[personal profile] odetjoy
CowT12. Week 5
M1: Interruzione


“Il rosso è il mio colore preferito nei giorni pari,” disse Elise, riempiendo il foglio bianco con il disegno semplificato di una rosa. “Il blu lo è nei giorni dispari,” aggiunse, dopo una decina di minuti. Lasciò il pastello rosso per raccogliere quello blu e aggiunse una violetta al suo mazzolino di fiori.
“I tuoi quali sono, Osamu?” Domandò, sollevando brevemente gli occhi azzurri sul viso del suo riluttante compagno di giochi.
Dazai era seduto sul pavimento accanto a lei, con le gambe incrociate. Non dimostrava alcun interesse per l’attività ludica della bambina ma Mori, che li osservava da dietro la sua scrivania sorseggiando un caffé americano, aveva notato da un po’ come quell’unico occhio scuro la studiava.
“Ho freddo,” disse Dazai, di colpo.
Mori fece per proporgli di alzarsi da terra per sedersi sul divano, ma non era a lui che si stava rivolgendo.
Elise sollevò gli occhi azzurri. “Hai freddo, Osamu?”
“Il pavimento è freddo,” chiarì il ragazzino, che indossava un paio di jeans scuri e una felpa nera - nemmeno Kouyou era riuscita nell’intento di gettare un po’ di colore su quella macchia d’inchiostro vivente.
“Tu non senti freddo, Elise?” Domandò Dazai.
Mori sospirò, prendendo un sorso del suo caffè. “Continua a giocare, Elise.”
La bambina tornò china sul suo foglio colorato, canticchiando un motivetto che assomigliava vagamente alla Für Elise di Beethoven. Dazai era diventato invisibile ai suoi occhi e il ragazzino non ne era affatto impressionato.
“Voleva solo giocare con te,” disse Mori.
“Non può sentire freddo, vero?” Intuì Dazai. “A meno che non sia tu a inviarle un tale stimolo.”
Mori si passò una mano tra i capelli in disordine: non aveva bisogno di presentarsi in ufficio quel giorno e aveva deciso di rimanere comodo. “Ti confesso che non credo che la parola stimolo sia corretta. Presupporrebbe un sistema nervoso centrale e lei non ce l’ha.”
Fuori dagli occhi della Port Mafia, Mori camminava per le strade di Yokohama con quella bambina al fianco. La spacciava per sua figlia, anche se non gli assomigliava affatto. La portava a comprare giochi, vestitini che a lei non piacevano - ma era il suo gioco e quelle erano le sue regole - si fermava con lei a prendere un tè caldo in un locale pieno di famiglie felici.
Kouyou la tollerava per rispetto a lui. Non era la presenza della bambina a renderla a disagio, ma il modo in cui lui vi interagiva. Non glielo avrebbe mai detto, ma Mori aveva il sospetto che Kouyou intravedesse quella maledizione di cui i vecchi della Port Mafia parlavano, quando lo vedeva con Elise.
Dazai era più pratico, più schietto. Per lui, la bambina dai lunghi capelli biondi non era reale e non andava trattata come un essere umano. Non aveva importanza quanto la riproduzione fosse perfetta.
Per questo, per la prima volta da quando le aveva dato una personalità, Mori usciva dal suo stesso gioco per parlare di Elise per quello che era. Dazai non avrebbe trovato di suo interesse nessun altro discorso.
“È tutto un gioco a far finta di…” Disse il ragazzino. “Non avendo un cervello in grado di elaborare stimoli, non sa cosa sia il freddo. Finge di sentirlo perché tu desideri che lo faccia.”
“Anche qui la questione è dubbia.” Mori bevve un altro sorso di caffé e si accorse di averlo quasi finito. Bene, ora gli avrebbe fatto tanto comodo del vino per reggere a quella conversazione. “Non possedendo una volontà, l’atto di fingere non è contemplato.”
Dazai imbronciò le labbra, studiando la figura minuta avvolta nel vestitino rosso. “È un Demone?” Domandò. “Come quello di Kouyou?”
Mori scosse la testa. “Come ho detto a lei: è solo un trucchetto.”
“Un trucchetto che richiede concentrazione e dispendio di energia, senza ombra di dubbio,” disse Dazai. “Ne vale la pena?”
Per rispondere a quella domanda, Mori avrebbe dovuto riaprire capitoli del suo passato particolarmente spiacevoli. “È un gioco.”
Pur avendo un unico occhio a disposizione, la pietà riflessa nell’iride scura di Dazai fu ben evidente. “Patetico…”
La pazienza di Mori cominciò a capitolare. “Se qualcuno cerca di avere una conversazione normale con te, non apri bocca. Perché lo stesso meccanismo non funziona, quando ti viene in mente qualcosa di spiacevole da dire?”
“Quando ti ha fatto più comodo, mi sembra di aver aperto bocca. È successo in almeno due occasioni,” replicò Dazai, alzandosi in piedi. “Ma che importa?”
“Dove vai?” Domandò Mori, quando il ragazzino raggiunse la porta. “Siediti sul divano,” non voleva essere un vero ordine, ma il tono in cui lo pronunciò fu lo stesso. “Parliamo un po’.”
Dazai non obiettò, ma mentre attraversava la stanza fu attento a passare esattamente dove si trovava Elise, calpestando il suo bel mazzolino di fiori disegnato. Mentre la bambina spariva nel nulla, Mori non sentì nulla. Non un dolore, neanche un brivido. Niente.
Eppure, se una lama invisibile lo avesse trapassato da parte a parte, non avrebbe sentito la gola chiudersi in quel modo.
Dazai si accomodò e lo guardò, in attesa.
“Come hai scoperto di avere questa abilità?” Domandò Mori.
Il ragazzino sbatté la palpebra un paio di volte. “Il Sensei non te lo ha raccontato?”
“Natsume non mi ha detto nulla di te,” chiarì il Boss, una volta per tutti. “Ti ha lasciato qui dicendomi che dovevi rimanere vivo.”
Dazai alzò l’unico occhio al cielo. “Ovviamente…”
Mori si sporse sulla scrivania. “E tu rimarrai vivo,” disse, fermo. “Ti sei fatto molto male l’ultima volta. Non ti è bastata come lezione?”
Dazai abbassò lo sguardo e scosse la testa. “Non puoi capire.”
“Sono qui.” Mori allargò le braccia. “Aiutami a farlo.”
“No,” la voce di Dazai era stanca e annoiata. “Non ho alcun interesse a farlo. Finiremmo per fare un lungo discorso sul valore della vita e, te lo dico in anticipo, non riuscirai a convincermi a darti ragione.”
Mori arrivò a un’illuminante conclusione: Dazai passava dall’essere interessante a completamente noioso, da geniale a insopportabile. Gli ricordava qualcuno, ma dirlo ad alta voce avrebbe significato spararsi un colpo in testa da solo.
Il Boss aprì il primo cassetto della sua scrivania - le guide erano quasi andate e serviva un po’ troppa forza per riuscirci - e ne tirò fuori un volumetto dalla copertina bianca e rossa. “Vorresti riaverlo?”
L’occhio di Dazai s’illuminò. “Credevo di averlo perso.”
“Lo avevi addosso,” disse Mori. “Volevo gettarlo,” aggiunse.
Senza chiedere il permesso, il quattordicenne attraversò la stanza con la mano tesa verso il libro. All’ultimo, il Boss lo allontanò per tenerlo fuori dalla sua portata. “Ti piacciono i libri?” Domandò.
L’espressione di Dazai divenne rancorosa. “Ridammelo.”
“Cento modi per suicidarsi.” Mori lesse il titolo. “Gran capolavoro,” aggiunse sarcastico. “Ti piacciono i libri?” Insistette.
“Sono una compagnia migliore delle persone,” rispose Dazai, alzandosi sulle punte dei piedi e sporgendosi sulla scrivania per afferrare il volumetto.
Mori se lo lasciò strappare di mano. “Vieni con me,” disse, alzandosi in piedi.




