[personal profile] odetjoy
CowT12 Week 5
M3: Cambiamento/ Stasi (Cambiamento)


-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


“Desidera qualcosa?” Il cameriere si rivolse con cortesia al giovane dai lunghi capelli biondi. Lo aveva notato per puro caso, mentre superava l’ingresso del salotto adiacente alla sala da ballo. Giovane, ingenuo, concentrato nel fare una buona figura con tutti gli ospiti presenti per portare a casa una buona paga - e magari qualche mancia - il cameriere non si era fermato a riflettere che forse quel ragazzo vestito di bianco, troppo giovane per avere qualsiasi ruolo sia in politica che nell’esercito, si fosse rifugiato in un’altra stanza proprio per restare da solo.
Il dubbio sorse spontaneo nella sua mente un istante troppo tardi, quando quegli occhi azzurri si staccarono dal vuoto per studiare freddamente il suo viso. Bastò quello sguardo a informare il malcapitato cameriere che la sua presenza era un disturbo. D’istinto, pensò di chiedere scusa e togliere il disturbo velocemente, ma la paura di peggiorare la situazione lo pietrificò.
Fu fortunato. Il giovane dai capelli biondi decise di essere magnanimo con lui. “No, grazie.” Fu una risposta secca, ma più che sufficiente a permettere al cameriere di chinare la testa con rispetto e tornare al suo lavoro, nella sala principale di quell’evento di gala.
Per noia, quei glaciali occhi azzurri lo seguirono, fino a che non sparì tra la folla d’invitati dai nomi importanti.
Quel giovane, che sedeva sulla poltrona più in ombra del salotto, non aveva nessuno nome importante da sfoggiare.
Nessuno in Europa conosceva Paul Verlaine - non ancora.
E a lui andava benissimo così.
Arthur gli aveva spiegato con pazienza il motivo di quell’evento e perché la loro presenza era tanto importante. Alla fine dei discorsi, Paul non riusciva ancora a dare un senso logico alla situazione. C’erano buone probabilità che gli uomini in quella stanza si sarebbero dichiarati guerra il giorno dopo.
Perché perdere tempo a coprire i loro intenti sporchi di sangue con quell’illusione dorata? Se le cose fossero andate nel peggiore dei modi, l’Europa - e forse, di riflesso, il mondo intero - sarebbe stata privata di un futuro.
Paul non riusciva davvero a capire, ma non biasimava nessuno per questo. Sì, indossava un aspetto umano, ma esserlo era una cosa che non era ancora riuscito ad afferrare. Non la sentiva sua. Arthur gli diceva di darsi del tempo. Paul dubitava che sarebbe mai arrivato a comprendere il genere umano come ci si aspettava da lui. Le intenzioni che muovevano le persone lo confondevano, specie quando queste andavano a braccetto con il concetto di potere. Faun, l’uomo che dopo lunga riflessione aveva definito il suo creatore - e torturatore - era stato quel genere d’individuo. Ora, nella stanza accanto, a pochi passi da lui, decine e decine di persone fatte della stessa pasta stringevano tra le mani il destino del mondo.
No, Paul davvero non riusciva a capire.
“Non ti senti bene?”
Gli occhi azzurri si sollevarono sull’ingresso della stanza e quelli dorati di Arthur risposero al suo sguardo. Ovvio, chi altri avrebbe mai potuto notare la sua assenza? Paul Verlaine non era nessuno - non ancora.
“Ci parliamo di nuovo, io e te?” Era quello a sorprendere Paul. Ricordava benissimo la loro ultima conversazione, i toni che aveva raggiunto e perché non ne erano seguite altre, ma non aveva mai sperato che fosse proprio Arthur a porre fine a quel silenzio e demolire il muro che entrambi avevano innalzato tra loro.
Il giovane uomo dai lunghi capelli neri non rispose davvero alla domanda. “Ti sto cercando da quasi un’ora.”
L’angolo destro della bocca di Paul si sollevò e il fantasma di un sorriso sarcastico illuminò il giovane viso di una luce tetra. “Sei una delle migliori Spie… No, che dico? Sei la migliore Spia del Governo francese, Arthur. Per favore, so che i nostri rapporti sono tesi ma non prendermi in giro. Siamo arrivati insieme, io e te. Sai benissimo quando mi sono allontanato da te. Puoi non aver individuato immediatamente il mio nascondiglio, ma l’area d’interesse non è così grande da impegnarti per un’intera ora-“
“Basta, Paul.” Arthur suonava stanco.
Peccato, Paul non lo era per niente. “Hai fatto quel che dovevi con Victor,” concluse. “Ora che hai adempiuto ai tuoi doveri, io posso tornare a essere una tua priorità.”
L’altro esaurì la distanza tra loro. “Pensavo davvero che non ti fossi sentito bene,” insistette. C’era della premura in quelle parole, nascosta sotto strati di rabbia e incomprensione.
Pur guardandolo dal basso, Paul non ebbe alcun problema a tenergli testa. “Hai paura che mi succeda qualcosa, Arthur?” Domandò. “Dillo chiaramente, almeno saprò che t’interessa qualcosa di me.”
Arthur si chinò verso di lui, fino ad appoggiare entrambe le mani sui braccioli della poltrona. I lunghi capelli neri gli ricaddero sulla spalla e oscurarono la visuale sulla sala da ballo a Paul.
“Onestamente, mi ferisce che tu non lo sappia già da te,” disse Arthur. Nonostante la compostezza che lo contraddistingueva, il biondo leggeva il dolore nei suoi occhi. Era uno spettacolo che non gli era indifferente, ma che poteva sopportare.
Arthur Rimbaud non aveva il diritto di sentirsi ferito, non quando era Paul a custodire un segreto più grande di qualsiasi informazione top secret nascosta negli archivi di stato.
“Come potrei mai saperlo?” Domandò Paul. “Nel momento in cui avevo più bisogno di te, mi hai voltato le spalle.”
“No, non l’ho fatto.” Arthur scosse la testa. “Sono qui, davanti a te.”
“Forse…” Paul affondò le unghie nei braccioli nella poltrona. “Ma non sei con me.”
Arthur non replicò immediatamente e tanto bastò a Paul per avere la conferma che aveva temuto. “Bene,” disse, secco, sguardo gelido. “Fatti indietro e lasciami passare. Posso togliere il disturbo questa stessa notte. Tornerai a casa e non troverai traccia di me, come se non fossi mai esistito nella tua vita.”
“Paul…”
“Vuoi un’uscita comoda da questa situazione? Te la sto offren-“
“Smettila.” Arthur non urlò, ma appoggiò un ginocchio a terra per mettere l’altro nelle condizioni di guardarlo dall’alto in basso. Gli stava concedendo un vantaggio. Lo stava pregando: fidati di me, non sono tuo nemico.
E Paul non aveva mai dubitato di lui. Mai. Tuttavia, era certo che non ci fosse modo di arrivare a un compromesso. Lui per primo non lo voleva. Lo stato in cui versava gli permetteva di vedere solo in bianco e nero, tutto o niente.
Paul sapeva con dolorosa certezza che Arthur non solo non l’avrebbe mai pensata al suo stesso modo, ma non sarebbe mai riuscito nemmeno a provare quello che provava lui. No, Paul Verlaine non era umano ma una cosa sulle persone l’aveva capita molto bene: non si può comandare un’emozione. Se essa non nasce spontaneamente, non ha alcun senso imporla nel cuore di qualcuno.
“Sai bene che non puoi andare da nessuna parte,” disse Arthur. “Sei una mia responsabilità. Il tuo addestramento si è appena concluso, ma per renderti un agente completo serve tempo ed esperienza. Tutto sta per cambiare in Europa e non riesco a prevedere il panorama in cui tu-“
“Oh, sono tuo prigioniero, adesso?” Domandò Paul, velenoso. “Mi è proibito pensare o agire in un modo che non ha la tua approvazione? Strano, abbiamo parlato tanto di libero arbitrio e di come sia una prerogativa naturale dell’essere umano. È una delle prime questioni su cui hai insistito tanto, ricordi? Sei umano, Paul. Hai la facoltà di scegliere.
