Crimini di Guerra
Apr. 5th, 2022 02:11 pmErnst Jünger era inquieto.
Il suo campo sorgeva a una cinquantina di chilometri da Colonia e aveva a sua disposizione abbastanza uomini da tenere il confine, ma erano sprovvisti di portatori di abilità. Di fatto, non stavano andando da nessuna parte.
Una striscia di fango, sangue e filo spinato divideva le forze tedesche da quelle francesi. Qust’ultiume, inoltre, potevano godere dell’appoggio del vicino alleato Belgio. L’epica guerra - la Grande Guerra - tra semi-divinità, di cui già scrivevano i romanzieri e cantavano i poeti dell’età contemporanea, si era spostata più a sud.
Ernst Jünger era l’unico possessore di abilità sul quel campo di battaglia, ma il suo potere non era utile in una strategia di attacco. La sconfitta di Parigi era stata troppo per il Governo di Germania.
“Il Generale Jünger non si è dimostrato idoneo al compito assegnatogli.” Erano state le parole del portavoce del consiglio. “Per tanto, la Germania non lo ritiene più in grado di restare alla testa dell’Armata di Dotati di Abilità. Non verrà, tuttavia, privato del suo grado. Non appena il Consiglio di Guerra avrà valutato con attenzione la sua situazione, verrà riassegnato a un’altra armata, su di un nuovo fronte. Da oggi in poi, verrà tenuto all’oscuro di ogni piano top secret del Dipartimento Speciale.”
Ernst Jünger era stato mandato a combattere una guerra di trincea tra comuni esseri umani, dove gli uomini morivano come topi su entrambi i fronti ed erano più i proiettili sprecati che quelli che centravano un bersaglio vivo.
Se qualcuno avesse vinto la guerra non sarebbe accaduto lì e, sopratutto, non sarebbe mai avvenuto per sua mano. Per il suo orgoglio di uomo e di soldato non esisteva sconfitta e umiliazione peggiore. La storia si sarebbe ricordato di lui nel più pietoso dei modi e tutto per colpa di un moccioso di poco più di vent’anni, che si era rifiutato di usare il suo potere per decimare un’intera nazione.
Che Johann Goethe fosse maledetto, insieme ai suoi alti principi morali e alla sua puttana giapponese. Che bruciassero tutti e due all’inferno, insieme a quell’abominio che avevano messo al mondo.
L’Arma di Weimar. Jünger sperava con ogni fibra del suo essere che il Governo di Germania prendesse quella bambina e ne facesse ciò che riteneva più utile per le sorti della guerra. Solo allora Johann Goethe e Mori Rintarou sarebbero stati dilaniati a sufficienza dagli eventi di quel conflitto, così come lo era ora lui.
L’aria della notte penetrava nella tenda gelida e fastidiosa, ma Ernst Jünger, seduto con gli stivali affondati nel fango, non sentiva il freddo, né i crampi della fame - era da un po’ che non mangiava. La sua barba si era fatta incolta e i capelli biondi sempre in ordine, ora erano unti e gli ricadevano scompostamente sugli occhi. L’immagine del soldato integerrimo era ormai un lontano ricordo. Andava avanti nel suo lavoro per pura inerzia, perché della Germania non gli importava sinceramente più nulla.
Al centro della sua scrivania, tra le mappe del campo di battaglie scarabocchiate con la posizione dei suoi soldati e quella dei nemici, saltava all’occhio una lettera che portava il sigillo dell’esercito tedesco. Era lì da almeno una settimana e, a causa dell’umidità, cominciava a ripiegarsi su se stessa.
Jünger l’aveva letta una sola volta. Non era servita una seconda occhiata: il messaggio di poche parole era molto chiaro nel suo tragico significato. Forse avrebbe dovuto scrivere a sua moglie. Se lei lo aveva fatto, era probabile che le lettere fossero rimasta bloccate a Colonia e non c’era altro mezzo di comunicazione per raggiungerlo lì, dov’era.
La schietta e crudele verità era che a Jünger non importava più nulla nemmeno della donna che aveva sposato. La sola ragione per cui non estraeva la pistola e non si piantava una pallottola in testa era perché la sua natura di soldato glielo impediva. Le sostanze stupefacenti erano la sua unica consolazione, un vizio che aveva fatto suo ben prima che quel conflitto didotati di abilità cominciasse. Era illegale, sì, ma gli permetteva di evadere dalla realtà quanto bastava per evitare di fare di peggio.
Certo, la Grande Guerra lo avrebbe ucciso, ma lo avrebbe fatto come si addiceva a un uomo del suo calibro: sul campo di battaglia.
Nella notte, giunse alle sue orecchie l’urlo di dolore di un uomo in lontananza. Doveva trattarsi di uno dei feriti o di qualcuno tornato alla realtà, dopo un incubo particolarmente violento. Il vento si fece più impetuoso e l’ingresso della sua tenda si aprì per pochi secondi, mostrandogli un’immagine veloce del campo silenzioso. Ma non vide solo quello.
Attirato dall’impressione di aver scorto qualcosa nel buio, il Generale Jünger sollevò la testa e aspettò che il vento sollevasse il tendaggio una seconda volta. Accadde: la figura si era fatta più vicina e, per il tempo di un respiro, Jünger riuscì a vedere i suoi occhi. Gli era parso che brillassero di una luce violacea.
“Rintarou…” Chiamò.
Il giovane dai capelli corvini emerse dall’oscurità, facendo due passi all’interno della tenda. Jünger inspirò dal naso: nella notte, gli era parso un Demone e, invece, era solo un ragazzo. Quanti anni aveva? Forse venti. Jünger ricordava solo che era poco più giovane di Johann.
“Che cosa ci fai qui?” Domandò il Generale.
Rintarou non rispose. Il suo viso non indossava nessuna espressione in particolare e i suoi occhi erano due pozzi neri, senza luce. Aveva addosso la divisa dell’esercito tedesco, ma era sporca di fango e sangue.
Per nulla interessato alle ragioni che avevano spinto quel giovane ad affrontare un viaggio da Weimar a Colonia, Jünger si alzò in piedi. “Ascolta,” disse, stancamente. “Come saprai, non sono più al comando dell’Armata Speciale e tutto ciò che concerne Johann non mi riguar-“
Forse per la stanchezza, forse per le sostanze chimiche che circolavano nel suo sangue, Jünger non vide Rintarou muoversi. No, sentì solo la lama che penetrava nell’addome, sul lato sinistro.
“Quando ero bambino, mio padre mi raccontò che, un tempo, la nostra era una famiglia di samurai,” gli sussurrò Rintarou all’orecchio, come se gli stesse rivelando un segreto. “Forse è per questo che le lame mi affascinano più delle armi da fuoco.” Fece un passo indietro.
Jünger barcollò per un paio di metri in un misero tentativo di mettersi in salvo, poi cadde riverso sul terreno fangoso. Nella confusione accentuata dal dolore, cercò l’elsa del pugnale, ma Rintarou fermò la sua mano tremante premendo i sopra il tacco dello stivale. Vi appoggiò tutto il peso del corpo e le ossa si ruppero con un sonoro crick.
Jünger emise un lamento gutturale e tossì sangue.
Rintarou storse la bocca in una smorfia contrariata. “Penso di averti preso il fegato, avrei dovuto pugnalarti più in basso. Perdonami, sono giovane e mi serve ancora tanta pratica.”
Sul terreno, Jünger si dimenava, cercando con la mano sana qualcosa che non c’era: la pistola era rimasta sulla scrivania.
“Johann è morto,” disse Rintarou e un bagliore violaceo illuminò i suoi occhi scuri. “Mi hanno consegnato la sua testa. Il viso era deturpato. Non ho idea di dove sia il resto del suo corpo.”
Jünger apprese quella notizia con gioia. Nonostante il sapore del sangue in bocca, sorrise come un uomo completamente privo di ragione.
Rintarou premette lo stivale vicino alla ferita che gli aveva inferto e il Generale urlò di dolore, sputando altro sangue, che si andò a mischiare col fango.
Il giovane dai capelli corvini s’inginocchio accanto alla sua testa. “Johann non è caduto in battaglia, ma è stato assassinato,” disse. “Sei tu il mandante?”