La stanza si trovava in fondo al corridoio del primo piano, lontano dalle sale usate per operare e visitare i pazienti. Era in un angolo in un cui la luce esterna non arrivava, quasi che dovesse rimanere nascosta. Dazai aveva vagato per l’intera clinica per giorni, ma doveva ammettere che quella porta si era confusa con la parete scura a ogni suo passaggio. Quando Mori l’aprì, i cardini emisero un rumore sinistro, più di un semplice cigolio: il ragazzino non si sarebbe sorpreso di vedere il pannello di legno cadere a terra. Miracolosamente, non accadde. L’interno era un tripudio di polvere e la lampadina che pendeva dal soffitto era più patetica di quella della cucina, ma Mori non si perse il modo in cui l’unico occhio di Dazai divenne grande nel vedere tutti quei libri. Sorrise soddisfatto. “Che cosa ne pensi?” Domandò.
Dazai lo guardò storto. “Che non hai alcun rispetto per l’arte scritta.”
Mori rise. Non poteva dargli del tutto torto. C’erano tre scaffali a mo di biblioteca a riempire il centro della stanza. Uno scossone di troppo e sarebbero venuti giù come se fossero fatti di cartapesta. Altri volumi erano impilati contro la parete, in torri di diverse altezze. “In quante lingue sai leggere, oltre il giapponese?”
“So leggere russo,” rispose Dazai distrattamente, facendo un paio di passi all’interno della stanza.
Mori divenne serio di colpo. “Il russo?”
“Sì,” confermò il quattordicenne, passando la punta delle dita sul dorso di alcuni volumi.
“Non è una lingua così comune.”
“In Russia è comune.”
“Sì, intendevo che-“
“Cos’è quello?” Dazai indicò una scatola in metallo rosso sulla cima dello scaffale di mezzo.
La luce non vi arrivava così bene e Mori si chiese come fosse riuscito a notarla con un occhio solo. “Niente d’importante,” rispose, sbrigativo.
Dazai lo guardò. “È un qualcosa che nascondi, deve essere importante.”
Mori stirò le labbra in un sorriso forzato. “Conosci il tedesco?”
“No.”
“Allora non ti deve interessare. Che altre lingue conosci?”
Dazai scrollò le spalle. “Inglese, credo. Niente di speciale: tutti sanno leggere l’inglese.”
Mori fece una smorfia, appoggiando la schiena all’architrave della porta. “Fosse così facile abbattere le barriere linguistiche…”
Dazai prese a vagare per la stanza. “In Germania, che lingua parlavi?”
“La persona con cui sono partito, parlava giapponese,” raccontò Mori. “Mi ha insegnato le basi qui, a Yokohama. Ho imparato davvero solo in Europa.”
“Conosci anche il francese?” Domandò Dazai, chinandosi per leggere i titoli di alcuni libri posti alla base di una torre di volumi più alta delle altre. “Qui ci sono titoli francesi.”
“Ho viaggiato in Francia, ma non vi ho mai vissuto davvero,” rispose Mori. “Quindi non posso dire di aver davvero fatto mia quella lingua.” Lanciò un’occhiata al ragazzino, che ora girava intorno agli scaffali in una specie di girotondo labirintico. “Vorresti imparare?”
Dazai si fermò per guardarlo. “Che cosa?”
“Il tedesco e il francese,” chiarì Mori. Con un cenno del capo, indicò la cassetta rossa in metallo. “Se diventi abbastanza bravo, ti faccio leggere il libro che è chiuso lì dentro.”
A dispetto dalla noia perenne con cui guardava il mondo, Mori aveva notato in Dazai una certa propensione alla curiosità. La sua rassegnazione nei confronti della vita si alternava a improvvise ricerche di stimoli nuovi. Per questo era sempre stato attento nei momenti di maggior tensione della sua ascesa come Boss. L’adrenalina, il pericolo, muovere un passo dopo l’altro con il rischio di una morte violenta che camminava al loro fianco. Dazai era un suicida, sì, ma con riserva.
Forse la sua giovane età lo obbligava a darsi un’ulteriore possibilità, come una sorta d’istinto di sopravvivenza innato. Se Mori avesse tenuto Dazai occupato in un gioco che lo interessava, lo avrebbe tenuto lontano dai tentativi di suicidio.
“Quanto ci vuole a imparare una lingua?” Domandò Dazai.
L’angolo destro della bocca di Mori si sollevò: era riuscito a stuzzicarlo. “Tutto dipende da te,” rispose.




E così cominciò il loro gioco.
Improvvisamente, Mori e Dazai parlavano.
Non lo facevano direttamente, ma attraverso i libri, le lingue, le storie che il nuovo Boss della Port Mafia aveva da raccontare sull’Europa.
Il vero colpo di scena era che Dazai ascoltava. Impiegò un tempo veramente misero a imparare a leggere tedesco e francese.
“Correggi la pronuncia,” diceva Mori, mentre cercava di cucinare una cena che fosse commestibile per tutti e due.
Puntualmente, Dazai sbuffava. “È inutile che continui a fissarti con questa pronuncia. Non è che qui ci sia qualcuno con cui parlare francese o tedesco. Nel momento in cui riesco a leggere entrambe le lingue, perché perdere tempo?”
Mori avrebbe voluto prenderlo a schiaffi: quello era il tipo di logica che avrebbe usato lui stesso per obiettare e rendersi il lavoro più semplice.
“Correggi la pronuncia,” ripeté, come un professore intransigente. Te e gli occhi fissi su una ricetta che Google aveva classificato come semplice, ma a lui sembrava scritta in una lingua morta.
“Se io correggo la pronuncia, tu impari a cucinare,” disse Dazai.
Mori fissò la macchinetta del caffè - rotta da un pezzo - chiedendosi quanto gli sarebbe costato staccarla dalla corrente e lanciargliela addosso. “Non sono ammessi ricatti.” Per il Boss la discussione era finita lì. Ci mancava solo che un ragazzino di quattordici anni riuscisse ad abbassarlo al suo livello.
“Non è un ricatto.” Dazai non parlava, lagnava e questo lo rendeva insopportabile d’ascoltare il più delle volte. “Vuoi che rimanga vivo, ma di questo passo ci ammazzerai tutti e due.”
Mori pensò che i coltelli nel ceppo accanto alla macchinetta del caffè fossero di gran lunga più adatti alla situazione, ma contò fino a dieci e si costrinse a voltare lo sguardo. “Riprendi da dove ti sei interrotto,” disse, con un sorriso sinistro.
Dazai alzò gli occhi al cielo e tornò a leggere. “I nostri cuori saranno due gran fiaccole,” lesse in francese. “Nello sprazzo a gara degli ultimi ardori: come rifletteranno i loro doppi splendori, negli specchi gemelli delle nostre anime!” Fece una pausa. “Ero convinto stessero morendo.”
“Stanno morendo,” confermò Mori, aprendo l’applicazione per ordinare la cena d’asporto senza farsi vedere.
Nello sprazzo a gara degli ultimi ardori, sembra un’altra cosa,” obiettò Dazai.
"Perché la morte non è descritta come una vera fine,” spiegò Mori, completando l’ordine e abbandonando il cellulare sul ripiano. “Certo, ci saranno pianti, ci sarà disperazione. Tuttavia, c’è una luce dopo il trapasso, una speranza… Se arrivi alla fine, parlerà di un Angelo che infonde nuova luce nelle anime dei due amanti.”
Dazai finì di leggere velocemente, poi derise la poesia e chiunque l’avesse scritta. “Che assurdità…”
Mori scrollò le spalle. “Punti di vista.”
“La morte è morte,” disse Dazai, tetro. “Dopo di essa vi è solo il nulla per chi se ne va. Per chi resta c’è il grande spettacolo della decomposizione, putrefazione, dei vermi che divorano la carne-“
Mein Gott!” Esclamò Mori, in tedesco perché fosse più incisivo. La sua esperienza in Europa gli aveva insegnato che non esisteva altra lingua al mondo che avesse un simile potere. In Germania anche la parola più dolce e poetica riusciva a trasformarsi in un suono minaccioso. Il fatto che metà della sua carriera militare fosse avvenuta sotto bandiera tedesca non lo aiutava.
“Che c’è?” Dazai era di malumore. Tutto ciò che sfiorava lo speranzoso aveva un brutto effetto su di lui. “Sei un medico, hai combattuto nella Grande Guerra. Le parole decomposizione e putrefazione non dovrebbero darti tanto fastidio.”
Mori annullò la distanza tra di loro e appoggiò la schiena al tavolo. “Hai mai visto un cadavere decomporsi?” Domandò, serio.
Dazai scosse la testa.
“E la carne putrefarsi?”
Un altro no silenzioso.
“Forse dovrei fartelo vedere. Ti passerebbe la voglia di divenire un cadavere.”
Dazai chiuse il libro di botto e lo gettò sul tavolo. “Vado in bagno,” disse, alzandosi.
Dal modo in cui sbatté la porta, Mori capì che lo aveva fatto arrabbiare. Non che fosse qualcosa per cui allarmarsi: aveva quattordici anni, avercela con tutto e tutti era praticamente fisiologico.
“Ti preferisco così, rispetto a quando fissi il vuoto con sguardo spento,” disse alla stanza vuota.
Mezz’ora dopo, quando suonarono alla porta per consegnare la cena, Dazai colse l’occasione per dargli più o meno esplicitamente dell’incapace per essere arrivato alla veneranda età - gli stava dando del vecchio? - di trentadue anni senza essere un adulto funzionale.
Mori rimpianse i giorni in cui era solito starsene zitto.




