Feb. 28th, 2022

CowT 12. Week 3.
M2: Good Riddance




Quando Mori tornò alla clinica, gli parve che un peso immenso fosse stato sollevato dalle sue spalle. La voce di Kouyou gli arrivò chiara e allegra dal piano di sopra. Era tornata abbastanza in forze da camminare, meglio così.
Il vero colpo di scena era che lei parlava e Dazai le rispondeva.
Li trovò nella camera da letto che aveva prestato al quattordicenne e la scena che gli si presentò davanti era tanto ordinaria che, dopo quanto aveva visto alla Casa dei Fiori, la sua mente fece difficoltà a elaborarla.
“Oh, bentornato!” Kouyou staccò il phon dalla spina e lo appoggiò in fondo al letto, dove era seduto Dazai. Lei si era presa la libertà d’indossare alcuni suoi vestiti. Forse era fuori luogo, ma Mori si chiese come facesse a essere attraente anche così.
Dazai lo salutò sollevando la mano sana. Anche a lui era toccata la stessa sorte, ma il maglioncino leggero che aveva addosso lo rendeva più basso di almeno una spanna e i pantaloni erano talmente tanto arrotolati alle caviglie che Mori si chiese come avrebbe fatto a camminarci.
“Ci siamo fatti una bella doccia e adesso lui assomiglia meno a un gatto randagio,” disse Kouyou, aggiustando una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio di Dazai.
Mori fece una smorfia. “Effettivamente, puzzavi un po’.”
Non che avesse avuto il tempo di lavarsi tra il suo arrivo in fin di vita, le prime ore spese a fargli capire dov’era, chi ce l’aveva portato e perché fosse importante che collaborasse. Questo e i piani di Mori per la conquista della Port Mafia.
Dazai lo guardò con sdegno.
Mori ne sorrise. Bene, pensò. Se non vuoi puzzare, hai una dignità sotto tutto quell’autolesionismo.
Sbatté le palpebre un paio di volte. “Un attimo,” alzò la mano destra, come a fermare la scena. “Vi siete fatti la doccia?”
Kouyou alzò gli occhi al cielo. “Non insieme, ovvio. Ci siamo aiutati con le medicazioni a vicenda.”
Mori passò gli occhi dalla giovane donna al ragazzino, poi di nuovo alla giovane donna. “Ehm…”
Dazai intervenne in suo soccorso. “Lei capisce,” disse, coinciso.
Mori si sentì offeso. “Anche io capisco!”
“Forse con me si è trovato più a suo agio,” propose Kouyou.
“Tu mi hai tagliato i vestiti,” gli ricordò Dazai, per nulla affezionato al ricordo.
“Sono un medico, stavi sanguinando ed eri privo di sensi!” Perdere una battaglia di nervi contro un ragazzino era una doppia sconfitta per Mori, ma erano state dodici ore molto impegnative e sporche di sangue.
A tal proposito…
“Dobbiamo parlare,” disse il Boss della Port Mafia. “Dazai, immagino che tu sia stato informato sugli ultimi eventi.”
“Più o meno,” rispose il ragazzino.
“Bene.” Mori si rivolse a Kouyou: non era più sporca di sangue ma le fasciature e gli ematomi erano ancora al loro posto. “Casinò è nelle segrete. Con un buco dove nessun uomo vorrebbe.”
Dazai non parve affatto impressionato, Kouyou sì. “Hai seccato un Dirigente a meno di dodici ore dalla morte del vecchio Boss?”
“Non l’ho seccato,” chiarì Mori. “Ha ventiquattro ore di torture come epilogo della sua patetica esistenza.”
“È un Dirigente,” ripeté Kouyou. “Se lo uccidi con tanta velocità, rischi credibilità, potere, tutto.”
“Oh, mia cara, ho altri due Dirigenti a mio favore, oltre alla Black Lizard!” Mori era ottimista, quasi allegro. “Che cosa può andare storto?”




“Sei un moccioso che non usa la testa!” Esclamò il Colonnello.
Mori contrasse il viso in un’espressione dolente. “Ho trentadue anni.”
“Sì, e ha dimostrato più sangue freddo lui di te,” aggiunse il veterano, indicando Dazai, che guardava fuori dalla vetrata come un bambino sulla ruota panoramica.
Mori li aveva riuniti tutti nell’ufficio del Boss, in cima al grattacielo principale, e aveva portato anche Kouyou in veste di testimone dei tragici eventi.
“Vuole che lei le dica cosa hanno fatto?” Domandò Mori, indicando la giovane donna. “La guardi, Colonnello.”
L’uomo dai baffi grigi fu costretto a farlo. Seduta sulla poltrona di fronte alla scrivania del Boss, Kouyou non abbassò lo sguardo nemmeno pee rispetto verso un suo superiore. No, non era riuscita a proteggere le sue sorelle e le sue maestre, ma non avrebbe abbassato la testa perché era una sopravvissuta.
“Siamo la Port Mafia,” disse Randou, stringendosi di più nel suo cappotto. “La violenza è nella nostra natura.”
“Senza ombra di dubbio,” concordò Mori. “Ma ieri notte si era parlato del rischio di una guerra civile. Ebbene, signori miei, due Dirigenti si sono scagliati contro la nostra stessa gente, quella della Port Mafia. Come vogliamo definire queste azioni?”
Dazai non li guardava in faccia ma ascoltava tutto. Quel Randou non avrebbe fatto una gran differenza nei giochi. Era il Generale Quello da convincere: era il più anziano, quello con più esperienza e se aveva ragioni personali per essere lì, era molto bravo a nasconderle.
Il Generale era stato il primo a pronunciare le parole guerra civile nella sala riunioni, la notte precedente. Il Guercio e Casinò si erano limitati a chinare la testa in un primo momento, per colpirli tutti alle spalle quello successivo.
A meno che il Generale stesso non fosse pronto a rimangiarsi le sue parole, Mori aveva tutto il diritto di rendere cibo per vermi i due Dirigenti traditori.
“Al di là delle perdite a cui andremo incontro,” disse il Colonnello, “perché ce ne saranno Mori, ti rendi conto di quanto ti rendi sospetto agli occhi di tutti? Noi sappiamo che è avvenuto un assassinio. Hirotsu lo sa, ma è un’informazione che non può andare oltre o la Port Mafia potrebbe collassare su se stessa. L’ho detto fin dal principio: non ci possiamo permettere una successione burrascosa. Il Guercio e Casinò sono sempre stati scarti umani, ma tu stai giocando con il fuoco.”
“Invece no,” intervenne Dazai di colpo.
Quando la sala divenne silenziosa, il quattordicenne si voltò a guardarli tutti. “Non riuscite a vedere il quadro per quello che è,” disse, schietto. “Continuate ad accavallare le cose perché sono avvenute una di seguito all’altra. Voi vedete Mori uccidere il Boss Folle e poi passare a eliminare i suoi sostenitori. In altre parole, non riuscite a vedere oltre il vostro naso.”
Mori fece per dire qualcosa riguardo al modo di esprimersi di Dazai, ma il Generalenon si ribellò al suo intervento e lasciò correre. “E che altro dovremmo vedere?” Domandò il veterano.
Dazai sembrava completamente a suo agio in quella sala, come se non si stesse decidendo della vita e della morte di centinaia di persone. “I fatti raccontano una sola storia: il vecchio Boss è morto, Mori è stato scelto come successore e due Dirigenti, non contenti, hanno usato un atto di forza contro la Port Mafia stessa per esprimere il loro disappunto. Dove sarebbe il sospetto in questa storia? Non capisco.”
Mori rise sotto i baffi: Dazai capiva perfettamente, ma gli piaceva far sentire i potenti dei perfetti idioti.
“La verità, Colonnello, è che quello che sospetta è lei,” concluse Dazai. “Lei non vede Mori che usa il suo diritto di fare giustizia contro i traditori, lei vede un regicida che potrebbe usarvi e, una volta finito con voi, uccidervi. Lei non era lì, ieri notte. Lei sapeva dell’omicidio ma ha preso delle caute distanze dai fatti. Mentre il suo collega si è liberato del corpo in prima persona e il leader della Black Lizard è stato fondamentale per la copertura. Voleva il Boss Folle morto, ma non aveva il coraggio di sporcarsi le mani… E ora che è arrivato qualcuno a fare quello che andava fatto, lei è in preda alla paranoia.”
Il Generale strinse i pugni. Era un uomo d’onore e Mori dubitava si sarebbe lanciato contro un ragazzino già menomato di suo, ma rimase comunque teso, pronto all’azione.
Il vecchio Dirigente abbassò lo sguardo con un sospiro stanco. “Chiedo il permesso di parlare privatamente col Boss.”
Mori aveva una mezza idea di dove si volesse arrivare. “Permesso accordato,” disse, cercando l’unico occhio del quattordicenne. “Ma Dazai resta.”
Il Generale passò gli occhi dal Boss al ragazzino, poi annuì. “Si è guadagnato il diritto di restare.”
Mori si rivolse allora all’uomo dai lunghi capelli neri. “Randou, accompagneresti la signorina Ozaki al salottino qui fuori. Torneremo da voi appena possibile.”
Il Dirigente infreddolito non ebbe nulla da obiettare e fu molto cortese nello scortare Kouyou fuori dall’ufficio.
Mori allungò la mano verso Dazai. “Vieni qui.” Quando fu a portata, si alzò dalla poltrona che era appena divenuta il suo trono e strinse le spalle del ragazzino. Ancora una volta, si ritrovò a pensare che era troppo magro.
Per la prima volta dall’inizio di quella storia, il Generale si soffermò a studiare la figura esile del ragazzino. Non gli aveva dato alcun valore nella sala riunioni, convinto fosse uno scacco nella mani del nuovo Boss, facile da usare per la sua giovane età e per lo stato di fragilità in cui versava. “Quanti anni ha di preciso?”
Mori tamburellò le dita sulle piccole spalle. “Può rispondere da solo.”
“Quattordici,” disse Dazai.
“Sembra più piccolo,” commentò il Generale. “Tutti i figli della Grande Guerra lo sembrano. Dove lo hai trovato?”
“È una storia lunga,” rispose Mori cortesemente.
L’uomo anziano comprese che non gli sarebbe stato rivelato nessun dettaglio aggiuntivo. “Hai ragione, ragazzino, sono io il primo sospettare,” confessò, pur sapendo che così poco sarebbe bastato a renderlo colpevole di alto tradimento. “Hai ragione anche quando dici che voleva quel vecchio pazzo morto, ma mi mancava il coraggio di sporcarmi le mani.”
Nonostante ogni parola fosse un vantaggio per lui, a Mori non faceva piacere vedere un Dirigente della generazione di suo padre ridotto in quello stato pietoso. Il Generale, che da bambino gli aveva sempre messo una certa soggezione, ora assomigliava a un uomo curvo e vecchio, stanco della vita stessa. Lanciò una breve occhiata alla nuca di Dazai e sperò che l’argomento non venisse fuori in quella stanza.
“Posso sedermi?” Domandò il Generale.
“Certamente,” rispose il Boss.
L’uomo si accomodò sulla poltrona lasciata libera da Kouyou e furono proprio per lei le parole che seguirono. “La ragazza ha talento. Non ho seguito direttamente il suo addestramento, ma mi tengo informato sui nostri giovani talenti. Il futuro della Port Mafia sono loro e non i cadaveri ambulanti come me.”
“Perché si sminuisce in questo modo?” Domandò Dazai, deluso. “La notte scorsa, quando è entrato nella sala riunioni, sembrava l’uomo più potente presente.”
Le labbra del Generale si piegarono in un raro sorriso. “Un bambino non può capire,” disse, poi sollevò lo sguardo su Mori. “Neanche tu puoi, Rintarou.”
Nel sentir pronunciare il suo vero nome, il Boss strinse le labbra ma non ne fu sorpreso. Lo aveva conosciuto da bambino, aveva seduto al fianco di suo padre come amico ed era l’ultimo superstite di una generazione di mafiosi che non esisteva più, il Boss Folle si era premurato di spazzarla via un poco alla volta.
“Sei un Boss giovane,” proseguì il Generale. “Non il più giovane della storia della Port Mafia, ma comunque giovane.”
Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso amaro. “Tu non hai alcuna fiducia in me, vero?” Passò al tu perché non c’era nulla di formale in quel colloquio. Tanto valeva dire le cose per quelle che erano.
“Sono certo che, in questo preciso momento storico, nessun altro possa guidare la Port Mafia,” ammise il Generale. “Sei figlio di una famiglia che ha scritto la sua parte di storia in questa organizzazione e, in particolare, tuo padre era un uomo che aveva tutta la mia fiducia e il mio rispetto. Se fosse per me, se la morte fosse un processo reversibile, quella poltrona spetterebbe a lui.”
“Se mio padre fosse vivo, avrebbe qualche anno più di te,” disse Mori. “Ora la Port Mafia si troverebbe in una situazione completamente diversa, ma si starebbe comunque parlando di successione. Inoltre, Generale, chi meglio di te sa che la storia non si scrive con i se.”
Il Dirigente annuì, fissando un punto qualunque del tappeto, come se stesse riflettendo. Quando ebbe finito, cercò di nuovo gli occhi di Mori. “Quando avevi quindici anni, non avrei scommesso nulla di te,” dichiarò. “Ougai… Il vero Mori Ougai ti proteggeva, provava a educarti a divenire qualcuno di grande.”
A quelle parole, Dazai sollevò lo sguardo perplesso sul Boss ma Mori lo ignorò completamente.
“Eri un bambino maledetto, Rintarou,” proseguì il Generale. “Lo sapeva tuo padre, lo sapevamo tutti. Avevi dalla tua parte un’intelligenza fuori dal comune, che nessuno sapeva come incanalare. A parte questo, eri una mina vagante. Possedevi un’abilità che non sapevi usare. Smaniavi per possedere qualcosa che nemmeno tu sapevi cos’era. Ti avessero consegnato il mondo intero, non ti sarebbe bastato. Alla fine della storia, nessuno dei tuoi talenti ti è valso qualcosa in questa corte di Yokohama. Sei fuggito in Germania e lì hai scritto una storia che non conosce nessuno. Quando sei tornato a casa, lo hai fatto da soldato congedato con disonore e con l’abilitazione da medico.”
Dazai continuava a tenere l’unico occhio sano sollevato su Mori. Il modo in cui incassava ogni parola senza reagire lo confondeva.
“Se il vecchio Boss non fosse stato completamente demente, ti avrebbe trucidato come ha fatto con tutta la tua famiglia. Invece, colpo di fortuna, sei divenuto suo medico personale e anche Dirigente.” Il Generale emise un sospiro. “Vuoi sapere come la penso davvero? Eri maledetto e sei rimasto maledetto. Qualunque cosa sia successa in Germania non ha fatto altro che confermare questa tua condizione. La Port Mafia ha bisogno di stabilità e non credo che tu sia in grado di dargliela ma, come ho detto, questa città manca di personalità adatte a questo ruolo.”
Seguì un lungo minuto di silenzio. Dazai dedusse che il Generale avesse finito con la sua confessione e che ora toccasse a Mori contrattaccare.
Ma il vecchio Dirigente aveva ancora qualcosa da dire. “Per questo e per molto altro, ti presento le mie dimissioni, Boss della Port Mafia.”
Dazai sentì le dita di Mori stringerli le spalle di colpo: lo aveva preso di sorpresa, anche se la sua espressione non tradiva alcuna particolare emozione.
“Il tuo posto non è mai stato messo in discussione da me,” disse il Boss, con voce incolore. “Ma immagino che la mancanza di fiducia nei miei confronti sia un problema.”
Il Generale si alzò in piedi. “Per quel che mi riguarda, la Port Mafia non esiste più da anni. Quello che tu e chiunque sceglierai come tuo Dirigente andrete a creare non m’interessa e non mi appartiene. Quando qualcosa è morto, è giusto dichiararne il decesso e lasciare il passo alle nuove generazioni. La mia ha esalato il suo ultimo respiro con tuo padre. Dopo la sua morte, non ho avuto la volontà di fare altro che occupare una poltrona e restare a guardare.”
“Codardo…”
Quella parola sfuggì nello stesso momento sia a Dazai che a Mori, ma fu la voce di quest’ultimo a udirsi più chiaramente. Il quattordicenne sollevò di nuovo lo sguardo e, finalmente, vide negli occhi del Boss quel bagliore rosso che si era aspettato da quando il Generale aveva iniziato a parlare.
Mori lasciò andare le spalle di Dazai e fece il giro della scrivania per trovarsi faccia a faccia con il Dirigente. “Continui a ripetere quanta nostalgia provi per mio padre, per l’uomo che era e la guida che rappresentava, ma non mi risulta che tu abbia alzato un dito quando il Boss Folle ha ordinato il massacro di tutta la famiglia Mori,” disse, calmo, gelido. “Tu sapevi degli uomini mandati in Germania per uccidere anche me, ma non ti è passato per la testa di avvertirmi, vero? Hirotsu lo ha fatto. Un uomo che non mi doveva niente e che aveva tutto da perdere mi ha salvato la vita, mentre il caro amico di mio padre occupava la sua poltrona in completo silenzio.”
Dazai osservò la scena affascinato. Il Generale era più alto di Mori, più robusto ma l’aura di potere che gli aveva visto addosso la notte precedente era sfumata, come una nuvola di fumo.
Il Dirigente aveva impiegato interi minuti a esprimere il suo punto di vista. A Mori erano servite poche parole per schiacciarlo e dipingerlo per quello che era realmente. Non c’era nessun possibile contrattacco a un affondo del genere. Anche se il Generale avesse estratto la pistola e sparato a tutti e due, la sua immagina era inevitabilmente compromessa e l’epilogo della sua vita era condannato all’oscurità più tetra.
Dazai un colpo di pistola se lo aspettava, ma da parte di Mori. La discussione aveva raggiunto livelli troppo personali perché il Dirigente se ne potesse andare sulle sue gambe.
Il Boss della Porta Mafia fece un passo indietro e simulò un colpo di tosse, come per schiarirsi la voce. “Accolgo le tue dimissioni. Lascerai la città e non avrai più informazioni riguardanti questa organizzazione o contatti con chi ne è ai vertici,” ordinò. “La Port Mafia ripagherà per il tuo servizio per il resto dei tuoi giorni. Inutile dire che ti è proibito fare ritorno a Yokohama per qualsiasi ragione.”
Forse temendo la stessa sorte che Dazai aveva previsto per lui, il Generale chinò la testa - per la prima volta, come si doveva - di fronte al nuovo Boss della Port Mafia. “Vi sono grato, Boss.”
“Ora vattene,” concluse Mori. “Non voglio più vederti in mia presenza.”
Il Dirigente si diresse verso la porta, le spalle curve.
Dazai non comprendeva tanta magnanimità. Quell’uomo non era meno colpevole del Boss Folle del massacro della famiglia Mori, quindi perché si guadagnava quella libera uscita, come se nulla fosse successo?
Il Generale abbassò la maniglia della porta.
“Un istante,” lo fermò Mori.
Il Dirigente non si voltò.
“È inutile, da parte mia, ricordarti che non si è mai liberi dalla Port Mafia, vero?” Il sorriso diabolico che comparve sulle labbra di Mori diede a Dazai l’impressione di essersi perso qualcosa. “Una volta nell’oscurità, si rimane legati all’oscurità. Prega che questa non ti divori.”
Il Generale non replicò in alcun modo. Esitò un istante, poi uscì dalla scena per sempre.
Rimasti soli, Mori rilassò le spalle e sbuffò. Fece qualche passo avanti e indietro, come se dovesse calmare i nervi. “Che cos'è appena successo?” Domandò, mentre vagava.
Dazai sapeva che si stava rivolgendo a lui. “Hai lasciato andare una minaccia che potrebbe tornare a colpirci.”
Mori scosse l’indice, senza guardarlo. “Sei stato attento per tutta la scena. Credi davvero che quell’uomo abbia assi nella manica da giocare?”
Dazai ci pensò, poi scosse la testa. “Vive nella paura da anni. Ne è completamente annichilito.”
“Bravo.” Mori accennò un sorriso, gli stava tornando il buon umore. “Quindi, te lo chiedo di nuovo, che cosa è successo?”
“Hai lasciato andare un uomo che vorresti uccidere con le tue mani.”
Mori rise. “Questo non è scorretto,” ammise. “Ma la lezione è un’altra. Concentrati.”
“Quando tutto questo si è trasformato in una lezione?” Domandò Dazai, annoiato.
Mori diede un freno al suo vagare e appoggiò entrambe le mani sulla scrivania. “Lavoreremo sulla tua impertinenza strada facendo,” promise. “Ora voglio che analizzi la situazione e comprendi la strategia.”
Fu il turno di Dazai di sbuffare. “Non può liberarsi dalla Port Mafia, giusto? Tu sei la Port Mafia. Un tuo ordine e chissà che ne sarà di lui. Potrebbe arrivare domani, tra tre mesi o forse mai. Quell’uomo ha vissuto nella paura per anni, ma ora non potrà muovere un passo senza guardarsi le spalle. È la tua punizione per la sua codardia.”
Mori sorrise soddisfatto. “Per oggi basta così. Torniamo a casa, Dazai,” disse. “Per essere solo l’inizio, è stata una buona giornata.”