“Non distorcere le mie parole.”
“Non lo faccio. Mi limito a esporre i fatti: ho preso una posizione che non si allinea alla perfezione con le aspettative che tu e il Governo avete su di me e tanto ti è bastato a fare un passo indietro e mettere tutto in discussione.”
Arthur gli afferrò la mano, ma il biondo non ricambiò la stretta. “Mi hai chiesto se ho paura,” disse e la sua voce non era più tanto ferma. “Sì, Paul, ho paura,” confessò, senza vergogna. “Ho paura perché siamo armi nelle mani di qualcun altro, perché domani potrebbe scoppiare una guerra e perché, se dovesse accadere, non so fino a che punto riuscirò a proteggerti.” Era sincero, quasi disperato. “Ed è chiaro che tu non farai nulla per facilitarmi il compito.”
Ma io non ho bisogno che tu mi protegga. Paul bloccò quella replica in punto di lingua. Era consapevole del suo potere, di quell’arma che nascondeva sotto la pelle e che lo rendeva pericoloso - un mostro - ma anche utile agli occhi del Governo. Se fosse dipeso solo da una questione di forza, Paul non avrebbe esitato a voltare le spalle alla sua attuale vita per crearne una che seguisse, finalmente, le sue regole e non quelle che qualcun altro gli aveva imposto.
Sì, se fosse stata solo una questione di forza, sarebbe stato tutto molto più semplice. Fare i conti con il cuore era una cosa completamente diversa. Fosse stato meno orgoglioso, meno arrabbiato, Paul avrebbe detto le cose come stavano: non voleva essere da solo in quello che gli stava accadendo, desiderava Arthur al suo fianco perché quella cosa era loro. Dischiuse le labbra e ingoiò aria per imporsi una sorta di autocontrollo, ma la fierezza del suo sguardo non vacillò. “Io non ho paura.” Disse, fermo. “Se il mondo deve bruciare perché io possa tenere mio figlio tra le braccia, allora che bruci. Pensi che l’idea di tramutarlo in cenere con le mie stesse mani mi spaventi?”
Arthur scosse la testa. “No, Paul, è tutto il contrario,” rispose. “Io so che non ti fermeresti davanti a niente. È questo che mi fa paura.” Una pausa. “Ma sei sicuro di voler far ereditare a questo figlio un mondo come quello che descrivi?”
“Ho scelta?” Domandò Paul, sporgendosi verso il suo compagno. “Domani, poche decine di uomini decideranno del destino di più di sette miliardi di persone. Siamo armi nelle mani di qualcun altro, lo hai detto tu.” Tremava. “Pensi che io non sappia di non potermi sottrarre a tutto questo in alcun modo?”
“Paul, Paul, Paul.” Arthur gli afferrò le braccia, cercando di offrirgli una qualche forma di conforto con la sua vicinanza. Suo malgrado, la sua presenza aveva smesso di essere un sollievo per l’altro da un po’ ed era colpa sua, di Arthur Rimbaud e di nessun altro. “Paul, io sono qui, con te.” Lo avrebbe ripetuto all’infinito, se necessario.
“Non è questo figlio, Arthur.”
“Cosa?”
“È nostro figlio,” disse Paul, quasi fosse una preghiera. Sì, una preghiera destinata a rimanere inascoltata. “Ma tu non lo senti,” aggiunse, con rassegnazione. “Tu non lo sentirai mai.”
“Io sento te,” ribatté Arthur. “So quello che provo per te. Non mi spaventa. Non me ne vergogno. Questo è quello che posso offrirti e so che non sarà sufficiente in eterno ma, ti prego, fai in modo che ti basti per ora.”
Paul non gli rispose e nemmeno lo allontanò. Non poteva e non perché la sua posizione agli occhi del Governo glielo impediva. Certo, il solo posto al mondo che gli era stato offerto di occupare era quello al fianco della Spia Rimbaud. Non ne avrebbe voluto nessuno altro. Anche se Paul voleva quel figlio e Arthur no, smettere di far parte delle rispettive vite sarebbe stato insopportabile per entrambi.
“Vi stavo cercando.” Non appena Victor Hugo fece il suo ingresso in scena, due calici di vino tra le mani, Arthur Rimbaud si sollevò in piedi. Paul, al contrario, non si mosse.
“È accaduto qualcosa, Victor?” Domandò la Spia dai lunghi capelli neri.
Victor scosse la testa, accennando un sorriso malinconico. “Tutto accadrà domani,” disse. “Tutto cambierà domani, in un modo o nell’altro.”
Se l’Europa sia era spinta fino al punto da dover prendere in considerazione un conflitto, Paul dubitava che esistesse un modo per uscirne indenni. Anche ipotizzando che l’indomani non sarebbe successo nulla d’irreparabile, quanto sarebbe durato quell’equilibrio precario?
“Paul, a stento ti ho visto questa sera,” disse Victor, porgendo al giovane dai capelli biondi un calice di vino. “Qualcosa non va, per caso?”
Paul fissò il bicchiere, ammutolito. Arthur venne in suo soccorso: lo afferrò al suo posto, accettando quell’offerta gentile al posto suo. “Paul non si sente a suo agio in mezzo a tanta gente,” disse la Spia. “Dobbiamo comprenderlo.”
Victor passò gli occhi dall’uno all’altro e, per un attimo, Paul ebbe il dubbio che avesse intuito qualcosa. Impossibile. Si rassicurò da solo. Il nostro non è un segreto intuibile da uncalice di vino rifiutato.
Victor Hugo era una persona gentile, troppo per il suo bene. Se gli fosse stato concesso di vivere la sua vita liberamente, Paul era certo che si sarebbe tenuto fuori dalle questioni di potere. Gli occhi azzurri caddero sulle piccole mani coperte dai guanti, una misera ma indispensabile barriera per il potere letale di cui Victor Hugo era portatore. Era un giovane minuto, troppo per essere un soldato della prima linea, ma la Francia lo aveva già reso l’arma principale di quella guerra annunciata.
Improvvisamente, nella sala principale, una voce si alzò sopra tutte le altre. Paul voltò lo sguardo in modo meccanico e vide due giovani discutere al bancone dell’angolo bar. Non li conosceva. Quello adirato aveva i capelli biondi e l’altro neri.
Paul ne fu annoiato con la stessa velocità con cui avevano attirato la sua attenzione.
Non era lo stesso per Victor Hugo, che aveva smesso di parlare per osservare la scena con attenzione.
La scena s’interruppe con l’uscita di scena del tipo con i capelli biondi. Il moro rimase dov’era, ammutolito. Dall’espressione che indossava, Paul dedusse che non era abituato a terminare una discussione in cui l’ultima parola non era la sua. Tempo di un battito di ciglia e un uomo biondo comparve sull’ingresso del salotto. Era William Shakespeare. Non disse nulla, fece solo cenno a Victor di seguirlo.
“Arthur, tieni sotto controllo la sala principale, per cortesia,” disse, prima di scomparire tra la folla, al seguito dell’inglese.
Arthur posò il calice mezzo pieno sul basso tavolino al centro del salotto. “Resta qui, Paul.”
Il diretto interessato rispose con una scrollata di spalle: non aveva alcuna intenzione di muoversi da dov’era. Quando il compagno lo lasciò solo, ne fu sollevato. A cosa era servita la conversazione che avevano avuto? A niente. Quello non era né il luogo né il momento per parlare del figlio che stavano per avere. No, non era proprio il periodo storico adatto e Paul odiava sentirsi così impotente di fronte agli eventi. Si tirò la frangia bionda all’indietro, ma questa ricadde immediatamente sull’occhio destro. Fu per noia che portò di nuovo lo sguardo verso il bancone dell’angolo bar. Il giovane dai capelli corvini era ancora seduto al suo posto, il viso contratto in un’espressione dolorante. Non fu tanto quella a interessarlo, quanto il modo repentino in cui si portò una mano in grembo. Si piegò su se stesso, ma rimase col braccio aggrappato al bancone. Nessuno fece niente. Nessuno se ne accorse.