Da quando Dazai era entrato nella sua vita, Mori aveva fatto del divano di seconda mano nel suo studio il suo nuovo letto. Ogni sera, si coricava, fissava il soffitto bianco - l’umidità era tornata a ingiallirlo in alcuni punti, serviva un’imbiancata - e si pentiva di una simile scelta. Aveva trentadue anni e - a dispetto di quello che il moccioso continuava a ripetergli - era giovane, ma erano passati i tempi in cui dormire per mesi su una branda da campo non disturbava le sue attività quotidiane. Ora, Mori sentiva la schiena dargli noia per tutta la notte, per non parlare del collo. Questo gli impediva di riposare in modo adeguato - anche se non aveva più avuto sonni tranquilli dai suoi diciotto anni - e la vita frenetica che lo attendeva al mattino non si sposava bene con questa scarsa igiene del sonno.
“Adesso vado di sopra e lo butto giù dal letto,” meditò ad alta voce, con rancore.
Seduta sul bracciolo dietro la sua testa, Elise sbuffò. “Non riesci nemmeno a convivere con le conseguenze di una tua decisione, Rintarou.”
Già, era uno dei suoi peggiori difetti.
“Hai fatto dormire Kouyou in un letto con le lenzuola di carta per settimane e non si è mai lamentata,” aggiunse la bambina.
Mori reclinò la testa per guardarla. “Le avevo tolte le lenzuola di carta.”
“Sì, ma vogliamo parlare della qualità di quei materassi? Se i tuoi pazienti non muoiono sotto i ferri, quelli gli danno il colpo di grazia.”
Mori aggrottò la fronte: era la sua coscienza a muovere Elise e capitava che quella bambina riflettesse cose di cui lui stesso non era consapevole. Come il giorno in cui, su domanda di Fukuzawa, la bambina lo aveva descritto come l’ultimo dei maniaci.
L’inconscio era un’area infida, oscura, su cui nessun uomo poteva vantare un pieno controllo. Mori non era un dio - anche se molti lo definivano Demone e maledetto - e non poteva evitare che, alle volte, quell’area remota della sua mente straripasse, arrivando a toccare le corde che muovevano Elise.
Da quando era diventato Boss della Port Mafia - o forse da quando Dazai era entrato nella sua vita - la sua coscienza aveva fatto spesso simili scivoloni. Di conseguenza, Elise assomigliava a Yosano più di quanto a lui facesse piacere.
“Ti piace Dazai, Elise?” Domandò, guardando sotto sopra la bambina appollaiata sul bracciolo.
“Ti tiene testa,” disse lei, arricciando una ciocca di capelli dorati intorno all’indice. “Non può non piacermi.”
Mori tornò a rilassarsi contro il cuscino - il collo lo stava uccidendo. “Tu a lui non piaci.”
“Non è vero!” Esclamò Elise, offesa. “Non sono io che non gli piaccio. Sei tu che gli stai antipatico.”
Mori rifletté su quell’asserzione: era un dubbio che aveva, ma non ne era del tutto convinto. Kouyou aveva avuto più successo di lui, lo aveva capito dal modo casuale in cui Dazai si lasciava toccare da lei.
“Kouyou è una donna,” disse Elise.
Mori si sollevò sul gomito per poterla guardare senza rimetterci il collo. “E questo cosa cambia?”
Elise gli rivolse un’occhiata eloquente - maledizione, era troppo simile a Yosano. “Gli hai tagliato i vestiti, hai visto cosa nasconde sotto le fasciature. Lo hai violato.”
Ah, era quello il vero problema? Non che lo aveva trascinato in un complotto di dimensioni epocali - con tanto di omicidio - per prendere tra le mani le redini della Port Mafia?
“Gli ho salvato la vita,” ribatté Mori. “Sono un medico, è quello che faccio.”
Elise sbuffò. “Una vita che lui non voleva più,” ribatté. “E, no, salvare vite non è quello che fai.”




