reso l’idea.
Rintarou lo trovò molto divertente. “Non guardarmi così,” disse. “Siamo sia nel Continente che nella Nazione sbagliati. In queste circostanze, che io sia figlio della Port Mafia o di qualunque altra organizzazione illegale, non è importante per te. Immagino che ti abbiano mandato in missione con altre priorità.”
Il giovane Agente, ormai smascherato, strinse le labbra fino a farle diventare una linea sottile.
Rintarou annuì, comprensivo. “Non puoi parlarmene, ovvio.” Annuì due volte. “Una curiosità. Non ti chiederò il tuo nome, tranquillo. Voglio solo sapere se conosci il mio.”
L’altro esitò un istante, poi scosse la testa. “Non ho la minima idea di chi tu sia.”
E Rintarou si sorprese ancora un poco. “Sei sincero…” Notò. “Da un Cane del Governo non me lo aspettavo…”
“Non sono un ca-“
Mori!”
Rintarou riconobbe quella voce: era Billy - più famoso come William Shakespeare. Se l’inglese si disturbava al punto da venirlo a cercare, doveva essere qualcosa di veramente importante. Suo malgrado, quella conversazione con il suo compatriota - e nemico naturale - doveva concludersi.
“Con permesso,” disse con cortesia, spingendo l’Agente a farsi da parte per farlo uscire dalla sgabuzzino. “Ci si vede a Yokohama.”
Rintarou non poteva saperlo ma, in meno di un decennio, quel Cane sarebbe divenuto un Lupo e avrebbero scritto insieme un intero capitolo della loro vita.



“Ehi, Fukuzawa!”
La giovane Spia venne strappata dai suoi pensieri dalla voce del suo compagno di missione.
“Che fai davanti allo sgabuzzino e perché ne è uscito quello scoraggio di circa un metro e settanta?” Domandò Fukuchi, affacciato dalla porta della cucina e intento ad aggiustarsi il cappello da cuoco che aveva sulla testa.
Fukuzawa Yukichi osservò l’amico con sguardo critico: non sapeva se era più ridicola la sua copertura o il modo in cui ne era tanto orgoglioso.
“Ti avevo detto di guardare le belle donne per rendere la serata più piacevole,” lo rimproverò Fukuchi. “Fallo per me. Chiuso qui dentro non vedo un bel niente.”
“Non devi vedere,” gli ricordò Fukuzawa. “Devi ascoltare.”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Sempre il solito noioso!” Si lamentò. “Spiegami perché non eri nello sgabuzzino con una bella donna ma con uno scarafaggio!”
Fukuzawa si voltò nella direzione in cui il ragazzo dai capelli corvini era sparito. “Non era una scarafaggio,” ribatté. “Era un principe della Port Mafia.”
Quando tornò a rivolgersi al compagno di missione, Fukuchi lo fissava con esasperazione. “Te lo avevo detto di non provare i liquori europei che servono in questo posto!” Esclamò. “Più del sakè tu non riesci a reggere!”



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-



Dazai aveva incrociato le braccia sul bancone del bar e vi aveva appoggiato la testa. L’aria nella sua sala gli pareva più respirabile e l’attacco di nausea stava lentamente passando, ma gli aveva lasciato addosso una spossatezza incredibile.
Inoltre, la discussione con Chuuya non aveva fatto altro che peggiorare il suo umore. Era la prassi, nulla di strano. Era Dazai a essere cambiato, a non sopportare più quei teatrini tra loro. Irritare Chuuya fino all’esasperazione aveva smesso di divertirlo come un tempo e nemmeno le conversazioni con Mori erano più così interessanti.
E il suo rapimento da parte del Marchese De Sade non c'entrava assolutamente niente con quella sua evoluzione. Sì, aveva spinto tutti loro a mostrare una parte che, altrimenti, sarebbe rimasta nascosta e Dazai non poteva dire che quella terribile esperienza gli fosse scivolata addosso, ma c’era altro. C’era qualcosa di bello.
Se Mori e Chuuya gli avevano dato qualcosa, non gli era bastato. No, non era colpa loro e, no, Dazai non li biasimava o riteneva che avessero fallito in qualcosa.
Semplicemente, era andata così.
A metà del suo diciassettesimo anno di vita, era arrivato alla drammatica conclusione che nella Port Mafia non c’era nulla di quello che cercava. Non se ne era sorpreso. Andava sempre così: nulla andava oltre le sue aspettative e, alla fine, Dazai restava sempre solo col proprio disincanto o il desiderio di svegliarsi dal sogno crudele della vita. Aveva cercato la morte in un lavoro evolutosi nel peggiore dei modi. Gli avevano sparato addosso, ma non lo avevano colpito come avrebbero dovuto.
E qualcuno lo aveva salvato.
“Vuoi bere qualcosa?”
Udire quella voce ebbe il potere di far saltare un battito al cuore di Dazai. Rimase immobile, nella posizione scomposta in cui era, a valutare se la mente gli stesse giocando un brutto scherzo a causa di stanchezza e nostalgia. La seconda opzione era troppo bella per essere vera.
Sollevò lo sguardo lentamente, come se avesse paura di svegliarsi da un sogno cercato a lungo, tra i mille incubi che infestavano il suo sonno, ma la realtà non lo colpì duramente come accadeva la maggior parte delle volte.
Odasaku accennò un sorriso, mentre finiva di asciugare il bicchiere che stringeva tra le mani e poi lo appoggiava sul bancone. “Non hai una bella cera,” commentò, chinandosi per recuperare qualcosa da sotto il bancone: una bottiglia di vetro. “Penso che un po’ d’acqua possa essere più che sufficiente per questa notte.”
Dazai continuava a fissarlo, l’unico occhio scoperto sgranato per la sorpresa. Era ammutolito, letteralmente. Non era facile prenderlo di sorpresa, non così.
Odasaku spinse il bicchiere pieno d’acqua verso di lui e il giovane Dirigente lo strinse tra le dita, ma non lo sollevò per bere un sorso.
Facendo appello a quel poco di ragione che la stanchezza gli aveva lasciato, Dazai dischiuse le labbra per dire qualcosa e gli sfuggì solo una risata nervosa. “Ma cosa…” Scosse la testa, ancora incredulo. “Che cosa ci fai qui?” Domandò. “Anzi, come puoi essere qui? Il Boss convoca solo pochi per questi stupidi eventi all’estero e-“
Dazai non riusciva a smettere di parlare e nemmeno di sorridere.
Odasaku lo lasciò fare per un po’, poi s’infilò in quel suo monologo senza senza senso, riportandolo alla realtà. Era una cosa che succedeva spesso tra loro due.
Quando il giovane Dirigente si perdeva nella propria testa, l’altro era sempre lì, pronto a riportarlo indietro, prima che cadesse in un vortice oscuro dei suoi.
“Una persona che ti vuole bene mi ha permesso di partire,” spiegò Odasaku. “Considerami un uomo della Black Lizard, fino a che non torniamo a casa.”
Dazai aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi si voltò a cercare qualcuno tra la folla di persone. Hirotsu, ovviamente, non era mai troppo distante da lui. L’occhio scuro del Dirigente lo trovò vicino alle finestre, che beveva da solo un calice di champagne. Intercettando il suo sguardo, il veterano sorrise e alzò il bicchiere nella sua direzione, come per dedicargli un brindisi.
Dazai mise insieme i pezzi e il suo respiro tornò ad avere un ritmo regolare.
Sorrise al leader della Black Lizard, ringraziandolo in silenzio, poi lasciò andare un’altra breve risata per scaricare i nervi e tornò a guardare Odasaku, determinato a godersi quella sorpresa del tutto insperata. “Oh, sei un cameriere sotto copertura,” commentò, divertito in un modo che rendeva il suo cuore più leggero. “Mi piace. Non voglio spingerti a fare nulla che non vuoi, ma le tue abilità sono sprecate per il lavoro che hai.” Dazai bevve un sorso d’acqua, anche se non aveva realmente sete. “In realtà, mi hai già dimostrato che non ti serve andare contro i tuoi principe per essere il miglior partner che si possa avere.”
“Abbiamo lavorato insieme, solo io e te, solo una volta Dazai,” gli ricordò Odasaku. “Se ricordi, non è stata una strada proprio in discesa.”
Era ironico. Certo che Dazai si ricordava dell’unico caso a cui avevano lavorato insieme, non perché fosse un ricordo prezioso - lo era, senza ombra di dubbio - ma perché era passata solo una settimana da quella loro prima esperienza sul campo come partner.
“Sì, il mio jet-lag lo rammenta molto bene,” disse Dazai, sarcastico, maledicendo mentalmente Mori per trascinarlo da un fuso orario all’altro del globo.
“Inoltre, tu hai già un partner e lo sai,” gli ricordò Odasaku.
Il messaggio era chiaro: se Dazai avesse avuto bisogno di lui, sarebbe corso in suo soccorso ovunque fosse. Lo aveva già dimostrato ampliamento. Tuttavia, i sentimenti che lì legavano non era una ragione sufficiente - e neanche giusta - per cambiare i loro ruoli all’interno della Port Mafia.
Sì, ne avevano già parlato e, sì, Dazai lo aveva accettato - sottolineando quanto non fosse d’accordo e facendo i capricci, come suo solito - ma ora voleva lasciare tutto ciò che riguardava il lavoro fuori dalla loro conversazione.
“Non va bene,” disse Dazai, mentre il suo sorriso si tingeva di sfumature amare.
“Che cosa vuoi dire?” Domandò Odasaku.
“Non ti vedo da pochi giorni e non basta il malumore, no, anche il mio corpo di ribella alla tua lontananza,” disse Dazai. “Mi sento uno schifo,” aggiunse, nascondendosi il viso tra le mani. Per sua fortuna, la nausea sembrava sparita del tutto. Non si sarebbe sorpreso di scoprire che Odasaku aveva anche delle proprietà curative di cui solo lui poteva godere.
“Hirotsu mi ha ordinato di essere a tua completa disposizione,” disse Odasaku.
Dazai tornò a guardarlo. “Oh, ora sono un dovere,” disse, quasi cinguettando. “Quindi dovrai soddisfare ogni mio capriccio, vero? La Black Lizard non è magnanima con gli uomini che disobbediscono agli ordini.”
Odasaku allungò la mano per afferrare quella del più giovane. “Vuoi che ce ne andiamo?”
“Sì, per favore.”