Quando Paul vide il giovane portarsi una mano alla bocca, come se fosse sul punto di vomitare, sia alzò dalla poltrona e lasciò il salotto. Certo che nessuno li stava guardando, si chinò per stringere la spalla del ragazzo in difficoltà. “Respira,” gli disse, senza nessuna intonazione particolare. “Continua a respirare e passerà.”
L’altro nemmeno lo guardò negli occhi. “Se respiro, do di stomaco qui, di fronte all’intera Europa.” Gli rispose in francese, ma l’accento era strano. Di sicuro, non era di quelle parti.
“Non accadrà,” promise Paul. “Fidati, non accadrà. Ma devi alzarti, così starai solo peggio.”
Il giovane dai capelli corvini tornò a sedersi sullo sgabello, teneva lo sguardo basso e non aveva affatto una bella cera. Paul si voltò, vide un cameriere e gli ordinò di portargli una cosa specifica. Cinque minuti dopo, un bicchiere dal contenuto giallastro venne posato sul bancone.
Paul lo spinse verso lo sconosciuto. “Bevi.”
Nonostante lo stato in cui versava, lo sconosciuto lo guardò storto. “Non so chi tu sia, ma ora so che vuoi vedermi morto.”
“Mi chiamò Paul,” rispose il francese, non c’era alcun motivo di essere formali e stare a rivelare anche il suo cognome. “E non è veleno, non ti ucciderà.”
“Non m’importa che cos’è. So che se lo bevo, vomiterò anche i miei organi interni.”
Sul viso di Paul comparve una smorfia divertita: conosceva bene la sensazione. “È limonata, ti aiuterà.”
Il moro continuò a guardarlo con diffidenza, poi il suo stomaco dovette contorcersi improvvisamente perché afferrò il bicchiere con una certa urgenza. Sorseggiò la limonata con poca convinzione, fissando Paul per tutto il tempo.
Se non dovesse funzionare, ti vomito addosso, dicevano quegli occhi scuri.
Paul aspettò in silenzio che l’attacco di nausea passasse. A metà del bicchiere, il viso dello sconosciuto dai capelli corvini riprese colore.
“Meglio, vero?” Domandò il francese. Te lo avevo detto, era quello che voleva dire.
Il giovane sconosciuto non confermò né negò. “Paul, hai detto?”
“Sì, esatto.”
“Rintarou…” Si presentò l’altro, prendendo un altro sorso di limonata.
“Oh, ecco chi sei,” disse Paul, con rinnovato interesse. “Il fio-“
“Sì sì, il il Fiore d’Oriente,” lo precedette Rintarou, sbrigativo e irritato. “Tu, invece?” Domandò. “Hai un soprannome che mi possa aiutare a riconoscerti o un cognome chiacchierato nei salotti europei?”
“Nessuno dei due,” rispose Paul. “Sono solo nessuno.”
A Rintarou dovette piacere come risposta, perché accennò un sorriso. “Mi fa piacere. Ho parlato con troppe persone importanti per un solo evento di gala.”
Dal modo in cui pronunciò la parola importanti, Paul dedusse che non le riteneva affatto tali. “Sei malato?” Domandò diretto.
“Mi piacerebbe saperlo,” ammise Mori, poi sollevò il bicchiere di limonata quasi vuoto. “Come lo sapevi? Studio medicina, ma non mi è passato per la testa questo genere di rimedio.”
“Esperienza,” disse Paul. “Ho vissuta una condizione che mi ha provocato una nausea prolungata.” Se quel giovane sapeva di cosa stava parlando, avrebbe colto l’allusione senza problema.
Da quel che lo voci raccontavano, il Fiore d’Oriente di Johann Goethe era un ragazzo, ma Paul per primo sapeva quanto era difficile leggere le sfumature di certe situazioni. La gente poteva soffrire di nausea per mille motivi e forse il suo interesse per quel ragazzo era irragionevole. Eppure, c’era qualcosa sul viso di Rintarou che persuadeva Paul a credere che fosse portatore di un segreto come il suo.
“Sei nell’esercito?” Domandò Rintarou. Paul scosse la testa e l’altro lo studiò con più attenzione. “Ma hai un’abilità, giusto?”
“Quasi tutti i giovani presenti a questo evento di gala lo sono,” rispose Paul. “È l’unica ragione per cui sono qui.”
Rintarou annuì distrattamente. “La maggior parte di noi qui non ha vissuto abbastanza nemmeno per aver completato un percorso di studi.”
“E marceremo sui campi di battaglia di tutta Europa come se fossimo soldati consumati,” concluse Paul.
Rintarou lo fissò. “Anche tu sei certo che domani scoppierà la guerra,” intuì.
“Sono convinto che, di fronte a una scelta, l’umanità sia portata per sua natura a scegliere la strada della distruzione.”
“Ah, sei un filosofo,” lo prese in giro Rintarou, ma non lo stava deridendo. “Ottimista, per di più.”
“C’è veramente qualcosa per cui essere ottimisti qui?” Paul aveva una storia troppo lunga da raccontare, ma bastava l’ultimo capitolo della sua vita per convalidare il suo pensiero: concepire un bambino per sbaglio sulla soglia di un conflitto mondiale non era proprio quello che avrebbe definito ottimo tempismo.
“No,” rispose Rintarou, giocando distrattamente col bicchiere tra le sue mani.
“Decisamente, non c’è nulla.” Prese un altro sorso di limonata. “Non resta che combattere per vincere.”
Paul aggrottò la fronte. “Questa non è la tua guerra,” disse.
Rintarou sorrise amaramente. “Se sai chi sono, dovresti sapere anche di chi sono amante, Paul.”
“Goethe ti obbliga a-?”
“Nessuno può obbligarmi a fare niente,” lo interruppe Rintarou, glaciale. “Sono dove sono perché voglio esserci, che a Johann Goethe stia bene o no.”
Stava cominciando ad aprirsi. Ora che aveva nominato il suo amante, Paul sapeva di poter osare un po’ di più. “A lui lo hai detto?” Domandò. “Della tua condizione, intendo.”
Rintarou inarcò un sopracciglio. “Quale condizione?” Domandò. “Parli della nausea?” Scrollò le spalle. “Passerà…” Disse sbrigativamente.
Allora non lo sai, si disse Paul. O forse non lo sei e sto vedendo solo cose che non esistono. Il suo istinto era convinto del contrario.
Rintarou era come lui, solo che non lo aveva ancora scoperto.
E l’indomani sarebbe scoppiata una guerra, senza che quel giovane proveniente dall’Oriente avesse la minima idea che-
“Che cosa stai facendo?”
Paul sentì sulla spalla la mano di Arthur, prima d’incontrare i suoi occhi dorati.
Rintarou lanciò un’occhiata all’ultimo arrivato, decise che la cosa non lo riguardava e tornò alla sua limonata.
Paul non rispose alla domanda fatta dal compagno e Arthur non si ripeté. “Vieni, la nostra presenza è richiesta altrove.”
Il biondo scese dallo sgabello del bar e si allontanò di un paio di passi, poi ci ripensò. “Aspetta un attimo, Arthur.” Arrivò accanto a Rintarou. “Hai detto di studiare medicina, giusto?”
Confuso, il giovane da capelli corvini annuì. “L’ho detto,” confermò. “Ma perché-?“
Paul non lo fece parlare. Lo tirò per un braccio, verso di sé e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Quando si allontanò, gli occhi scuri di Rintarou erano grandi, smarriti.
Il francese non aggiunse altro. Quello che aveva messo in moto poteva tramutarsi in niente o nell’inizio di qualcosa di nuovo.
In entrambi i casi, il mondo sarebbe andato a fuoco comunque.
“Il Governo francese ha un file aperto su Mori Rintarou?” Domandò Paul, una volta rimasto solo con il suo compagno.
“Di certo ne ha uno su Johann Goethe,” rispose Arthur. “Ma perché me lo chiedi?”
“Se non esiste un file su di lui, voglio aprirlo e voglio seguirlo personalmente,” disse Paul, diretto.
“Mori Rintarou non è considerato oggetto d’interesse per il Governo. Perché perdere tempo?”
“Perché a me interessa,” rispose Paul, schietto. “E perché ritengo che il Governo sia molto distratto.”