Dazai non dormiva.
La maggior parte delle ore che se ne stava disteso a letto le impiegava a guardare la città fuori dalla finestra - ancora priva di tende - della camera che Mori gli aveva dato. Difficilmente riusciva a vedere le stelle. I cinque grattacieli della Port Mafia, invece, erano sempre lì, a portata d’occhio. Spesso si chiedeva come un’organizzazione mafiosa di quelle dimensioni potesse continuare a fare i suoi comodi pur essendo sotto gli occhi di tutti. Avrebbe dovuto chiederlo a Mori. O forse no.
Parlare o non parlare con il nuovo Boss della Port Mafia era un qualcosa su cui s’interrogava spesso. Gli stava insegnando le lingue e le lezioni erano divenute il loro mezzo di comunicazione, ma Dazai imparava in fretta e non sarebbe durato ancora a lungo.
La sua incapacità nel prevedere le mosse dell’uomo lo turbava. Quando indossava gli abiti del Boss, con tanto di completi su misura, capelli perfettamente pettinati e viso sbarbato, e si sedeva dietro la scrivania che dominava su tutta Yokohama, Dazai non poteva fare a meno di guardarlo. Era un re dell’era moderna, che non aveva nemmeno bisogno di sfoggiare una corona. Era un genio nel modo in cui muoveva le persone, prevedendo a lunga scadenza le loro azioni e reazioni. La Port Mafia era un’enorme scacchiera e Mori era un ottimo giocatore.
Aveva fatto sua una partita cominciata da altri e mandata avanti in modo disastroso, eppure non stava perdendo. C’erano mille e più modi in cui Mori sarebbe potuto capitolare, ma Dazai era certo che non lo avrebbe fatto.
Osservarlo, studiare le sue mosse e vedere come queste si ripercuotevano sulla realtà era uno spettacolo da cui Dazai non riusciva ad allontanare lo sguardo. Inoltre, c’era quel qualcosa, quel prurito che il ragazzino non riusciva a grattare via: la voglia di far parte della partita, di giocare al fianco di Mori, senza limitarsi a essere un osservatore.
Sì, quello era un uomo con cui Dazai avrebbe voluto parlare e che forse sarebbe anche riuscito ad ascoltare per ore, senza annoiarsi.
Ma quando il re lasciava il suo trono, scendeva dalla torre e rimanevano solo loro due, Mori diveniva un idiota si trentadue anni, con due pantofole a forma di coniglietto ai piedi e la totale assenza di capacità che lo avrebbero reso un adulto funzionale - compresa quella di prepararsi la cena. Quando accadeva, Dazai ne era sia confuso che deluso e tutto il fascino che quell’uomo esercitava su di lui spariva in una nuvola di fumo, insieme alla sua voglia d’interagirci e saperne di più.
Perché il Sensei lo aveva lasciato con un individuo simile? Tutte le sue scelte presupponevano un determinato scopo ma, per una volta, Dazai non riusciva proprio a vederne il senso. Mori lo aveva reso la sua piccola e silenziosa ombra nella sua scalata verso il potere, e con questo? Sì, le ombre della Port Mafia affascinavano Dazai come mai gli era capitato, ma questo non significava niente. Dava alla vita lo stesso valore che lo aveva condotto mezzo morto tra le mani di Mori.
Se il Sensei credeva che il nuovo Boss della Port Mafia potesse fare qualcosa per il suo disinteresse verso la vita, aveva fatto un grosso buco nell’acqua.
Il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dalla porta della camera che si apriva.
Sotto le coperte, Dazai si fece rigido.
Riconobbe l’intruso dal ritmo dei suoi passi. Si fermò vicino al suo letto e lì rimase per un po’. Quando Mori si sedette sul bordo del materasso, accanto a lui, Dazai lasciò andare un sospiro simile a un gemito. Aveva trattenuto il fiato per tutto il tempo.
“Sei sveglio.” Quella di Mori non era una domanda.
Lentamente, Dazai si distese sulla schiena. “Non dormo molto.”
Elise non c’era, l’uomo era da solo. Da quando il quattordicenne si era rifiutato d’interagire con lei, capitava sempre più spesso.
“Ecco spiegato perché le tue occhiaie continuano a peggiorare,” disse Mori.
“Non può essere così evidente, non puoi nemmeno a guardarmi negli occhi come si deve.”
Per tutta risposta, Mori sollevò la mano e la portò al viso del ragazzino. Quando lo vide irrigidirsi fino allo spasmo, rimase con la mano sospesa a mezz’aria. “Non ti faccio niente,” lo rassicurò, poi infilò le dita sotto le bende che gli ricoprivano l’occhio destro. Non era la procedura corretta: Mori avrebbe dovuto indossare dei guanti sterili e il tutto sarebbe dovuto avvenire sotto una luce decente. Dazai però non fece storie, si limitò a stringere le palpebre quando la pupilla nascosta fu esposta alla luce della luna.
Mori allungò l’altro braccio per accendere l’abat-jour sul comodino e il ragazzino voltò il viso nella direzione opposta. I punti che gli aveva applicato sopra il sopracciglio si era riassorbiti alla perfezione: restava un graffio rosso in rilievo, ma tempo qualche settimana e a stento si sarebbe vista la cicatrice. Sollevò la frangia di capelli scuri per valutare la ferita alla testa e la situazione era la stessa. Sorrise soddisfatto, tirando via le bende in eccesso. “Bene,” disse, più a se stesso che al giovane. “La prossima settimana, ti faccio una radiografia al braccio e proviamo a toglierti il gesso.”
Dazai non disse nulla a proposito.
Era la prima volta che Mori lo vedeva davvero in viso. Quando Natsume glielo aveva portato, non era stato attento ai dettagli: troppo sangue in troppi posti. Lo fece allora.
Mori e Dazai si guardarono come se fosse la prima volta.
Alla fine, il Boss della Port Mafia abbozzò un sorriso. “Colpo di scena: hai proprio un bel faccino.”
Nonostante il complimento, Dazai s’imbronciò come se fosse stato insultato. “Dovevi vedere la tua faccia, prima della metamorfosi in Boss della Port Mafia.”
“Sono pigro,” si giustificò Mori, con aria drammatica. “Non do il meglio di me, se non è necessario. Non serve essere in tiro per operare un moribondo.”
“Non servono nemmeno le pantofole da coniglietto,” ribatté Dazai.
“Quando ti ho salvato, non avevo le pantofole da coniglietto.”
“Non mi hai salvato, mi hai rovinato i piani.”
Mori prese un respiro profondo. “Dazai, ascolta, mi dispiace averti fatto sentire vulnerabile tagliandoti i vestiti, ma non ti chiederò scusa per averti salvato la vita.”
Dazai si mise seduto contro la testiera del letto. “Io sono Dazai Osamu,” disse. “Ma non voglio cambiare il mio corpo, non mi serve.”
Mori annuì. “Lo avevo capito.”
“Ma non mi piace essere esposto.”
“Comprensibile, ma voglio che tu capisca che nessuno in quella sala operatoria voleva umiliarti.”
“Posso capirlo, ma non lo sento,” disse il ragazzino, stringendosi le ginocchia al petto. “Per me quelle cure non erano necessarie. Quindi, sì, mi sento umiliato.”
Dazai non si stava solo aprendo, ma quella era una sfida aperta all’adulto che gli era davanti. Prova ad avere ragione, dicevano quegli occhi scuri. Voglio vedere come fai.
Mori però aveva qualche anno di esperienza in più da giocare e, a differenza di Dazai, sapeva come esporsi senza rendersi vulnerabile. “La prima volta che ho usato Vita Sexualis, ero poco più giovane di te: avevo quasi tredici anni.”
Dazai sbatté le palpebre un paio di volte. “La prima volta che hai materializzato Elise?”
Mori scosse la testa. “Lei è arrivata con l’esperienza. Vita Sexualis è sempre stata con me, la sentivo nella mia testa fin da bambino. Una sorta di voce interiore, non so se mi spiego.”
“Gli psichiatri la chiamano schizofrenia.”
Mori rise. “Non è la prima volta che lo sento dire. I miei genitori erano seriamente preoccupati che qualcosa non andasse nella mia mente.” S’indicò la tempia con l’indice. “Ti ho raccontato che mia madre era la Signora della Casa dei Fiori?”
Dazai scosse la testa.
“Era molto bella, quasi regale. Mio padre era il capo famiglia, ma è da lei che ho imparato a essere uno stratega, a saper leggere le persone e prevedere i meccanismi della loro mente. Qualche volta, Kouyou me la ricorda.”
“Kouyou è più umana di te,” commentò Dazai. “Di noi,” aggiunse.
“Forse ma lascia che finisca la mia storia.” Mori portò lo sguardo altrove, rivedendo la scena come se si stesse verificando in quel momento. “Imparerai che molti membri della Port Mafia sono bambini raccolti dalla strada. Nella Casa dei Fiori, di solito, vengono educate le bambine.”
“A prostituirsi.”
“Non necessariamente. Quando avevo la tua età, la Port Mafia era diversa: alle persone veniva data una possibilità di scelta.”
Dazai inarcò il sopracciglio destro, quello ferito. “È il genere di Port Mafia che vuoi ricreare tu?”
“Dazai, lascia che finisca di raccontare,” disse Mori, fermo, tornando a guardarlo negli occhi.
Il ragazzino tenne la bocca chiusa, in attesa.
“Io ero in un’età in cui cominciavo a essere curioso,” proseguì Mori. “Sai cosa intendo, no?”
“No,” rispose Dazai, secco.
“Va bene, io ero curioso e, per farla breve, un giorno mi sono ritrovato a spiare le donne di mia madre che preparavano un gruppo di ragazze adolescenti.”
Dazai storse la bocca in una smorfia. “Maniaco…”
Bene, non bastava che Elise parlasse come Yosano, ci si metteva anche Dazai a far parte del coro.
“Se le avessi desiderate in qualche modo, sarei stato un maniaco,” convenne Mori. “Ma io non le ho desiderate. Non ho provato niente di quello che ci si aspetta da un ragazzo di tredici anni, capisci?”
“No,” un’altra risposta secca da parte di Dazai. “A tredici anni hai capito che ti piacevano gli uomini e pensi che la storia dell’evento ti aiuterà a empatizzare con me?”
Mori era a tanto così da strapparsi i capelli. “Non è quello il punto.”
“E qual è?”
“Le ho invidiate,” disse Mori. Se ci avesse girato ancora intorno, Dazai avrebbe trovato il modo di sviare di nuovo il discorso. “Le ho guardate, ho pensato che fossero perfette e le ho invidiate.”
Dazai smise di essere impertinente per fissarlo da capo a piedi. “Temo di non capire,” ammise.
Mori piegò le labbra in un sorriso malinconico. “Mentirei, se ti dicessi che posso spiegarlo a parole. Col senno di poi, alla veneranda età di trentadue anni, penso che a quell’età mi sentissi tanto in difetto, che ho attribuito l’etichetta di perfezione alla prima cosa in cui ho riconosciuto bellezza.”
“E la tua abilità che cosa ha a che fare con tutto questo?”
“Vita Sexualis mi ha dato quello che invidiavo,” concluse Mori. “Non del tutto, forse perché ero molto giovane… Ha cambiato il mio corpo solo a metà. Fu un bene, altrimenti i miei genitori non avrebbero mai saputo come nascondere l’accaduto, se non nascondendo me.”
Dazai sollevò la mano. “Rallenta,” disse. “Vita Sexualis può cambiare la natura del tuo corpo?”
Mori scrollò le spalle. “Tra le altre cose.”
“Quali altre cose, a parte Elise?”
Mori fece di no con la testa. “Non stiamo parlando della mia abilità, solo del fatto che cambiò il mio corpo in un’età particolarmente delicata. Un corpo che, come puoi immaginare, non riconoscevo come mio.”
Dazai scosse la testa. “Io riconosco il mio corpo come mio,” ribatté. “E non ho mai invidiato quello dei ragazzi, solo non sono una ragazza,” ci pensò un attimo. “Perché non hai annullato l’effetto?”
Mori scrollò le spalle. “Non ci riuscivo. Ho riavuto il mio corpo a diciotto anni.”
Dazai lo fissò. “E come hai fatto a conviverci per anni?” Domandò, incredulo. “Io non lo sopporterei neanche un minuto.”
“Per un po’... Per un bel po’, a dire il vero, ho finto che il problema non esistesse. Non funzionò molto bene, ma mi permise di arrivare a quindici anni.”
“E cosa ti è successo a quindici anni?”
Mori aprì la bocca, poi la richiuse: nella foga del discorso era arrivato a una parte della storia che non voleva condividere e che a Dazai non serviva sapere. Tutta colpa di quel ragazzino, che continuava a interromperlo e lo deconcentrava.
“Quando ho compiuto quindici anni, sono successe tante cose!” Esclamò, teatrale. “Fine della storia!”
Non contento, Dazai prese a riflettere. “A quindici anni sei fuggito in Germania.”
“Fuggito è una parola grossa. Tutti sapevano dov’ero.”
“E lo hai fatto con una persona che ti ha insegnato le basi del tedesco qui, a Yokohama.”
“Dovresti smetterla di ascoltarmi solo quando ti fa comodo e memorizzare solo quello che ti pare!” Esclamò il Boss della Port Mafia, frustrato.
Gli occhi scuri di Dazai si accesero, come se un’intuizione lo avesse raggiunto di colpo. “È il segreto che nascondi in quella cassetta rossa nella biblioteca?”
A quel punto, Mori Ougai dichiarò la resa e optò per la ritirata. “Mettiti a dormire,” ordinò, come un generale a un soldato disubbidiente. “Domani ti sveglio presto e continuiamo con le le lezioni.” Uscì dalla camera a passo di marcia.
Quando arrivò a metà corridoio, la voce di Dazai lo raggiunse: “comunque spiare la gente è da maniaci, indifferentemente dal motivo!”
Mori si fermò, inspirò profondamente dal naso e decise che neanche quella notte lo avrebbe preso a schiaffi.