“Siamo rovinati.” Fu la conclusione a cui Mori arrivò tre ore dopo, seduto al tavolo della cucina della clinica, un documento per mano e l’occhio scuro di Dazai che lo fissava dalla parte opposta del tavolo. Sopra le loro teste, lampadina dalla luce funerea appesa al soffitto non faceva nulla per rendere meno pesante l’atmosfera.
“Abbiamo un Dirigente morto, o quasi morto, un altro è ricercato per tradimento e un terzo è andato in pensione con disonore.” Il riassunto dei fatti era ancor più deprimente dei fatti stessi. “Ho almeno un centinaio di assassine addestrate uccise e altrettanti uomini da far giustiziare per alto tradimento.” Mori guardò malamente la pila di cartelle che aveva spinto il più possibile lontano da sé. “E non abbiamo ancora toccato la questione economica…” Era certo che se avesse sfiorato quelle carte, la sua pelle si sarebbe riempita di bolle.
Dazai, da parte sua, non se ne stava davvero con le mani in mano. Sfogliava i dossier senza interesse, ma cercava qualcosa. “Il braccio armato è completamente dalla tua parte,” disse. “Gli uomini che hanno consumato il massacro alla Casa dei Fiori erano solo soldati personali del Guercio e Casinò. In confronto alla Black Lizard, sono solo un gruppo di manichini armati. Non perdi molto a giustiziarli.”
“C’è da dire un’altra cosa,” aggiunse Mori, “i possessori di abilità sono davvero pochi. Siamo al livello più basso della storia della Port Mafia. Il vecchio pazzo ne ha mandati a morire molti con i suoi ordini folli.”
Dazai pescò una cartella tra le altre. “Quanto fa ridere sostituire un Generale con un Colonnello?”
Mori allungò la mano per prendere il documento e dare un’occhiata a sua volta. “È nelle prigioni del quartier generale,” disse, con una smorfia. “Che cos’hai lì, il registro dei prigionieri?”
“Quello dei condannati per tradimento, nello specifico,” rispose Dazai. “Uomini dei piani intermedi, anche armati di abilità, che hanno cercato di ribellarsi più o meno direttamente al vecchio pazzo. Se sei carente di alleati, cercali in chi odiava chi hai ucciso con le tue mani. Saranno più ben disposti nei tuoi confronti, rispetto a chi aveva trovato il modo di fare i propri comodi sotto il comando di un leader pazzo.”
Mori rimase come congelato per una manciata di secondi. “Perché non ci ho pensato prima?”
“Perché dai per scontato che i traditori muoiono a poche ore dalla loro condanna, credo,” disse Dazai, sollevando una lunghissima lista di nomi. Erano tutti uomini della Port Mafia accusati di questo o quel comportamento sospetto. A giudicare dalla scarsa lucidità del vecchio che aveva ucciso, Mori aveva motivo di credere che una buona metà di quei nomi non avesse mai nemmeno pensato di tradire il Boss. Ma era impossibile avere la meglio contro un uomo folle dotato di potere.
“Chi è questo Colonnello?” Domandò, dando un’occhiata alla scheda del prigioniero. “Non ricordo il suo caso, ma il viso mi è familiare.”
“Colonnello è un nome in codice,” disse Dazai. “C’è scritto che ha dichiarato di aver seppellito quello vero su uno dei tanti campi di battaglia della Grande Guerra.”
Mori ridacchiò. “Posso comprenderlo,” disse. “Siamo quasi coetanei,” notò.
Sei giovane. Aveva detto il Generale.
Forse era proprio quella la chiave di volta che avrebbe fatto risorgere la Port Mafia: metterla nelle mani di chi aveva conosciuto la guerra, che non perdeva tempo a rimpiangere un paradiso dorato andato perduto per sempre. Mori sorrise tra sé e sé: non era un punto malvagio da cui far partire la ricostruzione.
Kouyou entrò nella cucina senza bussare. “Ho ordinato qualcosa per cena,” li avvisò. Era riuscita a recuperare alcuni vestiti dai suoi appartamenti. Nessuno kimono sfarzoso, solo dei comunissimi jeans e un maglioncino leggero.
Mori dubitava che il Guercio avrebbe tentato un altro colpo in completa solitudine, ma la voleva dove poteva tenerla d’occhio.
“Voi due dovete mangiare qualcosa,” aggiunse, severa come poteva esserlo una madre. A Mori si chiudeva lo stomaco al pensiero che a separarla da Dazai vi fossero solo quattro anni di differenza. A dispetto dei suoi diciotto anni, Kouyou era una donna che dalla vita aveva ricevuto tutte le lezioni peggiori e ne era uscita a testa alta.
A Mori, quella creatura a tratti eterea e a tratti letale, ricordava tanto la madre che lo aveva cresciuto - non quella che lo aveva messo al mondo - la moglie di suo padre, colei che era stata signora della Casa dei Fiori durante la sua infanzia e adolescenza. “Kouyou, t’interessa un posto da Dirigente?” Chiese, di colpo.
Era serio.
Lei gli rise in faccia a tempo zero. “Non essere assurdo, Mori. Piuttosto, Dazai ha bisogno di vestiti che non rischiano di cadergli di dosso a ogni passo.”
Mori la fissò, incredulo: lui le offriva il mondo - oscuro e sporco di sangue della Port Mafia - e lei lo ignorava in favore del guardaroba di Dazai.
Decise che avrebbe rimandato la proposta a delle circostanze meno traballanti. “Domani ti lascio la carta di credito, così lo puoi portare ai grandi magazzini e divertirti,” disse, ben felice di liberarsi di quell’incombenza. La moda dei ragazzini era così noiosa, tutta uguale e priva di brio.
“Affare fatto,” accettò Kouyou, spettinando amichevolmente i capelli di Dazai.
Il ragazzino continuò a guardare le cartelle, come se nessuno lo avesse toccato.
Mori lo fissò, ripensando a quanto era accaduto nell’ufficio in compagnia del Generale. Dazai non aveva chiesto spiegazioni - figurarsi se si fosse disturbato ad aprire bocca per fare due chiacchiere - ma erano state buttate lì, a caso, delle informazioni sul passato di Mori. Era saggio fare ordine, prima che quella giovane mente elaborasse qualcosa che non era corretto - sempre ammesso che gliene fregasse qualcosa.
“Il mio nome è Mori Rintarou,” disse, di colpo e l’unico occhio scuro del quattordicenne fu subito su di lui. “Mori Ougai era il nome di mio padre. Lo uso perché Rintarou è morto in Germania e mi piace creare un po’ di dramma.” Alle volte, non si prendeva troppo sul serio neanche lui.
Accanto a Dazai, Kouyou lo fissò basita.
“Avanti, mia cara, non è un segreto di stato.” Per Mori, sminuire era il miglior modo per tirare fuori il passato. “Ti ho già raccontato di mio padre, Dazai. La mia famiglia è stata massacrata dal Boss Folle mentre ero in Germania. Ha tentato di raggiungere anche me, ma non c’è riuscito.”
“Che vuol dire che sei maledetto?” Domandò Dazai.
Kouyou gli strinse la spalla. “Questa è una storia per un’altra volta.” Fu lei a mettere il punto.
Suonarono alla porta d’ingresso.
“Mettete via tutto,” disse lei. “È arrivata la cena.”
Mori sventolò la scheda del Colonnello. “Lo prendiamo in esame,” disse sottovoce al quattordicenne.
Dazai mantenne la sua espressione imperturbabile.