Molto presto, nel nuovo mondo forgiato dalla Grande Guerra, il nome di Mori Rintarou si sarebbe perso tra i caduti in battaglia e quello di Paul Verlaine sarebbe divenuto tra i più conosciuti in Europa.
Il destino li avrebbe fatti incontrare di nuovo sedici anni dopo, ai margini di una storia di cui non sarebbero stati i protagonisti.



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


“Oh, povero me…” Commentò Mori, affacciandosi sul salotto adiacente alla sala da ballo.
Si accorse di Chuuya e Dazai solo alla fine della scena, quando il primo si alzò dallo sgabello da bar in tutta fretta per battere in ritirata. Non si mosse subito. Seguì Chuuya con lo sguardo per assicurarsi che non lasciasse l’evento di gala e solo quando fu sicuro che Dazai non si sarebbe mosso da dove si trovava, decise che il diciottenne dai capelli rossi aveva la priorità.
Di fatto, lo trovò seduta sulla poltrona più in ombra della salotto, con le braccia incrociate contro il petto e il broncio di un bambino che aveva appena finito di litigare e ne era uscito sconfitto.
Quelli erano i momenti in cui Mori sentiva la mancanza di Kouyou più di ogni cosa. Due adulti per due ragazzini e il gioco era fatto. Lì, a Parigi, era da solo perché, in assenza del Boss, qualcuno doveva tenere il forte e la sua unica Dirigente donna era la sola che poteva vantare della sua completa fiducia. Era una gran cosa avere un braccio destro - gli piaceva scherzare e dire che Dazai era il sinistro - lo era di meno essere inferiore numericamente a un Duo Nero di diciotto anni - per due - particolarmente turbolento per sua natura.
Mori pensò che aveva appena finito di lamentarsi con Dazai del fatto che non parlava più con Chuuya. Certo, ma non si era aspettato di essere ascoltato e preso in parola dal giovane Dirigente. Dazai avrebbe potuto benissimo aspettare di tornare a casa per ricominciare a litigare con il suo partner. No, la prospettiva di dargli noia doveva essersi rivelata troppo irresistibile per lui.
Il Boss della Port Mafia fece appello a tutta la sua pazienza e fece un paio di passo all’interno del salotto per farsi riconoscere. Arrabbiato com’era, Chuuya lo guardò con la coda dell’occhio ma non si mosse. “Io non ci vado a parlare con quello,” disse immediatamente.
“Non te lo avrei chiesto,” ammise Mori, sedendosi sul basso tavolino al centro della stanza. Era l’unico modo per poter guardare il giovane dritto negli occhi e stare comodo allo stesso tempo. “Gli ho fatto notare quanto sia assente ultimamente, ma non pensavo sarebbe venuto dritto da te per rimediare.”
Chuuya sbuffò. “Non credo volesse parlare,” disse. “Non credo volesse proprio avvicinarsi a me,” sottolineò, “ma non sta bene. Stava per vomitare, lo stronzo!”
“Sì, non sta bene da quando siamo partiti. L’ho notato anche io.”
Per la prima volta da quando Mori era entrato nella stanza, Chuuya lo guardò drittò negli occhi. “Che cos’ha?” Chiese, certo il Boss avesse già la risposta in tasca, come sempre. “È qualcosa di grave?”
Nell’udire tanta premura, Mori sorrise ma decise di non farglielo notare. In linea di massima, Chuuya era più gestibile di Dazai ma ben più rumoroso. Non voleva scenate nel bel mezzo di un evento di gala in terra europea. “Penso sia una semplice influenza o qualcosa del genere. Dazai non ne è veramente preoccupato o sarebbe già venuto da me.”
Chuuya scrollò le spalle. “Perché dovrebbe preoccuparsi delle sue condizioni fisiche?” Domandò. “Se stesse per morire, ne sarebbe felice, no?”
“Vero, ma sappiamo tutti e due quanto è insofferente al dolore,” gli ricordò Mori. “Non sopporterebbe mai un malessere prolungato.”
Chuuya concordò con un cenno del capo. “Mi ha chiesto come sto.”
“Oh…” Mori sgranò gli occhi. “Sono sinceramente e totalmente sorpreso.”
“Lo dici a me?” Chuuya sbuffò una seconda volta. “Chi dobbiamo torturare per scoprire che cosa gli prende, Boss?”
Fu il turno di Mori di scrollare le spalle. “In linea di massima, Dazai non sta facendo nulla per cui dobbiamo preoccuparci.”
“Appunto!” Esclamò il rosso. “È preoccupante che non ci dia noia… O che non venga da noi a lamentarsi di quanto è annoiato dall’essere annoiato.”
Mori non poteva che dargli ragione. Ricordava giorni in cui Dazai si stabiliva arbitrariamente nel suo ufficio solo per potergli ripetere costantemente quanto era noioso il lavoro che gli aveva affidato. Quando poi arrivava Hirotsu a portargli il caffè, attaccava a lamentarsi su come alla sua veneranda età - aveva trentasei anni - ancora non si fosse deciso a diventare un adulto autosufficiente.
C’era solo una motivo per cui Mori rimpiangeva quei giorni: ora che il piccolo demonio era maggiorenne, avrebbe potuto ribattere che aveva fatto un ottimo lavoro nel rendere un adulto non autosufficiente anche lui.
Peccato che dopo il suo diciottesimo compleanno, Dazai non gli avesse dedicato più molto del suo tempo. Ancora perlomeno rispondeva al telefono.
“È per questo che sei arrabbiato?” Domandò Mori. “Perché ti ha chiesto come stai?”
“Uhm-Uhm…”
“Magari gli è solo passata.” Quello era ottimismo e il Boss della Port Mafia tendeva a essere più realista. Tuttavia, era realisticamente possibile che Dazai fosse cresciuto abbastanza d’accantonare determinati comportamenti. Chuuya non poteva saperlo perché era arrivato dopo e osservava Dazai dal punto di vista di un suo pari, ma Mori vedeva la differenza tra il bambino di quattordici anni, che si era ritrovato tra le mani e il fanciullo di diciotto, che non faceva sfuggirgli - ed era anche bravo a farlo.
“Quattro anni…” Mormorò, tra sé e sé. “Perché sembrano molti di più?”
Chuuya, che non poteva aver seguito la sua riflessione interiore, inarcò le sopracciglia, confuso.
Il Boss accennò un sorriso. “Niente. Crescete troppo in fretta, tutto qui. Mi avevano avvertito, ma non è mia abitudine ascoltare le altre persone.”
Il diciottenne assottigliò gli occhi azzurri. “Mi prendi in giro, Boss?” Domandò, un po’ astioso. “Non cresco di un centimetro da tre fottutissimi anni.”
“Ah, i maschietti crescono fino a venticinque anni!” Mori fece un gesto con la mano, come a dirgli di non preoccuparsi. “Hai altri dieci centimetri davanti a te, ne sono sicuro.”
Gli occhi di Chuuya divennero grandi, speranzosi. “Davvero?”
“Parola di medico,” mentì il Boss. Era assai improbabile che il diciottenne dai capelli rossi avesse uno scatto di crescita dopo tre anni di nulla, ma non poteva permettersi il capriccio del suo secondo ragazzino. Dazai non aveva ancora insultato nessuno o fatto adirare nessuno - a parte Chuuya - e Mori non aveva voglia di mettere alla prova la sua fortuna più di così.
“Quindi è questa la risposta al grande enigma?” Domandò il rosso, deluso. “Dazai è cresciuto?”
“Sei cresciuto anche tu, mio caro Chuuya.”
“Perché insiste a rigirare il coltello nella piaga, Boss?”
“Il concetto di crescita non si limita a qualcosa di fisico,” spiegò Mori. “Siete cambiati. A quindici anni, sembrava che aveste il bisogno fisiologico di litigare quotidianamente. Certi schemi comportamentali possono maturare e basta. È la vita. Per evitare che questo accada, dovreste rimanere immobili e non avere alcuna esperienza del mondo. E vi sono successe molte cose negli ultimi tre anni.”
Chuuya si aggiustò il cappello sulla testa, anche se non gli dava alcun fastidio. Quando aveva messo piede al quartier generale della Port Mafia per la prima volta, a quindici anni, lo aveva fatto stringendo al petto solo tre certezze: il suo nome, la sua abilità e la consapevolezza - forse più il presentimento - di nascondere qualcosa di mostruoso dentro.
Ora, a diciotto, ogni sua domanda aveva trovato una risposta precisa e non si era risparmiati a rivelargli anche i dettagli più scomodi, oscuri. “Detesto che il mondo mi conosca come Nakahara Chuuya,” non lo aveva mai detto a nessuno. “Beh… In realtà, Chuuya è un nome che sento mio, anche se è solo una bugia di cui mi piace convincermi.”
“No, non lo è,” disse Mori, gentilmente. “È il tuo nome. Non ne abbiamo mai parlato, ma sono certo che la persona che la persona che vive nei sotterranei della Port Mafia la pensi allo stesso modo.”
Chuuya si grattò la nuca e usò quel movimento come scusa per guardare da un’altra parte. Persino il Boss gli faceva la cortesia di non nominare Paul Verlaine con lui, ma ciò non impediva al diciottenne di soffrire il peso di quella presenza invisibile. Dopo lo scontro che gli aveva visti protagonisti, Chuuya aveva impiegato meno di un mese a scendere nei suoi nuovi appartamenti per affrontarlo. Ne era uscito come una persona nuova. Più libera, ma decisamente più consapevole.
E la verità, di qualunque natura fosse, aveva sempre un peso.
“È lui che mi ha fatto crescere,” concluse Chuuya.
Mori annuì. “Sì, lo credo anche io.”
Gli occhi azzurri tornarono su quelli scuri del Boss. “E chi ha fatto crescere Dazai?”
L’uomo vestito di nero scrollò le spalle. “Un po’ io,” si permise di darsi parte del merito. “Un po’ tu.” No, non si poteva escludere Chuuya da quell’equazione, non aveva importanza quando Dazai dicesse di detestarlo.
Il diciottenne dai capelli rossi non fu del tutto soddisfatto dalla risposta. “E chi altri, Boss?” Domandò. “Perché è successo qualcosa a Dazai, ma non riesco a capire che cosa sia.”
Il sorriso di Mori si fece tirato. “È successo il Marchese De Sade.”
Chuuya sgranò gli occhi, poi passò lo sguardo su qualsiasi cosa che non fosse il viso del suo superiore, imbarazzato. “Non volevo riportare a galla-“
“Credo che nessuno di noi sia riuscito a gestire quell’evento nel modo giusto,” lo bloccò Mori. “In un primo momento, siamo divenuti paranoici e questo ha convinto Dazai a spingerci via. Più lo tenevamo sotto controllo, più lui faceva di tutto per sfuggirci. La nostra seconda tattica è stata il totale silenzio. Se non parli di una cosa non è mai successa, no?” Ora che lo diceva ad alta voce, era ragionevole che Dazai avesse preso le distanze da loro. “Col senno di poi, mio caro Chuuya, penso proprio che ci siano tutte le condizioni necessarie per spingere qualcuno a cambiare drasticamente la propria condotta.”
Riassumendo: Dazai aveva subito un trauma - più forte degli altri, più profondo di qualunque altro - e loro, le persone che avevano fallito nel proteggerlo e che avrebbero dovuto sostenerlo, si erano rivelate inadeguate ben due volte.
“C’è una cosa, Boss.” Chuuya interruppe il flusso dei suoi pensieri. “Se escludiamo il caso De Sade, non rammento l’ultima volta che qualcuno di noi lo ha raccolto in uno stato pietoso.”
Il cervello di Mori andò in blocco, si spense e si riattivò in un battito di ciglia, come un computer difettoso. “Non sta più tentando di suicidarsi?”
Perché non lo aveva notato prima? Era lui il medico di Dazai. Le sue mani lo avevano strappato alla morte, ricucito e fasciato innumerevoli volte. Sì, dopo De Sade, Dazai era finito sotto le sue cure per dei punti di sutura, un’influenza particolarmente brutta e un paio di slogature. Considerando che era un Dirigente, capo delle forze armate, perennemente presente in prima linea, non si faceva nemmeno così male.
Che fine avevano fatto i veleni e le bombe rudimentali che esplodevano per miracolo e causavano gli stessi danni di un petardo?
Quando era stata l’ultima volta che Hirotsu glielo aveva portato bagnato da capo a piedi perché, in un’alzata d’ingegno, si era buttato a mare o da un ponte?
Mori non aveva le rispose a nessuna di quelle domande e si sorprese a scoprire che gli dava terribilmente fastidio.
Per evitare che il più giovane si accorgesse del suo smarrimento, che andava a braccetto con il suo malumore, il Boss della Port Mafia fece un paio di passi indietro e cambiò completamente argomento. “Chuuya…”
“Uhm?”
“I tuoi genitori naturali ti hanno fornito un paio di cognomi tra cui scegliere, nel caso volessi cancellarti di dosso le ultime tracce che il tuo carnefice ti ha lasciato addosso,” gli propose Mori. “Nome giapponese e cognome francese. Le ragazze ne saranno molto affascinate.”
Chuuya rise e Mori seppe di averla scampata.
“Ho il permesso di tornare in albergo, Boss?” Chiese il diciottenne. “Temo che Dazai mi abbia attaccato qualsiasi malattia rara si sia preso.”
“Vai pure,” gli concesse il suo superiore con indulgenza. “Il mio sesto senso mi dice che, una volta tornati a casa, ci aspetteranno tante lunghe notti insonni.”