A cinque mesi dalla morte del Boss Folle, Dazai sapeva leggere alla perfezione sia il francese che il tedesco. Nel processo, il ragazzino aveva smontato - verso per verso, paragrafo per paragrafo - diversi poeti e scrittori che avevano avuto l’ardire di puntare alla speranza come concetto cardine delle loro opere.
Che Dazai non fosse un ottimista era ormai chiaro anche ai muri.
Mori si era sempre considerato un realista, ma quel quattordicenne portava il pessimismo a tutto un altro livello. Era certo che se avesse accompagnato Dazai in un campo di fiori, questi si sarebbero appassiti tutti al suo passaggio. Nel suo passato, aveva conosciuto un dotato di abilità con un potere simile, il quale non aveva potuto vantare la più allegra delle vite. Eppure, Mori era pronto a giurarlo su Elise stessa, la sua personale tragedia non lo aveva mai portato a toccare i toni scuri di Dazai.
Ovviamente, il ragazzino impiegò tempo zero a rendersi conto delle sue capacità. Decise in completa autonomia che non aveva più bisogno di alcuna lezione da parte del nuovo Boss della Port Mafia.
“Voglio la cassetta rossa.” Dazai esordì con quelle parole una mattina. Non lasciò a Mori nemmeno il tempo di sedersi accanto a lui, le mani occupate dalla loro colazione ancora impacchettata - l’incombenza di nutrirli regolarmente era ricaduta sul povero, fedele Hirotsu, che portava loro le migliori leccornie dai locali più famosi della città.
A quella richiesta - forse più un ordine - Mori rispose con “no,” secco.
Dazai non parve particolarmente sorpreso. “I patti erano chiari.”
“Non scendo a patti con un bambino capriccioso,” ribatté Mori, spingendogli la colazione sotto al naso. “Mangia.”
Il quattordicenne non si mosse. “Potrei prenderla senza che te ne accorga.”
Un sorriso divertito comparve sulle labbra del Boss. “Mi minacci, moccioso?”
“Tu hai mentito.”
“Non troveresti nulla d’interessante in quella cassetta.”
“Allora perché nascondermela?”
“Sei tanto intelligente. Arrivaci da solo.”
“È qualcosa di personale.” Dazai non dovette nemmeno rifletterci. “Qualcosa che ti è caro, ma è quel genere di ricordo bello che fa male.”
Mori si finse impressionato. “Già, ero poco più grande di te quando è scoppiata la guerra in Europa. Intuire che io abbia vissuto qualcosa di tragico in Germania è da veri detective.”
Dazai sbuffò. “Sono lettere di un amante morto?”
“Forse.”
“Oh, è un sì.”
“No, è un forse.”
“Che vuol dire sì.”
Mori sollevò la tazza di cartone su cui era scritto il suo nome in modo che fosse ben visibile anche al ragazzino. “Ora, io berrò questo caffè in santa pace,” disse, gelido. “Questo significa che tu non dovrai aprire bocca per tutto il tempo.”
Dazai alzò gli occhi al cielo. “Perché sennò cosa mi farai?” Domandò, mentre un sorrisetto derisorio compariva sulle sue labbra. “Voglio morire, ricordi? Anche se minacciassi di sgozzarmi non-“
Dazai non vide Mori estrarre la pistola, né ebbe il tempo di reagire quando si ritrovò la canna lucida a meno di mezzo metro dalla testa. L’unica cosa che il suo cervello registrò fu lo scoppio. La pallottola colpì il muro, ma Dazai ebbe l’impressione di avvertire lo spostamento d’aria provocato dal suo passaggio all’altezza dell’orecchio. Era incolume, non aveva neanche un graffio, ma non riusciva a respirare.
Nel silenzio totale che seguì, Mori rimase con la pistola puntata - la teneva con la mano sinistra - mentre sorseggiava il suo caffè nel modo più rumoroso possibile. Quando ebbe finito, lasciò la tazza di cartone sul tavolo e scoppiò a ridere.
“Tu vuoi morire?” Domandò, tra una risata e l’altra. “Guardati, sei terrorizzato.”
Dazai avrebbe voluto replicare ma non ci riuscì. Non appena dischiuse le labbra, si accorse che tremava da capo a piedi.
“Tranquillo.” Mori allungò la mano per spettinargli i capelli, poi ripose la pistola. “Non c’è nulla di male nell’aver paura della morte.”
Lo sguardo di Dazai si tramutò d’atterrito a rancoroso nel giro di un istante. Mori ne ebbe la certezza: se quegli occhi scuri avessero potuto ucciderlo, lo avrebbero fatto senza esitare.
“È tardi.” Il nuovo Boss della Port Mafia si alzò in piedi. “Andiamo in ufficio, prima che-“
Dazai lo superò con ampie falcate e corse al piano di sopra. La sua fuga si concluse con una porta che veniva sbattuta.
Mori strinse le labbra e allargò le braccia. “Vorrà dire che andrò in ufficio da solo.” Non poteva negare che una pausa da Dazai gli serviva.
Prima di andarsene, si attardò nella stanza dei libri per recuperare il contenuto della cassetta rossa: un taccuino rilegato in pelle nera e alcuni documenti che risalivano alla guerra. Mise il primo nella tasca interna sinistra e i secondi in quella destra.
“Mangia la tua colazione, non fare il bambino capriccioso!” Disse ad alta voce, una volta arrivato nell’ingresso.
Dal piano di sopra, nessuno gli rispose.
“Adolescenti…” Borbottò Mori, richiudendosi il portone della clinica alle spalle.




Mori fu di cattivo umore per tutto la mattina.
L’unico a cui fu concesso l’accesso al suo ufficio fu Hirotsu: al nuovo Boss serviva sapere come andavano le cose ai piani inferiori, se il Colonello gli dava una buona impressione e se Kouyou si era sistemata a dovere nella nuova Casa dei Fiori.
“La signorina sarebbe un’ottima Dirigente, se mi posso permettere,” disse il veterano, una volta concluso il rapporto.
“Oh, non dirlo a me!” Esclamò Mori. “Glielo ripeto da quando ho fatto mia questa poltrona e continua a ridermi in faccia.” Non aveva guardato il leader della Black Lizard in viso per più di due secondi. Il suo cellulare lo fissava minaccioso dal centro della scrivania, dove lo aveva lasciato.
Lo schermo non si era mai illuminato.
Nemmeno un Vaffanculo in formato messaggio da parte di Dazai.
Beh, non era nello stile del ragazzino.
Quando Mori prese in mano l’apparecchio per controllare che la ricezione fosse buona, Hirotsu smise di parlare.
“Qualcosa la turba, Boss?” Domandò il veterano.
“Sì, ho lasciato un quattordicenne da solo a casa e ho l’ansia!” Non appena si rese conto di averlo detto ad alta voce, Mori si bloccò e sollevò lo sguardo. “Hirotsu, confido che-“
“Nessuno lo verrà mai a sapere, Boss,” disse immediatamente il veterano, aggiustandosi il monocolo sull’occhio destro. “Le confido che anche io ero preoccupato per il signorino, quando non l’ho visto in sua compagnia.”
“No!” Mori sollevò l’indice con fare imperativo. “Signorino no. Dazai è tutto, meno che un signorino.” Senza pensarci troppo, compose il numero del non signorino in questione. Contro ogni sua aspettativa, rispose solo dopo tre squilli. “Dazai, hai mangiato la-?”
Tu-Tu-Tu
Mori sgranò gli occhi. “Mi ha attaccato in faccia,” mormorò, incredulo.
“È l’adolescenza,” commentò Hirotsu, con serenità. “Per mia esperienza, migliorerà verso i diciotto anni. Per quell’età sono più responsabili.”
Mori annuì distrattamente, poi gli venne il dubbio. “Stai parlando di me?”
Hirotsu scrollò le spalle. “Il suo è l’unico esempio di cui ho esperienza diretta.”
“Mi stai dicendo che io ero così?” Domandò Mori, sollevando il cellulare. “Avessi riattaccato in faccia a mio padre o a mia madre, mi sarei ritrovato senza gli arti inferiori non appena varcata la porta di casa!”
“Abbia pazienza con quel ragazzino,” disse Hirotsu. “È capitato di parlarne con la signorina Ozaki.”
Bene, ora anche Hirotsu faceva comunella con Kouyou contro di lui. Mori non poteva che esserne estasiato.
“Dazai sembra avere molto potenziale, a nostro avviso,” concluse il veterano. “Per quel che ho visto, mi ricorda molto qualcuno. In tempi come questi, non può che essere una buona cosa per la Port Mafia.”
Suo malgrado, Mori sollevò l’angolo destro della bocca in un mezzo sorriso. “Grazie del rapporto, Hirotsu.”
“Boss…” Dopo aver chinato la testa con rispetto, il veterano si congedò.
Rimasto solo, Mori sprofondò nella sua poltrona. Aspettò dieci minuti e poi provò a chiamare Dazai una seconda volta.
Ci furono dieci squilli, poi partì la segreteria automatica.
Mori lasciò il cellulare sulla scrivania e aspettò ancora.
Terzo tentativo. Altri dieci squilli, poi la segreteria.
Allontanò l’apparecchio da sé e lo fissò con sospetto.
Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?
Dazai gli aveva posto quella domanda quando si era risvegliato nella sua clinica e, dopo un lungo momento di caos iniziale, Mori gli aveva chiesto il motivo per cui aveva fatto quello che aveva fatto.
“Pensi davvero che vivere abbia qualche valore?” Ripeté Mori, mettendosi a sedere più composto. Ricordava di essere passato per una fase simile, intorno ai vent’anni. Sì, c’era stato un momento per Mori in cui restare fermo ad aspettare la morte gli era sembrata davvero l’unica cosa da fare. Era allora che aveva conosciuto Natsume Soseki. Si poteva dire che gli doveva la vita, almeno quanto gliela doveva Dazai.
L’unica differenza era che a lui, a Mori, quel desiderio di autodistruzione si era tramutato in altro, qualcosa che si era nutrito della sua umanità rendendolo il Demone che era ora. Pur avendo visto in faccia la morte, Dazai continuava a inseguirla, imperterrito.
Quel pensiero colpì il Boss come una pugnalata alla schiena.
Non si mosse per un lungo istante, poi fissò il cellulare a cui Dazai non aveva risposto. “Ho commesso un errore…” Si alzò in piedi di colpo, recuperando le chiavi dell’auto dal primo cassetto della scrivania. “Ho commesso un fottuto errore.”
Mentre si fiondava nell’ascensore e premeva il pulsante per scendere ai garage, Mori chiamò il veterano che aveva appena lasciato il suo ufficio. “Hirotsu, cerca Kouyou e portala da me in clinica. Dille che è un’emergenza, lei capirà.”