Jünger gli sputò addosso, ma riuscì solo a sporcargli la parte alta degli stivali col proprio sangue.
Rintarou alzò gli occhi al cielo. “Diciamo che sei tu il mandante, ma sei troppo snob per andarti a sporcare le mani in una maniera tanto macabra. No, a te piace dare ordini. Bene, a chi hai ordinato di uccidere Hans?”
Jünger rideva. La compostezza che lo distingueva era ormai andata al diavolo. La morte stava arrivando e il Generale le rideva in faccia, sprezzante.
“Avete pagato il prezzo per la vostra superbia, mocciosi,” sibilò, come un serpente velenoso. “Credevate davvero che il mondo avrebbe giocato secondo le vostre regole? Johann Goethe ha condannato se stesso nel momento in cui non ha decimato la Francia e i suoi allleati e ha trascinato nell’abisso anche te!”
Mori strinse le labbra, poi allungò la mano sull’elsa del pugnale, rigirando la lama nella carne. Jünger prese a urlare e dimenarsi, mentre altro sangue risaliva su per la gola.
“Sì, penso di averti preso il fegato,” disse Rintarou, spostandosi sopra di lui per tenerlo fermo. “Pazienza, non morirai velocemente comunque. Usa quell’inutile abilità che ti ritrovi e dimmi dove si trovano gli assassini di Hans,” ordinò, gelido. “Anche ammesso che tu non abbia nulla a che fare con questa storia, ne conosci senza dubbio i colpevoli.”
Non appena smesso di urlare, Jünger cominciò ad annaspare, come se gli mancasse aria.
“Piantala, i tuoi polmoni funzionano ancora benissimo.” Rintarou lo torturava con la stessa calma con cui avrebbe aperto un cadavere per la lezione di anatomia del giorno. Johann Goethe non aveva avuto il coraggio di massacrare una nazione, ma Mori Rintarou era nato per infliggere dolore.
Da parte sua, Jünger non aveva più nulla da perdere ed era troppo pragmatico per sprecare tempo a invocare pietà. “Non vuoi sapere dov’è la piccola Elise, Rintarou?”
Qualcosa cambiò nello sguardo del più giovane. Il gelo si tramutò in fuoco e un nuovo bagliore violaceo illuminò quelli iridi scure. Jünger poteva avere una lama infilata nel fegato, ma il giovane Rintarou ne aveva una nel cuore.
“Ah, ti hanno portato via anche lei.”
Rintarou digrignò i denti, come una belva pronta a sbranare la sua preda. “Dimmi dov’è?” Gli bastò così poco per perdere il controllo.
Jünger glielo lesse negli occhi: l’assassinio di Johann passava in secondo piano, se c’era una possibilità di riavere sua figlia viva.
“Dimmi dov’è e ti sarà risparmiata l’agonia!” Urlò Rintarou.
Era partito bene: freddo e controllato. Nel momento in cui Jünger gli aveva nominato ciò che amava di più al mondo, aveva smesso di essere l’assassino a sangue freddo per essere solo un giovane genitore disperato.
“Vedi la lettera sulla mia scrivania?” Domandò Jünger.
Rintarou non si voltò nemmeno.
“È la comunicazione ufficiale dell’esercito che m’informa che mio figlio è morto in battaglia,” proseguì il Generale. “Era uno dei dispersi di Parigi, la sconfitta che Johann avrebbe potuto evitare, se avesse seguito la tua strategia fino in fondo. Ha tradito te, prima di tradire l’intera Germania!”
Rintarou non lo ascoltava. Lo afferrò per il bavero della divisa da soldato. “Dimmi dov’è Elise!”
Jünger allargò le braccia. “Il Governo mi ha chiuso fuori da tutte le missioni e tutti i progetti top secret. Sappiamo tutti e due che puntavano a tua figlia da quando è nata.”
“Voglio sapere dove si trova!”
“Lo stai chiedendo al mio potere, Rintarou?” Domandò Jünger. “Ho bel faccino d’angelo di tua figlia impresso in testa. Non importante dove si trovi in questo momento. Se è ancora viva, il mio potere potrebbe essere in grado di trovarla senza errori…” Una pausa crudele. “Se tua figlia non fosse l’abominio in grado di annullare tutte le abilità. È un’arma, Rintarou, e il suo destino è quello di cui tu e Johann avevate tanto paura e non c’è alcuna cosa che tu possa fare per-“
Rintarou non gli permise di aggiungere una parola di più. Afferrò l’elsa del pugnale e usò tutta la forza del braccio per spingerla in su, verso le costole. Jünger urlò come non aveva mai sentito urlare nessun essere umano. Quando non riuscì più a usare la voce, si contorse. Per tenendolo fermo con tutto il peso del corpo, Rintarou ebbe difficoltà a tenerlo fermo.
Quando sentì il polso destro tremare per lo sforzo, il giovane si aiutò con la mano sinistra. Il sangue zampillava in ogni dove: sul suo viso, sui suoi vestiti e sul terreno fangoso.
Andò avanti per quelle che parvero ore, ma furono pochi, terribili, minuti.
Quando si rese conto che Ernst Jünger non si muoveva più, Rintarou si fermò.
Sollevò la schiena, il fiato corto per lo sforzo e il corpo completamente indolenzito. Guardò quanto aveva fatto e non gli fece alcun effetto.
“Maledizione!” Urlò. Si sollevò in piedi e prese a calci il cadavere dell’uomo, fino a che non scivolò a terra, privo di forze. Ignorando il sangue sulle sue mani, infilò le dita tra i capelli corvini. Aveva la gola chiusa e stava per mettersi a piangere di nuovo. Il potere era lì, in fondo al suo petto e batteva veloce come il suo cuore.
Rintarou non provò a sopprimerlo ma, al contrario, concentrò tutta la sua rabbia su di esso. Sollevò lo sguardo e lo rivolse fuori dalla tenda, verso la notte.
I suoi occhi scuri erano divenuti di un viola vibrante.
Un respiro più tardi, un bagliore dello stesso colore ridusse a pezzi tutto ciò che aveva intorno.
Vite umane comprese.
Mori scivolò fuori dal letto senza far rumore. Raccolse una delle due camicie finite a terra: la più grande. Mentre la infilava, lanciò un’occhiata al suo amante addormentato. Era in quei momenti che realizzava quanta fiducia Fukuzawa Yukichi riponeva in lui - sebbene il Lupo d’Argento ci teneva a sostenere tutto il contrario - perché nessuna ex Spia governativa del suo calibro si sarebbe addormentata tanto profondamente nel letto di un principe della malavita.
Principe.
Quel nomignolo gli faceva alzare gli occhi al cielo e, al contempo, lo faceva sorridere con aria nostalgica. C’era stato un tempo in cui si era sentito tale, prima di Hans, della Germania e della Grande Guerra. Poi era cresciuto e si era accorto che i principi, anche quelli neri, esistevano solo nelle favole.
Scese in cucina a piedi scalzi, prese due calici dalla credenza e aprì una bottiglia di vino rosso. Quando risalì, lo fece lentamente, stando attento a dove metteva i piedi. Non era abitudine di Mori fare quelle carinerie. Era cresciuto nel lusso, anche se i suoi genitori gli avevano insegnato a non dare nulla per scontato e la vita glielo aveva fatto provare sulla propria pelle nel peggiore dei modi, gli piaceva essere viziato.
Fukuzawa non era quel genere di uomo.
Dire che c’era del romanticismo tra loro era pura follia.
Quella sera, Mori era solo felice di sapere che Fukuzawa Yukichi si sarebbe presentato al suo fianco all’evento di gala della Port Mafia e voleva celebrare l’evento in qualche modo, oltre al sesso.
“Forse dovresti venire con me.” Il giovane dirigente era stato abile nel proporglielo, sussurrandoglielo all’orecchio durante un istante dopo aver raggiunto l’orgasmo e quello prima che Fukuzawa facesse lo stesso.