-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


Rintarou era tornato nella stanza d’albergo che divideva con Hans, accompagnato da un William Shakespeare decisamente irritato.
“Ce la fate a non improvvisare scena da amanti tragici, voi due?” Aveva borbottato, come se quello esperto di tragedie d’amore - forse più tragi-commedie - non fosse proprio lui.
Rintarou era rimasto in silenzio, lasciando che mandasse avanti il suo monologo lamentoso quanto voleva. Sì, al giovane Mori piaceva ascoltare il suono della propria voce mentre pianificava strategie di gioco, argomentava le sue tesi o raccontava storie interessanti, ma l’inglese lo batteva a mani basse. Qualcuno avrebbe dovuto regalare a William Shakespeare un palcoscenico. Anzi, no, un intero teatro. Sarebbe stato capace di mandare avanti un intero spettacolo completamente da solo.
Lungo la strada, erano passati davanti a una farmacia notturna e Rintarou aveva smesso di camminare. Shakespeare aveva alzato il tono della voce, ricordandogli che non aveva tempo da perdere con lui e quando si era reso conto che il diciassettenne non lo considerava di una virgola, il suo malumore era peggiorato.
“Aspetta qui,” aveva detto Rintarou, poi era entrato nella farmacia per comprare quello che doveva.
Mezz’ora dopo era lì, seduto sul tappetino del bagno a gambe incrociate, a fissare la scatola rosa e azzurra - che abbinamento spiacevole e scontato - tra le sue mani, come se fosse una bomba sul punto di esplodere. Aveva già letto le istruzioni tre volte, ma non ci voleva un genio per capire che doveva urinare su uno stick di plastica e aspettare che, in pochi minuti, quell’oggetto insulso gli confermasse se era condannato oppure no.
Inspirò profondamente dal naso e poi espirò dalla bocca.
In realtà, con quei metodi fai da te rischiava solo d’impanicarsi senza ragione e basta. Non poteva non considerare l’unicità del suo corpo e quello stick funzionava grazie a ormoni che andavano a fare pugni con quello che era il suo sesso biologico. D’apprendista medico, non poteva non considerare che nel suo sangue vi fossero dei valori sbilanciati a causa della metamorfosi a cui era andato incontro. Per tanto, alla fine della riflessione, un’analisi da laboratorio dei suo livelli di Beta-HCG era l’unica via davvero sicura.
Per tanto, doveva aspettare di tornare in Germania, a Weimar, per togliersi quel dubbio maledetto dalla testa.
Scosse la testa. “No, non ce la faccio.” Sarebbe impazzito molto prima. Se l’indomani tutto fosse andato a rotoli, non poteva gestire lucidamente l’inizio di una guerra con quel pensiero a spingerlo verso l’abisso del panico. E poi c’era Hans. Hans, che prima non gli parlava, poi ammetteva di detestarlo perché era un principe della mafia e ragionava come tale.
Era tanto d’affrontare. Era troppo.
Se Hans non era al suo fianco, combattere quella guerra non aveva alcun senso per Rintarou. E se Hans lo detestava, allora quel bambino…
La porta della camera che si apriva e richiudeva lo fece sobbalzare. Nascose la scatola del test di gravidanza dietro la colonna del lavandino e si alzò in piedi, poi si alzò in piedi. Quando si affacciò sulla stanza principale, la luce bianca del bagno gettò un raggio sulla camera buia. Hans era davanti a lui, in piedi in fondo al letto.
Sul viso portava i segni di un conflitto che dentro di lui era già scoppiato.
Hans era un guerriero. Rintarou lo sapeva perché conosceva il suo passato nei dettagli. Se non lo fosse stato, non sarebbe mai sopravvissuto a quello che gli era successo. Era proprio quello il punto: Hans conosceva la violenza, l’aveva usata ed era riuscito ad allontanarsene.
La guerra lo avrebbe costretto a un nuovo faccia a faccia con tutti i suoi demoni.
Rintarou uscì dal bagno e spese la luce. A quel punto, la camera era illuminata solo dai lampioni in strada. Vi era un locale sotto la loro finestra. Le voci dei clienti arrivavano fino a loro, spezzando il silenzio. C’era anche della musica: qualcuno suonava una chitarra e improvvisa una canzone.
“Ti ha accompagnato Victor?” Domandò Rintarou, avvicinandosi al tedesco.
Hans annuì, gli occhi azzurri fissi nei suoi. Rimasero così, fermi a fissarsi per quella che parve un’eternità.
“Pensavo te ne fossi andato,” mormorò Hans, come se la voce facesse fatica a uscire dalla sua gola. Doveva aver discusso a lungo con Hugo e Shakespeare e non con toni calmi.
Rintarou sbatté le palpebre un paio di volte. “Volevi che me ne andassi?”
“No!” Rispose Hans, cercando la sua mano.
Il giovane Mori non si sottrasse al suo tocco.
“No, avevo paura che lo facessi.”
Tornò il silenzio tra loro. Fuori dalle finestre, la chitarra continuava a suonare.
“Mi dispiace.” La voce di Hans era rotta, stanca. “Mi dispiace immensamente per quello che ho detto.”
Fosse stata un’altra circostanza, Rintarou gli avrebbe fatto pagare con gli interessi la ferita che gli aveva inferto. Quel segreto non ancora rivelato, nascosto dietro alla colonna del lavandino, lo aveva privato di tutta la determinazione che avrebbe usato per farsi valere. Era solo spaventato ed era un’emozione che non gli si addiceva per niente. Si sentiva soffocare.
“Puoi abbracciarmi?” Suonò tanto come una preghiera e Rintarou si odiò per questo, ma del suo orgoglio non sapeva che farsene in quel momento.
Hans lo accontentò di slancio, stringendolo al punto da spezzargli il respiro. Rintarou si aggrappò alle sue spalle e chiuse gli occhi, illudendosi che quell’appiglio era e sarebbe rimasto sicuro, anche se il mondo era destinato a bruciare.