Fu come precipitare in un’altra dimensione, una in cui Mori aveva sperato di non trovarsi mai più. Non vide se stesso guidare fino alla clinica. Il battito impazzito del suo cuore lo accompagnò per tutto il tragitto in macchina, ma sarebbe potuto benissimo essere altrove: su di un campo di battaglia, con le bombe che esplodevano a pochi metri da lui, rendendo ovattato ogni suono, tranne quello del proprio respiro affannato.
Prima di uscire dalla strada principale, Mori si allentò il nodo della cravatta, come se lo soffocasse. Poco dopo, la lanciò sul sedile del passeggero.
Fermata l’auto, scese e lasciò lo sportello aperto. Si lanciò contro il portone con tanta forza che i cardini fecero un rumore spiacevole, come se stessero per cedere.
Mori era sudato, senza fiato, come se fosse arrivato fino a lì correndo a piedi, ma trovò comunque la voce per chiamare il nome del ragazzino. “Dazai!”
Nel silenzio dell’edificio, il rumore dell'acqua che scorreva arrivò alle orecchie del Boss della Port Mafia come un inno di morte. Proveniva dal bagno in fondo al corridoio, quello adiacente alla sala operatoria.
A metà del corridoio, Mori sentì l’acqua sotto i piedi e fu costretto a muoversi con cautela per non scivolare. La porta era aperta ma la luce era spenta.
Trovare l’interruttore alla cieca fu facile. Non appena i neon si accesero, il capolavoro di Dazai si presentò in tutto il suo orrore.
C’era sangue dappertutto. Sulle pareti coperte da piastrelle, sul vetro che divideva il bagno dalla sala operatoria principale, sul carrello operatorio lasciato lì per le emergenze. Il pavimento era un lago cremisi. L’acqua rossa usciva dal lavandino e Dazai era lì, con la guancia appoggiata al bordo di metallo, un polso reciso era abbandonato lungo il fianco e l’altro ancora sotto il getto dell’acqua.
Mori lo raggiunse con un paio di ampie falcate, rese goffe dal pavimento bagnato sotto i suoi piedi. Non appena riuscì ad afferrare Dazai, Mori scivolò, ritrovandosi con tutto il peso del ragazzino inerme addosso.
Imprecò, mentre un dubbio terribile gli bloccava il respiro. Il medico infilò la mano sotto il mento del quattordicenne privo di sensi e lo costrinse a reclinare la testa sulla sua spalla: non vi era alcuna ferita sul collo.
Mori non si concesse neanche un respiro per sentirsi sollevato.
“Dazai!” Chiamò a gran voce, stringendogli i polsi con tutta la forza che possedeva, in un disperato tentativo di rallentare l'emorragia - per fermarla era necessario ben altro. Il sangue di Dazai gli bagnò le mani e i vestiti.
Da quanto tempo versava in quello stato? Quanto sangue aveva perso? Quando aveva controllato che non si fosse reciso la gola, Mori era certo di aver sentito il fantasma di una pulsazione. Era ancora vivo ma se non si fossero alzati da quel pavimento, non lo sarebbe rimasto ancora a lungo. Mori non riusciva a rimettersi in piedi, chiudere il rubinetto e sollevare Dazai, senza lasciare andare la presa sui polsi recisi.
Aveva bisogno di aiuto. Avevano bisogno di aiuto.
“Mori!” La voce di Kouyou lo raggiunse dall’ingresso.
E Mori seppe che non sarebbe mai vissuto abbastanza per dimostrare tutta la sua gratitudine a Hirotsu.
“Siamo qui!” Rispose. “In fondo al corridoio, stai attenta all’acqua!”
Kouyou comparve sulla porta e per poco non finì a terra anche lei - per fortuna aveva abiti occidentali e scarpe senza tacco. Di fronte a quello spettacolo raccapricciante, sgranò gli occhi, atterrita. “Che cosa-?”
“Il rubinetto!” Ruggì Mori, con impazienza. “Chiudi il rubinetto!”
Nonostante il pavimento scivoloso, Kouyou impiegò pochi istanti a raggiungerli e a fare come le era stato detto. A Mori parve un’eternità.
Aggrappata al bordo del lavandino, Kouyou lo guardò dall’alto al basso. "Dimmi Che cosa devo fare!”
“Stringigli i polsi con tutta la forza che hai!” Mori era a tanto così da perdere completamente il suo autocontrollo. Gli serviva un ago chirurgico, del filo di sutura e delle garze sterili. Doveva concentrarsi su qualcosa che sapeva fare e doveva farlo in fretta. “Lo sollevo io! Dobbiamo portarlo di là, nella sala operatoria!”
Prima che fosse troppo tardi.