Mori impiegò un intero quarto d’ora a trovare il pacchetto di sigaretta nel secondo cassetto della sua scrivania. Lo aveva buttato lì dentro non ricordava esattamente quando - forse due o tre mesi prima - risoluto a non voler più prendere una sigaretta tra le dita. Beh, al tempo non aveva previsto che avrebbe vissuto una giornata come quella. Gli scappò un sorriso, quando si rese conto che dentro la confezione mezza vuota si trovava anche un accendino. Dato che c’era, recuperò anche il portacenere nascosto dietro il cestino della spazzatura.
“Gli adulti non fanno altro che mentire a loro stessi,” disse Elise, seduta sulla sua poltrona girevole, facendo penzolare le gambe perché non arrivava a toccare il pavimento.
“Triste realtà,” convenne Mori, attraversando la stanza per lasciarsi cadere sul divano. Appoggiò il posacenere sul bracciolo e si portò una sigaretta alle labbra. Dopo aver aspirato, gettò la testa all’indietro, esausto.
Erano state ventiquattro ore molto, molto intense.
Elise saltellò fino al suo fianco. “Quando ti deciderai a smettere per davvero?”
“Mai,” rispose Mori, perché non aveva alcuna voglia di buttare lì un proposito che non gli interessava davvero.
“Sei un medico, conosci gli effetti del fumo sul tuo corpo,” gli ricordò Elise, annoiata.
Dato che non la guardava in faccia, Mori immaginò per un attimo che a parlare fosse stata Yosano. Doveva fare i complimenti a se stesso: era bravo con le imitazioni, anche se solo attraverso il riflesso della sua abilità
“Di qualcosa bisogna pur morire,” replicò Mori, banale. Se anche avesse fumato una sigaretta al minuto per il resto della vita, il cancro non sarebbe mai arrivato abbastanza velocemente per ucciderlo. No, sarebbe toccato a qualcos’altro.
Una pistola o una lama?
Un nemico, oppure un traditore?
Le storie dei Boss malavitosi non finivano mai con una serena morte naturale, in tarda età. Era un po’ una clausola del contratto per divenire leader di un’organizzazione come la Port Mafia: la morte sarebbe sopraggiunta prematuramente e, quasi di sicuro, in modo violento.
“Ho anche la canzone per il mio funerale,” annunciò Mori, con allegria fuori luogo. “Quella di Parigi… Quella dell’ultimo ballo mio e di Hans.” Aspirò un’altra boccata di fumo. “It's something unpredictable. But in the end, it's right. I hope you had the time of your life. È una buona canzone per un Boss caduto della Port Mafia.”
“Non ti sembra un po’ precoce questo tuo pensiero?” Elise era ancora accanto a lui, sotto forma di una bella bambina dall’aspetto di una bambola. Fosse stata reale, non sarebbe mai stata in grado di fare simili discorsi con un’espressione tanto adulta.
Ma quello era il gioco di Mori. Sue le regole, sue le variazioni.
Al tempo della guerra, la forma che aveva dato a Vita Sexualis si chiamava già Elise, ma si rivolgeva a lui come padrone e non aveva nemmeno l’ombra della personalità con cui ora si faceva conoscere.
Perdere Yosano gli aveva smosso dentro qualcosa, forse la repulsione per il silenzio e il peso dell’assenza di qualcuno in grado di contraddirlo, senza temerlo.
“Se morissi, che cosa faresti, Elise?” Era una domanda sciocca, perché Elise era lui.
“Ti hanno appena fatto Boss e già pensi alla tua morte?” Domandò una voce di donna.
Mori sollevò la testa: Kouyou era sulla porta - che si era sbadatamente dimenticato di chiudere - avvolta in una vestaglia di seta nera. I bei capelli rossi erano raccolti in una treccia che le ricadeva sulla spalla destra. Sulle gambe nude, Mori poteva vedere i segni di quello che aveva subito appena la notte prima. Aveva cambiato le bende all’occhio da sola, ma lo zigomo si era fatto più nero e il labbro inferiore più gonfio. Sarebbe peggiorato tutto ancora un po’, prima di migliorare.
Good Riddance,” aggiunse Kouyou. “Me la ricordo. La suonasti al piano della Casa dei Fiori e la cantasti pure. Al tempo, lo feci per rallegrare gli animi e ora salta fuori che è un inno di morte?”
“Elise, vai a giocare,” disse Mori alla bambina, che trotterellò dietro al divano, sparendo dalla vista di entrambi.
“Non mi disturbava,” disse Kouyou.
“Sì, invece, lo fa,” ribatté Mori. “Penso che tu sia stata la seconda persona a dirmelo.”
La prima era stata Yosano.
Kouyou scrollò le spalle. “Ho difficoltà a parlare con un te che non sei tu,” si giustificò.
“Elise è la forma che do alla mia abilità, chi ti dice che non abbia una sua coscienza?” Domandò Mori, con innocenza. “Tu porti un Demone con te.”
Kouyou attraversò la stanza. “È diverso,” disse, sicura. “Demone Dorato non è come Elise. Io non posso cambiare la forma della mia abilità, tu puoi fare di lei ciò che vuoi.”
Mori scrollò le spalle. “In realtà, è solo un trucchetto. Tutta questione di pratica, nulla di più.”
“Quando ti sei sentito tanto solo d’avvertire il bisogno di parlare con te stesso, Mori?” Domandò Kouyou, diretta.
Non poteva avere idea del nervo scoperto che andava a toccare, così Mori rese il suo sorriso più tirato e la invitò a sedersi accanto a lui. Mentre lei si accomodava, fece un altro tiro.
“Ero convinto che avessi smesso,” disse Kouyou, coprendosi le gambe con la vestaglia nera.
“Ne ero convinto anche io,” ammise il Boss, poi la guardò in faccia. “Come stai?” C’era della sincera apprensione in quella domanda.
Kouyou esitò un istante. “Credo dovrei essere distrutta, sconvolta.”
“Non importa quello che dovresti provare. M’importa quello che provi realmente.”
La giovane donna passò la lingua sul taglio sul labbro inferiore. “Sono felice che sia morto.” Lo aveva già detto, ma non guastava ripeterlo. “Sono felice che ora ci sia tu.”
“Non hai paura che sia l’ennesimo bastardo di turno?”
“Sai, Mori, il mio lavoro è andare a letto con gli uomini per farli parlare. Dopo il sesso, hanno sempre voglia di chiacchierare. Io e te non ci siamo mai tolti un vestito, eppure tu hai sempre chiacchierato un sacco con me.”
Mori rise e l’attacco d’ilarità lo prese tanto di sorpresa che per poco non si strozzò con il fumo che aveva in gola. Dopo tre colpi di tosse, tornò in sé. “Non scherzavo prima,” disse. “Riguardo al darti il posto da Dirigente.”
Kouyou evitò completamente la questione. “Quel Colonnello che ha trovato Dazai non è un candidato malvagio. Ha un’abilità, anche se non ricordo quale, e ti fa la cortesia di farti venire, prima di avere il suo orgasmo.”
Il viso di Mori si accese di una luce fanciullesca. “Pettegolezzi!” Quanto gli mancavano quei momenti della sua adolescenza, quando le ragazze della Casa dei Fiori mormoravano dei piccoli segreti dei grandi uomini della Port Mafia. “Beh, se riesce a far venire una donna, questo Colonnello è un gran signore.”
Anche Kouyou rise. “Mettilo tra i requisiti fondamentali per fare carriera nell’organizzazione, renderesti le donne di Yokohama molto più felici.”
“Mia madre mi raccontava cose che noi umani…” Mori lasciò la frase sospesa. “Non abbiamo mai fatto sesso, ma abbiamo finito per parlarne. Conterà qualcosa?”
“Vado a dormire.”
Entrambi sobbalzarono sul divano e ci mancò poco che il posacenere finisse a terra, in mille pezzi. Dalla porta, Dazai li guardò entrambi senza comprendere. “Che cosa c’è?”
Mori prese un respiro profondo. “Dazai, cerca di annunciarti, prima di comparire. Non sei il fantasma di un romanzo gotico.”
“Se era una battuta, non faceva ridere,” disse il ragazzino. “Buona notte.”
“Buona notte, Dazai,” rispose Kouyou.
Mori si limitò a massaggiarsi la fronte. Quando sollevò il viso, trovò lo sguardo inquisitore di lei pronto ad accoglierlo. “È complicato,” disse subito, gettando le mani avanti.
“Oh, non lo avevo capito,” ribatté lei, sarcastica.
Mori si concesse un minuto di silenzio per finire la sua sigaretta: non c’era modo di sfuggire a quel discorso e tanto valeva soddisfare la curiosità di lei in un momento di calma come quello. “Che cosa vuoi sapere?”
“Da dove viene?”
“Ah, la risposta a questa domanda vale quanto l’intero debito della Port Mafia.” Quello che Mori non aveva avuto il coraggio di calcolare dai dati contabili.
Kouyou allargò le braccia. “Come è iniziata?” Domandò. “Due giorni fa non esisteva.”
“No, due giorni fa era già qui, ma aveva appena ripreso a camminare. Ci ha messo un po’ per riprendersi.”
“Mi ha detto che ha cercato di uccidersi.”
Mori annuì. “È quello che so anche io.”
“Allora?”
“Allora, che?”
Kouyou sospirò, esasperata. “Ho capito, non puoi dirmelo.”
“Posso dirti che era massacrato,” disse Mori, serio. “Che tra ferite superficiali e ossa rotte, non sapevo da dove cominciare a rimettere a posto i pezzi. Penso si sia lanciato da un’altezza che a lui è sembrata considerevole, ma si è solo fatto male. Molto male.”
“Danni irreversibili?” Domandò Kouyou, abbassando la voce.
Mori scosse la testa. “È solo rattoppato. Si rimetterà alla perfezione.”
“E tutto il resto?”
“Tutto il resto?”
“L’ho visto nudo… Cioè, in intimo, ma a quel punto non aveva molto con cui nascondersi,” disse Kouyou, seria. “Con il braccio ridotto in quel modo, aveva bisogno di aiuto per togliersi i vestiti e farsi la doccia.”
Mori non aveva molto da dire a quel punto. “Tutta la vecchia Port Mafia sa cosa è successo la prima volta che ho usato la mia abilità. Credo che la storia sia arrivata anche a te.”
Lei non sapeva come replicare.
“Sesso biologico e identità di genere sono due cose diverse,” disse Mori, con serenità. “Quando mi sono ritrovato incastrato in un corpo che era mio solo per metà, ho dovuto trovare la persona giusta per imparare ad accettarmi davvero. Dazai sembra aver trovato la sua identità e il modo giusto in cui viverla, ma ha quattordici anni. Ha tutto il tempo del mondo…”
“Ma vuole morire.”
“Non morirà,” disse Mori, secco. “Troverò il modo di fargliela passare.”
Kouyou gli lanciò uno sguardo eloquente. “È praticamente il tuo braccio destro nella tua ascesa come Boss. Se volevi fargli terapia, hai scelto davvero un ottimo modo per fargli amare la vita.”
Mori fece finta di rifletterci. “Sì, sono stato davvero bravo.”
“Mori!”
“Eh?” Il medico allargò le braccia. “Vuoi che ti spieghi Dazai Osamu? Magari ci riuscissi!”
“Perché vuole morire?”
“Non lo so.”
“Ha quattordici anni.”
Fu il turno di Mori di guardarla. “Hai avuto pensieri autodistruttivi anche tu, a un certo punto. Non sappiamo cosa ci sia nel suo passato per averlo reso così allergico alla vita.”
La giovane donna lo guardò sospettosa. “Dal momento che gli dai una camera qui, in casa tua, lo rendi partecipe della tua ascesa al potere e, come se non bastasse, paghi perché abbia dei vestiti nuovi, che cosa ci dobbiamo aspettare da te e lui?”
Mori accennò un sorriso. “Ti dirò quello che ho detto a tutti gli altri: capiterà spesso di vedere Dazai in giro per la Port Mafia, sarà meglio che ci faccia l’abitudine anche tu.”



Tre mesi dopo la morte del Boss Folle, Mori e Dazai vivevano ancora alla clinica e Kouyou era loro ospite. Il Generale era stato di parola e aveva lasciato la città in silenzio, mentre Casinò aveva esalato l’ultimo respiro condannando il Guercio al suo destino.
A quel punto, Mori Ougai era a capo di una Port Mafia che contava un solo Dirigente - sempre ammesso che Randou non avesse intenzione di congelare da un giorno all’altro e congedarsi dalla scena a sua volta - un debito con tanti zeri da far accapponare la pelle e nessuna voglia di trasferirsi al quartier generale.
La clinica non era dotata di nessun sistema di sicurezza, ma Mori aveva come la sensazione che andare alla torri sarebbe stato come gettarsi nella fossa dei leoni.
Il Boss faceva il suo lavoro, ma non in un ufficio con vista su Yokohama.
Quello che il nuovo leader della Port Mafia doveva fare era rimettere insieme i pezzi, ma le sue alleanza e i suoi contatti non erano sufficienti perché potesse fare tutto il lavoro da solo.
Pensare ai Dirigenti era il primo passo. Hirotsu si era rifiutato categoricamente, confermando la lealtà sua e dell’intera Black Lizard al nuovo Boss. “Non ha senso che occupi una poltrona che non porterebbe nulla di nuovo a lei e all’organizzazione,” era stata la giustificazione del veterano. “Vi servono Dirigenti che possano arricchire la vostra rete. Sotto questo punto di vista, Randou non è il migliore, ma il Colonnello è quello che ci vuole in questo momento.”
Così, Mori decise di tirare fuori dai sotterranei questo Colonnello. Era più maturo di lui, ma non di molto. Avevano combattuto ed erano sopravvissuti alla stessa guerra.
Dopo un un primo incontro, trovarono abbastanza punti in comune da raggiungere un accordo. “Ho amici che facevano parte dell’esercito,” disse il Colonnello. “Soldati delusi, abbandonati dal Governo. Immagino di non dovervi spiegare storie simili, Boss.”
Mori accennò un sorriso. “Se hanno bisogno di una casa, qui abbiamo molto spazio.”
A costo di passare da idiota, Mori tornò da Hirotsu diverse volte per rivedere la questione della sua promozione. “Vedila come una cosa personale,” tentò il nuovo Boss. “Hai servito la mia famiglia fino alla fine. Quando nessuno ha mosso in dito per salvarmi in Germania, hai rischiato tutto per me. Inoltre, sei un veterano, tutti qui ti conoscono e ti rispettano. Divenire un Dirigente è l’evoluzione naturale della tua carriera.”
Hirotsu si limitò a sorridergli con garbo. “Sono lusingato, Boss,” disse, con rispetto. “Ma sarei molto più onorato di addestrare per voi un nuovo leader della forze armate, piuttosto che occupare una poltrona che non ritengo adatta alla mia persona.”
Seduto nel famoso ufficio con vista su Yokohama - in cui ogni tanto andava per fare scena - Mori rivolse al veterano uno sguardo un tantino turbato. “Non starai pensando alla pensione anche tu, spero.”
“Non temete, Boss,” lo rassicurò Hirotsu. “Se dovrò congedarmi, lo farò sul campo. Siamo però incapaci di prevedere quando accadrà e temo che ai miei ordini vi siano molti guerrieri talentuosi, ma nessun leader.”
Quel giorno, Mori si rassegnò al fatto che Hirotsu non sarebbe mai stato un suo Dirigente e aggiunse alla lista delle cose da fare: trovare un futuro leader per la Black Lizard.
Alla fine, l’ultima da convincere era Kouyou.
Dato che vivevano insieme, in ufficio andarono praticamente a braccetto e non fu un colloquio formale, più un tè tra amici - preparato da Hirotsu - mentre Elise faceva disegni coi pastelli colorati, distesa su uno dei grandi tappeti.
“Voglio far innalzare un memoriale,” disse Mori. “No, non abbiamo potuto dare degna sepoltura a tutte le donne morte, ma come soldato ho una certa sensibilità nel ricordare i caduti.”
Kouyou alzò gli occhi al cielo, allontanando la tazzina dalla bocca. “Che cosa vuoi, Mori?”
“Sto ricostruendo la Casa dei Fiori.” Era scontato che lo facesse, ma era importante che lei lo sapesse per prima in via ufficiale. “Avrò bisogno di una nuova Maestra che si prenda cura delle ragazze e non solo di quelle. Svecchiamo un po’ i metodi tradizionali. Non tutti i ragazzi sono pugni e pistole.”
“Ammetto che l’idea mi piace,” disse Kouyou. “Quella di cambiare le cose, intendo.”
“E come ti vedi nel ruolo di Maestra?”
“Non sarò una tua Dirigente,” lo precedette lei, con un sorriso cortese.
“Sii la mia signora della Casa dei Fiori,” propose Mori. “Al resto penseremo poi.”
E anche Kouyou era sistemata, almeno fino a che non l’avrebbe convinta a salire su di un gradino più alto.
Non era molto, ma era abbastanza perché la gente della Port Mafia lo vedesse impegnato in qualcosa. Ci volle un altro mese perché Kouyou avesse una casa in cui tornare.
A quel punto, Mori tornò a essere solo con Dazai.
CowT12. Week 3
M2: A Thousand Years