-1 giorno prima lo scoppio della Grande Guerra-


Rintarou uscì dalla sala da ballo in tutta fretta, il cuore a mille e il respiro accelerato. O stava per prendergli un infarto o era sulla soglia di un attacco di panico. Trovò rifugiò in un ripostiglio, di quelli abbastanza grandi d’avere una luce sul soffitto e abbastanza spazio di manovra per marciare avanti e indietro.
“Non sta succedendo, non sta succedendo,” prese a ripetersi, infilando le dita tra i capelli neri. “Non sta succedendo. No, quello sconosciuto ti ha solo messo in paranoia.” Si costrinse a riflettere, a tornare sulla strada della ragione. “Ti ha detto di essere nessuno, ma è riuscito a farti parlare.” Strinse gli occhi e si tirò i capelli. “Stupido, maledetto idiota!” S’insultò da solo. “Era francese, poteva essere una spia del governo!”
Sì, una spia del governo che gli offriva una limonata per placare la nausea e poi gli suggeriva all’orecchio di sottoporre un campione del suo sangue a un esame assolutamente banale, ma che non aveva nulla a che fare con lui.
”Ti consiglio di controllare il valore delle Beta-HCG nel tuo sangue,” aveva detto Paul Nessuno.
Rintarou si sentiva ridicolo solo per aver preso quelle parole tanto sul serio dal ridursi nello stato in cui era. La nausea era lì, certo, insieme alla stanchezza cronica e a una serie di sintomi che potevano essere ricondotti a un prolungato periodo passato sotto pressione o all’insorgenza di un tumore.
Poteva essere tutto e poteva essere niente!
Di certo non era quello!
”Perché no?” Obiettò la voce della ragione nella sua testa.
“Perché è necessario che il sesso biologico di un individuo sia femminile,” rispose Rintarou.
Quando si ritrovava davanti a un problema da risolvere, parlava da solo. Niente che centinai di migliaia di persone non facevano abitualmente, ogni giorno. Ma il suo parlare da solo era differente, perché la voce nella sua testa non era un semplice frutto della sua riflessione.
”Hai tutto quello che ti serve perché sia possibile,” gli fece notare la voce.
Rintarou smise di vagare per quello piccolo spazio e abbassò lo sguardo su se stesso, sul suo corpo. “Non sono i miei veri organi sessuali. È solo una trasformazione causata della mia abilità.”
”E questo lo renderebbe meno reale, Rintarou?”
“Non si tratta solo di quello che si vede all’esterno,” ribatté il giovane Mori. “Servono degli organi riproduttivi interni e ci sono dei sintomi ben precisi a provare la funzionalità di un simile apparato.”
”No, i sintomi non compaiono se succede quel che sta succedendo a te.”
“Sono imprigionato in questo corpo da anni e non è mai successo niente!”
”Proprio perché prima ne eri prigioniero.”
Rintarou rimase in silenzio, ma la risposta gli arrivò naturale. “Stai parlando di Hans?”
”Ti piace quando ti tocca, no?” Gli parve che la voce lo stesse deridendo. ”Quando fai l’amore con lui, non ti senti prigioniero della tua stessa pelle.”
“Già…” Rintarou annuì. “E faccio l’amore con lui da più di due anni.”
”I bambini arrivano quando devono arrivare.”
“Non c’è nessun bambino,” sibilò Rintarou, voltandosi a cercare un interlocutore che non c’era. Quanto avrebbe voluto materializzare quella voce in qualcosa, dargli una forma da mettere a tacere per sempre.
”Non puoi mettere a tacere te stesso, Rintarou. Per riuscirci, dovresti ucciderti.”
“Ma tu non sei me,” ribatté il diciassettenne. “Tu sei il Demone che è dentro di me. È diverso.”
“È strano come la realtà si distorca a seconda della verità a cui decidiamo di credere. Rifiutavi il tuo corpo e quindi l’hai etichettato come sterile, difettoso. Convinto di questo, non ti è mai venuto in mente di fare sesso protetto con il tuo amante, vero?”
Rintarou strinse i pugni e serrò i denti sul labbro inferiore. “Non voglio più parlare.”
”Ecco, hai cercato rifugio nel tuo essere realista, ma anche la ragione ti suggerisce una verità che non vuoi affrontare.”
“Taci.”
”Domani il mondo cambierà per sempre, Rintarou. E pensare che eri così pronto a combattere questa guerra al fianco di Hans.”
Una risata riecheggiò nella sua testa e Rintarou si prese la testa tra le mani, indietreggiando fino ad appoggiare la schiena alla parete della piccola stanza.
”Che cosa sceglierai di sacrificare? Manderai il tuo amore al fronte da solo, con l’alto rischio che possa morire o ucciderai vostro figlio per seguirlo sul campo di battaglio!”
“Smetti di parlare!” Urlò Rintarou, sbattendo il pugno contro il muro.
Nella sua mente tornò il silenzio, ma nulla sarebbe servito a placare il caos che si era scatenato nel suo petto. Sentiva un nodo in fondo alla gola, come se dovesse vomitare o piangere - forse tutte e due. Gli girava la testa, così si lasciò cadere lungo la parete, fino a sedersi a terra.
“Non sta succedendo,” tornò a ripetere, ma le mani tremanti gli scivolarono in grembo. “Maledizione…” Sibilò, poi strinse gli occhi. “Maledizione!”
Nello stesso istante, la porta dello sgabuzzino si aprì. Mori decise d’ignorare la cosa. Se la persona che lo aveva sorpreso era dotato di un minimo d’intelligenza, se ne sarebbe andata senza pronunciare parole.
Non era quello il caso.
“Ti senti bene?” Domandò una voce maschile, in un francese stentato, dalla pronuncia orribile.
Non fu quello ad attirare l’attenzione di Rintarou, ma l’accento marcato che avvertì in quelle parole. Sollevò gli occhi scuri e ne incontrò un paio azzurri come il cielo, più chiari di quelli di Hans.
Il giovane era alto - molto alto - aveva corti capelli chiarissimi e indossava la divisa dei camerieri della sala principale, ma non ne aveva davvero l’aspetto. “Vieni dalla zona di Tokyo?” Domandò Rintarou, in giapponese.
Preso di sorpresa, l’altro cominciò a boccheggiare. “Mi dispiace per il mio pessimo francese,” disse il cameriere, sempre incerto ma nella lingua della sua terra. “Ti senti bene?” Ripeté.
Rintarou si alzò in piedi, sorrideva. “Non parlo giapponese con qualcuno che non sia il mio maggiordomo da anni!” Esclamò. No, non era il caso di definire Hirotsu la sua guardia del corpo, sarebbe stato troppo sospetto.
“Rispondimi: vieni dalla zona di Tokyo?”
“Yokohama,” rispose il giovane dai capelli chiari.
Rintarou rise. “Non ci credo…” Era talmente sorpreso che, per pochi istanti, si dimenticò di cosa aveva risvegliato la voce nella sua testa. “E che ci fa un ragazzo di Yokohama, che parla francese in modo pessimo-“
“Ehi…”
“Con una divisa da cameriere in un evento di gala di una tale porta-“ Rintarou si bloccò e smise di sorridere. Tempo un secondo e seppe esattamente chi aveva davanti. Le sfumature del suo sorriso si fecero più sinistre. “Fammi indovinare… Governo?”
L’altro sbatté le palpebre un paio di volte. “Immagino che in Giappone siano tutti convinti che, qualunque cosa succeda domani, sia troppo lontana dai loro confini per essere interessante. Ciò nonostante, il Governo non può permettersi di rimanere completamente all’oscuro dei dettagli. Quanti anni hai?” Domandò. “Venti?” Ipotizzò subito dopo. “È la tua prima missione da Cane del Governo?”
“Non sono un cane!” Ribatté il cameriere.
“Bene, perché io sono la Port Mafia,” confessò Rintarou con candore, portandosi la mano sinistra al petto. “E i cani non mi piacciono.”
Il giovane dagli occhi azzurri lo fissò con la bocca spalancata. Definirlo basito non avrebbe reso l’idea.
Rintarou lo trovò molto divertente. “Non guardarmi così,” disse. “Siamo sia nel Continente che nella Nazione sbagliati. In queste circostanze, che io sia figlio della Port Mafia o di qualunque altra organizzazione illegale, non è importante per te. Immagino che ti abbiano mandato in missione con altre priorità.”
Il giovane Agente, ormai smascherato, strinse le labbra fino a farle diventare una linea sottile.
Rintarou annuì, comprensivo. “Non puoi parlarmene, ovvio.” Annuì due volte. “Una curiosità. Non ti chiederò il tuo nome, tranquillo. Voglio solo sapere se conosci il mio.”
L’altro esitò un istante, poi scosse la testa. “Non ho la minima idea di chi tu sia.”
E Rintarou si sorprese ancora un poco. “Sei sincero…” Notò. “Da un Cane del Governo non me lo aspettavo…”
“Non sono un ca-“
Mori!”
Rintarou riconobbe quella voce: era Billy - più famoso come William Shakespeare. Se l’inglese si disturbava al punto da venirlo a cercare, doveva essere qualcosa di veramente importante. Suo malgrado, quella conversazione con il suo compatriota - e nemico naturale - doveva concludersi.
“Con permesso,” disse con cortesia, spingendo l’Agente a farsi da parte per farlo uscire dalla sgabuzzino. “Ci si vede a Yokohama.”
Rintarou non poteva saperlo ma, in meno di un decennio, quel Cane sarebbe divenuto un Lupo e avrebbero scritto insieme un intero capitolo della loro vita.