Gli aveva risposto ”si, si, si” con voce roca, gli occhi azzurri chiusi. Le sillabe erano scivolate lentamente nel suo orecchio, mentre le mani dell’ex agente governativo gli stringevano le cosce febbrilmente e Mori continuava a muoversi su di lui, godendosi gli spasmi di piacere.
Alla fine, ovviamente, aveva litigato. Nudi, sul letto, ancora avvinghiati. Con Mori che rideva e faceva: “ormai mi hai dato la tua parola, non puoi rimangiartela.”
“Non ti ho dato un bel niente!” Aveva ribattuto Fukuzawa.
Mori aveva scrollato le spalle, infilando una mano birichina tra le gambe dell’amante. “Beh… Qualcosa me lo hai dato.”
Ed erano finiti a fare l’amore di nuovo.
Perché tra loro si poteva finire solo nel sangue o tra le le lenzuola. Oppure entrambe le cose, una di seguito all’altra.
Ancora divertito da quei pensieri, Mori scivolò dentro la porta della camera da letto lasciata socchiusa, ma Fukuzawa era già stato svegliato dal posto vuoto, accanto a lui. “Vino?” Domandò, assottigliando gli occhi azzurri.
“Vino,” confermò Mori, sedendosi in fondo al letto, mentre l’amante si accomodava contro i cuscini. La camicia che aveva addosso gli impediva di sentire freddo sulle spalle ma, in realtà, non copriva nulla e al mafioso andava benissimo così. Il periodo che aveva trascorso a prostituirsi alla casa dei fiori gli aveva insegnato moto su cosa piaceva agli uomini. Avendo avuto solo Hans, Mori aveva modellato su di lui ogni gioco di piacere e non era mai stato curioso di andare oltre perché, di fatto, lo appagava. Quando si era ritrovato a passare le notti con uomini tutti diversi, di cui non conosceva i segreti più intimi, quelli che rendono una notte degna da ricordare, avevano dovuta far sua un’arta che aveva ben poco a che fare con l’amore.
Era fuggito da quel mondo non appena aveva potuto, ma c’erano dei segni che gli erano rimasti addosso e non era sicuro che sarebbe mai riuscito a cancellarli.
Il dettaglio della camicia aperta, indossata solo per mostrare tutto quello che gli occhi potevano vedere, era uno di quei trucchetti da bordello che, con la conversazione giusta, avrebbe spinto il cliente a chiedere un secondo amplesso.
Fukuzawa Yukichi non era un suono cliente, ma un amante in piena regola. L’unico dopo Hans. Mori sapeva che sarebbero finiti col fare l’amore una seconda vola, dopo il vino, ma voleva mostrarsi ben predisposto.
“Sai che non reggo bene qualsiasi alcolico all’infuori del sakè," disse Fukuzawa, accettando il suo calice di malavoglia.
“Meglio così,” disse Mori, appoggiando la schiena a una delle colonne di legno del baldacchino. “Se il vino ti sale alla testa, posso approfittarmi di te per un’altra piacevole mezz’ora.”
Già, Fukuzawa non era un cliente. Con lui non doveva sottostare a nessuna regola o tenere una linea di comportamento adatta. Ne aveva voglia? E allora se lo prendeva, alla solo condizione che anche l’altro lo volesse.
A Fukuzawa piaceva il sesso, era solo troppo timido e ben educato per essere passionale. Mori era tutto il contrario. Era stato cresciuto in una famiglia tradizionale, malavitosamente parlando, ma questo non gli aveva impedito di lasciare il suo paese a quindici anni per seguire il suo primo amore. Aveva perso la verginità nella stessa camera in cui era cresciuto, sotto il tetto di suo padre e sua madre. Era stato Mori, all’ora Rintarou, a far entrare Johann Goethe di nascosto - dopo quella notte, per lui sarebbe divenuto solo Hans. Un fanciullo di nemmeno vent’anni proveniente dal cuore della Germania, con i suoi occhi azzurri e le onde dorate ad incorniciargli il viso. Quando quella notte era finita e il sole era sorto, Rintarou aveva perso ogni briciolo d’innocenza il suo corpo contenesse. A quel punto, gli mancava solo il battesimo del sangue.
Ma per quello c’era stato tempo. Lo stesso tempo che lo aveva spinto a distinguere l’amore da Hans al sesso per quello che era.
Ci aveva pensato la scuola della vita a indurlo a restare coi piedi per terra e smettere di avere la testa persa tra le nuvole. Tuttavia, nulla, nemmeno il tempo passato a prostituirsi alla Casa dei Fiori, aveva convinto Mori che dividere il letto con una persona non avesse come scopo primario il divertimento reciproco. Al diavolo la buona educazione!
La Casa dei Fiori era una casa di piacere solo di nome. I lavoratori del sesso esistevano e Mori era dell’idea che andassero tutelati, con tutti i diritti del caso. Sotto la Port Mafia del Boss Folle, tra quelle camera di piacere se ne consumava davvero poco. Mori ricordava la prima volta che venne violentanto. Fu durante la prima notte di servizio, la peggiore. Col tempo, Mori aveva fatto suo un trucchetto per sopravvivere a quell’esperienza. Aveva smesso di ribellarsi e aveva finto di non essere lì, costringendo la sua testa a staccarsi al resto del corpo.
Quando tornava in sé, sentiva tutto il dolore, il disgusto, l’umiliazione, ma non ricordava nulla di quello che era successo nel frattempo.
Mori Rintarou aveva trovato impossibile provare tanto piacere con e attraverso il corpo di Hans.
Mori Ougai aveva scoperto che tutto quel piacere poteva tramutarsi in qualcosa di uguale e contrario.
“Sei di buon umore,” commentò Fukuzawa, abbandonando il suo calice di vino sul comodino dopo appena un sorso.
Mori scrollò le spalle. “Mi piace fare il complicato, ma in realtà sono molto semplice: i miei desideri si realizzano e sono felice.”
“Ci tieni così tanto che venga a quel ballo?”
L’ultima volta che Mori aveva ballato era stato prima della guerra, nella semioscurità di una camera d’albergo, seguendo le note di un chitarra in strada che suonava Good Riddance.
“Non è propriamente un ballo. La fai sembrare una cosa da secolo scorso.” Il medico prese un sorso di vino. “È un evento di gala. Quando ero un ragazzino, io e le mie sorelle restavano a guardare mia madre prepararsi per ore. Loro erano convinte che lei e nostro padre andassero a uno di quei balli, come li chiami tu, ma con le carrozze, i cavalli, i castelli dalle alte torri bianche… Ricordo la delusione di Hasu, la più grande, quando si rese conto che le torri bianche in questione erano solo i grattacieli neri che vedevamo tutti i giorni.” Gli sfuggì un sorriso nostalgico. “Sto di nuovo parlando da solo,” concluse, bevendo altro vino.
Fukuzawa inarcò il sopracciglio destro. “Da solo? Io sono proprio qui.”
“Già…” Mori si sporse verso destra, posando il suo calice a terra. Scivolò sulla coperta fino a sedersi a cavalcioni del suo amante. “Noi manteniamo l’equilibrio di questa città nell’ombra, senza che nessuno lo sappia. Poi ci nascondiamo in questa villa, lontano dalla Yokohama che tanto diciamo di amare e ci perdiamo in sesso e ricordi.”
Fukuzawa posò il palmo aperto su una delle cosce nivee. “Che cos’è che non ti torna?”
“Un tempo, avresti definito un simile legame pericoloso.”
“Un tempo, avevo una fidanzata,” gli ricordò Fukuzawa.
Mori rise. “Ah, giusto, la fanciulla senza nome.”
“Ce l’ha un nome, ma tu insisti a dimenticarlo.”
“Perché ricordare qualcosa di tanto superfluo?” Mori sapeva tutto della relazione tra Fukuzawa e quella fanciulla di buona famiglia. Se Natsume Soseki non li avesse messi insieme, forse sarebbero convolati a giuste nozze nel giro di qualche anno.
Invece, ecco che un principe nero si era infilato in mezzo a rovinare la bella favole della poverina.
“Perché l’hai lasciata?” Domandò Mori.
Fukuzawa non gli rispose, si limitò a lanciargli uno sguardo eloquente.
E il medico rise. “Sei un uomo troppo onesto, Fukuzawa Yukichi.”