"Tre cose sono necessarie per un buon pianista: la testa, il cuore e le dita". (Wolfgang Amadeus Mozart)



Chuuya si era perso.
Succedeva almeno una volta al mese ed era un’umiliazione non da poco.
A Dazai quelle cose non capitavano mai e anche se il rosso avesse chiamato il Boss in persona per farsi dare una mano, sarebbe toccato allo Sgombro andarlo a recuperare.
“Chuuya si è perso nella sezione 3 del grattacielo 4. Ci pensi tu?”
“Con piacere, Boss!”
Sì, lo faceva anche con piacere, così poteva sbattergli in faccia tutte le smorfiette derisorie del suo repertorio e mortificarlo, mentre lo accompagnava alla meta che Chuuy aveva - sempre per poco - mancato.
Il Boss non si faceva problemi con quel genere di piccoli imprevisti. “Questi grattacieli sono come dei labirinti anche per me,” lo rassicurava, ogni volta. “Può capitare di smarrire la strada.”
Poi arrivava lo Sgombro, con la stronzata del giorno già pronta in punta di lingua. “Se rimanessi a lavorare nel settore di tua competenza, invece di proporti come uomo Jolly da usare dove serve, mi eviteresti la noia di venirti a recuperare,” diceva, poi sfoggiava un sorriso diabolico dei suoi e aggiungeva: “se mi faccio sfruttare, la strada per divenire Dirigente sarà più breve, è questo che pensi, vero? Prenditi tutto il tempo del mondo, Chuuya, ormai ho vinto io!”
A quel punto, al rosso rimanevano due opzioni: strangolare il proprio partner a morte - ma Mori non avrebbe mai lasciato correre anche quell’imprevisto - o andarsene, tenere il prurito che sentiva alle mani per sé e sfogare la rabbia che provava per Dazai Osamu ringhiando un insulto dopo l’altro.
Chuuya guardò il foglietto tra le sue mani, su cui erano state scritte tutte le indicazioni del caso: entra dal secondo ingresso, usa le scale fino al terzo piano, poi prendi l’ascensore 5 e premi il pulsante 63. In fondo alla pagina, il Boss aveva aggiunto ad un ottimistico non puoi sbagliare! con tanto di smile che sorrideva e faceva la linguaccia.
La verità era che a Chuuya piaceva prendersela con Dazai, ma Mori non era meno colpevole delle sue disgrazie in quelle circostanze.
Prese un bel respiro e, con la mente, ripercorse i passi che aveva fatto: era andato tutto bene, fino all’ascensore 5. Una volta che le porte scorrevoli si erano aperte e Chuuya si era ritrovato di fronte alla pulsantiera, era cominciato il panico. In cima aveva visto il 34, nessun 63. A seguire, aveva trovato delle opzioni assurde come 34-ovest o 34-est.
Nel pallone totale, Chuuya aveva selezionato il piano che a suo parere lo avrebbe dovuto portare più in alto, con l’intenzione di ripiegare poi sulle scale. Si era convinto che nessuna rampa lo avrebbe mai portato a sbattere contro un muro.
Peccato che di scale lì non ce ne fosse l’ombra, nemmeno di quelle di emergenza. Nulla l’avrebbe fermato dal parlare al Boss, con tutta la veemenza di cui era capace, della mancanza di dispositivi di sicurezza al qualunque-cazzo-di-piano-sia.
Chuuya decise di farsi furbo: il Boss e lo stronzetto nero erano fatti della stessa pasta e andavano evitati a priori. Certo che sarebbe stata una vittoria facile, il diciassettenne cercò in rubrica il contatto della salvezza e premette il tasto di chiamata.
“Non ho la minima idea di dove tu sia.” Fu la risposta di Kouyou alla sua richiesta di aiuto. “E sono troppo impegnata per allontanarmi dal mio settore. Chiama Mori, tanto non ha mai niente da fare, a parte stare seduto tutto il giorno nel suo ufficio.”
La sua Maestra riagganciò senza dargli nemmeno il tempo di ribattere. E Chuuya se ne rimase così: a bocca aperta come un idiota, nel bel mezzo di un corridoio che poteva benissimo trovarsi all’altro capo del mondo a interoggarsi sul perché tutti muovessero mari e monti per Dazai, mentre lui doveva essere quel povero stronzo che si risolveva i problemi da solo.
Si trattenne da gettare l’apparecchio a terra e ridurlo a mille pezzi per i nervi: era la sua possibilità di salvezza.
“Calma,” si disse. “Adesso busso a qualche ufficio e mi faccio dare indicazioni.” Non era un’opzione così tragica, non prevedeva la presenza di Dazai ed era funzionale allo scopo.
Chuuya guardò su, poi guardò giù. Ci mancò che gli cadessero le braccia per la frustrazione: in quel corridoio non c’era neanche l’ombra di una porta.
Chuuya fissò la vetrata alla sua destra e uno scorcio del porto di Yokohama rispose al suo sguardo - se si fosse spostato un po’ di lato, sarebbe anche riuscito a intravedere Suribachi. Si diede una dozzina di secondi per riflettere attentamente su quanto un vetro rotto potesse provocare l’ira del Boss.
“Meglio un vetro che tutto il palazzo,” concluse in autonomia. Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, poi sollevò il piede dentro.
Le note di un pianoforte arrivarono e lo strapparono dal suo intento. Anzi, lo colpirono tra capo e collo, distraendolo al punto che perse l’equilibrio e atterrò di faccio contro la vetrata. “Porca puttana,” la voce gli uscì nasale, patetica, a causa del forte dolore al naso. Se lo massaggiò, certo che si sarebbe ritrovato con i guanti sporchi di sangue. Fu fortunato: aveva fatto un gran male, ma non si era rotto nulla.
“Ma chi cazzo è che suona in un posto come questo?”
Armato della sua pazienza ridotta a brandelli e dell’immenso bisogno di sfogare il malanimo contro qualcuno, Chuuya tornò a camminare lungo quel maledetto corridoio. Su quel piano non c’erano porte, non c’erano scale, solo un ascensore che era come l’ingresso in un vicolo cieco, però qualcuno ci aveva portato un pianoforte. Mentre rifletteva sull’assurdità della cosa, Chuuya si ritrovò di fronte all’ingresso di una grande stanza circolare che non aveva porte. Da lì, la vista sul mare era molto più chiara e decisamente pittoresca. In linea d’altezza doveva trovarsi direttamente sotto - di molti piani - all’ufficio del Boss della Port Mafia, o quasi.
Per quanto incantevole fosse il panorama, Chuuya non gli dedicò più di un’occhiata fuggevole. “E tu che diavolo ci fai, qui?”
Se il pianoforte a coda al centro della stanza era una sorpresa, chi vi era seduto davanti era un vero e proprio colpo di scena.
Dazai Osamu allontanò le mani dai tasti di colpo, come se scottassero, interrompendo la sua esecuzione con una nota stonata. Entrambi gli occhi scuri - evento più unico che raro - guardarono Chuuya come se la sua sola presenza bastasse a offenderlo.
“Vattene,” disse, lapidario.
Fermo sull’ingresso, Chuuya strabuzzò gli occhi. “Prego?” Aveva cercato una via di fuga fino a pochi istanti prima, ma ora aveva delle domande a cui pretendeva che qualcuno rispondesse. Suo malgrado, lì, oltre a lui, c’era solo lo Sgombro. Per una volta, era proprio la sua presenza a rendere tutto più interessante.
“Non bastava che fossi un idiota, ora sei anche sordo?” Dazai era arrabbiato. Era un sentimento sincero, che di rado il suo partner gli aveva visto esprimere. Nelle loro dinamiche quotidiane, Chuuya era sempre quello a perdere le staffe per primo e lo Sgombro a ridersela a sue spese. Se il rosso aveva mai toccato un nervo scoperto del partner, lo aveva fatto in modo totalmente involontario. Quando accadeva, le conseguenze erano essenzialmente due: primo, Dazai aveva una reazione esagerata a qualcosa di oggettivamente stupido; secondo, troppo impegnato a contenere tale reazione, Chuuya non aveva il tempo di capire che cosa avesse detto di sbagliato.
Quel giorno era diverso.
Chuuya non aveva detto qualcosa, aveva fatto molto di più: lo aveva beccato sul fatto.
E l’evento gli provocò un’euforia che non provava da un po’.
“Ah!” Gli puntò l’indice contro, con un ghigno vittorioso a illuminargli il volto. “Non puoi più nasconderti: tu suoni il piano!” Il pensiero attraversò la mente di Chuuya, sedimentò e prese forma per quello che era. Un istante dopo, quegli occhi azzurri riflettevano solo delusione. “Tu suoni il piano?” Ripeté, incredulo.
Dazai sbuffò, gli occhi scuri fissi sui tasti bianchi e neri.
“Sei arrossito?” Domandò Chuuya.
“No, scemo.”
Per nulla convinto dalle parole del coetaneo, il rosso si fece più vicino. “Ah, sei arrossito!”
Dazai lo spintonò via. “Stai lontano da me!”
“Giammai, voglio arrivare fino in fondo a questa storia!” Chuuya spostò gli occhi sullo strumento musicale. Non era un esperto, ma non sembrava particolarmente nuovo. “Da quanto tempo suoni?”
“Ho cominciato a quattordici anni, per sbaglio,” rispose Dazai, controvoglia.
Chuuya tornò a guardarlo in faccia. “Per sbaglio?” Domandò. “Sei caduto di faccia su di un pianoforte durante uno dei tuoi tentativi di suicidio, e ti sei riscoperto come nuovo Mozart?”
Dazai non lo degnò nemmeno di un’occhiata. “Il Boss ti ha raccontato di Ginevra e di quella nostra prima missione,” sollevò entrambi gli indici e i medi per imitare il gesto delle virgolette, “quando io avevo quattordici anni e lui era appena divenuto il nuovo Boss della Port Mafia? Bene, ho imparato in Germania.”
Chuuya sbatté le palpebre un paio di volte. “Eravate a Ginevra o in Germania.”
“Oddio, Chuuya, che differenza ti fa?”
“Che Ginevra è in Svizzera. Sono due fottuti paesi differenti!”
“Prima siamo stati a Ginevra. Forse ho suonato per la prima volta lì, non ne sono sicuro,” raccontò Dazai, poggiando il gomito sul pianoforte. “Dopo siamo stati trasferiti in Germania per una questione di sicurezza.”
“Nazionale?”
“No, del Boss e mia.”
“Da quando la sicurezza di un Boss mafioso del Giappone diviene una questione di stato?” Da quando Chuuya era arrivato alla Port Mafia, nessuno gli aveva fatto segreto degli avvenimenti che avevano preceduto la sua entrata in scena. Dopo che il Boss gli aveva confessato di aver ucciso il suo predecessore, sarebbe stato ridicolo fare altrimenti. Tuttavia, un conto erano i resoconti lineari e sensati di Kouyou, un altro era quando il Boss cercava di raccontare qualcosa e Dazai interveniva, poi Mori non concordava con la versione del più giovane e finivano per battibeccare tra loro.
Chuuya sapeva di un incidente avvenuto a Ginevra con un certo Lord Byron, ma i dettagli di quell’accadimento gli erano più che altro ignoti. Ora, dal nulla, saltava fuori che, tra la Svizzera e la Germania, Dazai si era riscoperto pianista.
“Non era una questione di stato,” precisò Dazai. “Era una questione personale ma…” S’interruppe e sbuffò di nuovo. “Perché sto perdendo tempo a parlare con te? Devo esercitarmi, ai pianisti serve molta pratica. Vattene, sciò!” Sottolineò quell’ultima parola con un esplicito gesto della mano, come se stesse scacciando una mosca.
Chuuya la colpì, infastidito.
Dazai lo guardò scandalizzato. “Le mani sono tutto per un pianista!”
“Tu non sei un pianista, sei solo un rompicoglioni!" Chuuya si sedette sullo sgabello, accanto al suo partner. Nessuno lo aveva invitato, ma non gli importava.
“Che stai facendo?” Domandò Dazai, cercando di mantenere tra di loro tutta la distanza possibile - meno di una ventina di centimetri.
“Ai pianisti serve molta pratica, l’hai detto tu,” disse Chuuya, poi indicò i tasti con un cenno del capo. “Avanti, fai pratica.”
I due diciassettenni si scambiarono una lunga occhiata. Ad un un certo punto, il rosso si chiese se stesso giocando a chi avrebbe riso per primo - a volte lo facevano.
Alla fine, Dazai scosse la testa. “Io non sono qui per suonare per te.”
Chuuya allargò le braccia. “Pubblico a sorpresa!” Esclamò. “Se ti senti sotto pressione, meglio!”
Dazai assottigliò gli occhi. “Mi vuoi solo dare fastidio e prendermi in giro.”
“Certamente.” Chuuya non aveva motivo di nascondersi. “Ma ammetto di essere anche curioso.” Si guardò intorno. “Il Boss ti è riservato questo piano appositamente per i tuoi esercizi?”
“Non esattamente,” rispose Dazai. “Questo piano è il regalo di un amico.”
“Amico tuo?”
“No, del Boss.”
“Un amico del Boss, che vive in Germania?”
“Sì, vive in Germania, Chuuya, smettila di sovrapporre i discorsi!” Esclamò Dazai, spazientito. “In breve: il Boss lo ha fatto spostare qui, perché questo piano è praticamente un vicolo cieco, non ci viene nessuno. A parte chi si perde… Ti sei perso?”
Chuuya era fermo nel non dire una parole delle circostanze che lo aveva condotto in quella sala della musica segreta. “Insomma, questo piano è qui per te, dove nessuno può disturbarti,” concluse. “Quando hai voglia, vieni qui, guardi il mare e suoni.” Mimò il gesto di suonare con tutte e dieci le dita.
Dazai lo giudicò in silenzio. “Non lo faccio solo io,” disse. “Anche il Boss viene a suonare, quando ne ha voglia.”
Chuuya lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Anche il Boss suona il pianoforte?”
“Lumaca, puoi smettere di dirlo come se fosse una specie di effetto speciale?”
“Tu. Il Boss. Un pianoforte.” Chuuya insisteva perché davvero c’era qualcosa che non aveva senso in quella storia.
“È perché tu sei convinto che un mafioso non possa avere un talento che non abbia a che fare con sparatorie, spionaggio e insabbiamenti.” Dazai gli rivolse uno dei suoi sorrisi sarcastici. “Il fatto che tu non sia capace di fare nulla, a parte casino, non significa che le altre persone siano altrettanto aride e mediocri.”
Chuuya strinse i pugni e cercò una buona ragione per non afferrare quel pianoforte e gettarlo lontano, in direzione mare.
“Dazai, ho-!”
“Ma porca puttana!” Chuuya saltò come una molla, con la mano destro cercò la sua pistola ma non appena vide chi gli era davanti, rinunciò. “Ah,” sospirò, aggiustandosi il cappello sopra la testa. “Hai portato qui anche Angoscia.”
Akutagawa Ryuunosuke, armato di un vassoio con sopra un sandwich e una bottiglietta d’acqua, si risentì molto per quel soprannome e non vi vergognò a mostrarlo.
“Lo hai offeso,” disse Dazai, sporgendosi sopra Chuuya per prendere il suo spuntino. “Chiedigli scusa.”
“Non sa parlare da solo?” Domandò il rosso, indicando il ragazzino. “Siamo arrivati al punto che ti esprimi tu per lui?”
“So parlare benissimo da me, Sir,” rispose Akutagawa, appoggiando il vassoio sopra il pianoforte.
“Sir,” ripeté Chuuya, con una smorfia. “Moccioso, che ti sta mettendo in testa questo Sgombro? Chiamami per nome e falla finita!”
Dazai puntò l’indice verso il suo allievo. “Si chiama Lumaca. Te lo ricordi, vero?”
Akutagawa fece per rispondere.
“Giuro sull’intera Port Mafia che se solo provi a chiamarmi così, tu, lui,” Chuuya indicò Dazai, accanto a sé, “e questo cazzo di pianoforte, vi ritrovate in mezzo alla baia senza sapere come avete fatto.
Akutagawa non pronunciò parole, rimanendo dritto al suo posto, come un soldatino ubbidiente in attesa di un ordine. Chuuya non poteva quantificare quanto aveva voglia di prenderlo a schiaffi e urlargli di darsi una sveglia. Sarebbe stato come sparare su di un uomo già a terra, così il rosso tornò a rivolgersi al suo partner. “Non puoi suonare davanti a me, ma suonavi davanti a lui.”
Dazai aveva la bocca piena, così si limitò a scuotere la testa.
“Quando siamo arrivati, mi ha mandato da Hirotsu perché gli preparasse un sandwich,” spiegò Akutagawa. “Dazai aveva fame.”
Lo Sgombro prese ad annuire, confermando la versione del suo cagnolino nero.
Chuuya era ancora lì, con una gran voglia di sbattere entrambi contro il muro. “Tu ordini al leader della Black Lizard di prepararti degli spuntini?” Non ne era veramente sorpreso: le volte che Hirotsu aveva fatto servizio al tavolo nell’ufficio del Boss non si contavano.
Dazai ingoiò. “Come li fa Hirotsu…”
“Oh, certo, la Black Lizard per il prossimo anno aprirà una panineria.”
“Devo fare altro, Dazai?” Domandò Akutagawa, tradendo un poco di urgenza.
La sua postura era composta e l’espressione indecifrabile, ma Chuuya sentì che era nervoso: non voleva intromettersi in un momento tra i membri del Duo Nero. Beh, gli era andata male.
“Vieni un po’ qui.” Chuuya lo tirò per il braccio, spingendo Dazai a farsi più in là.
Con il boccone in bocca, il Dirigente si lamentò di qualcosa ma il suo partner lo ignorò. In un modo o nell’altro, tutti e tre si sedettero sullo stesso sgabello.
“Finisci di mangiare e suona,” ordinò Chuuya, assicurandosi di stringere Akutagawa in modo abbastanza saldo da evitargli ogni possibilità di fuga.
Dazai borbottò per tutti i cinque minuti che gli ci vollero per addentare quel sandwich fino all’ultimo boccone. Si pulì le mani strofinandole tra di loro e prese un respiro profondo. “Preferenze?” Domandò, sarcastico.
Chuuya sorrise soddisfatto. “Il Notturno di Cho-“
“Non lo so,” lo interruppe Dazai.
Il rosso lo guardò storto. “Ti scarico lo spartito da internet.”
“Non so leggere gli spartiti.”
“Mi prendi per il culo?!” Chuuya si agitò e, a causa dello spazio millimetrico in cui erano compressi, Akutagawa cadde a terra. Non fece in tempo a chiedergli scusa, che il quindicenne si alzò in piedi, guardandolo con rancore.
Chuuya strabuzzò gli occhi. “Ha intenzione di mordermi?” Domandò al suo partner.
Dazai simulò un sorriso intenerito. “Oh, ti ha rivolto la sua occhiata rabbiosa,” disse. “Nah, questo è niente. Quando risponde male, allora sì, che viene voglia di buttarlo dal grattacielo.”
Chuuya aggrottò la fronte. “Tu hai la facoltà di rispondere male?” Domandò al diretto interessato.
Il modo in cui Akutagawa dischiuse appena le labbra per prendere un respiro profondo fu la prova più evidente di quanto, in realtà, la sua pazienza fosse messa a dura prova sia dal Dirigente che dal suo partner.
Chuuya decise di avere pietà e di lasciarlo in pace. Tornò su Dazai. “Spiegami questa cosa per cui sei un pianista, ma non riesci a leggere uno spartito.”
Dazai sbuffò. “Anche Hans si era fissato su questo punto, quanto siete noiosi!”
“E adesso chi diavolo è Hans?”
“Memorizzo la sequenza dei tasti,” spiegò Dazai. “Non posso suonare un nuovo pezzo dal nulla. Prima di farlo, devo vedere qualcuno eseguirlo. Capisci?”
Chuuya tentò di fare due più due. “Se ora tiro fuori il cellulare e trovo il video di qualcuno che suona il Notturno di Chopin-“
“Se l’inquadratura è buona, me lo guardo un paio di volte e poi posso suonartelo,” concluse Dazai.
Chuuya era certo che lo stesse prendendo in giro. “Quando sono arrivato, stavi provando un pezzo. Che cos’era?”
“Nulla di classico.”
“Allora suona quello.”
“No, non posso.”
Chuuya alzò gli occhi al cielo. “Sentiamo, quale sarebbero le tue ragioni?”
“È una cosa intima, non ti riguarda.”
“È una tua composizione?”
“Ti ho appena detto che non so leggere lo spartito, figurarsi scriverci sopra!”
“Allora suonala e basta!”
“No!” Dazai era irremovibile. “Ti ho detto che è una cosa intima.”
Chuuya a stento riusciva a immaginare che Dazai avesse una sfera tanto personale da definire intima. “Ti ho chiesto di suonare, non di toglierti le mutande.”
Forse intimorito dalla piega che stava prendendo quel battibecco, Akutagawa si allontanò dal pianoforte per fingersi interessato al panorama.
“È una canzone noiosa,” insistette Dazai. “Non ti piacerebbe.”
Chuuya sbuffò. “Tra i pezzi che sai suonare, c’è qualcosa che mi piacerebbe?”
“Odio la musica che ascolti, quindi ne dubito.”
“C’è qualcosa di cantabile nel tuo repertorio?”
Dazai non aveva bisogno di pensarci. “C’è molto di cantabile,” rispose. “La musica classica è utile per fare pratica, ma è noiosa.”
Almeno su qualcosa erano d’accordo, ma Chuuya lo tenne per sé. “Suona qualcosa che potrei conoscere anche io.”
Il Dirigente si grattò il mento, esaminando in silenzio le proprie possibilità. Una volta giunto a una scelta, le belle labbra si piegarono in un sorriso furbetto. Non disse nulla, si limitò a suonare.
E Chuuya gelò. Lo sapeva fare davvero.
Ipnotizzato dal movimento delle dita di Dazai sui tasti bianchi e neri, il rosso non si concentrò minimamente sulla musica suonata e non riconobbe il pezzo.
Quando Dazai sollevò lo sguardo sul suo partner, alzò gli occhi al cielo nel vedere che si era come inceppato. Smise di suonare. “Chuuya!” Schioccò le dita in faccia alla Lumaca e questa scattò sull’attenti. “Hai riconosciuto la canzone?”
Chuuya aprì la bocca, vide Akutagawa - rimasto di stucco quanto lui - comparire alle spalle di Dazai e la richiuse. “Puoi ripetere?” Domandò, cortesemente.
“Che noia,” si lamentò il Dirigente, poi riprese a suonare il pezzo da capo.
Dopo un primo momento di confusione, Chuuya si animò di colpo. “Oh, sì, questa la conosco!”
“Cantala,” disse Dazai, sorridendogli.
“Eh?”
“Dai, lo sappiamo tutti che sai cantare. Cantala,” insistette il Dirigente.
Chuuya rimase fermo a boccheggiare, aspettando il momento giusto per intervenire. Non appena riconobbe le note una strofa che conosceva bene, cominciò a cantare: “We could have had it all. Rolling in the deep.”
Nel sentirlo, la sorpresa sul viso di Akutagawa si fece più evidente. Chuuya lo mandò al diavolo con un gesto della mano e ci mise anche più impegno: “you had my heart inside of your hands. And you played it to the beat.”
“Aspetta…” Dazai s’interruppe. “C’è una doppia voce su quel pezzo.”
Chuuya allargò le braccia. “Io ne ho solo una di voce. Come vuoi che la faccia?”
Dazai smise di suonare, si umettò le labbra e fece la sua proposta. “Canto io.”
“Canti tu?”
“Posso intonarmi a te senza problemi.”
“Oh, certo, prima pianista e adesso cantante.”
“Pronto?” Domandò Dazai.
Chuuya era nato pronto. “Vai.”
La musica riprese e il rosso seppe esattamente a che punto cominciare. “We could have had it all.”
“You're gonna wish you never had met me,” seguì Dazai. Lo stronzo aveva ragione: si era intonato alla perfezione.
“Rolling in the deep.”
“Tears are gonna fall, rolling in the deep.”
“You had my heart inside of your hands.”
“You're gonna wish you never had met me.”
“And you played it to the beat.”
“Tears are gonna fall, rolling in the deep.”