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


Varcarono la porta della camera d’albergo tenendosi per mano.
Dazai aveva chiesto a Odasaku di non andare nell’hotel stellato che il Boss aveva scelto per sé e la cerchia dei suoi fedelissimi. Non voleva rischiare di essere visto, di dover dare spiegazioni. Dazai voleva chiudere il mondo intero fuori da quella porta e illudersi che lui e Odasaku fossero le uniche persone al mondo.
La camera era semi buia, illuminata solo dai lampioni sulla strada.
Dalle finestre aperte giungeva il suono di una chitarra e una voce maschile che cantava.
“Another turning point, a fork stuck in the road. Time grabs you by the wrist, directs you where to go. So make the best of this test, and don't ask why. It's not a question, but a lesson learned in time.”
Odasaku si fermò al centro del camera e tirò il più giovane verso di sé, stringendolo in un abbraccio. Dazai appoggiò la guancia contro la sua spalla e chiuse gli occhi. “Mi sorprende sempre come mi fai sentire quando mi abbracci.”
Odasaku posò un bacio tra i suoi capelli. “E come ti faccio sentire?”
Dazai si allontanò quanto basta per guardarlo negli occhi. “Al caldo.” Era una risposta banale, ma non si limitava a descrivere una condizione fisica. Ogni volta che Odasaku gli era vicino, ogni volta che lo toccava, Dazai sentiva dentro di sé qualcosa che non aveva mai sperimentato prima.
“Vivo…” Aggiunse in un mormorio. Non era la prima volta che lo diceva, era una conversazione che aveva già fatto in altri luoghi, con altre atmosfere. Ora, in quella camera d’albergo, Dazai non voleva che le parole occupassero il tempo in cui potevano essere solo loro due.
“Mi fai ballare?” Chiese il diciottenne. “Ho guardato altri farlo tutta la notte e ho continuato a pensare a quel nostro primo ballo, sul tetto della Port Mafia, la notte del mio compleanno.”
Odasaku non disse niente, si limitò a cingerli la vita con un il braccio.
Dazai sorrise, mentre il suo uomo conduceva quel lento a luci basse.
Mentre si muoveva nello spazio ristretto della piccola camera d’albergo, il loro sguardi non si lasciarono mai. La mancina di Odasaku raggiunse il viso del più giovane, infilandosi sotto il bendaggio che copriva l’occhio destro.
Un sorriso sincero, di quelli che concedeva solo al suo amante, comparve sulle labbra di Dazai, mentre le bende cadevano a terra senza far rumore.


“It's something unpredictable
But in the end, it's right
I hope you had the time of your life”



-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


Rintarou si accorse che stavano ballando solo dopo qualche istante.
Hans lo stringeva, con il viso premuto contro i suoi capelli neri, passando il peso del corpo da un piede all’altro. Il giovane Mori lo assecondò, lasciandosi cullare da quel lento sulle note della chitarra fuori dalle finestre.
“So take the photographs and still frames in your mind. Hang it on a shelf in good health and good time.”
Hans gli prese il viso tra le mani e lo guardò dritto negli occhi.
L’indomani l’intera Europa poteva essere condannata, come no. In poche ore, il mondo come lo conoscevano avrebbe cessato di esistere oppure nulla sarebbe cambiato. Non aveva importanza.
Rintarou non poteva sapere cosa ne sarebbe stato di loro. Hans aveva ragione: poteva mettere insieme tutte le strategie che voleva e fare le previsioni del caso, ma non aveva mai combattuto una guerra. Non c’era nulla che potesse garantire loro che ne sarebbero usciti vincitori e, soprattutto, vivi.
Ma in quel preciso momento, nel tempo di quello sguardo, Rintarou seppe con certezza che Johann Goethe lo amava e che il suo cuore ricambiava pienamente quel sentimento. Non fu quello a travolgerlo, non quanto la conclusione a cui arrivò subito dopo: anche se erano a due passi dall’inferno, anche se non lo aveva mai desiderato, se Rintarou portava davvero in grembo qualcosa che era loro, non avrebbe potuto fare altro che accettarlo.
Era troppo da gestire anche per lui.
“Tattoos of memories, and dead skin on trial. For what it's worth, it was worth all the while.”
Mentre nascondeva il viso contro la spalla di Hans, si aggrappò a lui come se da questo dipendesse la sua stessa vita. In parte, era vero.
Il tedesco non disse nulla e continuarono a ballare quel lento in silenzio, fino a che non si accorse che il compagno stava tremando.
“Rintarou,” lo chiamò preoccupato, ma l’altro si rifiutò di sollevare il viso e guardarlo negli occhi. “Rintarou, non ti senti bene?”
Il diciassettenne scosse la testa: il cuore gli faceva male al punto che pensava di morirne ma non era pronto a spiegarne le ragioni al suo uomo.
“Restiamo così ancora un po’,” lo implorò, ignorando le lacrime che gli rigavano le guance. “Solo un altro po’.”
Mori Rintarou non aveva mai pregato in vita sua, ma quella notte lo fece.
Ti prego, fa che non scoppi nessuna guerra.