Una volta applicato l’ultimo punto di sutura, sia Mori che Kouyou tornarono a respirare. Il bip-bip regolare emesso dal monitor era un suono ipnotico, confortante. Lo era meno la sacca di sangue attaccava al braccio di Dazai e la maschera dell’ossigeno che gli copriva il viso.
Nessuno dei due disse nulla, mentre il medico afferrava il rotolo di garze sterili e vi fasciava entrambi i polsi del ragazzino. Una volta finito, Mori sollevò lo sguardo sulla vetrata che divideva la sala operatoria dal bagno adiacente. Qualcosa gli diceva che non sarebbe mai riuscito a ripulire tutto in modo efficiente, ma quel disastro gli offrì una buona via di fuga.
“Resta con lui,” disse a Kouyou, senza nessuna particolare intonazione nella voce. Aveva bisogno di restare solo, di prendere le distanze da Dazai e di occupare la mente con qualcosa di pratico. E, sì, il sangue era difficile da mandare via anche su superfici facilmente lavabili. Quel lavoro lo avrebbe occupato per un po’, forse fino a notte inoltrata - anche se non sapeva nemmeno che ore fossero.
Mori lasciò cadere il cappotto nero su una sedia vicino alla porta e uscì dalla sala operatoria: il corridoio era mezzo allagato e dovette procedere con cautela. Tutto quello che gli serviva era nascosto nella lavanderia adiacente alla cucina.
Da dove si trovava, Kouyou lo vide sparire in direzione dell’entrata e tornare con un secchio e uno scopettone stretti in una mano, una bottiglia di varechina e una spugna nell’altra - entrambe ricoperte con guanti di lattice.
Allungò una carezza tra i capelli bagnati di Dazai, poi si allontanò. Il battito riportato sul monitor era ancora regolare.
Kouyou si affacciò sul bagno e vide gli utensili da pulizia abbandonati in un angolo: Mori era impegnato a gettare diversi strumenti chirurgici in un contenitore apposito. Si lamentava a bassa voce.
“Che cos’hai?” Gli chiese, diretta.
Quando Mori non parlava, l’atmosfera diveniva impossibile da tollerare per chiunque gli stava intorno. Kouyou non pretendeva che fosse di buon umore, ma spezzare quel silenzio sarebbe stato utile a tutti.
“Quanti diavolo di bisturi ha usato?” Sibilò il Boss della Port Mafia, gettandone tre nel sacco per rifiuti ospedalieri. “Eppure, quel moccioso lo sa quanto costa sia in tempo che in soldi trovare del buon materiale da usare!”
Kouyou appoggiò la schiena all’architrave della porta, per tenersi salda sul pavimento scivoloso. Mori non era realmente arrabbiato per i bisturi sprecati - o forse un po’ sì - ma non era la ragione per cui parlava tra sé e sé, invece di lagnarsi con tutti come era suo solito.
“Ti sei spaventato?”
Essere diretta era uno dei maggiori pregi che Mori riconosceva a Kouyou, ma non ne aveva bisogno in quel momento. Non rispose, si limitò a ripulire il carrello operatorio da tutti gli strumenti non più utilizzabili, poi allungò la mano verso lo scopettone.
La giovane gli afferrò il polso con gentilezza. “Lasciati aiutare.”
Mori glielo concesse.
Ci vollero diverse ore per arrivare a un buon risultato e quando dichiararono l’impresa finita, il sole era calato da un pezzo dietro le montagne di Yokohama.
“Dazai hai i vestiti sporchi di sangue,” disse Kouyou, lavandosi le mani nello stesso lavandino su cui il ragazzino aveva tentato di dissanguarsi. “E sono bagnati. Non può dormire così o si prenderà un-“
Mori appoggiò un paio di forbici sul primo ripiano del carrello operatorio, senza alcuna gentilezza. “Almeno queste si sono salvate,” disse, dando le spalle alla giovane donna. “Vado a prendere dei vestiti in camera e te li lascio in corridoio. Quando hai finito di cambiarlo, lo spostiamo in uno dei letti. Non ci tengo a mettergli di nuovo le mani addosso per farmi dare del maniaco.”




Una volta pulito e cambiato, Dazai fu trasferito nella camerata dei degenti. Kouyou gli rimboccò le coperte, stando attenta a non toccare l’ago che collegava la sacca di sangue al braccio. Era certa che non si sarebbe svegliato ancora per un po’, ma era tornato un po’ di colore su quelle guance pallide. Accese la lampada sul comodino e lo lasciò riposare.
Trovò Mori seduto sulle scale, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento alle dita intrecciate. Fissava un punto nel vuoto di fronte a sé. Aveva ancora i capelli legati ma le ciocche più lunghe si erano liberate, incorniciandogli il viso. I polsini della camicia erano completamente rossi, e le gocce di sangue erano scivolate fino al gomito. Era da buttare.
Kouyou non aveva bisogno di chiedere il permesso, si sedette sullo stesso gradino del Boss, lasciando tra loro mezzo metro di distanza. Non fissò il suo profilo: lo avrebbe messo sotto una pressione ulteriore e non era il caso.
“Devi lavarti quel sangue di dosso,” disse, schietta. “Devi rimetterti in piedi. Domani la Port Mafia sarà ancora dove l’hai lasciata.”
Mori lasciò andare un sospiro stanco. “Sono già in piedi.”
“Bene,” commentò lei. “Che cosa è successo?”
“Era chiaro, vero?” Domandò Mori di rimando, come se non l’avesse udita affatto.
Kouyou inarcò le sopracciglia. “Di cosa stai parlando?”
“Del sangue,” rispose il Boss della Port Mafia. “Nell’immaginario delle persone è di color rosso vivo,” gli sfuggì un sorriso. “Nella vita di tutti i giorni, le persone non ne versano più di qualche goccia e in modo completamente casuale o, in taluni casi, fisiologico. In realtà, quando è in grande quantità, il colore si avvicina di più al nero. Suonerà assurdo, ma il colore scuro fa meno paura. Dazai ha versato una grande quantità di acqua, per questo il sangue sul pavimento era così rosso.” Mori inspirò aria attraverso il naso. “Peserà quarantacinque chili, se va bene… No, è sottopeso, forse meno. Non gli serve perdere una gran quantità di sangue per collassare e-“
Kouyou gli schioccò le dita davanti agli occhi e il medico sobbalzò. Un istante dopo, gli occhi scuri erano su di lei e la guardarono come se la vedessero per la prima volta.
“Ti eri perso nella tua testa,” disse lei. “Che cosa è successo?” Domandò di nuovo. “Perché lo hai lasciato a casa da solo? Sapevi che non era sicuro.”
“Abbiamo litigato,” raccontò Mori. “O meglio, lui mi ha irritato, io gli ho dato una lezione e lui si è arrabbiato.”
“Che genere di lezione?”
“Gli ho sparato.”
Il modo in cui Kouyou lo guardò bastò a esprimere il suo pensiero. “Che vuol dire che gli hai sparato?” Si alzò in piedi, portandosi di fronte a lui.
Mori allargò le braccia. “Pensi che sia facile conviverci?” Domandò. “Io so cos’è la morte. L’ho toccata e, te lo confesso, c’è stato un momento in cui l’ho anche desiderata, ma lui non fa che parlare di questo.”
Kouyou dischiuse le labbra, ma non seppe che cosa replicare.
“Sì, ho insistito io perché parlasse. Lo rendo partecipe dei miei piani per la Port Mafia perché voglio che impari. Lo distraggo con lezioni sulle lingue straniere che conosco perchè, in realtà, è curioso!” Esclamò. “Gli piacciono i libri, gli piacciono i segreti… Prova interesse! Lui dice di voler morire ma, in realtà, ci prova ancora! Cerca qualcosa che non riesce a trovare, penso si sia convinto che non la troverà mai!”
“Perché gli hai sparato?” Kouyou alzò la voce.
Mori lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Volevo provargli qualcosa,” rispose. “E ci sono riuscito: tremava come un pulcino. L’ho spaventato ed era quello che volevo: l’ho messo davanti al fatto che è umano e ha paura della morte.” Una pausa. “Si è tagliano le vene per dimostrarmi il contrario.”
“Era una sfida?” Kouyou non riusciva a credere alle sue orecchie. “Hai sfidato un ragazzino con tendenze suicide a farsi del male per contraddirti?”
Mori alzò gli occhi al cielo. “Non è stata la migliore delle mie azioni.”
“Prima di pensare alle tue azioni, chiediti se vuoi che Dazai resti vivo,” replicò Kouyou, scendendo gli ultimi gradini che la separavano dall’ingresso. “Perché la tua terapia d’urto non è stata molto utile!” Aggiunse, astiosa, mentre tornava dal ragazzino nella camerata dei degenti.