“No, non lo sono,” ribatté l’uomo dai capelli chiari. “Se lo fossi stato, l’avrei corteggiata come si conviene, l’avrei sposata e poi avrei fatto tutto il resto.”
Mori storse la bocca in una smorfia disgustata. “Ti prego, il sesso tra due verginelli non è divertente.”
“Sì, me lo ha detto anche lei.”
Mori sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?”
“Quando l’ho lasciata, adducendo al fatto che le mie scelte lavorative non si sposavano bene con le aspettative di lei, ci ha tenuto a informarmi che il sesso con me era una cosa disastrosa.”
Se Mori fosse stato un uomo con un poco di sensibilità, se ne sarebbe rimasto in silenzio. Invece, rise in faccia al suo amante senza ritegno. “Il sesso è come la guerra,” disse, sporgendosi al punto d’appoggiare la fronte a quella del suo amante. “Tutti bravi a dichiararsi amanti e soldati e, alla fine, solo in pochi lo sono davvero.” Posò un bacio a stampo sulle labbra della sua guardia del corpo. “Ciò non toglie a nessuna la possibilità d’imparare.”
“Mi accusò di avere un’amante,” aggiunse Fukuzawa, sollevando la mano per arrotolare una ciocca corvina dell’altro intorno all’indice.
Mori corrugò la fronte e cercò di ricollegare tempi ed eventi. “Quando siamo divenuti amanti, eravate ancora una coppia?” Ci mancò poco che si mettesse di nuovo a ridere.
“Mi disse che aveva notato delle differenze.”
“Nel sesso?”
“Nel sesso,” confermò Fukuzawa. “Di colpo, riuscivo a farla venire.”
Per un attimo, Mori non seppe che cosa dire, poi lanciò un’occhiata al calice sul comodino. Era mezzo vuoto. “Va bene, sta parlando il vino.”
“In vine veritas.”
“Oh, come sei colto…”
“Sapevo come farla venire, perché qualcuno mi aveva smosso qualcosa dentro,” raccontò Fukuzawa, sfiorando il viso dell’altro con il dorso delle dita. “Mi hanno educato al controllo.”
Mori coprì quella mano con la sua e la fece aderire al volte. “Ma la passione non è controllo. È tutto il contrario.”
L’espressione imperturbabile di Fukuzawa non lasciava intravvedere nulla, ma doveva essere piuttosto alticcio. Mori si appoggiò alle spalle dell’amante per farsi più vicino. “Mi stai confessando che sono il tuo maestro nell’arte del piacere, Fukuzawa Yukichi?” Il pensiero lo riempiva di un’intima soddisfazione.
Fukuzawa gli prese il viso tra le mani e il modo in cui lo guardò… Mori non seppe come descriverlo, seppe solo che era troppo.
Saltò giù dal letto e allacciò un paio di bottoni della camicia per darsi un minimo di contegno. Sapeva bene che, in breve tempo, si sarebbe ritrovato di nuovo completamente nudo, steso al centro di quel letto a baldacchino, con Fukuzawa tra le gambe. Ma, sì, era venuto il momento di tornare con i piedi per terra e prendere le dovute distanze di sicurezza da un qualcosa che - se lo ripeteva spesso - non era più in grado di trovare.
“Come sta il tuo ragazzino?” Domandò Mori, afferrando il calice che aveva lasciato a terra e avvicinandosi alla finestra. Il paesaggio non gli interessava davvero e nemmeno di avere informazioni sull’orfano che Fukuzawa aveva preso sotto la sua custodia. Alle volte, in cuor suo, Mori desiderava che sparisse. Si era convinto che quel moccioso - nemmeno ricordava il suo nome - fosse l’unico ostacolo insormontabile tra Fukuzawa e quello che Mori desiderava diventassero.
“Ha quattordici anni ed è un inferno starci in compagnia,” rispose Fukuzawa, abbandonandosi completamente contro i cuscini del letto.
“Quattordici anni…” Mori ridacchiò, notando che i cinque grattacieli erano visibili anche da lì, oltre il mare di alberi. “Quando sono volato in Germania con Hans, avevo solo un anno più di lui.”
Nel riflesso del vetro, vide Fukuzawa scuotere la testa. “I suoi quattordici anni e i tuoi non possono essere paragonati.”
“Perché io sono un figlio della Port Mafia e lui no?”
“Perché lui è un genio dell’intuizione quando gli è congeniale e poi non riesce ad attraversare da solo un tornello della metro.”
Con il calice di vino premuto contro le labbra, Mori si voltò a guardarlo. “Ah…” Commentò. “È quel tipo di genialità.”
Fukuzawa lo fissò speranzoso. “Se la capisci, fammi uno schema. Abbiamo dei seri problemi di comunicazione.”
“Nah!” Mori rise. “Avete dei seri problemi di comunicazione perché ha sedici anni. Passerà.”
“Adesso sei esperto di genitorialità?”
“Se me lo avessero permesso, lo sarei.” Quando Mori si rese conto di aver parlato, era troppo tardi per tornare indietro.
Fukuzawa lo guardava fisso, immobile, quasi avesse paura di muoversi. Sapeva, da uomo di guerra, di essere stato spinto su un terreno minato. Qualunque mossa avesse fatto, sarebbe stata quella sbagliata.
Mori sospirò, tornò vicino al letto e appoggiò il calice sul comodino, prima di stendersi tra le coperte. “Io e Hans abbiamo avuto una bambina,” confessò. Quando tornò a guardare l’amante negli occhi, gli occhi azzurri di Fukuzawa erano ancora fissi su di lui. Lo aveva ammutolito.
Mori sorrise. “Perché mi guardi così?” Domandò. “Lo sai come va qui: sesso e ricordi. Questo è solo un capitolo della mia storia che mi sono dimenticato di raccontarti.”
“Dimenticato?”
“Oh, il gatto non ti ha mangiato la lingua.”
“L’hai…” Fukuzawa chiuse la bocca e ci pensò. “Insomma, sei stato tu a-“
Mori lo derisi. “Vieni a letto con me da tempo. Conosci il mio corpo e cosa la mia abilità può fare,” gli ricordò. “Sai anche che sei l’unico, dopo Hans, ad avermi avuto in quel modo.”
Fukuzawa aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Tu mi…” Fece difficoltà a dirlo esplicitamente. “Tu mi lasci venire dentro. Tutte le volte.”
Mori rise in modo esagerato. “Dovresti vedere la tua faccia!”
“Rintarou, sul serio…”
“Sai che mi piace, quando mi vieni dentro.”
“Sì, ma non credevo che tu-“
Mori si sporse verso di lui, premendogli l’indice contro le labbra. “Non sono più un ragazzino di diciassette anni,” disse. “So come evitare simili incidenti. Al tempo, nemmeno io credevo di poter dare alla luce una vita.”
Fukuzawa si rilassò. “Avevi diciassette anni?” Solo tre in più di Ranpo.
“A diciassette l’ho concepita e a diciotto l’ho partorita,” raccontò Mori, appoggiandosi alla sua spalla. “È nata durante la prima estate della guerra. Ha quasi dieci anni, ormai.”
Fukuzawa intuì che aveva bisogno di sentirlo vicino, così appoggiò la guancia tra quei capelli corvini. “Dove si trova?”
Mori scosse la testa. “Non ne ho idea,” rispose, senza nessuna particolare intonazione. “Me l’hanno portata via quando aveva due anni.”
“Quando hai perso anche Hans,” ricordò Fukuzawa. “Quando hai ucciso Jünger e hai deciso di lasciar morire Mori Rintarou.”
Il medico annuì lentamente. “Hai mai sentito parlare dell’arma di Weimar?”
Fukuzawa fu preso in contropiede da quella domanda. “Nessuno sa con esattezza se fosse una leggenda di guerra o un progetto top secret.”
“Era molto reale,” disse Mori, gli occhi scuri persi nel vuoto. “Tanto reale che l’ho tenuta tra le braccia.”
A quel punto, Fukuzawa Yukichi riuscì a porre solo una semplice domanda. “Come si chiama?”