“It's something unpredictable
But in the end, it's right
I hope you had the time of your life”




-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


Gli occhi di Dazai avevano uno strano potere su di lui.
Era stato così fin dal primo momento e Odasaku non aveva mai trovato una buona ragione per combattere il modo in cui lo ammaliavano. Quando erano da soli e Dazai lo guardava come se al mondo non esistesse altro all’infuori di loro, Odasaku non poteva fare a meno di perdersi nelle profondità di quelle iridi scure. Anche se nascondevano un’oscurità più grande di quella che aveva conosciuto da quando aveva memoria, non gli importava.
Non esisteva nulla al mondo che reggesse il confronto con gli occhi di Dazai Osamu, non per Oda Sakunosuke.
Realizzò di essersi incantato, ponendo fine al loro ballo, solo quando Dazai coprì la sua mano con la propria e fece aderire la guancia al palmo caldo. “Mi stai guardando, Odasaku?”
Come se ci fosse bisogno di chiederlo.
Odasaku infilò le dita tra gli ondulati capelli scuri e tirò il più giovane verso di sé, fino a far aderire la fronte alla sua.
Dazai chiuse gli occhi, circondandogli il collo con le braccia per tenerlo vicino.
Fuori dalle finestre, la chitarra suonava ancora.
Ripresero a ballare il loro lento, seguendo un ritmo tutto loro.
Fu impossibile stabilire chi dei due cercò per primo le labbra dell’altro. Si baciarono come se non avessero desiderato fare dal momento in cui si erano ritrovato l’uno davanti all’altro.
Divennero sordi alle note che spezzavano il silenzio della piccola camera da letto, ebbri di una passione che la lontananza aveva messo in pausa solo per pochi eterni giorni. Il tempo di aver paura di quel sentimento totalizzante era ormai finito. La fase dei dubbi e delle incertezze si era conclusa e non c’era più nulla tra loro che potesse ostacolare quel legame a cui non avevano dato un nome, ma era potente, immenso, tanto da far sentire vivi entrambi come mai prima.
Come le bende che avevano celato il viso di Dazai, anche i loro vestiti finirono a terra senza far rumore.
Il bacio s’interruppe per pochi respiri, il tempo necessario a Dazai per distendersi al centro del letto e a Odasaku per adagiarsi sopra di lui.
Le loro labbra s’incontrarono a metà strada.
Il mondo smise di esistere per entrambi, ma la chitarra continuò a suonare.



“It's something unpredictable
But in the end, it's right
I hope you had the time of your life”

(“Good Riddance”, Green Day)
CowT12 Week 5
M3: Cambiamento/Stasi (Stasi)