“Ehi, Fukuzawa!”
La giovane Spia venne strappata dai suoi pensieri dalla voce del suo compagno di missione.
“Che fai davanti allo sgabuzzino e perché ne è uscito quello scoraggio di circa un metro e settanta?” Domandò Fukuchi, affacciato dalla porta della cucina e intento ad aggiustarsi il cappello da cuoco che aveva sulla testa.
Fukuzawa Yukichi osservò l’amico con sguardo critico: non sapeva se era più ridicola la sua copertura o il modo in cui ne era tanto orgoglioso.
“Ti avevo detto di guardare le belle donne per rendere la serata più piacevole,” lo rimproverò Fukuchi. “Fallo per me. Chiuso qui dentro non vedo un bel niente.”
“Non devi vedere,” gli ricordò Fukuzawa. “Devi ascoltare.”
L’altro alzò gli occhi al cielo. “Sempre il solito noioso!” Si lamentò. “Spiegami perché non eri nello sgabuzzino con una bella donna ma con uno scarafaggio!”
Fukuzawa si voltò nella direzione in cui il ragazzo dai capelli corvini era sparito. “Non era una scarafaggio,” ribatté. “Era un principe della Port Mafia.”
Quando tornò a rivolgersi al compagno di missione, Fukuchi lo fissava con esasperazione. “Te lo avevo detto di non provare i liquori europei che servono in questo posto!” Esclamò. “Più del sakè tu non riesci a reggere!”