Un sorriso triste graziò le labbra di Mori. “Elise…”
Il suo campo sorgeva a una cinquantina di chilometri da Colonia e aveva a sua disposizione abbastanza uomini da tenere il confine, ma erano sprovvisti di portatori di abilità. Di fatto, non stavano andando da nessuna parte.
Una striscia di fango, sangue e filo spinato divideva le forze tedesche da quelle francesi. Qust’ultiume, inoltre, potevano godere dell’appoggio del vicino alleato Belgio. L’epica guerra - la Grande Guerra - tra semi-divinità, di cui già scrivevano i romanzieri e cantavano i poeti dell’età contemporanea, si era spostata più a sud.
Ernst Jünger era l’unico possessore di abilità sul quel campo di battaglia, ma il suo potere non era utile in una strategia di attacco. La sconfitta di Parigi era stata troppo per il Governo di Germania.
“Il Generale Jünger non si è dimostrato idoneo al compito assegnatogli.” Erano state le parole del portavoce del consiglio. “Per tanto, la Germania non lo ritiene più in grado di restare alla testa dell’Armata di Dotati di Abilità. Non verrà, tuttavia, privato del suo grado. Non appena il Consiglio di Guerra avrà valutato con attenzione la sua situazione, verrà riassegnato a un’altra armata, su di un nuovo fronte. Da oggi in poi, verrà tenuto all’oscuro di ogni piano top secret del Dipartimento Speciale.”
Ernst Jünger era stato mandato a combattere una guerra di trincea tra comuni esseri umani, dove gli uomini morivano come topi su entrambi i fronti ed erano più i proiettili sprecati che quelli che centravano un bersaglio vivo.
Se qualcuno avesse vinto la guerra non sarebbe accaduto lì e, sopratutto, non sarebbe mai avvenuto per sua mano. Per il suo orgoglio di uomo e di soldato non esisteva sconfitta e umiliazione peggiore. La storia si sarebbe ricordato di lui nel più pietoso dei modi e tutto per colpa di un moccioso di poco più di vent’anni, che si era rifiutato di usare il suo potere per decimare un’intera nazione.
Che Johann Goethe fosse maledetto, insieme ai suoi alti principi morali e alla sua puttana giapponese. Che bruciassero tutti e due all’inferno, insieme a quell’abominio che avevano messo al mondo.
L’Arma di Weimar. Jünger sperava con ogni fibra del suo essere che il Governo di Germania prendesse quella bambina e ne facesse ciò che riteneva più utile per le sorti della guerra. Solo allora Johann Goethe e Mori Rintarou sarebbero stati dilaniati a sufficienza dagli eventi di quel conflitto, così come lo era ora lui.
L’aria della notte penetrava nella tenda gelida e fastidiosa, ma Ernst Jünger, seduto con gli stivali affondati nel fango, non sentiva il freddo, né i crampi della fame - era da un po’ che non mangiava. La sua barba si era fatta incolta e i capelli biondi sempre in ordine, ora erano unti e gli ricadevano scompostamente sugli occhi. L’immagine del soldato integerrimo era ormai un lontano ricordo. Andava avanti nel suo lavoro per pura inerzia, perché della Germania non gli importava sinceramente più nulla.
Al centro della sua scrivania, tra le mappe del campo di battaglie scarabocchiate con la posizione dei suoi soldati e quella dei nemici, saltava all’occhio una lettera che portava il sigillo dell’esercito tedesco. Era lì da almeno una settimana e, a causa dell’umidità, cominciava a ripiegarsi su se stessa.
Jünger l’aveva letta una sola volta. Non era servita una seconda occhiata: il messaggio di poche parole era molto chiaro nel suo tragico significato. Forse avrebbe dovuto scrivere a sua moglie. Se lei lo aveva fatto, era probabile che le lettere fossero rimasta bloccate a Colonia e non c’era altro mezzo di comunicazione per raggiungerlo lì, dov’era.
La schietta e crudele verità era che a Jünger non importava più nulla nemmeno della donna che aveva sposato. La sola ragione per cui non estraeva la pistola e non si piantava una pallottola in testa era perché la sua natura di soldato glielo impediva. Le sostanze stupefacenti erano la sua unica consolazione, un vizio che aveva fatto suo ben prima che quel conflitto didotati di abilità cominciasse. Era illegale, sì, ma gli permetteva di evadere dalla realtà quanto bastava per evitare di fare di peggio.
Certo, la Grande Guerra lo avrebbe ucciso, ma lo avrebbe fatto come si addiceva a un uomo del suo calibro: sul campo di battaglia.
Nella notte, giunse alle sue orecchie l’urlo di dolore di un uomo in lontananza. Doveva trattarsi di uno dei feriti o di qualcuno tornato alla realtà, dopo un incubo particolarmente violento. Il vento si fece più impetuoso e l’ingresso della sua tenda si aprì per pochi secondi, mostrandogli un’immagine veloce del campo silenzioso. Ma non vide solo quello.
Attirato dall’impressione di aver scorto qualcosa nel buio, il Generale Jünger sollevò la testa e aspettò che il vento sollevasse il tendaggio una seconda volta. Accadde: la figura si era fatta più vicina e, per il tempo di un respiro, Jünger riuscì a vedere i suoi occhi. Gli era parso che brillassero di una luce violacea.
“Rintarou…” Chiamò.
Il giovane dai capelli corvini emerse dall’oscurità, facendo due passi all’interno della tenda. Jünger inspirò dal naso: nella notte, gli era parso un Demone e, invece, era solo un ragazzo. Quanti anni aveva? Forse venti. Jünger ricordava solo che era poco più giovane di Johann.
“Che cosa ci fai qui?” Domandò il Generale.
Rintarou non rispose. Il suo viso non indossava nessuna espressione in particolare e i suoi occhi erano due pozzi neri, senza luce. Aveva addosso la divisa dell’esercito tedesco, ma era sporca di fango e sangue.
Per nulla interessato alle ragioni che avevano spinto quel giovane ad affrontare un viaggio da Weimar a Colonia, Jünger si alzò in piedi. “Ascolta,” disse, stancamente. “Come saprai, non sono più al comando dell’Armata Speciale e tutto ciò che concerne Johann non mi riguar-“
Forse per la stanchezza, forse per le sostanze chimiche che circolavano nel suo sangue, Jünger non vide Rintarou muoversi. No, sentì solo la lama che penetrava nell’addome, sul lato sinistro.
“Quando ero bambino, mio padre mi raccontò che, un tempo, la nostra era una famiglia di samurai,” gli sussurrò Rintarou all’orecchio, come se gli stesse rivelando un segreto. “Forse è per questo che le lame mi affascinano più delle armi da fuoco.” Fece un passo indietro.
Jünger barcollò per un paio di metri in un misero tentativo di mettersi in salvo, poi cadde riverso sul terreno fangoso. Nella confusione accentuata dal dolore, cercò l’elsa del pugnale, ma Rintarou fermò la sua mano tremante premendo i sopra il tacco dello stivale. Vi appoggiò tutto il peso del corpo e le ossa si ruppero con un sonoro crick.
Jünger emise un lamento gutturale e tossì sangue.
Rintarou storse la bocca in una smorfia contrariata. “Penso di averti preso il fegato, avrei dovuto pugnalarti più in basso. Perdonami, sono giovane e mi serve ancora tanta pratica.”
Sul terreno, Jünger si dimenava, cercando con la mano sana qualcosa che non c’era: la pistola era rimasta sulla scrivania.
“Johann è morto,” disse Rintarou e un bagliore violaceo illuminò i suoi occhi scuri. “Mi hanno consegnato la sua testa. Il viso era deturpato. Non ho idea di dove sia il resto del suo corpo.”
Jünger apprese quella notizia con gioia. Nonostante il sapore del sangue in bocca, sorrise come un uomo completamente privo di ragione.
Rintarou premette lo stivale vicino alla ferita che gli aveva inferto e il Generale urlò di dolore, sputando altro sangue, che si andò a mischiare col fango.
Il giovane dai capelli corvini s’inginocchio accanto alla sua testa. “Johann non è caduto in battaglia, ma è stato assassinato,” disse. “Sei tu il mandante?”