Kunikida Doppo non odiava i cambiamenti.
Quello che gli faceva saltare i nervi era l'imprevedibilità e, suo malgrado, si era ritrovato ad avere come partner l’incarnazione perfetta di quel concetto.
“Dazai, una parola.”
Era raro che si ritrovassero da soli in ufficio. Di solito, Dazai Osamu era l’ultimo ad arrivare e il primo ad andarsene. Kunikida faceva tutto il contrario.
“Parla,” gli concesse il suo partner, interrompendo l’ennesima rilettura del suo libro di suicidi. “Ci siamo solo noi due qui.”
Kunikida si aggiustò gli occhiali sul naso con aria drammatica, spostò la propria poltrona in modo che potessero guardarsi negli occhi. “Qui le cose devono cambiare.”
Non fu la scelta di parole giusta: Kunikida Doppo agognava l’equilibrio, la calma, le cose che rimanevano come erano… Fino a che lui non decideva che potevano divenire altro.
Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. “Ancora?” Domandò, incerto. “Nell’ultimo anno è successo di tutto. Prima Atsushi, poi Kyouka e adesso Ryuu. Se adottiamo qualcun altro, ci toccherà affittare il piano di sotto!”
La vena sulla tempia destra di Kunikida prese a pulsare pericolosamente. “Adottiamo?”
Dazai scrollò le spalle. “Siamo una grande fami-“
“Chi è che esce dall’ufficio per annegarsi e finisce per raccogliere un orfano sulla riva del fiume?”
“Atsushi è stato una doppia vittoria. Abbiamo fatto un ottimo acquisto e risolto un caso nel giro di una cena.”
“E ha seguito subito il tuo esempio!”
“Hai il coraggio di lamentarti di Kyouka?”
“E di quell’altro ne vogliamo parlare?”
Dazai alzò le mani. “Ryuu è arrivato da solo, sulle sue gambe.”
Kunikida assottigliò gli occhi. “Ma non hai mai preso in considerazione l’idea di restituirlo, vero?”
“Perché avrei dovuto?” Dazai scrollò le spalle. “Ho aspettato per mesi che bussasse a quella porta e che Atsushi fosse qui per aprirgli.”
“E, come volevasi dimostrare, è accaduto tutto per colpa tua!”
Kunikida non si aspettava una conclusione differente. Era così da più di due anni: Dazai Osamu era entrato nella sua super organizzata, prevedibile e statica vita e l’aveva resa una serie di caotici eventi.
“Colpa…” Dazai fece un gesto con la mano come a dire che stava esagerando. “Avevo speranza, ma non potevo certo legarli insieme.”
Kunikida inarcò le sopracciglia. “Chi?”
“Cosa, chi?”
“Non fare il finto tonto o ti prendo a sberle!”
Dazai non replicò subito. Lo fissò attentamente, poi piegò le labbra in uno di quei ghignetti derisori che ispiravano violenza. “Ma davvero non lo hai capito?”
Kunikida appoggiò la spalle allo schienale della poltrona e incrociò le braccia contro il petto. “Capito, cosa?” Il rischio che lo stesse prendendo in giro era alto, ma l’espressione sul viso del suo partner non era quella giusta. C’era qualcosa di più e lui non l’aveva afferrata. “Io so solo che oggi Akutagawa si è messo al suo posto con un pacchetto di patatine: una la mangiava e una la tirava ad Atsushi senza motivo.”
Dazai aggrottò la fronte. “Le patatine erano di Ranpo?”
“Probabile… Non cambiare argomento!” Aggiunse Kunikida furioso. “Da quando Akutagawa è arrivato qui, viviamo in un clima di guerra. Atsushi è sempre nervoso, quasi fuori controllo!“
Kunikida voleva premere il tasto indietro. Non pretendeva di tornare al tempo in cui la sua vita assomigliava ancora ai suoi piani, perché - suo enorme malgrado - non voleva cancellare Dazai e Atsushi dalla sua quotidianità. Alla fine della storia, Kyouka non era stata un gran terremoto, ma Atsushi sì. Quello che Kunikida Doppo non avrebbe mai detto ad alta voce era che la Tigre Mannara era valsa ogni minuto di caos. Aveva sconvolto i suoi piani? Senza ombra di dubbio, anche se mai quanto Dazai.
Ma ora Atsushi non era più Atsushi ed era tutta colpa di Akutagawa Ryuunosuke.
“E la cosa peggiore è che nessuno sembra vedere il problema, a parte me!” Aggiunse esasperato. “Quel mafioso ce lo sta rovinando, Dazai!”
“Uno, Ryuu non è più un mafioso. Due, qual è il vero problema? Che Atsushi non sia più il fedele micino che siede vicino a te, pronto a dirti di sì non appena apri bocca?” Dazai sospirò, come se quello ad avere diritto di essere esasperato fosse lui. “Nessuno vede il problema perché il problema non c’è!” Esclamò. “Atsushi è cresciuto e quando si ha diciotto anni, può capitare. Anzi, è ancora nell’età in cui è del tutto naturale e fisiologico.”
Kunikida scosse la testa. “Atsushi era già cresciuto, non ha bisogno di farlo ancora. Io non ho dato il permesso per questa cosa.”
Dazai lo guardò sinceramente divertito. “Allora… Diciamo che per te sarebbe ottimale se tutti rimanessimo come sia in eterno, così che tu possa prevedere il nostro comportamento e, di conseguenza, gestirci nel migliore nei modi, senza che questo vada contro la tua tabella di marcia.”
Il biondo si aggiustò gli occhiali sul naso. “Esattamente,” rispose. “Ma! C’è un ma! So di non poterlo pretendere da te o Ranpo e Yosano. Non sono irragionevole.”
Il maniaco suicida gli lanciò un’occhiata eloquente, che il partner ignorò volutamente. “Tuttavia, c’è Atsushi-“
“Che deve rimanere statico, fino a che tu non trovi lo stato mentale giusto per accettare che cresca.”
“Esatto!” Esclamò Kunikida, poi ci ripensò. “Se lo dici così, mi fai passare come un idiota.” E non c’era nulla di peggio di essere etichettato come idiota da quel grandissimo idiota di Dazai Osamu.
“Perchè è un’idiozia,” confermò il suo partner, con voce gentile e paziente. “Il ragazzino che abbiamo raccolto quel giorno al fiume non c’è più e va benissimo così!”
“Non va bene per niente!” Obiettò Kunikida. “È tutta colpa tua, che sei troppo permissivo, e Akutagawa-“
“E l’incarnazione del male!”
“Precisamente!”
Dazai sbuffò. “Quanto sei noioso e prevedibile, Kunikida. Forse è il caso che ti stacchi un po’ dalla tua adorata stasi e dai una possibilità al cambiamento anche tu!”
“Forse quando, invece delle patatine, voleranno bombe da un lato all’altro di questo ufficio, qualcuno qui dentro mi darà retta!”
“Kunikida…” Dazai si sporse in avanti, appoggiando una mano sulla spalla del collega. “Quei due sono innamorati, per questo Atsushi non sarà mai più quello che era prima di Ryuu. Dagli tempo e rimpiangerai i giorni in cui si tiravano patatine senza motivo.”
Kunikida non reagì immediatamente. “Eh?”
Dazai rise. Era inevitabile. “Eeeeh!”
“Da quando?” Kunikida si sentiva un idiota.
“Tranquillo.” Dazai si alzò in piedi. “Lo sappiamo più o meno tutti da qui alla Port Mafia, tranne loro due. Tu sei solo il terzo.”

Gatto Nero

Mar. 17th, 2022 07:50 pm
CowT12 Week 5
M3: Bianco/Nero (Nero)