Dazai non gli diede altre istruzioni, ma non ce ne fu alcun bisogno. Si era innescato quel meccanismo che a Mori piaceva chiamare la magia del Duo Nero. Nessuno dei due aveva bisogno di dire nulla ad alta voce, ma entrambi sapevano esattamente come muoversi.
Senza smettere di suonare, il Dirigente cantò la strofa successiva, poi fu il turno del suo partner. Andarono avanti così, perfettamente coordinati, fino al gran finale.
But you played it. You played it. You played it. You played it to the beat.” Cantarono Chuuya e Dazai in coro.
La canzone si concluse con una singola nota prolungata. Con le dita ancora sul pianoforte, Dazai sollevò lo sguardo sul coetaneo. I due membri del Duo Nero si guardarono negli occhi. Immobili.
Il primo a scoppiare a ridere fu Chuuya, ma Dazai gli andò subito dietro.
“Va bene,” disse il rosso, alzando le mani in segno di resa. “Sei uno stronzo, Sgombro, ma sai sia suonare che cantare. Che tu sia maledetto!”
“Mi stai facendo un complimento o mi stai mandando al diavolo?” Domandò Dazai, divertito. “Quale dei due?”
Tutte e due. Si ritrovò a pensare Chuuya, ma aveva il fiato troppo corto per parlare.
Un battere di mani li riportò entrambi alla realtà.
Non appena portarono lo sguardo su di lui, Akutagawa smise di applaudire e intrecciò le dite dietro la schiena. “È stata un’ottima esecuzione, Sir.”
Chuuya storse la bocca in una smorfia. “Insisti con questo Sir, ragazzino?” Il cellulare nella sua tasca prese a vibrare e rispose, senza leggere sul display chi fosse. “Pronto?”
Disinteressato, Dazai continuò a suonare qualche nota a caso.
“Oh, Hirotsu!” Esclamò Chuuya, appoggiandosi sgraziatamente allo strumento e guadagnandosi un’occhiata storta da parte del partner. “No, non so di cosa parlasse Kouyou, non mi sono affatto perso. Sono qui, con Dazai, al 34-Est. Musica dal vivo, non puoi perdertela!”
Dazai sgranò gli occhi e cominciò a scuotere la testa.
Chuuya lo ignorò. “Anzi, sai che ti dico? Porta su tutti quanti! Chiama anche Kaji e che qualcuno si carichi in spalla una cassa di bottiglie di vino, insieme ai bicchieri!” Una pausa. “Esatto, piano 34-Est. Fai prima dall’ingresso secondario, ascensore 5 del terzo piano. Non puoi sbagliare!”
Una volta riattaccato, gli occhi scuri di Dazai gli riversarono addosso tutto il suo disprezzo. “Ti odio.”
Chuuya scrollò le spalle. “Puoi farlo anche mentre continui a suonare,” ribatté. “Avanti, stiamo per fare una festa qui, serve musica. Capito? Musica!”