Jünger gli sputò addosso, ma riuscì solo a sporcargli la parte alta degli stivali col proprio sangue.
Rintarou alzò gli occhi al cielo. “Diciamo che sei tu il mandante, ma sei troppo snob per andarti a sporcare le mani in una maniera tanto macabra. No, a te piace dare ordini. Bene, a chi hai ordinato di uccidere Hans?”
Jünger rideva. La compostezza che lo distingueva era ormai andata al diavolo. La morte stava arrivando e il Generale le rideva in faccia, sprezzante.
“Avete pagato il prezzo per la vostra superbia, mocciosi,” sibilò, come un serpente velenoso. “Credevate davvero che il mondo avrebbe giocato secondo le vostre regole? Johann Goethe ha condannato se stesso nel momento in cui non ha decimato la Francia e i suoi allleati e ha trascinato nell’abisso anche te!”
Mori strinse le labbra, poi allungò la mano sull’elsa del pugnale, rigirando la lama nella carne. Jünger prese a urlare e dimenarsi, mentre altro sangue risaliva su per la gola.
“Sì, penso di averti preso il fegato,” disse Rintarou, spostandosi sopra di lui per tenerlo fermo. “Pazienza, non morirai velocemente comunque. Usa quell’inutile abilità che ti ritrovi e dimmi dove si trovano gli assassini di Hans,” ordinò, gelido. “Anche ammesso che tu non abbia nulla a che fare con questa storia, ne conosci senza dubbio i colpevoli.”
Non appena smesso di urlare, Jünger cominciò ad annaspare, come se gli mancasse aria.
“Piantala, i tuoi polmoni funzionano ancora benissimo.” Rintarou lo torturava con la stessa calma con cui avrebbe aperto un cadavere per la lezione di anatomia del giorno. Johann Goethe non aveva avuto il coraggio di massacrare una nazione, ma Mori Rintarou era nato per infliggere dolore.
Da parte sua, Jünger non aveva più nulla da perdere ed era troppo pragmatico per sprecare tempo a invocare pietà. “Non vuoi sapere dov’è la piccola Elise, Rintarou?”
Qualcosa cambiò nello sguardo del più giovane. Il gelo si tramutò in fuoco e un nuovo bagliore violaceo illuminò quelli iridi scure. Jünger poteva avere una lama infilata nel fegato, ma il giovane Rintarou ne aveva una nel cuore.
“Ah, ti hanno portato via anche lei.”
Rintarou digrignò i denti, come una belva pronta a sbranare la sua preda. “Dimmi dov’è?” Gli bastò così poco per perdere il controllo.
Jünger glielo lesse negli occhi: l’assassinio di Johann passava in secondo piano, se c’era una possibilità di riavere sua figlia viva.
“Dimmi dov’è e ti sarà risparmiata l’agonia!” Urlò Rintarou.
Era partito bene: freddo e controllato. Nel momento in cui Jünger gli aveva nominato ciò che amava di più al mondo, aveva smesso di essere l’assassino a sangue freddo per essere solo un giovane genitore disperato.
“Vedi la lettera sulla mia scrivania?” Domandò Jünger.
Rintarou non si voltò nemmeno.
“È la comunicazione ufficiale dell’esercito che m’informa che mio figlio è morto in battaglia,” proseguì il Generale. “Era uno dei dispersi di Parigi, la sconfitta che Johann avrebbe potuto evitare, se avesse seguito la tua strategia fino in fondo. Ha tradito te, prima di tradire l’intera Germania!”
Rintarou non lo ascoltava. Lo afferrò per il bavero della divisa da soldato. “Dimmi dov’è Elise!”
Jünger allargò le braccia. “Il Governo mi ha chiuso fuori da tutte le missioni e tutti i progetti top secret. Sappiamo tutti e due che puntavano a tua figlia da quando è nata.”
“Voglio sapere dove si trova!”
“Lo stai chiedendo al mio potere, Rintarou?” Domandò Jünger. “Ho bel faccino d’angelo di tua figlia impresso in testa. Non importante dove si trovi in questo momento. Se è ancora viva, il mio potere potrebbe essere in grado di trovarla senza errori…” Una pausa crudele. “Se tua figlia non fosse l’abominio in grado di annullare tutte le abilità. È un’arma, Rintarou, e il suo destino è quello di cui tu e Johann avevate tanto paura e non c’è alcuna cosa che tu possa fare per-“
Rintarou non gli permise di aggiungere una parola di più. Afferrò l’elsa del pugnale e usò tutta la forza del braccio per spingerla in su, verso le costole. Jünger urlò come non aveva mai sentito urlare nessun essere umano. Quando non riuscì più a usare la voce, si contorse. Per tenendolo fermo con tutto il peso del corpo, Rintarou ebbe difficoltà a tenerlo fermo.
Quando sentì il polso destro tremare per lo sforzo, il giovane si aiutò con la mano sinistra. Il sangue zampillava in ogni dove: sul suo viso, sui suoi vestiti e sul terreno fangoso.
Andò avanti per quelle che parvero ore, ma furono pochi, terribili, minuti.
Quando si rese conto che Ernst Jünger non si muoveva più, Rintarou si fermò.
Sollevò la schiena, il fiato corto per lo sforzo e il corpo completamente indolenzito. Guardò quanto aveva fatto e non gli fece alcun effetto.
“Maledizione!” Urlò. Si sollevò in piedi e prese a calci il cadavere dell’uomo, fino a che non scivolò a terra, privo di forze. Ignorando il sangue sulle sue mani, infilò le dita tra i capelli corvini. Aveva la gola chiusa e stava per mettersi a piangere di nuovo. Il potere era lì, in fondo al suo petto e batteva veloce come il suo cuore.
Rintarou non provò a sopprimerlo ma, al contrario, concentrò tutta la sua rabbia su di esso. Sollevò lo sguardo e lo rivolse fuori dalla tenda, verso la notte.
I suoi occhi scuri erano divenuti di un viola vibrante.
Un respiro più tardi, un bagliore dello stesso colore ridusse a pezzi tutto ciò che aveva intorno.
Vite umane comprese.
Mori scivolò fuori dal letto senza far rumore. Raccolse una delle due camicie finite a terra: la più grande. Mentre la infilava, lanciò un’occhiata al suo amante addormentato. Era in quei momenti che realizzava quanta fiducia Fukuzawa Yukichi riponeva in lui - sebbene il Lupo d’Argento ci teneva a sostenere tutto il contrario - perché nessuna ex Spia governativa del suo calibro si sarebbe addormentata tanto profondamente nel letto di un principe della malavita.
Principe.
Quel nomignolo gli faceva alzare gli occhi al cielo e, al contempo, lo faceva sorridere con aria nostalgica. C’era stato un tempo in cui si era sentito tale, prima di Hans, della Germania e della Grande Guerra. Poi era cresciuto e si era accorto che i principi, anche quelli neri, esistevano solo nelle favole.
Scese in cucina a piedi scalzi, prese due calici dalla credenza e aprì una bottiglia di vino rosso. Quando risalì, lo fece lentamente, stando attento a dove metteva i piedi. Non era abitudine di Mori fare quelle carinerie. Era cresciuto nel lusso, anche se i suoi genitori gli avevano insegnato a non dare nulla per scontato e la vita glielo aveva fatto provare sulla propria pelle nel peggiore dei modi, gli piaceva essere viziato.
Fukuzawa non era quel genere di uomo.
Dire che c’era del romanticismo tra loro era pura follia.
Quella sera, Mori era solo felice di sapere che Fukuzawa Yukichi si sarebbe presentato al suo fianco all’evento di gala della Port Mafia e voleva celebrare l’evento in qualche modo, oltre al sesso.
“Forse dovresti venire con me.” Il giovane dirigente era stato abile nel proporglielo, sussurrandoglielo all’orecchio durante un istante dopo aver raggiunto l’orgasmo e quello prima che Fukuzawa facesse lo stesso.
Gli aveva risposto ”si, si, si” con voce roca, gli occhi azzurri chiusi. Le sillabe erano scivolate lentamente nel suo orecchio, mentre le mani dell’ex agente governativo gli stringevano le cosce febbrilmente e Mori continuava a muoversi su di lui, godendosi gli spasmi di piacere.