Era circondato dal nero della notte. Non vi era alcuna luna a rendere meno spaventose quelle tenebre, solo la luce tiepida proveniente da una finestra.
Gli avevano ordinato di tenere d’occhio l’intero perimetro, ma Oda Sakunosuke non aveva alcuna intenzione di allontanarsi da quella luce. Quella era la camera di Dazai.
Sia il parco della villa che l’intero bosco erano sorvegliati. Il Boss aveva messo in moto l’intera Black Lizard, più cinque squadroni di supporto, per assicurarsi che il più giovane dei suoi Dirigenti dormisse sonni tranquilli.
Non era servito. La finestra illuminata suggeriva a Odasaku che Dazai non stava chiudendo occhio oppure non sopportava di restare al buio. Dopo quello che aveva passato, non lo si poteva biasimare.
“La missione è tenere Dazai Osamu al sicuro,” aveva detto Hirotsu, prima di dividere le forze per tutta l’area d’interesse. “A qualunque costo.”
Al sicuro.
“Allora è così… Quando una persona ti fa sentire al sicuro.”
Odasaku scacciò il ricordo di quelle parole scuotendo la testa. No, rispose a se stesso. Se così fosse stato, Odasaku avrebbe avuto il potere d’impedire a un Marchese sadico e pazzo di rapire Dazai e di trasformarlo nel suo giocattolo per settimane intere.
Non eri con lui, ribatté una voce in fondo alla sua testa, che assomigliava fastidiosamente a quella di Chuuya. Non siete partner. Non lavorate insieme. Non avresti potuto fare niente.
Nakahara Chuuya, il vero partner di Dazai, l’unico che non era rimasto sordo alla sua richiesta di partecipare alle indagini. La loro collaborazione era stata fruttuosa, ma il più giovane non si era mai sbilanciato abbastanza da divenire suo amico. Odasaku, da parte sua, non avrebbe voluto niente di diverso. Ora che tutto era finito, erano tornati a essere quasi estranei con qualcuno di molto importante in comune.
Ma Chuuya non se ne era andato senza impartirgli, seppur involontariamente, una lezione, che non la smetteva di tormentare il giovane uomo dai capelli rossi: di fronte ai pericoli che Dazai guardava in faccia ogni giorno, Odasaku da solo era completamente impotente.
Giocavano su due livelli completamente diversi, nemmeno paragonabili.
Odasaku ne era stato consapevole fin dall’inizio, ma questa era la prima volta che gli dava fastidio. Era stato un lupo solitario per la maggior parte della sua vita, fino a che Dazai non era comparso sotto il suo portico, come un gatto nero bisognoso di cure. Ma c’erano sfumature della natura di un uomo che non potevano essere cancellate da nessuna volontà di adattarsi. Odasaku si era integrato bene alla Port Mafia, si era abituato ad avere intorno persone che lo chiamavano per nome.
Il caso De Sade non era stato lavoro, ma una questione personale.
E Odasaku si era ritrovato l’intera organizzazione a fargli muro, a impedirgli di agire per fare ciò che andava fatto, perché Dazai era la Port Mafia e c’era un intero mondo pronto a muoversi per proteggerlo, prima di lui.
L’impotenza era una brutta bestia, ma era un angolo in cui si era spinto da solo.
Uccidere era il requisito base per far carriera nella Mafia, un atto di cui Odasaku aveva giurato di non macchiarsi più. Dazai non aveva mai preteso che rivedesse quella sua posizione. Al contrario, aveva considerato la sua volontà inviolabile e quando lo aveva portato alla Port Mafia, si era assicurato che gli fosse assegnato un lavoro in linea con la sua condotta. Odasaku poteva lavorare per l’organizzazione più oscura di tutto il Giappone - sicuramente dell’intera Yokohama - ma non vestiva completamente di nero come loro, non si confondeva con le ombre come Mori Ougai o Nakahara Chuuya.
”Allora è così… Quando una persona ti fa sentire al sicuro.”
Oda Sakunosuke non poteva far sentire al sicuro nessuno, tantomeno Dazai Osamu.
Tra di loro c’era una distanza oggettiva che nessuna vicinanza fisica poteva colmare.
Per questo Odasaku gli era rimasto accanto, ma a distanza di sicurezza. Aveva cercato la compagnia e il calore di altri, pur desiderando quel giovane dagli occhi scuri. Non appena aveva capito quanto Dazai gli era entrato dentro e con quanta facilità lo aveva fatto, Odasaku aveva giocato un’eterna partita con se stesso al vorrei ma non posso.
Per un po’, durante i primi tempi alla Port Mafia, il giovane uomo si era anche illuso di avere il completo controllo della situazione e, soprattutto, di se stesso. L’istinto per lui era un’arma, era quella seconda natura che lo aiutava a muoversi in battaglia, ma perdere la testa non faceva parte di lui. Odasaku aveva fatto follie, certo - far entrare Dazai nella sua vita era stata una di queste - ma solo dopo aver dibattuto a lungo con le sue riflessioni.
E con Dazai non aveva smesso neppure per un istante di dibattere e di riflettere. Forse il più giovane era convinto che lo facessero solo ad alta voce, durante le loro infinite conversazioni. In realtà, Odasaku avrebbe potuto riempire pagine intere con i pensieri che rivolgeva a Dazai. Qualche volta, nella speranza di liberarsi la mente, lo aveva anche fatto per davvero, ed era finito col ritrovarsi sia con un gran mal di testa che con una sensazione inedita all’altezza del petto.
Dazai gli aveva toccato il cuore fin dall’istante in cui Odasaku aveva incontrato i suoi occhi e vi aveva trovato riflessa una solitudine impossibile d’accettare.
Mesi e mesi passati a dare una dimensione contenuta - e senza nome - a ciò che lo legava al giovane Dirigente e a Dazai era bastato fare un piccolo passo in più nella sua direzione per annientare ogni resistenza che si era imposto.
Perso nelle sue riflessioni, con la capacità di vedere ridotta al minimo, Odasaku urtò qualcosa con la punta della scarpa, nascosto tra le foglie: era il piede di una panchina in ferro battuto. Ormai sicuro che non si sarebbe allontanato da quelle finestre per il resto della notte, Odasaku ignorò lo strato di muschio che era cresciuto qua e là, tra le sbarre, e si accomodò. Estrasse una delle pistole dalla fondina ascellare, tanto per essere pronto a qualsiasi evenienza. C’era solo nero intorno a lui. Se non poteva vedere, non gli restava che concentrarsi e ascoltare ogni rumore di quella notte senza luna. Sì, la sua abilità impediva a chiunque di attaccarlo di sorpresa, ma non era mai stata sua abitudine considerarla infallibile.
Una frazione di secondo era sufficiente a fare la differenza tra la vita e la morte.
Sollevò gli occhi azzurri sulle finestre di Dazai: la luce era ancora accesa.
Appena il tempo di un respiro e il silenzio venne spezzato dal rumore delle foglie secche che venivano calpestate. Il ritmo di quei passi suggerì a Odasaku l’identità del nuovo arrivato ancor prima che emergesse dalle tenebre.
Stretto in quel cappotto troppo grande per lui, Dazai gli si sedette accanto senza far rumore. Odasaku ingoiò a vuoto, tenendo gli occhi fissi di fronte a sé.
Già, la sua abilità non era affatto affidabile.
Si permise di guardarlo solo con la coda dell’occhio e il ricordo di quel gatto nero ferito, che si era trascinato fin sotto il suo portico per chissà quale ragione - o forse era stato solo il destino - gli tornò alla mente vivivido e, al contempo, distante. Era come se non fossero passati quasi due anni da quel loro primo incontro, ma molti di più. Erano accadute molte cose e non solo tra loro, anche tutt’intorno. Erano giovani - Dazai non aveva neanche diciotto anni - e sarebbero continuate a cambiare. Era inevitabile. Odasaku sapeva che la sua abilità non poteva permettergli tanto, ma una parte di sé desiderava poter prevedere quello che sarebbero diventati.
Dall’ultima volta che erano stati tanto vicini erano passate cinque settimane. Trentotto giorni, per l’esattezza.
Il caso De Sade non era durato nemmeno la metà del Conflitto della Testa di Drago, realizzò Odasaku, ma aveva gettato l’intera Port Mafia in uno stato di terrore senza precedenti. Bastava il fatto che il Boss stesso, Mori Ougai, fosse sceso a combattere in prima linea a spiegare la gravità dell’evento.
Nella testa del giovane uomo, quel pensiero ebbe la meglio sul desiderio di abbandonare la pistola sulla panchina e allungare la mano per afferrare quella del più giovane.
“Fa molto freddo qui fuori,” disse, con la sua solita voce monocorde. “E non è sicuro. Dovresti rientrare.” Si comportò come un uomo della Black Lizard avrebbe fatto. Finse di non essere lì per ragioni puramente personali.
Ovviamente, Daza non gli diede ascolto. “Tu non fai parte delle forze armate.”
Già, Odasaku non aveva il dovere né il potere necessario per proteggere il più giovane Dirigente della Port Mafia, ma era stato schietto con Hirotsu: se non lo avesse portato con gli altri a fare da scorta al pupillo di Mori Ougai, avrebbe trovato il luogo in cui era nascosto da solo. Mosso da pietà e dal serio pericolo che la sua squadra gli sparasse - o che fosse Odasaku a sparare a loro - il leader della Black Lizard lo aveva accontentato. Per quel che sapeva, Hirotsu faceva parte della Port Mafia da tutta la vita, ma era una persona gentile e voleva bene a Dazai.
“Sono un volontario,” rispose Odasaku. Era l’unico modo a mia disposizione per starti vicino. Se avesse trovato in sé il coraggio di essere sincero, lo avrebbe detto.
Avvertì gli occhi di Dazai sul suo profilo, ma non rispose al suo sguardo.
“Non è sicuro qui, Odasaku.”