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-



Dazai aveva incrociato le braccia sul bancone del bar e vi aveva appoggiato la testa. L’aria nella sua sala gli pareva più respirabile e l’attacco di nausea stava lentamente passando, ma gli aveva lasciato addosso una spossatezza incredibile.
Inoltre, la discussione con Chuuya non aveva fatto altro che peggiorare il suo umore. Era la prassi, nulla di strano. Era Dazai a essere cambiato, a non sopportare più quei teatrini tra loro. Irritare Chuuya fino all’esasperazione aveva smesso di divertirlo come un tempo e nemmeno le conversazioni con Mori erano più così interessanti.
E il suo rapimento da parte del Marchese De Sade non c'entrava assolutamente niente con quella sua evoluzione. Sì, aveva spinto tutti loro a mostrare una parte che, altrimenti, sarebbe rimasta nascosta e Dazai non poteva dire che quella terribile esperienza gli fosse scivolata addosso, ma c’era altro. C’era qualcosa di bello.
Se Mori e Chuuya gli avevano dato qualcosa, non gli era bastato. No, non era colpa loro e, no, Dazai non li biasimava o riteneva che avessero fallito in qualcosa.
Semplicemente, era andata così.
A metà del suo diciassettesimo anno di vita, era arrivato alla drammatica conclusione che nella Port Mafia non c’era nulla di quello che cercava. Non se ne era sorpreso. Andava sempre così: nulla andava oltre le sue aspettative e, alla fine, Dazai restava sempre solo col proprio disincanto o il desiderio di svegliarsi dal sogno crudele della vita. Aveva cercato la morte in un lavoro evolutosi nel peggiore dei modi. Gli avevano sparato addosso, ma non lo avevano colpito come avrebbero dovuto.
E qualcuno lo aveva salvato.
“Vuoi bere qualcosa?”
Udire quella voce ebbe il potere di far saltare un battito al cuore di Dazai. Rimase immobile, nella posizione scomposta in cui era, a valutare se la mente gli stesse giocando un brutto scherzo a causa di stanchezza e nostalgia. La seconda opzione era troppo bella per essere vera.
Sollevò lo sguardo lentamente, come se avesse paura di svegliarsi da un sogno cercato a lungo, tra i mille incubi che infestavano il suo sonno, ma la realtà non lo colpì duramente come accadeva la maggior parte delle volte.
Odasaku accennò un sorriso, mentre finiva di asciugare il bicchiere che stringeva tra le mani e poi lo appoggiava sul bancone. “Non hai una bella cera,” commentò, chinandosi per recuperare qualcosa da sotto il bancone: una bottiglia di vetro. “Penso che un po’ d’acqua possa essere più che sufficiente per questa notte.”
Dazai continuava a fissarlo, l’unico occhio scoperto sgranato per la sorpresa. Era ammutolito, letteralmente. Non era facile prenderlo di sorpresa, non così.
Odasaku spinse il bicchiere pieno d’acqua verso di lui e il giovane Dirigente lo strinse tra le dita, ma non lo sollevò per bere un sorso.
Facendo appello a quel poco di ragione che la stanchezza gli aveva lasciato, Dazai dischiuse le labbra per dire qualcosa e gli sfuggì solo una risata nervosa. “Ma cosa…” Scosse la testa, ancora incredulo. “Che cosa ci fai qui?” Domandò. “Anzi, come puoi essere qui? Il Boss convoca solo pochi per questi stupidi eventi all’estero e-“
Dazai non riusciva a smettere di parlare e nemmeno di sorridere.
Odasaku lo lasciò fare per un po’, poi s’infilò in quel suo monologo senza senza senso, riportandolo alla realtà. Era una cosa che succedeva spesso tra loro due.
Quando il giovane Dirigente si perdeva nella propria testa, l’altro era sempre lì, pronto a riportarlo indietro, prima che cadesse in un vortice oscuro dei suoi.
“Una persona che ti vuole bene mi ha permesso di partire,” spiegò Odasaku. “Considerami un uomo della Black Lizard, fino a che non torniamo a casa.”
Dazai aprì e chiuse la bocca un paio di volte, poi si voltò a cercare qualcuno tra la folla di persone. Hirotsu, ovviamente, non era mai troppo distante da lui. L’occhio scuro del Dirigente lo trovò vicino alle finestre, che beveva da solo un calice di champagne. Intercettando il suo sguardo, il veterano sorrise e alzò il bicchiere nella sua direzione, come per dedicargli un brindisi.
Dazai mise insieme i pezzi e il suo respiro tornò ad avere un ritmo regolare.
Sorrise al leader della Black Lizard, ringraziandolo in silenzio, poi lasciò andare un’altra breve risata per scaricare i nervi e tornò a guardare Odasaku, determinato a godersi quella sorpresa del tutto insperata. “Oh, sei un cameriere sotto copertura,” commentò, divertito in un modo che rendeva il suo cuore più leggero. “Mi piace. Non voglio spingerti a fare nulla che non vuoi, ma le tue abilità sono sprecate per il lavoro che hai.” Dazai bevve un sorso d’acqua, anche se non aveva realmente sete. “In realtà, mi hai già dimostrato che non ti serve andare contro i tuoi principe per essere il miglior partner che si possa avere.”
“Abbiamo lavorato insieme, solo io e te, solo una volta Dazai,” gli ricordò Odasaku. “Se ricordi, non è stata una strada proprio in discesa.”
Era ironico. Certo che Dazai si ricordava dell’unico caso a cui avevano lavorato insieme, non perché fosse un ricordo prezioso - lo era, senza ombra di dubbio - ma perché era passata solo una settimana da quella loro prima esperienza sul campo come partner.
“Sì, il mio jet-lag lo rammenta molto bene,” disse Dazai, sarcastico, maledicendo mentalmente Mori per trascinarlo da un fuso orario all’altro del globo.
“Inoltre, tu hai già un partner e lo sai,” gli ricordò Odasaku.
Il messaggio era chiaro: se Dazai avesse avuto bisogno di lui, sarebbe corso in suo soccorso ovunque fosse. Lo aveva già dimostrato ampliamento. Tuttavia, i sentimenti che lì legavano non era una ragione sufficiente - e neanche giusta - per cambiare i loro ruoli all’interno della Port Mafia.
Sì, ne avevano già parlato e, sì, Dazai lo aveva accettato - sottolineando quanto non fosse d’accordo e facendo i capricci, come suo solito - ma ora voleva lasciare tutto ciò che riguardava il lavoro fuori dalla loro conversazione.
“Non va bene,” disse Dazai, mentre il suo sorriso si tingeva di sfumature amare.
“Che cosa vuoi dire?” Domandò Odasaku.
“Non ti vedo da pochi giorni e non basta il malumore, no, anche il mio corpo di ribella alla tua lontananza,” disse Dazai. “Mi sento uno schifo,” aggiunse, nascondendosi il viso tra le mani. Per sua fortuna, la nausea sembrava sparita del tutto. Non si sarebbe sorpreso di scoprire che Odasaku aveva anche delle proprietà curative di cui solo lui poteva godere.
“Hirotsu mi ha ordinato di essere a tua completa disposizione,” disse Odasaku.
Dazai tornò a guardarlo. “Oh, ora sono un dovere,” disse, quasi cinguettando. “Quindi dovrai soddisfare ogni mio capriccio, vero? La Black Lizard non è magnanima con gli uomini che disobbediscono agli ordini.”
Odasaku allungò la mano per afferrare quella del più giovane. “Vuoi che ce ne andiamo?”
“Sì, per favore.”



-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


Rintarou era tornato nella stanza d’albergo che divideva con Hans, accompagnato da un William Shakespeare decisamente irritato.
“Ce la fate a non improvvisare scena da amanti tragici, voi due?” Aveva borbottato, come se quello esperto di tragedie d’amore - forse più tragi-commedie - non fosse proprio lui.
Rintarou era rimasto in silenzio, lasciando che mandasse avanti il suo monologo lamentoso quanto voleva. Sì, al giovane Mori piaceva ascoltare il suono della propria voce mentre pianificava strategie di gioco, argomentava le sue tesi o raccontava storie interessanti, ma l’inglese lo batteva a mani basse. Qualcuno avrebbe dovuto regalare a William Shakespeare un palcoscenico. Anzi, no, un intero teatro. Sarebbe stato capace di mandare avanti un intero spettacolo completamente da solo.
Lungo la strada, erano passati davanti a una farmacia notturna e Rintarou aveva smesso di camminare. Shakespeare aveva alzato il tono della voce, ricordandogli che non aveva tempo da perdere con lui e quando si era reso conto che il diciassettenne non lo considerava di una virgola, il suo malumore era peggiorato.
“Aspetta qui,” aveva detto Rintarou, poi era entrato nella farmacia per comprare quello che doveva.
Mezz’ora dopo era lì, seduto sul tappetino del bagno a gambe incrociate, a fissare la scatola rosa e azzurra - che abbinamento spiacevole e scontato - tra le sue mani, come se fosse una bomba sul punto di esplodere. Aveva già letto le istruzioni tre volte, ma non ci voleva un genio per capire che doveva urinare su uno stick di plastica e aspettare che, in pochi minuti, quell’oggetto insulso gli confermasse se era condannato oppure no.
Inspirò profondamente dal naso e poi espirò dalla bocca.
In realtà, con quei metodi fai da te rischiava solo d’impanicarsi senza ragione e basta. Non poteva non considerare l’unicità del suo corpo e quello stick funzionava grazie a ormoni che andavano a fare pugni con quello che era il suo sesso biologico. D’apprendista medico, non poteva non considerare che nel suo sangue vi fossero dei valori sbilanciati a causa della metamorfosi a cui era andato incontro. Per tanto, alla fine della riflessione, un’analisi da laboratorio dei suo livelli di Beta-HCG era l’unica via davvero sicura.
Per tanto, doveva aspettare di tornare in Germania, a Weimar, per togliersi quel dubbio maledetto dalla testa.
Scosse la testa. “No, non ce la faccio.” Sarebbe impazzito molto prima. Se l’indomani tutto fosse andato a rotoli, non poteva gestire lucidamente l’inizio di una guerra con quel pensiero a spingerlo verso l’abisso del panico. E poi c’era Hans. Hans, che prima non gli parlava, poi ammetteva di detestarlo perché era un principe della mafia e ragionava come tale.
Era tanto d’affrontare. Era troppo.
Se Hans non era al suo fianco, combattere quella guerra non aveva alcun senso per Rintarou. E se Hans lo detestava, allora quel bambino…
La porta della camera che si apriva e richiudeva lo fece sobbalzare. Nascose la scatola del test di gravidanza dietro la colonna del lavandino e si alzò in piedi, poi si alzò in piedi. Quando si affacciò sulla stanza principale, la luce bianca del bagno gettò un raggio sulla camera buia. Hans era davanti a lui, in piedi in fondo al letto.
Sul viso portava i segni di un conflitto che dentro di lui era già scoppiato.
Hans era un guerriero. Rintarou lo sapeva perché conosceva il suo passato nei dettagli. Se non lo fosse stato, non sarebbe mai sopravvissuto a quello che gli era successo. Era proprio quello il punto: Hans conosceva la violenza, l’aveva usata ed era riuscito ad allontanarsene.
La guerra lo avrebbe costretto a un nuovo faccia a faccia con tutti i suoi demoni.
Rintarou uscì dal bagno e spese la luce. A quel punto, la camera era illuminata solo dai lampioni in strada. Vi era un locale sotto la loro finestra. Le voci dei clienti arrivavano fino a loro, spezzando il silenzio. C’era anche della musica: qualcuno suonava una chitarra e improvvisa una canzone.
“Ti ha accompagnato Victor?” Domandò Rintarou, avvicinandosi al tedesco.
Hans annuì, gli occhi azzurri fissi nei suoi. Rimasero così, fermi a fissarsi per quella che parve un’eternità.
“Pensavo te ne fossi andato,” mormorò Hans, come se la voce facesse fatica a uscire dalla sua gola. Doveva aver discusso a lungo con Hugo e Shakespeare e non con toni calmi.
Rintarou sbatté le palpebre un paio di volte. “Volevi che me ne andassi?”
“No!” Rispose Hans, cercando la sua mano.
Il giovane Mori non si sottrasse al suo tocco.
“No, avevo paura che lo facessi.”
Tornò il silenzio tra loro. Fuori dalle finestre, la chitarra continuava a suonare.
“Mi dispiace.” La voce di Hans era rotta, stanca. “Mi dispiace immensamente per quello che ho detto.”
Fosse stata un’altra circostanza, Rintarou gli avrebbe fatto pagare con gli interessi la ferita che gli aveva inferto. Quel segreto non ancora rivelato, nascosto dietro alla colonna del lavandino, lo aveva privato di tutta la determinazione che avrebbe usato per farsi valere. Era solo spaventato ed era un’emozione che non gli si addiceva per niente. Si sentiva soffocare.
“Puoi abbracciarmi?” Suonò tanto come una preghiera e Rintarou si odiò per questo, ma del suo orgoglio non sapeva che farsene in quel momento.
Hans lo accontentò di slancio, stringendolo al punto da spezzargli il respiro. Rintarou si aggrappò alle sue spalle e chiuse gli occhi, illudendosi che quell’appiglio era e sarebbe rimasto sicuro, anche se il mondo era destinato a bruciare.