Alla fine, ovviamente, aveva litigato. Nudi, sul letto, ancora avvinghiati. Con Mori che rideva e faceva: “ormai mi hai dato la tua parola, non puoi rimangiartela.”
“Non ti ho dato un bel niente!” Aveva ribattuto Fukuzawa.
Mori aveva scrollato le spalle, infilando una mano birichina tra le gambe dell’amante. “Beh… Qualcosa me lo hai dato.”
Ed erano finiti a fare l’amore di nuovo.
Perché tra loro si poteva finire solo nel sangue o tra le le lenzuola. Oppure entrambe le cose, una di seguito all’altra.
Ancora divertito da quei pensieri, Mori scivolò dentro la porta della camera da letto lasciata socchiusa, ma Fukuzawa era già stato svegliato dal posto vuoto, accanto a lui. “Vino?” Domandò, assottigliando gli occhi azzurri.
“Vino,” confermò Mori, sedendosi in fondo al letto, mentre l’amante si accomodava contro i cuscini. La camicia che aveva addosso gli impediva di sentire freddo sulle spalle ma, in realtà, non copriva nulla e al mafioso andava benissimo così. Il periodo che aveva trascorso a prostituirsi alla casa dei fiori gli aveva insegnato moto su cosa piaceva agli uomini. Avendo avuto solo Hans, Mori aveva modellato su di lui ogni gioco di piacere e non era mai stato curioso di andare oltre perché, di fatto, lo appagava. Quando si era ritrovato a passare le notti con uomini tutti diversi, di cui non conosceva i segreti più intimi, quelli che rendono una notte degna da ricordare, avevano dovuta far sua un’arta che aveva ben poco a che fare con l’amore.
Era fuggito da quel mondo non appena aveva potuto, ma c’erano dei segni che gli erano rimasti addosso e non era sicuro che sarebbe mai riuscito a cancellarli.
Il dettaglio della camicia aperta, indossata solo per mostrare tutto quello che gli occhi potevano vedere, era uno di quei trucchetti da bordello che, con la conversazione giusta, avrebbe spinto il cliente a chiedere un secondo amplesso.
Fukuzawa Yukichi non era un suono cliente, ma un amante in piena regola. L’unico dopo Hans. Mori sapeva che sarebbero finiti col fare l’amore una seconda vola, dopo il vino, ma voleva mostrarsi ben predisposto.
“Sai che non reggo bene qualsiasi alcolico all’infuori del sakè," disse Fukuzawa, accettando il suo calice di malavoglia.
“Meglio così,” disse Mori, appoggiando la schiena a una delle colonne di legno del baldacchino. “Se il vino ti sale alla testa, posso approfittarmi di te per un’altra piacevole mezz’ora.”
Già, Fukuzawa non era un cliente. Con lui non doveva sottostare a nessuna regola o tenere una linea di comportamento adatta. Ne aveva voglia? E allora se lo prendeva, alla solo condizione che anche l’altro lo volesse.
A Fukuzawa piaceva il sesso, era solo troppo timido e ben educato per essere passionale. Mori era tutto il contrario. Era stato cresciuto in una famiglia tradizionale, malavitosamente parlando, ma questo non gli aveva impedito di lasciare il suo paese a quindici anni per seguire il suo primo amore. Aveva perso la verginità nella stessa camera in cui era cresciuto, sotto il tetto di suo padre e sua madre. Era stato Mori, all’ora Rintarou, a far entrare Johann Goethe di nascosto - dopo quella notte, per lui sarebbe divenuto solo Hans. Un fanciullo di nemmeno vent’anni proveniente dal cuore della Germania, con i suoi occhi azzurri e le onde dorate ad incorniciargli il viso. Quando quella notte era finita e il sole era sorto, Rintarou aveva perso ogni briciolo d’innocenza il suo corpo contenesse. A quel punto, gli mancava solo il battesimo del sangue.
Ma per quello c’era stato tempo. Lo stesso tempo che lo aveva spinto a distinguere l’amore da Hans al sesso per quello che era.
Ci aveva pensato la scuola della vita a indurlo a restare coi piedi per terra e smettere di avere la testa persa tra le nuvole. Tuttavia, nulla, nemmeno il tempo passato a prostituirsi alla Casa dei Fiori, aveva convinto Mori che dividere il letto con una persona non avesse come scopo primario il divertimento reciproco. Al diavolo la buona educazione!
La Casa dei Fiori era una casa di piacere solo di nome. I lavoratori del sesso esistevano e Mori era dell’idea che andassero tutelati, con tutti i diritti del caso. Sotto la Port Mafia del Boss Folle, tra quelle camera di piacere se ne consumava davvero poco. Mori ricordava la prima volta che venne violentanto. Fu durante la prima notte di servizio, la peggiore. Col tempo, Mori aveva fatto suo un trucchetto per sopravvivere a quell’esperienza. Aveva smesso di ribellarsi e aveva finto di non essere lì, costringendo la sua testa a staccarsi al resto del corpo.
Quando tornava in sé, sentiva tutto il dolore, il disgusto, l’umiliazione, ma non ricordava nulla di quello che era successo nel frattempo.
Mori Rintarou aveva trovato impossibile provare tanto piacere con e attraverso il corpo di Hans.
Mori Ougai aveva scoperto che tutto quel piacere poteva tramutarsi in qualcosa di uguale e contrario.
“Sei di buon umore,” commentò Fukuzawa, abbandonando il suo calice di vino sul comodino dopo appena un sorso.
Mori scrollò le spalle. “Mi piace fare il complicato, ma in realtà sono molto semplice: i miei desideri si realizzano e sono felice.”
“Ci tieni così tanto che venga a quel ballo?”
L’ultima volta che Mori aveva ballato era stato prima della guerra, nella semioscurità di una camera d’albergo, seguendo le note di un chitarra in strada che suonava Good Riddance.
“Non è propriamente un ballo. La fai sembrare una cosa da secolo scorso.” Il medico prese un sorso di vino. “È un evento di gala. Quando ero un ragazzino, io e le mie sorelle restavano a guardare mia madre prepararsi per ore. Loro erano convinte che lei e nostro padre andassero a uno di quei balli, come li chiami tu, ma con le carrozze, i cavalli, i castelli dalle alte torri bianche… Ricordo la delusione di Hasu, la più grande, quando si rese conto che le torri bianche in questione erano solo i grattacieli neri che vedevamo tutti i giorni.” Gli sfuggì un sorriso nostalgico. “Sto di nuovo parlando da solo,” concluse, bevendo altro vino.
Fukuzawa inarcò il sopracciglio destro. “Da solo? Io sono proprio qui.”
“Già…” Mori si sporse verso destra, posando il suo calice a terra. Scivolò sulla coperta fino a sedersi a cavalcioni del suo amante. “Noi manteniamo l’equilibrio di questa città nell’ombra, senza che nessuno lo sappia. Poi ci nascondiamo in questa villa, lontano dalla Yokohama che tanto diciamo di amare e ci perdiamo in sesso e ricordi.”
Fukuzawa posò il palmo aperto su una delle cosce nivee. “Che cos’è che non ti torna?”
“Un tempo, avresti definito un simile legame pericoloso.”
“Un tempo, avevo una fidanzata,” gli ricordò Fukuzawa.
Mori rise. “Ah, giusto, la fanciulla senza nome.”
“Ce l’ha un nome, ma tu insisti a dimenticarlo.”
“Perché ricordare qualcosa di tanto superfluo?” Mori sapeva tutto della relazione tra Fukuzawa e quella fanciulla di buona famiglia. Se Natsume Soseki non li avesse messi insieme, forse sarebbero convolati a giuste nozze nel giro di qualche anno.
Invece, ecco che un principe nero si era infilato in mezzo a rovinare la bella favole della poverina.
“Perché l’hai lasciata?” Domandò Mori.
Fukuzawa non gli rispose, si limitò a lanciargli uno sguardo eloquente.
E il medico rise. “Sei un uomo troppo onesto, Fukuzawa Yukichi.”