A quel punto, gli fu impossibile non guardarlo in faccia. Un flash del momento in cui lo avevano ritrovato nelle mani di De Sade attraversò la mente di Odasaku, ma rivedere il viso di Dazai ebbe il potere di liberarlo da quel tormento. Non era diverso da come lo ricordava, forse era solo un po’ più smunto sulle guance. Ma quegli occhi scuri erano ancora lì, con tutte le loro sfumature segrete, di cui Odasaku aveva scritto ma che al buio non riusciva a vedere. Nella notte, sembravano due pozzi neri, senza fondo, ma non erano vuoti come il giorno in cui si erano conosciuto. Quel dettaglio bastò a Odasaku per rassicurarsi un po’ riguardo alla sua condizione. I capelli ondulati gli incorniciavano il viso alla stessa maniera di sempre, un po’ più lunghi e schiacciati sopra le orecchie.
“Ho combattuto nel Conflitto della Testa di Drago,” gli ricordò Odasaku.
“Eri un uomo di backup,” ribatté Dazai. “In questa circostanza, sono io l’obiettivo del nemico. Qui sei sotto la mia finestra, sulla linea di fuoco.”
“Il nemico è stato abbattuto,” lo rassicurò Odasaku. “Sei stato tu a sconfiggerlo, ricordi? Poi il Boss lo ha giustiziato con un colpo di pistola.”
Alla fine, Dazai si era salvato da solo. Chi lo aveva trovato si era limitato a riportarlo a casa.
“Quello a essere stato abbattuto è il leader di un’organizzazione che risale a prima della Grande Guerra, non sappiamo quante altre unità-”
“Io sono dove devo essere, Dazai,” disse il giovane uomo. “E non ho alcuna intenzione di muovermi di qui.”
Dazai non nascose il suo disappunto, stringendosi di più nel cappotto nero.
“Hai freddo.”
“Sto bene.”
Quando fu evidente che il Dirigente non sarebbe tornato nella sua stanza, Odasaku decise che il silenzio prolungato non era utile a nessuno dei due. “Che posto è questo?” Domandò, osservando la villa in stato di abbandono.
“Si tratta di un luogo in cui Mori rinchiude ciò che ritiene prezioso. Lo fa quando si sente minacciato o diventa paranoico,” spiegò Dazai, con freddezza. “Se glielo chiedi, ti risponderà che questo è il luogo più sicuro di Yokohama.”
“Ti sta proteggendo.” Odasaku non ci vedeva nulla di strano.
“Mi sta rinchiudendo,” ribatté Dazai. “Penso di essere rimasto prigioniero abbastanza a lungo.”
Odasaku poteva comprendere la frustrazione, ma non il paragone. “Sei a casa, Dazai,” lo rassicurò. “Sei di nuovo a casa.”
Il diciassette storse la bocca in una smorfia. “Questa non è casa mia, ma è lo scrigno segreto dei tesori di Mori.”
“Tiene a te, è normale che-“
Dazai lo interruppe con una risata. Un suono isterico, forzato. “Tenere a me?” Ripeté, sarcastico. “Chi? Mori Ougai? Sei davvero divertente, Odasaku.”
Il giovane uomo dai capelli rossi aveva da dire molto a riguardo: mentre nessuno sapeva che fine avesse fatto Dazai Osamu e se mai sarebbero riusciti a recuperarlo vivo, aveva visto il Boss della Port Mafia trasformarsi in un essere umano che sta vivendo il momento peggiore della sua esistenza. Tale cambiamento aveva lasciato Chuuya ammutolito in più di un’occasione, ma non era certo andato da lui a parlarne.
Tuttavia, Dazai non sapeva assolutamente nulla di quei dettagli. Forse nemmeno lo interessavano, non in quel momento. L’astio nei confronti del Boss era evidente, quasi che il rapimento e quanto era seguito fosse una sua diretta responsabilità.
“Perché ce l’hai tanto con lui?” Domandò Odasaku.
“Perché non è arrivato prima!” Urlò Dazai, di getto. Sgranò gli occhi, pentendosi di quanto aveva detto. Era un pensiero irrazionale, figlio del trauma.
Odasaku lo aveva già visto accadere altre volte: la morte di un carnefice non assicurava nessuna pace alla vittima.
De Sade era morto, ma Dazai era ancora lì, a portarsi dentro un caos che riversava addosso all’uomo a cui era riuscito a chiedere aiuto, prima di sparire dai radar. Perché nel momento in cui Dazai aveva capito di essere in pericolo, tanto da provare paura, non era lui che aveva chiamato e nemmeno Chuuya. No, d’istinto, Dazai aveva fatto il numero che conosceva meglio di chiunque altro, il solo a cui rispondeva anche quando erano insieme, mentre a Chuuya veniva riattaccato il telefono in faccia senza un istante d’esitazione.
Sì, al di là di Odasaku e delle ragioni che lo avevano spinto ad agire, c’era stato molto di personale nel modo in cui la Port Mafia si era scagliata contro il Marchese De Sade.
“Nessuno di noi è arrivato prima.” Il giovane dai capelli rossi si sentì in dovere di dirlo. “Il Boss è l’unico a essere arrivato in tempo.”
Dazai si strinse nelle braccia, artigliando la stoffa del cappotto nero. “Eri con Chuuya…” Mormorò.
Odasaku confermò con un cenno del capo. “Ci siamo aiutati a vicenda nell’indagine,” raccontò. “Il Boss gli aveva ordinato di farsi da parte e io non ero stato convocato per la missione. Entrambi volevamo trovarti, ma siamo stati spinti in panchina dai piani alti.”
Dazai chiuse gli occhi e lasciò andare un sospiro. “Questo è alto tradimento, Odasaku.”
“Lo so, ma non accadrà nulla.”
“Certo che non accadrà nulla, non lo permetterò.”
“Non devi fare nulla, Dazai.” Odasaku provò a tranquillizzarlo. “Il lavoro mio e di Chuuya ha permesso al Boss di trovarti. Tutto è sistemato.”
Dazai non parve affatto rassicurato. “Quindi ora sei amico di Chuuya.”
“Non sono amico di Chuuya,” ribatté Odasaku.
“E Mori?”
“Il Boss non mi ha guardato in faccia nemmeno una volta. Chuuya era l’unico a cui si rivolgeva.”
“Questo è quello che puoi aver pensato, ma è solo apparenza. Mori non si lascia sfuggire nulla, anche quando sembra che non presti attenzione.” Dazai ingoiò a vuoto e lasciò andare un sospiro tremante. Se per il freddo o le emozioni fuori controllo, Odasaku non sapeva dirlo.
“Perchè lo hai fatto, Odasaku?”
Domanda più stupida non sarebbe potuta uscire dalla sua bocca. Il giovane uomo dai capelli rossi abbasso lo sguardo sul tappeto di foglie morte. Era deluso, ma aveva davvero il diritto di esserlo?
Non aveva protetto Dazai dal Marchese De Sade, il suo ruolo nelle indagini era stato più di backup che di vera utilità. La sua presenza non aveva, di fatto, comportato alcuna differenza. Dazai si era rivelato abbastanza forte da difendersi da solo e, alla fine, il merito del suo salvataggio spettava solo al Boss.
Eppure, Odasaku sentiva che la prima linea di quella battaglia gli apparteneva quanto a Chuuya e Mori. Aspettare e sperare non era mai stata un’opzione. Combattere per salvare Dazai e riportarlo a casa era stata l’unica strada che aveva preso in considerazione.
“Perché sei arrabbiato, adesso?” Domandò il diciottenne.
Odasaku non sapeva come se ne fosse accorto, perché era certo che la sua espressione non fosse cambiata di una virgola. Inoltre, era buio. “Non so di cosa stai parlando.” Mentì. Il più giovane non aveva certo bisogno dei suoi malumori.
“Non puoi mentire,” disse Dazai, con una gentilezza che convinse l’altro a guardarlo negli occhi. Sorrideva. Era stanco, dilaniato da un’esperienza che non lo avrebbe abbandonato mai più, ma sorrideva. “Non ne sei capace, specialmente con me.”
Aveva ragione. Odasaku mise da parte il gioco dei ruoli e abbandonò la pistola sulla panchina. “Posso toccarti?” Domandò, diretto.
Dazai smise di sorridere. Dischiuse le labbra, incerto.
“Non sei costretto a dire di sì,” lo rassicurò Odasaku.
“Non è questo.” Dazai scosse la testa. “Ero certo che non volessi più farlo.”
Odasaku aggrottò le fronte. “Per quale motivo lo hai pensato?”
“Quello che hai visto non ti ha fatto schifo?” Domandò Dazai, con quell’espressione da bambino perduto che l’altro conosceva terribilmente bene.
Sì, Odasaku aveva giurato di non uccidere più, ma il ritornello di morte e vendetta che lo aveva accompagnato durante tutta la sua fanciullezza, tornò di colpo a bussare alle porte della sua mente. La parte peggiore di sé, quella che aveva lottato tanto per sopprimere, desiderava che De Sade fosse ancora in vita solo per poterlo giustiziare di nuovo. “Mi hanno fatto schifo quell’uomo e quello che ti ha fatto,” replicò, poi allungò la mano per cercare quella del più giovane.
In un primo momento, Dazai s’irrigidì, poi intrecciò le dita a quelle dell’altro. Il petto gli fece male, ma era un dolore buono, come se il suo cuore avesse ripreso a battere dopo tanto tempo. Fu solo una questione d’istanti, prima che si appoggiasse completamente a Odasaku.
L’altro accolse quella vicinanza posando la guancia tra quei capelli scuri.
Rimasero così per un po’, in silenzio, fino a che Odasaku non si accorse che il più giovane stava tremando.
“Dazai, fa troppo freddo qui fuori. Devi-”
“No, voglio restare così ancora un po’.”
La notte li avvolse come una fedele alleata, celandoli agli occhi del mondo. Se le circostanze fossero state diverse, Dazai avrebbe invitato Odasaku nella camera e avrebbero passato la notte insieme. Non come amanti - i tempi non erano ancora maturi - ma come due persone che trovano tutto quel di cui hanno bisogno nella semplice compagnia l’una dell’altra. Dazai aveva tutto il tempo del mondo per guarire e Odasaku era disposto ad aspettarlo, senza smettere di restargli accanto.
“Ho voglia di baciarti,” ammise Dazai, accennando un sorriso. “Ma voglio che il nostro secondo bacio sia improvviso, abbagliante, come un fuoco d’artificio. Questa notte è troppo nera, c’è troppa oscurità.”
Odasaku premette le labbra tra i suoi capelli. Il loro profumo gli era mancato come aria. “Se non lo cerchiamo, il momento arriverà.”
“Allora non cerchiamolo. Restiamo insieme e aspettiamo.”
Per la prima volta da quando era tornato a Yokohama, Dazai si sentì a casa.