Al sorgere del sole, Dazai mostrò i primi segni di coscienza. Accanto a lui, quando riuscì ad prime gli occhi scuri, trovò l’ultimo figlio maledetto della Port Mafia ad accoglierlo.
“Ben tornato,” disse Mori, con un sorriso gentile che faceva a pugni con l’oscurità riflessa nelle sue iridi. Indossava la giacca da Boss della Port Mafia, ma la camicia costosa era stata sostituita con una maglietta nera a caso.
Restarono a guardarsi per quella che parve un’eternità, poi le labbra screpolate di Dazai si dischiusero,
“Non pronunciare una parola,” disse Mori, recuperando un bicchiere d’acqua dal comodino accanto al letto. “Prova a dire qualcosa e giuro che rovino questo tuo bel faccino a suon di schiaffi.”
Nonostante le parole minacciose, quelle mani aiutarono Dazai a sollevare la testa e a ingoiare un paio di sorsi d’acqua. Nessun ringraziamento, non che l’altro se lo aspettasse.
Mori se ne stava appollaiato su uno sgabello regolabile, che cigolava a ogni suo minimo movimento. Continuava a sorridere ma aveva la morte negli occhi.
Ti sei spaventato? Aveva chiesto Kouyou. Non aveva avuto voce per risponderle che il lusso di provare paura lo aveva lasciato in Germania, con le spoglie di Rintarou.
“Devi essere maledettamente orgoglioso per arrivare a questo punto, pur di non darmi ragione,” commentò Mori, “di per sé è una caratteristica che apprezzo, ma tu porti tutto a livello estremo. Non mi piacciono gli estremismi.”
“Fino a che non sei tu a compierli.”
Il dorso della mano di Mori si abbatté sul giovane viso con tanta velocità che il medico stesso se ne sorprese. Si pentì del suo gesto ancor prima che Dazai avesse il tempo di lamentarsi del dolore. “Scusa,” disse, comprendo la guancia lesa col palmo. “Ho agito d’impulso, non avrei dovuto.” Fu attento a non mostrare alcuna emozione, come se si stesse scusando con un suo superiore sul campo di battaglia. La carezza sul giovane viso era un dettaglio su cui non si attardò a riflettere.
“Hai la mano calda,” commentò Dazai, il viso ancora girato di lato, verso quegli schermi che indicavano il suo battito cardiaco, il livello di saturazione del suo sangue e altre cose. “Non credevo avessi le mani calde.”
Se ce l'aveva con lui per lo schiaffo ricevuto, Mori non riuscì a comprenderlo. “Non ti chiederò cosa ti è passato per la testa,” disse il medico.
“Non ti chiederò se sei arrabbiato,” ribatté Dazai.
Suo malgrado, gli angoli della bocca di Mori si sollevarono. Allontanò la mano dal viso del ragazzo e quei due grandi occhi scuri cercarono immediatamente i suoi. “Fino a nuovo ordine, non sarai più lasciato da solo,” comunicò Mori. “Io sono in clinica, tu sei in clinica. Io devo restare in ufficio, tu resti in ufficio.”
A fatica, Dazai si mise seduto contro il cuscino. “E cosa farò tutto il giorno? Ho imparato le lingue che volevi imparassi.”
“Strategia.”
Dazai fece una smorfia disgustata. “Strategia?” Ripeté.
“E filosofia. Avrai tanto tempo da spendere e ci sono tante cose che voglio insegnarti. Dici di conoscere il russo, parli e scrivi giapponese come un madrelingua, ma che altro puoi dirmi della tua educazione?”
“Ho appena tentato il suicidio e tu ti preoccupi della mia educazione?”
“Sto pensando a come colmare l’infinita noia che ti affligge. Hai un’intelligenza fuori dalla norma, ma questo devono avertelo già detto.”
Dazai annuì per confermare.
“Chi ti ha cresciuto, Dazai?” Mori se lo era chiesto dal primo giorno, ma non aveva mai trovato il coraggio di fare una domanda tanto diretta. Un fanciullo non ancora sbocciato che respirava violenza come se fosse aria, parlava russo e non dava alla vita alcun valore: tutto preannunciava una storia dell’orrore.
“Non me lo ricordo,” Dazai rispose senza esitare, guardandolo dritto negli occhi. Non stava mentendo, non c’era nulla di meccanico nel modo in cui pronunciò quelle quattro parole. Per la prima volta, Mori notò un riflesso di tristezza in quelle iridi scure. Era la verità.
Il nuovo Boss dell Port Mafia avvicinò il letto allo sgabello. “Qual è il tuo primo ricordo?”
“Non saprei dirlo,” rispose Dazai. “Ho delle immagini, ma sono frammentate. Alle volte, può capitare che un suono, un odore o qualcos’altro attragga la mia attenzione. Credo di essere cresciuto in Russia ma non saprei dirti qualcosa di preciso neanche volendo.”
Mori si accorse che stava artigliando la stoffa dei suoi stessi pantaloni, inspirò dal naso e rilassò le dita. “La memoria funziona in un modo che la scienza non è ancora in grado di spiegare del tutto,” spiegò. “Forse non ricordi i fatti, ma sai leggere e scrivere normalmente. Alle volte, forse neanche te ne rendi conto, usi parole piuttosto forbite, questo mi porta a pensare che tu sia abituato a testi di un certo calibro fin da bambino.”
“Non mi piace ricordare,” disse Dazai, di colpo.
Mori inarcò un sopracciglio. “Non hai il desiderio di sapere chi sei?”
Il nulla,” rispose il fanciullo, sicuro.
Mori scosse la testa. “Tu sei Dazai Osamu.”
“Dazai Osamu è il nulla, cosa cambia?”
“Il nulla non può essere partorito, Dazai,” ribatté Mori. “E qualcuno ti ha portato in grembo, ti ha messo al mondo e-“
“Sì, in una casa di accoglienza da una donna che, con ogni probabilità, si presentava lì a partorire ogni due o tre anni… Solo i feti di cui non riusciva a liberarsi da sola, ovvio.”
Mori si passò una mano sul viso: quel genere di scene non gli erano nuove - tanto in Europa quanto lì, a Yokohama - e le trovava più disturbarti di molte altre che aveva collezionato sul campo di battaglia. “Questa è la storia che ti sei raccontato?”
Continuando a guardare di fronte a sé, Dazai inspirò aria dalla bocca. “La mia mamma non mi ha cercato, ma mi voleva bene,” persino il tono della sua voce era diverso, suonava come un bambino che non ha più nessuna speranza a cui aggrapparsi ed è sul punto di scoppiare a piangere. “La mia mamma non mi ha tenuto con sé perché non avrebbe saputo come crescermi. La mia mamma ha rinunciato a me per permettermi di avere un futuro migliore.”
Mori si sentì gelare da capo a piedi. Se Elise era inquietante per chi gli era vicino, quello come avrebbe dovuto descriverlo? La voce e l’espressione di Dazai erano quelle di un bambolotto rotto che emette ancora un rantolo sul fondo di un armadio, nella vana speranza che qualcuno si accorga di lui, lo prenda tra le braccia e lo riempia di calore.
Tutto finì con un sonoro sbuffo. “Che noia!” Esclamò Dazai. “Tutti gli orfani hanno la loro personale favola con cui cullarsi la notte. Io non perdo tempo con certe cose.”
“No,” confermò Mori, infilando la mano nella tasca destra della giacca. “Certo che no.”
Dazai non fu interessato a quel che stava facendo, fino a che l’uomo non gli porse il taccuino rilegato in pelle nera.
“E questo cosa dovrebbe essere?” Domandò il fanciullo.
“Volevi avere l’ultima parola e darmi torto, no?” Disse Mori. “Sebbene io abbia molto da ridire sul modo in cui lo hai fatto, non posso negare che tu sia riuscito nell’impresa. Questo è il tuo premio.”
Dazai lo prese tra le mani e Mori non poté fare a meno d’indugiare lo sguardo sulle fasciature strette intorno a quegli esili polsi.
“Questo è il tesoro che nascondevi in quella cassetta rossa?” Domandò il fanciullo.
Mori pensò ai documenti nascosti nella tasca sinistra del suo cappotto, quelli di cui Dazai non doveva conoscere l’esistenza. “Questa è la favola con cui mi cullo la notte,” ammise. “Solo che non è quella di un orfano triste, è accaduta davvero. È accaduta a Rintarou ed è l’unica cosa di lui che conservo.”
Si scambiarono uno sguardo che conteneva un sacco di sfumature impossibili da tramutare in parole, poi Dazai aprì il taccuino e cominciò a leggere.
Alla luce calda dell’abat-jour sul comodino, Mori Ougai, nato Rintarou, rimase a guardare mentre Dazai Osamu leggeva la più intima delle sue confessioni, sebbene non avesse scritto neanche una parola di quelle contenute in quel taccuino.
Quando ebbe finito, il fanciullo richiuse il piccolo quaderno e lo appoggiò con cura sulle sue ginocchia.
“Non il tuo genere, vero?” Intuì Mori, con un sorrisetto. “Troppo amore, troppo destino, troppo struggimento.”
“Mi è piaciuto, invece,” disse Dazai, con una timida nota di sorpresa nella voce.
Mori non riuscì a parlare per almeno mezzo minuto. “Quelle parole non sono un inno alla morte,” disse, nel dubbio che al ragazzino fosse sfuggito il significato. “Parlano di amore e di vita, speranza!”
“Ma sono vere,” ribatté Dazai, guardandolo. “Non sono per un pubblico. Sono per qualcuno.” Restituì l’oggetto al legittimo proprietario. “Sono per te, non è vero?”
Gli occhi scuri di Mori vennero ricoperti da un velo di dolce amarezza. “Sì, sono per me.”
Pur sapendo di non essere al massimo delle sue capacità, Dazai non riusciva davvero a capire. “Perché consegnarmi un oggetto di un valore simile?”
Mori ripose il taccuino nella tasca interna della giacca. Avrebbe pensato dopo a rimetterlo al suo posto. “Mi hai chiesto perché, tra tutti, Natsume Soseki ha deciso di affidarti proprio a me. Io stesso gli ho posto la stessa domanda e non ho ricevuto alcuna risposta. Tuttavia, mi sono dato una da solo.” Una pausa a effetto. “Siamo legati allo stesso destino, io e te.”

Profile

odetjoy

April 2023

S M T W T F S
      1
23 45678
9101112131415
16171819202122
23242526272829
30      

Most Popular Tags

Style Credit

Expand Cut Tags

No cut tags
Page generated Jun. 27th, 2025 09:48 pm
Powered by Dreamwidth Studios