Non appena il cielo divenne scuro, Mori sollevò gli occhi dai documenti che lo avevano tenuto impegnato tutto il pomeriggio e si stiracchiò per sciogliere un nodo doloroso alla base della schiena.
“È stata una lunga e noiosa giornata,” decretò, a nessuno in particolare.
Sbatté le palpebre un paio di volte e si sorprese di trovare il suo ufficio completamente vuoto. Sì, Elise era lì, accanto alla scrivania, che disegnava con i suoi pastelli colorati, ma dov’erano tutti gli altri?
Difficilmente una giornata di lavoro finiva senza che qualcuno della sua cerchia più stretta venisse a trovarlo in ufficio. A volte per ragioni di lavoro, altre per semplice diletto. Quella sera era diverso: non solo non c’era nessuno nel suo ufficio, ma non udiva alcun rumore da nessuna parte.
Nel dubbio, si alzò in piedi e attraversò la stanza per dare un’occhiata fuori: gli uomini di guardia al suo piano si erano volatilizzati.
Mori era sempre più confuso. “Sono fuggiti tutti?”
Se c’era stata un’evacuazione di massa, nessuno si era disturbato a informarlo. Recuperò il cellulare dalla tasca del cappotto. Chiamò in quest’ordine: Dazai, Hirotsu e, infine, Chuuya.
Il primo gli buttò giù senza ritegno, gli altri due fecero partire la segreteria telefonica.
Indispettito, Mori guardò l’apparecchio telefonico come se fosse il responsabile di tutte quelle stranezze. “Sotto un certo punto di vista, questa è vera e propria insubordinazione.”
A correre in suo soccorso fu la sua più affidabile alleata. Non appena vide il suo nome sul display del cellulare, il Boss della Port Mafia si sentì improvvisamente più leggero. “Kouyou,” disse. “C’è qualcosa di stra-“
“Mori, parla a voce più alta o non ci capiremo mai!” Urlò lei, dall’altro capo della linea.
Temendo per il suo timpano, Mori allontanò il telefono dall’orecchio. “Ma dove sei?” Chiese a voce alta, disturbando l’attività ludica della sua Elise. Gli sembrava di sentire della musica, ma più che altro un gran vociare. I suoi uomini stavano improvvisando un coro da stadio, per caso? E se fosse, per andare a fare il tifo per cosa?
“Scendi al 34-Est!” Ordinò Kouyou.
Mori lasciò correre perché era lei. “Che diavolo sta succe-?”
“Scendi al 34-Est, invece di perdere tempo in chiacchiere!” La donna chiuse la comunicazione, lasciando il Boss della Port Mafia più confuso di quanto lo fosse prima.



Odasaku non fu tra i primi né tra gli ultimi a raggiungere il piano 34-Est.
L’ordine di presentarsi gli arrivò per telefono, dal leader della Black Lizard in persona.
“Non ne sono sicuro,” disse Hirotsu, con un tono che il tuttofare non seppe interpretare. “Ma ho la netta sensazione che se ti perdessi questo spettacolo, non te lo perdoneresti.”
Non era un’emergenza, così Odasaku si prese tutto il tempo per arrivare dove doveva. Non era mai stato al 34-Est e arrivarci non fu così immediato. Non appena uscito dall’ascensore, il corridoio affollato di uomini vestiti in nero, impegnati a cantare o a bere, gli suggerì che qualcuno aveva organizzato una festa non ufficiale.
Le note del pianoforte lo raggiunsero in un secondo momento, mentre si faceva strada tra la folla. Intuì che l’unico modo per scoprire le ragioni dietro l’invito di Hirotsu era seguire la musica. L’assenza di una vera organizzazione e di un catering degno di tale nome, fece intuire a Odasaku che la festa era stata messa in piedi in un battito di ciglia. Non era l’evento privato di un mafioso dei piani alti. Piuttosto, l’atmosfera era quella di uno dei momento ricreativi del P.Pub, ma con più canti e più aggregazione.
Qualcuno lo spintonò in avanti e un uomo dai capelli biondi gli pestò un piede, senza fargli male.
“Pardon monsieur,” disse costui, aggiustandosi la giacca bianca sulle spalle e sparendo tra la folla.
Odasaku non ci fece particolarmente caso. Dopo mezz’ora di vagabondaggio a gomitate e spintoni, si ritrovò sull’ingresso di una stanza circolare. Fu allora che la situazione divenne improvvisamente chiara.
La nera folla di mafiosi era radunata intorno a un pianoforte a coda, cantando a squarciagola le canzoni suonate dal pianista. In un primo momento, Odasaku non fece affatto caso al ragazzo, vestito di nero a sua volta, alle prese con i tasti bianchi e neri. Non gli era possibile, non quando Nakahara Chuuya era in piedi sul pianoforte e incitava tutti a cantare più forte, brandendo una bottiglia di vino a mo’ di microfono.
“Forza, gente, tutti insieme!” Esclamò, poi aspettò che partissero le note del ritornello. “So wake me up when it's all over. When I'm wiser and I'm older. All this time I was finding myself, and I didn't know I was lost!
Come dei fan sfegatati a un concerto, tutti gli uomini della Port Mafia presenti lo seguirono in un coro abbastanza scoordinato, ma non così spiacevole d’ascoltare.
“So wake me up when it's all over
When I'm wiser and I'm older
All this time I was finding myself, and I
Didn't know I was lost.”

Chuuya alzò ancor di più la voce, cercando di sovrastare quella di tutti gli altri. Difficile dire se fosse ubriaco o semplicemente euforico, ma la bottiglia stretta tra le sue dita faceva presupporre più la prima ipotesi.
“Da non crederci…” Quel commento dalle sfumature un po’ acide e un po’ incredule raggiunse Odasaku tra le cento voci che lo circondavano. Si guardò intorno e, in breve tempo, trovò e riconobbe l’uomo che lo aveva pronunciato. Superò un gruppetto intento a saltare e allungò la mano per afferrare la spalla dell’amico.
Ango sobbalzò nel voltarsi, poi il suo volto divenne il ritratto del sollievo. “Oh, grazie al cielo sei qui!” Esclamò, a voce abbastanza alta perché l’altro potesse udirlo.
Odasaku gli arrivò accanto. “Che sta succedendo qui?” Domandò, con voce neutrale.
Ango gli circondò le spalle per parlargli vicino all’orecchio. “Circa un paio d’ore fa, è stato diramato un ordine dal leader della Black Lizard che diceva di dirigersi qui, al 34-Est e di portare vino e bicchieri.”
Odasaku diede un’altra occhiata ai mafiosi in festa intorno a lui. “Beh, di vino sembra esserne arrivato in quantità.”
Ango si allontanò da lui per sbuffare apertamente e indicare il diciassettenne dai capelli rossi in piedi sul pianoforte. “Guardalo, intransigente sul posto di lavoro, poi si trasforma in una rock star!”
Odasaku scrollò le spalle. “Non sta lavorando. Ha il diritto di divertirsi.”
“Non lo difendere!” Esclamò Ango, indispettito. “Già sento la sua voce fin troppo, durante le ore di lavoro. Stasera ha deciso anche di mettersi a cantare!”
“Non me ne intendo, ma sembra piuttosto intonato. È praticamente il cuore della festa.”
Ango assottigliò gli occhi. “Da che parte stai?” Non gli diede il tempo di rispondere. “Non ha importanza. Ora che sei qui, vedi un po’ di porre fine a questo casino. Fai finire la musica e facciamo tornare tutti alle loro postazioni di lavoro!”
L’angolo destro della bocca di Odasaku si sollevò un poco, divertito da quella richiesta a tratti disperata. “E come credi che possa fare?” Domandò. “Vuoi che spari due colpi in aria o preferisci che spari al pianista?” Stava facendo del sarcasmo, ovviamente.
Ango non la prese per nulla a ridere. Lo guardò come se gli fossero spuntate di colpo due teste. “Sei serio?”
“Non dovrei esserlo?”
“Hai visto chi sta suonando?” Ango lo prese per la giacca e lo spinse in avanti, regalandogli una visione chiara del pianista che stava animando la festa.
Dazai era in piedi, lo sgabello dimenticato alle sue spalle, muoveva la gamba destra per darsi il ritmo e suonava come se non fosse circondato da centinaia di persone urlanti. Le sue dita si muovevano su quella tastiera come se la musica fosse la sua seconda natura.
“Ti aveva detto che sapeva suonare il piano?” Domandò Ango.
Odasaku lo udì ma non gli rispose, come se fosse ipnotizzato da qualcosa. Era impossibile allontanare gli occhi da Dazai in quel momento e il fatto che avesse entrambi gli occhi scoperti non era neanche il dettaglio più impressionante.
“Sta sorridendo,” disse Odasaku, a voce troppo bassa perché qualcuno potesse udirlo.
“Eh?!” Chiese Ango, sporgendo l’orecchio nella sua direzione. “Che cosa hai detto?”
“Mi aveva detto che sapeva suonare il pianoforte,” disse Odasaku, tornando alla sua prima domanda. “È la prima volta che lo vedo con i miei occhi. Con me, si è descritto come un novellino alle prime armi.”
“Novellino?” Ripeté Ango. “Certo, come no! Novellino nel vocabolario di Dazai deve avere un significato a noi ignoto. Sta andando avanti da due ore e non si è vista l’ombra di uno spartito.”
“Andrà a memoria,” ipotizzò Odasaku, per nulla sorpreso.
“No, non hai visto la scena,” spiegò Ango. “Mezz’ora fa, sia Dazai che Chuuya erano a corto di pezzi di cui fare la performance. Mentre la gente beveva, si sono guardati un paio di video con il cellulare e sono ripartiti, come se nulla fosse.”
Odasaku scrollò le spalle. “Allora andrà a orecchio?”
Ango strabuzzò gli occhi. “So che stiamo parlando di Dazai, ma può andare avanti per decine di canzoni soltanto a orecchio?”
Il tuttofare non aveva una risposta da dargli. La canzone era arrivata al suo ultimo ritornello e Chuuya si stava scatenando ancor più di prima.
“So wake me up when it's all over. When I'm wiser and I'm older. All this time I was finding myself, and I didn't know I was lost. I didn't know I was lost. I didn't know I was lost. I didn't know I was looooost~” Preso dall’euforia, allungò l’ultima parola più del dovuto e continuò a cantare, sebbene la musica fosse ormai finita.
Poco male.
Non appena calò il silenzio, partì un fragoroso e sentitissimo applauso. Il tipo alla destra di Ango per poco non lo sbalzò dalla parte opposta della stanza per l’eccessiva agitazione. Odasaku lo afferrò al volo e lo rimise in piedi.
“È appena calato il sole su Yokohama!” Esclamò Chuuya, impugnando la bottiglia di vino come se fosse un microfono.
Da dove era, Odasaku vide Dazai alzare gli occhi al cielo.
“Sapete cosa significa?” Domandò diciassettenne dai capelli rossi a tutti i presenti. “Che sono scese le tenebre ed è giunto il nostro momento!”
La folla gli diede ragione esultando e alzando le mani in aria.
“Perciò…” Chuuya puntò la bottiglia contro Dazai. “Musica Maestro!”
Il giovane Dirigente sbuffò. “Ho sete, Chuuya!” Si lamentò, guadagnandosi subito un’occhiata storta da parte del partner.
“Sta volando vino da almeno un’ora!” Esclamò il rosso. “Prenditi un calice. Qualcuno gli porti un calice!” Si rivolse alla folla.
“Voglio dell’acqua!” Ribatté Dazai, mettendosi in piedi sullo sgabello da pianista. Così facendo, Chuuya smise di essere il più alto nella stanza e l’atmosfera si fece di colpo meno festosa.
Persino Ango trattenne a stento una risata. Sentendosi chiamato in causa - da non si sa chi o cosa - Odasaku allungò il collo per valutare se qualcuno si fosse premurato di portare dell’acqua, oltre a tutto il vino delle cantine della Port Mafia. Il suo intervento non fu necessario.
A evitare che la festa finisse in tragedia, con un bisticcio tra le due metà del Duo Nero, fu Akutagawa Ryuunosuke, che emerse dalla folla solo per passare una bottiglietta d’acqua al suo superiore e scomparire l‘instante seguente.
Dazai ne bevve una buona metà in un sol sorso. Una volta soddisfatto, saltò giù dallo sgabello e cercò gli occhi del partner.
Lo sguardo di Chuuya urlava ”muoviti!”
Quello di Dazai, invece, lo minacciava: ”indispettiscimi e la festa finisce qui.”
La musica riprese un istante dopo.