Elise

Mar. 17th, 2022 07:51 pm
CowT12 Week 5
M3: Bianco/Nero (bianco)

“Quando mi hanno trovato, ero avvolto in questa copertina bianca.”
Dazai glielo raccontò durante una delle loro serate al Lupin.
Preso di sorpresa, Odasaku riadagiò il bicchiere sul bancone del bar, intenzionato a prestare la massima attenzione alle parole del più giovane.
Il più giovane Dirigente della Port Mafia non parlava mai del suo passato. No, si quasi dire che Dazai Osamu non fosse esistito prima dei suoi quattordici anni, come se l’oscurità stessa lo avesse partorito senza passare dal via.
“Fa strano, vero?” Domandò Dazai. Non guardava il suo interlocutore. Il suo sguardo era perso in un modo che a Odasaku era invisibile. “La prima immagine che il mondo ha di me è di un neonato avvolto nel bianco.” Rise da solo. “Ridicolo, no?”
Odasaku scrollò le spalle. “Il nero non è proprio un colore da bambini,” replicò, ma non sapeva davvero che cosa dire.
“Quando ho visto quella copertina bianca per la prima volta, sapevo già leggere e scrivere,” continuò Dazai. “L’ho tenuta con me, fino a che non ho tentato di ammazzarmi e mi sono risvegliato nella clinica di Mori. Non so che fine abbia fatto.”
“Vorresti riaverla?”
“Non lo so,” ammise Dazai. “Per chiunque era solo una copertina. A un certo punto, non era più nemmeno tanto bianca. A me raccontava una parte della mia storia.”
“Che vuoi dire?”
“Sul bordo era stato ricamato un nome color pastello: Elise M. G.” Raccontò Dazai. “Quel dettaglio mi raccontò diverse cose che non sapevo di me stesso. Nessuno fa ricamare il nome di un figlio che non vuole su di una copertina, specie non nel bel mezzo di un conflitto come una Grande Guerra. No, loro, chiunque fossero, mi volevano davvero.” Dazai si portò il bicchiere alle labbra. “E questa è la ragione per cui detesto il nome Elise.”

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