“No, non lo sono,” ribatté l’uomo dai capelli chiari. “Se lo fossi stato, l’avrei corteggiata come si conviene, l’avrei sposata e poi avrei fatto tutto il resto.”
Mori storse la bocca in una smorfia disgustata. “Ti prego, il sesso tra due verginelli non è divertente.”
“Sì, me lo ha detto anche lei.”
Mori sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego?”
“Quando l’ho lasciata, adducendo al fatto che le mie scelte lavorative non si sposavano bene con le aspettative di lei, ci ha tenuto a informarmi che il sesso con me era una cosa disastrosa.”
Se Mori fosse stato un uomo con un poco di sensibilità, se ne sarebbe rimasto in silenzio. Invece, rise in faccia al suo amante senza ritegno. “Il sesso è come la guerra,” disse, sporgendosi al punto d’appoggiare la fronte a quella del suo amante. “Tutti bravi a dichiararsi amanti e soldati e, alla fine, solo in pochi lo sono davvero.” Posò un bacio a stampo sulle labbra della sua guardia del corpo. “Ciò non toglie a nessuna la possibilità d’imparare.”
“Mi accusò di avere un’amante,” aggiunse Fukuzawa, sollevando la mano per arrotolare una ciocca corvina dell’altro intorno all’indice.
Mori corrugò la fronte e cercò di ricollegare tempi ed eventi. “Quando siamo divenuti amanti, eravate ancora una coppia?” Ci mancò poco che si mettesse di nuovo a ridere.
“Mi disse che aveva notato delle differenze.”
“Nel sesso?”
“Nel sesso,” confermò Fukuzawa. “Di colpo, riuscivo a farla venire.”
Per un attimo, Mori non seppe che cosa dire, poi lanciò un’occhiata al calice sul comodino. Era mezzo vuoto. “Va bene, sta parlando il vino.”
“In vine veritas.”
“Oh, come sei colto…”
“Sapevo come farla venire, perché qualcuno mi aveva smosso qualcosa dentro,” raccontò Fukuzawa, sfiorando il viso dell’altro con il dorso delle dita. “Mi hanno educato al controllo.”
Mori coprì quella mano con la sua e la fece aderire al volte. “Ma la passione non è controllo. È tutto il contrario.”
L’espressione imperturbabile di Fukuzawa non lasciava intravvedere nulla, ma doveva essere piuttosto alticcio. Mori si appoggiò alle spalle dell’amante per farsi più vicino. “Mi stai confessando che sono il tuo maestro nell’arte del piacere, Fukuzawa Yukichi?” Il pensiero lo riempiva di un’intima soddisfazione.
Fukuzawa gli prese il viso tra le mani e il modo in cui lo guardò… Mori non seppe come descriverlo, seppe solo che era troppo.
Saltò giù dal letto e allacciò un paio di bottoni della camicia per darsi un minimo di contegno. Sapeva bene che, in breve tempo, si sarebbe ritrovato di nuovo completamente nudo, steso al centro di quel letto a baldacchino, con Fukuzawa tra le gambe. Ma, sì, era venuto il momento di tornare con i piedi per terra e prendere le dovute distanze di sicurezza da un qualcosa che - se lo ripeteva spesso - non era più in grado di trovare.
“Come sta il tuo ragazzino?” Domandò Mori, afferrando il calice che aveva lasciato a terra e avvicinandosi alla finestra. Il paesaggio non gli interessava davvero e nemmeno di avere informazioni sull’orfano che Fukuzawa aveva preso sotto la sua custodia. Alle volte, in cuor suo, Mori desiderava che sparisse. Si era convinto che quel moccioso - nemmeno ricordava il suo nome - fosse l’unico ostacolo insormontabile tra Fukuzawa e quello che Mori desiderava diventassero.
“Ha quattordici anni ed è un inferno starci in compagnia,” rispose Fukuzawa, abbandonandosi completamente contro i cuscini del letto.
“Quattordici anni…” Mori ridacchiò, notando che i cinque grattacieli erano visibili anche da lì, oltre il mare di alberi. “Quando sono volato in Germania con Hans, avevo solo un anno più di lui.”
Nel riflesso del vetro, vide Fukuzawa scuotere la testa. “I suoi quattordici anni e i tuoi non possono essere paragonati.”
“Perché io sono un figlio della Port Mafia e lui no?”
“Perché lui è un genio dell’intuizione quando gli è congeniale e poi non riesce ad attraversare da solo un tornello della metro.”
Con il calice di vino premuto contro le labbra, Mori si voltò a guardarlo. “Ah…” Commentò. “È quel tipo di genialità.”
Fukuzawa lo fissò speranzoso. “Se la capisci, fammi uno schema. Abbiamo dei seri problemi di comunicazione.”
“Nah!” Mori rise. “Avete dei seri problemi di comunicazione perché ha sedici anni. Passerà.”
“Adesso sei esperto di genitorialità?”
“Se me lo avessero permesso, lo sarei.” Quando Mori si rese conto di aver parlato, era troppo tardi per tornare indietro.
Fukuzawa lo guardava fisso, immobile, quasi avesse paura di muoversi. Sapeva, da uomo di guerra, di essere stato spinto su un terreno minato. Qualunque mossa avesse fatto, sarebbe stata quella sbagliata.
Mori sospirò, tornò vicino al letto e appoggiò il calice sul comodino, prima di stendersi tra le coperte. “Io e Hans abbiamo avuto una bambina,” confessò. Quando tornò a guardare l’amante negli occhi, gli occhi azzurri di Fukuzawa erano ancora fissi su di lui. Lo aveva ammutolito.
Mori sorrise. “Perché mi guardi così?” Domandò. “Lo sai come va qui: sesso e ricordi. Questo è solo un capitolo della mia storia che mi sono dimenticato di raccontarti.”
“Dimenticato?”
“Oh, il gatto non ti ha mangiato la lingua.”
“L’hai…” Fukuzawa chiuse la bocca e ci pensò. “Insomma, sei stato tu a-“
Mori lo derisi. “Vieni a letto con me da tempo. Conosci il mio corpo e cosa la mia abilità può fare,” gli ricordò. “Sai anche che sei l’unico, dopo Hans, ad avermi avuto in quel modo.”
Fukuzawa aprì e chiuse la bocca un paio di volte. “Tu mi…” Fece difficoltà a dirlo esplicitamente. “Tu mi lasci venire dentro. Tutte le volte.”
Mori rise in modo esagerato. “Dovresti vedere la tua faccia!”
“Rintarou, sul serio…”
“Sai che mi piace, quando mi vieni dentro.”
“Sì, ma non credevo che tu-“
Mori si sporse verso di lui, premendogli l’indice contro le labbra. “Non sono più un ragazzino di diciassette anni,” disse. “So come evitare simili incidenti. Al tempo, nemmeno io credevo di poter dare alla luce una vita.”
Fukuzawa si rilassò. “Avevi diciassette anni?” Solo tre in più di Ranpo.
“A diciassette l’ho concepita e a diciotto l’ho partorita,” raccontò Mori, appoggiandosi alla sua spalla. “È nata durante la prima estate della guerra. Ha quasi dieci anni, ormai.”
Fukuzawa intuì che aveva bisogno di sentirlo vicino, così appoggiò la guancia tra quei capelli corvini. “Dove si trova?”
Mori scosse la testa. “Non ne ho idea,” rispose, senza nessuna particolare intonazione. “Me l’hanno portata via quando aveva due anni.”
“Quando hai perso anche Hans,” ricordò Fukuzawa. “Quando hai ucciso Jünger e hai deciso di lasciar morire Mori Rintarou.”
Il medico annuì lentamente. “Hai mai sentito parlare dell’arma di Weimar?”
Fukuzawa fu preso in contropiede da quella domanda. “Nessuno sa con esattezza se fosse una leggenda di guerra o un progetto top secret.”
“Era molto reale,” disse Mori, gli occhi scuri persi nel vuoto. “Tanto reale che l’ho tenuta tra le braccia.”
A quel punto, Fukuzawa Yukichi riuscì a porre solo una semplice domanda. “Come si chiama?”
Un sorriso triste graziò le labbra di Mori. “Elise…”