Non appena le porte dell’ascensore si aprirono, Mori vide qualcuno sfrecciare davanti a lui e schiantarsi contro il muro. Ci mancò poco che finisse investito e subito si pentì di aver ascoltato le parole di Kouyou. Mentre l’uomo a terra delirava qualcosa, forse ubriaco, quelli in piedi lo riconobbero e non ebbero il coraggio di fare o dire niente.
Mori non si curò di nessuno di loro, uscì nel corridoio e si fece spazio più o meno velocemente: dovette sgomitare un po’, ma non appena lo guardavano in faccia, erano pronti ad arrampicarsi sui muri per lasciarlo passare.
Quando udì chiaramente la musica del pianoforte sopra tutto il gran caos di voci e bicchieri che brindavano, era già oltre la porta della stanza circolare.
Lo spettacolo che gli si presentò davanti andò oltre ogni sua immaginazione.
“I've been reading books of old. The legends and the myths. The testaments they told. The moon and its eclipse. And Superman unrolls. A suit before he lifts. But I'm not the kind of person that it fits.”
Mori sapeva che Chuuya aveva una bella voce. Era capito più volte che lui e Dazai si mettessero a fare gare canore in macchina, fino ad arrivare ad urlarsi in faccia l’un l’altro. Quello che mai si sarebbe aspettato era che riuscisse ad avere tanta presenza scenica su di un palco improvvisato - che era il pianoforte suo e di Hans, motivo per cui il moccioso avrebbe ricevuto un sonoro rimprovero.
“She said, where'd you wanna go? How much you wanna risk? I'm not lookin' for somebody. With some superhuman gifts. Some superhero. Some fairy-tale bliss. Just something I can turn to. Somebody I can miss.”
La canzone non era particolarmente rumorosa e la voce di Chuuya la rendeva particolarmente godibile. Anche la folla doveva pensare, perché non cercava più di fargli da coro, bensì ascoltava.
Merito anche dell’arrangiamento perfetto del pianista. Mori allungò il collo e quando vide Dazai seduto di fronte al pianoforte, che muoveva le dita come se volassero, non poté evitare di sorridere in quel modo che non mostrava mai a nessuno.
“Bellissimo, vero?” Kouyou comparve dal nulla, attaccandosi al suo braccio. “Dov’eri finito? Credevo ti saresti perso questo spettacolo memorabile.”
“Potevi avvisarmi prima,” ribatté il Boss, imbronciato.
“Prima non ti sarebbe piaciuto,” si giustificò lei. “Chuuya ha dato il meglio e il peggio di sé nello stesso momento. Avresti disapprovato e basta, noioso come sei.”
“Chuuya sta cantando meravigliosamente,” commentò Mori. “Ma ti sei accorta che usa una bottiglia di vino come microfono, sì?”
Mon Dieu, non si può dire che brilli per i suoi modi aggraziati.”
Nell’udire quell’inconfondibile accento francese, Mori sgranò gli occhi e si voltò. “E tu che cosa ci fai qui?”
Sotto la frangia bionda, Paul Verlaine aggrottò la fronte. “Non ho il permesso di essere qui?” Domandò, perplesso.
“Non ha il permesso di essere qui?” Gli fece eco Kouyou.
Mori si ricompose. “No, certo, sei libero di andare dove vuoi, ma non mi aspettavo fossi qui.”
Verlaine incrociò le braccia contro il petto e appoggiò la spalla al muro. “Ho sentito la musica del pianoforte e mi è venuta curiosità,” si giustificò il francese.
Il Boss non gli credette per mezzo secondo. “Un pianoforte non ha una cassa di risonanza tale da-“
“L’ho chiamato io,” intervenne Kouyou, annoiata. “Aveva il diritto di vederli quanto te. Su, Mori, ora stai zitto, rovini la musica.”
Verlaine sospirò, abbattuto. “È così poco aggraziato.” Si riferiva a Chuuya.
“Mi duole dirti che non è mai stato un Petit Prince,” lo informò Mori.
“No, certo che no. Ha la natura di un guerriero e si atteggia come tale, ma speravo fosse più…” Verlaine cercò la parola giusta. “Raffinato, ecco.”
Di colpo, Mori ricordò perché tra tutti i suoi pretendenti europei, i francesi non avevano mai avuto alcuna speranza. “Domani lo iscriviamo a un corso di danza classica, ci stai?” Domandò sarcastico. “Ce lo portiamo, io e te. Immagina la scena.”
Verlaine simulò un sorriso, fingendosi divertito. “Le petit connard, invece, è molto bravo, non me lo aspettavo.”
Mori sbatté le palpebre un paio di volte. “Le petit… Come lo hai chiamato, scusa?”
“Basta, voi due!” Esclamò Kouyou, come se stesse richiamando all’ordine due bambini ribelli.
Verlaine però aveva qualcosa d’aggiungere. “Non ti ricorda niente?”
“Cosa?” Domandò Mori, indispettito dalla presenza del francese che aveva appena insultato Dazai.
“L’Europa,” rispose Verlaine. “Quando ad animare i salotti dell’alta società era un pianista poco più grande di quello.”
Mori non ribatté. Pur non volendolo, la sua mente tornò indietro e all’immagine di Dazai si sovrappose quella di un giovane che non gli assomigliava quasi per niente, ma che suonava nel suo stesso, identico modo. Ingoiò a vuoto per scacciare via quel ricordo molesto, ma Kouyou si accorse che si era fatto più teso.
“Di che state parlando, voi due?” Domandò la giovane donna.
Mori la ignorò e si rivolse al francese. “Ci siamo mai incontrati in Europa, io e te?”
“Un paio di volte,” rispose Verlaine. “Ma io non ero ancora nessuno, tu eri il Fiore d’Oriente di tutta Europa.”
Nel sentir pronunciare quel vecchio soprannome, Mori sbuffò. “Ti prego, dimentica quel nomignolo,” disse. “Ne dovremo parlare,” aggiunse, cambiando tono.
“Con molto piacere,” concordò Verlaine.
”Just something I can turn to. Somebody I can kiss. I want something just like this. Oh, I want something just like this. Oh, I want something just like this. Oh, I want something just like this.” Chuuya smise di cantare e tutti applaudirono.
Mori si ritrovò a fare lo stesso. “Da quanto stanno andando avanti?” Domandò.
“Non lo so con esattezza,” rispose Kouyou. “Chuuya si è perso mentre cercava un ufficio per te, ha trovato Dazai che suonava e da cosa è nata cosa. Sai come sono fatti i ragazzi.”
Mori inarcò il sopracciglio destro. “Avevo scritto a Chuuya di prendere l’ascensore 3.”
Kouyou alzò le spalle. “Lui ha letto 5.”
“Vogliamo sentir cantare il Dirigente!” Esclamò qualcuno, probabilmente ubriaco.
Mori rise tra sé e sé: nessuno nel pieno delle sue facoltà avrebbe chiesto a gran voce una performance canora del Demone fanciullo della Port Mafia. Peccato che lì fossero davvero in pochi a essere rimasti lucidi, a causa del vino. Nel tempo di un respiro, decine di voci si alzarono, chiedendo che Dazai cantasse.
Il Boss divenne serio di colpo e fissò gli occhi sul diciassettenne seduto di fronte al pianoforte.




Di fronte a quel coro di richieste, Dazai guardò Chuuya, che alzò le spalle come a dire: che vuoi che ci faccia?
Il Dirigente scosse appena la testa. “Io non canto,” disse, a voce abbastanza bassa perché solo il partner potesse udirlo.
Chuuya alzò gli occhi al cielo e scese dal pianoforte con un saltello. “Il pubblico chiede di te, Sgombro,” disse, come se non fosse abbastanza evidente.
“Non so cantare,” ribatté Dazai.
“Inventane un’altra!”
“Non riesco a improvvisare come te!” Esclamò Dazai. “Devo prepararla una canzone, prima di cantarla in modo convincente!”
Chuuya reclinò la testa da un lato. “Prima, con me, hai improvvisato.”
“Stavamo giocando.”
“Lo stiamo facendo anche ora, Dazai,” ribatté il diciassettenne dai capelli rossi. “Lasciati andare, non stiamo decidendo le sorti del mondo. La gente è qui per divertirsi. Fai una cosa nuova: divertiti anche tu.”
Dazai sbuffò. “È tutta colpa tua!”
“Può darsi…” Chuuya si prese le sue responsabilità. “Mi fa piacere scoprire che anche una lagna umana come te è troppo orgogliosa per tirarsi indietro di fronte all’intera Port Mafia.”
“Che dovrei suonare e cantare, di grazia?”
Chuuya ci pensò. “Quando ti ho interrotto, stavi provando qualcosa,” ricordò. “Canticchiavi, ti ho sentito.”
Dazai sgranò gli occhi, poi aprì la bocca per parlare ma non fece in tempo a dire nulla.
“Stavi preparando una canzone per qualcuno?” Domandò Chuuya, dubbioso. Il pensiero lo colse lì, all’improvviso. La parte peggiore fu vedere Dazai sospirare, esasperato.
Il rosso sbatté le palpebre un paio di volte. “Stavi preparando una canzone per qualcuno, per davvero?
“Non è una canzone ballabile.” Dazai provò a togliersi dall’impiccio.
“Li senti?” Chuuya indicò la folla tutt’intorno a loro. “Non vogliono ballare, ma sentirti cantare.”



Ango cominciava a essere su di giri, ma Odasaku era certo che non avesse toccato una goccia di vino. Non da quando lui era lì, almeno.
“Giuro che se si mette a cantare…” Cominciò, prendendosi la testa tra le mani, quasi che la voce di Dazai da sola potesse scatenare qualche evento catastrofico.
Odasaku non lo capiva. “Canta bene,” disse, per rassicurarlo. “L’ho sentito, sa cantare.”
Ango lo guardò. “Qui non si tratta di canticchiare un brano in macchina, soprapensiero.”
Odasaku non poteva confidargli che lo aveva ascoltato anche in altre occasioni, tipo quando Dazai si faceva la doccia, dopo aver passato la notte insieme, mentre lui preparava la colazione per tutti e due. “Non è stonato,” insistette.
“Va bene, ma se comincia a cantare, io svengo.” Ango guardò l’amico dritto negli occhi. “Se svengo per davvero, mi sostieni, vero?”
Odasaku non ebbe il tempo di rispondergli. Sollevò lo sguardo sul Duo Nero solo per controllare se fossero arrivati a una conclusione.
Fu questione di un millesimo di secondo.
Dazai si voltò, i loro occhi s’incontrarono e lo riconobbe tra la folla.



“Tu canti la tua canzoncina,” disse Chuuya, appoggiando la bottiglia a terra e mettendosi a sedere a cavalcioni sul lato dello sgabello lasciato libero. “Loro sono tutti contenti, poi io continuo lo show e chiudiamo in bellezza. Non se lo dimenticheranno per il resto della loro vita e sarà fantastico.” Ci mise un po’ a notare che Dazai fissava qualcosa tra le folla e non lo stava degnando della minima attenzione. “Ehi, Sgombro!” Chuuya gli strinse la spalla e lo scosse. “Mi sta ascoltando?”
“Va bene, lo faccio,” disse Dazai di colpo, portando gli occhi sui tasti talmente velocemente che il rosso fu certo di sentire il suo collo fare crick.
“Ok…” Mormorò Chuuya, incerto. Non si era aspettato che sarebbe stato così facile, né che Dazai ci avrebbe messo tanta determinazione. “Io resto qui… Così ti guardo da vicino…” Non sapeva neanche lui cosa stava dicendo, ma qualcosa era cambiato sul viso del suo partner e questo lo rendeva nervoso. “Dazai se proprio non vuoi-“
L’altro si voltò di nuovo verso la folla, come per cercare la conferma di qualcosa.
Chuuya si sporse verso destra, ma non vide nulla che potesse giustificare quegli sguardi disperati.
Dazai drizzò la schiena, inspirò dal naso e Chuuya lo vide rilassare le spalle e concentrarsi.
La musica riempì il silenzio.
“Tell me you love me just one time. Just give me one night. I'll be the secret on your lips. Let me be that one kiss. If you fall. Fall into my arms. Come and fall. Break down your walls and…”
Dazai aveva una bella voce. Forse non aveva la stessa potenza di quella di Chuuya, ma nel momento in cui cominciò a cantare, gli occhi di tutti furono su di lui.
Non guardarlo divenne impossibile fin dalla prima strofa.



Non c’era nessuno.
“Tell me you love me one time. I can see the truth in your eyes. Say you will. Forget tomorrow and be with me tonight. Just tell me you love me one time. And this isn't goodbye.”
No, nessuno. Tranne loro due.
Così Dazai si era sempre immaginato quel momento.
”I know I can't ask you to stay. But I've stayed awake. Now my eyes are open I won't miss a thing. Here is my heart and I hope that's ok. You are the one.”
Aveva raccontato a Odasaku del pianoforte, di come Hans gli aveva insegnato nella casa con giardino di Weimar - anche se, di fatto, aveva imparato completamente da solo.
E Odasaku gli aveva detto che gli sarebbe piaciuto sentirlo suonare, un giorno.
Da quando lo aveva fatto, Dazai non aveva pensato ad altro. Era tornato a esercitarsi tutti i giorni, aveva riflettuto su cosa Odasaku avrebbe preferito sentirgli eseguire.
”So If you fall. Fall into my arms. Come and fall. Break down your walls. And…”
Poi i suoi pensieri avevano invertito il senso di marcia.
Il proposito era cambiato. “Voglio usare la musica per dire qualcosa?” Si era domandato Dazai. “Che cosa voglio dire a Odasaku?”
La risposta gli era arrivata in modo semplice, tanto che gli era sembrata banale, scontata.
Eppure…
”Tell me you love me one time. I can see the truth in your eyes. Say you will. Forget tomorrow and be with me tonight. Just tell me you love me one time.”
Dazai cos’altro avrebbe dovuto dire all’uomo che rappresentava il mondo per lui?
”Tell me you love me one time…”
Alla fine, andò proprio come lo aveva immaginato.
”Just…”
Tutto smise di esistere.
”Tell me you love me one time.”
Tranne loro due.




La musica finì e con essa il canto di Dazai.
Seguì un silenzio decisamente attonito, come se la canzone avesse trasportato tutti verso orizzonti possibili solo in una dimensione onirici e ora li avessi lasciati svegli e boccheggianti, di fronte alla realtà materiale.
Chuuya stesso, che era rimasto a mezzo metro dal pianista per tutto il tempo, non sapeva dire che cosa fosse successo. Se avesse dovuto usare delle parole da teen-novel di seconda mano, avrebbe detto che Dazai li aveva fatti sognare e lasciati a bocca aperta nello stesso momento.
Di fronte a lui, Dazai era tornato a guardare quel qualcosa - o qualcuno - tra la folla, ma era troppo stordito per tentare di capire di nuovo chi fosse.




Ad un certo punto, tra la prima nota che Dazai aveva intonato e l’ultima, Mori si era pietrificato. Attaccata al suo braccio, Kouyou lo fissava, come se si aspettasse un qualche tipo di spiegazione.
Alle sue spalle, Verlaine disse quello che pensavano tutti. “Quella canzone era dedicata a qualcuno,” si sporse in avanti per sbirciare l’espressione del Boss. “Ton prince noir è innamorato, per caso?”
Mori si ricompose immediatamente. “Non diciamo sciocchezze,” disse, irritato dal semplice fatto che qualcuno lo avesse ipotizzato ad alta voce. “Dazai è annoiato dalla vita, figuriamoci se riesce a provare interesse per le persone. Per chiunque.”
Kouyou continuava a guardarlo fisso. “Quella era passione, Mori,” gli fece notare. “Non era una canzone, era una confessione d’amore.”
Il Boss allargò le braccia. “È un attore consumato, lo sappiamo bene. Verlaine, racconta di quando ti ha convinto che voleva tradire la Port Mafia e fare il doppio gioco con te.”
Il francese non gli diede soddisfazione. “A me sembrava più disperato che consumato, Mori.”
“È sempre disperato,” ribatté il Boss della Port Mafia. “Il suicidio è il suo primo pensiero, vi ricordo.”
Kouyou scosse la testa. “Quella era passione,” insistette. “Dazai dove la nascondeva tanta passione?”
“Basta,” disse Mori, fermo. “Da oggi in avanti, a voi due è categoricamente vietato frequentare gli stessi ambienti, specie in mia presenza!”



Si guardavano, Dazai e Odasaku e nessuno si accorgeva di loro, nonostante fossero sotto gli occhi di tutti.
Così era sempre stato e così sarebbe continuato a essere.
E andava bene.