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


Varcarono la porta della camera d’albergo tenendosi per mano.
Dazai aveva chiesto a Odasaku di non andare nell’hotel stellato che il Boss aveva scelto per sé e la cerchia dei suoi fedelissimi. Non voleva rischiare di essere visto, di dover dare spiegazioni. Dazai voleva chiudere il mondo intero fuori da quella porta e illudersi che lui e Odasaku fossero le uniche persone al mondo.
La camera era semi buia, illuminata solo dai lampioni sulla strada.
Dalle finestre aperte giungeva il suono di una chitarra e una voce maschile che cantava.
“Another turning point, a fork stuck in the road. Time grabs you by the wrist, directs you where to go. So make the best of this test, and don't ask why. It's not a question, but a lesson learned in time.”
Odasaku si fermò al centro del camera e tirò il più giovane verso di sé, stringendolo in un abbraccio. Dazai appoggiò la guancia contro la sua spalla e chiuse gli occhi. “Mi sorprende sempre come mi fai sentire quando mi abbracci.”
Odasaku posò un bacio tra i suoi capelli. “E come ti faccio sentire?”
Dazai si allontanò quanto basta per guardarlo negli occhi. “Al caldo.” Era una risposta banale, ma non si limitava a descrivere una condizione fisica. Ogni volta che Odasaku gli era vicino, ogni volta che lo toccava, Dazai sentiva dentro di sé qualcosa che non aveva mai sperimentato prima.
“Vivo…” Aggiunse in un mormorio. Non era la prima volta che lo diceva, era una conversazione che aveva già fatto in altri luoghi, con altre atmosfere. Ora, in quella camera d’albergo, Dazai non voleva che le parole occupassero il tempo in cui potevano essere solo loro due.
“Mi fai ballare?” Chiese il diciottenne. “Ho guardato altri farlo tutta la notte e ho continuato a pensare a quel nostro primo ballo, sul tetto della Port Mafia, la notte del mio compleanno.”
Odasaku non disse niente, si limitò a cingerli la vita con un il braccio.
Dazai sorrise, mentre il suo uomo conduceva quel lento a luci basse.
Mentre si muoveva nello spazio ristretto della piccola camera d’albergo, il loro sguardi non si lasciarono mai. La mancina di Odasaku raggiunse il viso del più giovane, infilandosi sotto il bendaggio che copriva l’occhio destro.
Un sorriso sincero, di quelli che concedeva solo al suo amante, comparve sulle labbra di Dazai, mentre le bende cadevano a terra senza far rumore.


“It's something unpredictable
But in the end, it's right
I hope you had the time of your life”



-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


Rintarou si accorse che stavano ballando solo dopo qualche istante.
Hans lo stringeva, con il viso premuto contro i suoi capelli neri, passando il peso del corpo da un piede all’altro. Il giovane Mori lo assecondò, lasciandosi cullare da quel lento sulle note della chitarra fuori dalle finestre.
“So take the photographs and still frames in your mind. Hang it on a shelf in good health and good time.”
Hans gli prese il viso tra le mani e lo guardò dritto negli occhi.
L’indomani l’intera Europa poteva essere condannata, come no. In poche ore, il mondo come lo conoscevano avrebbe cessato di esistere oppure nulla sarebbe cambiato. Non aveva importanza.
Rintarou non poteva sapere cosa ne sarebbe stato di loro. Hans aveva ragione: poteva mettere insieme tutte le strategie che voleva e fare le previsioni del caso, ma non aveva mai combattuto una guerra. Non c’era nulla che potesse garantire loro che ne sarebbero usciti vincitori e, soprattutto, vivi.
Ma in quel preciso momento, nel tempo di quello sguardo, Rintarou seppe con certezza che Johann Goethe lo amava e che il suo cuore ricambiava pienamente quel sentimento. Non fu quello a travolgerlo, non quanto la conclusione a cui arrivò subito dopo: anche se erano a due passi dall’inferno, anche se non lo aveva mai desiderato, se Rintarou portava davvero in grembo qualcosa che era loro, non avrebbe potuto fare altro che accettarlo.
Era troppo da gestire anche per lui.
“Tattoos of memories, and dead skin on trial. For what it's worth, it was worth all the while.”
Mentre nascondeva il viso contro la spalla di Hans, si aggrappò a lui come se da questo dipendesse la sua stessa vita. In parte, era vero.
Il tedesco non disse nulla e continuarono a ballare quel lento in silenzio, fino a che non si accorse che il compagno stava tremando.
“Rintarou,” lo chiamò preoccupato, ma l’altro si rifiutò di sollevare il viso e guardarlo negli occhi. “Rintarou, non ti senti bene?”
Il diciassettenne scosse la testa: il cuore gli faceva male al punto che pensava di morirne ma non era pronto a spiegarne le ragioni al suo uomo.
“Restiamo così ancora un po’,” lo implorò, ignorando le lacrime che gli rigavano le guance. “Solo un altro po’.”
Mori Rintarou non aveva mai pregato in vita sua, ma quella notte lo fece.
Ti prego, fa che non scoppi nessuna guerra.


“It's something unpredictable
But in the end, it's right
I hope you had the time of your life”




-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


Gli occhi di Dazai avevano uno strano potere su di lui.
Era stato così fin dal primo momento e Odasaku non aveva mai trovato una buona ragione per combattere il modo in cui lo ammaliavano. Quando erano da soli e Dazai lo guardava come se al mondo non esistesse altro all’infuori di loro, Odasaku non poteva fare a meno di perdersi nelle profondità di quelle iridi scure. Anche se nascondevano un’oscurità più grande di quella che aveva conosciuto da quando aveva memoria, non gli importava.
Non esisteva nulla al mondo che reggesse il confronto con gli occhi di Dazai Osamu, non per Oda Sakunosuke.
Realizzò di essersi incantato, ponendo fine al loro ballo, solo quando Dazai coprì la sua mano con la propria e fece aderire la guancia al palmo caldo. “Mi stai guardando, Odasaku?”
Come se ci fosse bisogno di chiederlo.
Odasaku infilò le dita tra gli ondulati capelli scuri e tirò il più giovane verso di sé, fino a far aderire la fronte alla sua.
Dazai chiuse gli occhi, circondandogli il collo con le braccia per tenerlo vicino.
Fuori dalle finestre, la chitarra suonava ancora.
Ripresero a ballare il loro lento, seguendo un ritmo tutto loro.
Fu impossibile stabilire chi dei due cercò per primo le labbra dell’altro. Si baciarono come se non avessero desiderato fare dal momento in cui si erano ritrovato l’uno davanti all’altro.
Divennero sordi alle note che spezzavano il silenzio della piccola camera da letto, ebbri di una passione che la lontananza aveva messo in pausa solo per pochi eterni giorni. Il tempo di aver paura di quel sentimento totalizzante era ormai finito. La fase dei dubbi e delle incertezze si era conclusa e non c’era più nulla tra loro che potesse ostacolare quel legame a cui non avevano dato un nome, ma era potente, immenso, tanto da far sentire vivi entrambi come mai prima.
Come le bende che avevano celato il viso di Dazai, anche i loro vestiti finirono a terra senza far rumore.
Il bacio s’interruppe per pochi respiri, il tempo necessario a Dazai per distendersi al centro del letto e a Odasaku per adagiarsi sopra di lui.
Le loro labbra s’incontrarono a metà strada.
Il mondo smise di esistere per entrambi, ma la chitarra continuò a suonare.



“It's something unpredictable
But in the end, it's right
I hope you had the time of your life”

(“Good Riddance”, Green Day)
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