Nell’udire Ango tirare su col naso piuttosto rumorosamente, Odasaku fu costretto ad abbandonare gli occhi di Dazai per valutare lo stato in cui versava l’amico.
“Ti sei commosso?” Domandò il tuttofare.
“No,” mentì Ango, aggiustandosi gli occhiali sul naso. Si ricompose, poi prese ad applaudire con un’espressione esageratamente solenne. Chi gli era intorno seguì il suo esempio e così via, fino a che tutta la stanza venne riempita da un fragoroso battere di mani.




“Cazzo, Dazai…” Furono le prime parole che Chuuya pronunciò, stringendo la spalla del partner. “Ma dove lo nascondevi tutto… Tutto… Tutto quello.” Non sapeva come definirlo, ma aveva incantato tutti. Suo malgrado, lui compreso.
Dazai lo guardò con un sorrisetto insopportabile dei suoi. “Visto?” Domandò, altezzoso. “Ti ho battuto anche stavolta.”
Tutte le intenzioni amichevoli di Chuuya finirono lì, con quelle cinque parole. “Ma vaffanculo!” Tuonò. “Dovevi farli divertire, mica piangere!”
Dazai accarezzò i tasti con la punta delle dita. “Domani, quando parleranno di questa strana festa, spenderanno due parole per te e passeranno il resto del tempo a commentare incantati la mia performance!”
Chuuya assottigliò gli occhi. “Adesso ti faccio fare una performance volante, vuoi vedere?” Tuonò.
“Basta così!”
La voce di Mori arrivò a Chuuya e Dazai come un colpo in testa. Si scambiarono un’occhiata sconvolta, a tratti terrorizzata, e si voltarono molto lentamente nella direzione da cui proveniva.
“Vi siete divertiti abbastanza!” Disse il Boss della Port Mafia, gettato in mezzo alla folla tra un mafioso di basso rango e l’altro. “Direi che possiamo chiudere qui la- Ah!”
Tutti - ma proprio tutti - i presenti s’inginocchiarono al cospetto del loro leader nello stesso momento. Il movimento fu tanto brusco che Mori fu certo di avvertire la terra tremare sotto i suoi piedi.
Bene, si disse. Faccio ancora il mio effetto scenico.
Cercò Kouyou e Verlaine ma, come c’era d’aspettarsi, si erano volatilizzati, lasciandolo solo sulla scena.
Il palco era tutto suo.
“Signori miei,” cominciò. “Chi ha finito il turno, vada a casa. Chi deve ancora lavorare, se non è completamente ubriaco, torni alla sua postazione. Hirotsu?” Chiamò.
Il leader della Black Lizard si alzò in piedi dall’altra parte della stanza, vicino alla vetrata. “Sì, Boss?”
“Cerca di capire chi può reggere sul posto di lavoro e chi è troppo su di giri,” ordinò Mori, poi rivolse la sua attenzione ai due adolescenti vicino al pianoforte. Chuuya si era inginocchiato in un punto strategico: nascosto dietro lo sgabello. Dazai non si era affatto scomodato - e quando mai! - e lo guardava con le braccia incrociate contro il petto e l’aria annoiata, certo che nulla e nessuno l’avrebbe salvato da un’inutile ramanzina.
“Voi due andate a farvi una doccia e dritti a letto,” disse Mori, stancamente. “Domani mattina, vi voglio nel mio ufficio.”





Il concerto non era ancora finito, non per Dazai.
Sul momento, fece contento Mori e se ne andò insieme a tutti gli altri. Si chiuse nel suo appartamento al quartier generale, si fece una bella doccia calda e si mise dei vestiti puliti. Aspettò un paio d’ore, tenendo il cellulare sempre a portata di mano. Come ogni giorno, intorno a quell’orario, aspettava una chiamata, ma dopo gli eventi di quel pomeriggio, l’attendeva con una certa urgenza. Quasi con bisogno.
Seduto scompostamente sul suo divano di pelle, Dazai controllò il display del cellulare tre volte in meno di mezz’ora. Alla fine, si diede del patetico da solo e si tirò in piedi con un saltello. Non poteva restare fermo a contare i minuti, doveva sgombrare la mente.
Si affacciò sul corridoio del suo piano per controllare che Mori non gli avesse mandato una scorta contro la sua volontà - un vizio che il Boss aveva fatto suo, dopo l’incidente con Marchese De Sade. Non c’era nessuno in vista e sorrise soddisfatto.
Dazai era sempre stato bravo a muoversi senza farsi vedere, come se avesse il potere di confondersi con le ombre stesse. Nessuno si accorse di lui che usciva dall’ingresso principale e rientrava da quello secondario, per salire al 34-Est.
Aveva bisogno di suonare.
Era stato un pomeriggio di pratica intensa e sentiva le dita indolenzite e i polsi rigidi, ma c’era troppo caos nella sua testa e la musica era il solo mezzo attraverso cui poteva fare ordine, senza distruggere nulla. Mentre entrava nell’ascensore, controllò ancora una volta il display del cellulare: non vi erano notifiche di chiamate perse o messaggi non letti. Sbuffò.
Gli sarebbe bastato sentire la voce di una persona per resettare i pensieri. Conoscendolo, stava aspettando la fine del turno per chiamarlo in tranquillità, senza dover mettere un timer alla loro conversazione.
“Non dovevo cantare,” disse tra sé e sé, con voce lamentosa. “È tutta colpa di Chuuya.” Sì, sua e della brillante idea della festa organizzata su due piedi. Doveva pensare a qualche dispetto ai suoi danni, così da riportare le cose al loro naturale equilibrio.
Le porte dell’ascensore si aprirono, Dazai mise un piede nel corridoio del 34-Est e il cellulare nella sua tasca prese a suonare. Il nome che illuminava il display bastò a strappargli un sorriso. “Ehi,” mormorò, come se qualche orecchio indiscreto potesse udirlo anche su quel piano fantasma. “Pensavo fossi ancora al lavoro.”
“Sono ancora al lavoro,” confermò Odasaku. “Volevo avvisarti che qui ne avremo ancora per un po’ e farò più tardi del solito.”
“Non importa,” rispose Dazai, facendo un passo alla volta, senza fretta. “Sono ancora qua, al grattacielo principale, anche io. Penso che ti aspetterò suonando qualcosa.”
Odasaku rimase in silenzio per il tempo di un paio di respiri. “Ti ho sentito suonare.”
Il sorriso sul volto di Dazai si fece più luminoso. “Lo so, ti ho visto.”
“Ti ho sentito cantare,” aggiunse Odasaku.
“Sì, mi hai sentito cantare.” Le note del pianoforte lo bloccarono a metà del corridoio. Non fece un passo in più. “Ne parliamo faccia a faccia, di fronte a un drink? Seduti al bancone del P.Pub, magari. Non è il nostro Lupin, ma c’incontreremo tardi, troppo per arrivare là in una serata di metà settimana.” Inoltre, domani mattina devo cominciare la giornata con una paternale nell’ufficio dell’ultimo piano. Non lo disse, ma il motivo per cui non aveva alcuna voglia di affrontare chi lo aspettava nella stanza della musica.
“Pensavo a qualcosa di diverso,” ammise Odasaku. “Passiamo la notte insieme?”
Quella proposta gli era arrivata in decine e decine di circostanze, ma Dazai aveva l’impressione di camminare tra le nuvole ogni volta. “Rilancio: sali tu da me. Fatti una doccia, mettiti comodo…” Propose, trattenendo uno sbadiglio. “Domani sono convocato nell’ufficio del gran capo di buon’ora.”
Odasaku esitò. “Sotto gli occhi di tutti?” Obiettò. “Sei sicuro?”
“No, sotto gli occhi dei miei uomini, che sono ben legati sia per farti passare che per essere discreti. Ricordi la strada?”
“Ricord la strada.”
A Dazai gli angoli della bocca facevano male da quanto sorrideva. Questo era l’effetto che Odasaku aveva su di lui e non sarebbero bastate tutte le canzoni del mondo per descriverlo.
“Ci vediamo in camera tua,” promise Odasaku. Il più giovane si mordicchiò il labbro inferiore, godendosi un brivido caldo che gli attraversò la schiena.
“Cerco di finire in fretta,” aggiunse Odasaku.
“Non ti preoccupare.” L’espressione sul viso di Dazai cambiò drasticamente. “Ho un ultimo lavoro da finire anche io.” Mentre il diciassettenne pieno di emozioni tornava a essere il Demone fanciullo della Port Mafia, la telefonata s’interruppe.
Le note che riempivano il corridoio semi-buio erano quelle della Für Elise di Ludwig van Beethoven. Un pezzo d’ingresso di poca difficoltà, ma che tra quelle mura era il biglietto da visita del padrone di casa.
Non appena Dazai comparve sull’ingresso della stanza circolare, Mori sollevò lo sguardo e gli sorrise. “Come immaginavo…”
Dazai alzò gli occhi al cielo. “Sì, sono qui, hai previsto bene le mie mosse. Devo far entrare la banda per la marcia trionfale?”
Mori non gli diede corda. Si spostò per fargli spazio sullo sgabello. “Vieni,” disse. “Siediti qui con me.”
Dazai trascinò i piedi fino al pianoforte. Non ne aveva voglia per niente e voleva che si vedesse.
“Hai sorpreso tutti, questo pomeriggio,” disse il Boss, eseguendo il brano musicale da capo. “Non è la prima volta che ti sento cantare, ma non pensavo che nascondessi un simile talento.”
“Uhm…” Fu l’unica replica che Dazai gli concesse, gli occhi fissi sulle mani dell’uomo, che si muovevano con maestria sui tasti bianchi e neri.
“Quando hai ricominciato a suonare?” Domandò Mori, curioso.
“Non ho mai smesso,” rispose Dazai. Non era propriamente vero: la costanza non era mai stata il suo forte; pigrizia è noia facile, invece, sì.
“Hai degli impegni?” Domandò Mori.
“Non nell’immediato.”
“Vuoi suonare qualcosa?”
Dazai gli lanciò un’occhiata storta, sospettosa. “Non vuoi intavolare un lungo e noioso discorsi dei tuoi?”
Mori ridacchiò. “Perché dovrei perdere tempo, quando so che non mi ascolteresti né mi risponderesti?” Smise di suonare. “Scegli il pezzo, io ti seguo. Lasciamo che la musica faccia il resto.”
Dazai decise che era un buon compromesso. Per quel che lo riguardava, preferiva coprire il silenzio con la musica, piuttosto che con le parole. Quelle, ormai, le riservava solo a un uomo e non era Mori Ougai.
“Il Notturno di Chopin,” scelse Dazai. Quando aveva detto a Chuuya di non saperlo suonare, aveva mentito per noia. Niente di strano da parte del giovane Dirigente.
“E Notturno sia,” disse Mori. “Musica, maestro!”
Le sue dita di Dazai toccarono il pianoforte e si mise a suonare.




Dazai fece più tardi del previsto.
Mori doveva aver intuito che aveva qualcosa di meglio da fare ed esisteva piacere più sadico di farlo arrivare volontariamente in ritardo?
Il giovane Dirigente si era stufato di quei giochi infantili da tanto tempo e questa era una delle ragioni per cui s’intratteneva sempre di meno con quella che a Chuuya piaceva chiamare famiglia.
Non incontrò nessuno sulla strada per i suoi appartamenti, proprio come aveva ordinato. Odasaku doveva aver già superato la fase doccia - su cui Dazai aveva ricamato tante fantasie, anche se l’aveva già fatta da solo - e con ogni probabilità stava già dormendo. Fosse stata una giornata tranquilla, Dazai non si sarebbe fatto scrupoli a svegliarlo, ma non lo era stata e il week end era troppo lontano. A dispetto di quello che credeva Chuuya, riusciva a imporre un limite ai propri capricci da solo.
Come Dazai varcò la porta della camera, i suoi sogni di gloria andarono in fumo.
Odasaku si era cambiato con dei vestiti comodi lasciati lì in precedenza, il braccio destro era piegato dietro la testa, l’altro sul grembo. Sotto la mano aperta, Dazai riconobbe uno dei suoi libri - o uno di quelli che Mori gli aveva prestato e non era mai tornato al legittimo proprietario.
Il Dirigente fece spallucce. Lasciò cadere il cappotto sul baule in fondo al letto e si avvicinò al comodino, dove l’abat-jour era ancora accesa.
La mano di Odasaku gli afferrò il polso, prima che potesse spegnerla.
“Sono sveglio,” lo rassicurò l’amante, con la voce impastata dal sonno e gli occhi semi-chiusi.
Dazai piegò le labbra in un sorriso comprensivo. “No, non lo sei,” ribatté, riponendo il libro sul comodino. Si liberò di scarpe e pantaloni velocemente e rimase con la t-shirt che nascondeva sotto la camicia. Si stese accanto all’altro senza pensare alle fasciature, ci avrebbe pensato poi - o forse c’era ancora speranza che ci pensasse Odasaku.
Il giovane uomo dai capelli rossi si strinse a lui pigramente, affondando il naso contro il suo petto. “Dazai?”
“Uhm?” Il Dirigente giocava coi capelli un po’ arricciati sulla nuca.
“Cantami qualcosa.”
La mano del più giovane si fermò. “Sei serio?” Domandò, divertito.
Odasaku si sollevò su di un gomito e, sebbene fosse mezzo intorpidito dalla stanchezza, rubò un bacio piuttosto convincente dalle labbra di Dazai. “Cantami qualcosa,” ripeté, tornando al rifugio caldo e comodo da cui era brevemente emerso.
Dazai fissò indispettito la sua nuca per un minuto abbondante. Odasaku sapeva benissimo come incastrarlo e impedirgli di dire di no. Dazai lasciò andare un sospiro frustrato, passando distrattamente le dita tra i capelli rossi, mentre provava qualche motivetto a bassa voce, cercandone uno che lo convincesse.
“I have died everyday, waiting for you,” cominciò.
Per nulla contento dal significato controverso di quella prima strofa, Odasaku sollevò il viso per protestare. Dazai gli premette l’indice sul naso, costringendolo a stendersi su di lui. “Darling, don't be afraid, I have loved you for a thousand years.
I'll love you for a thousand more.”

Odasaku lasciò andare un grande sospiro, rilassandosi completamente contro il corpo del più giovane, cullato sia dalla sua voce che dalle sue carezze.
Nella quieta di quel momento, un sorriso segreto comparve sulle labbra di Dazai. And all along I believed, I would find you. Time has brought your heart to me, I have loved you for a thousand years. I'll love you for a thousand more.”

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