Feb. 22nd, 2022

CowT12. 2nd Week.
M2: Per voce sola





-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-

-Parigi-
Tra la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno.



Parigi era la città delle luci.
A Mori Rintarou piaceva definirla così ed era così che l’avrebbe sempre ricordata. Aveva diciassette anni ed era affacciato su di un balcone dal parapetto in ferro battuto e ricoperto di fiori, come in un vecchio film in bianco e nero. Sotto di lui correva il Senna, una compagnia quasi silenziosa. Sullo sfondo, la Torre Eiffel, con le sue luminarie, sembrava voler sfidare la notte stessa.
Parigi era la città dell’amore, della bellezza, il cuore pulsante di quella che era stata la Belle Époque e, qualcuno sosteneva, dell’Europa stessa.
Quel qualcuno doveva essere senza dubbio francese, perché a Rintarou quella città metteva solo un gran mal di testa. Cominciava a pensare di dover prendere la sua fama di Demone con un po’ più di serietà, perché Rintarou non riusciva proprio a sentirsi a suo agio in quel mondo privo di oscurità. Anche uno stolto si sarebbe accorto che tanta luce non era altro che una bella illusione, infiocchettata ad arte perché nessuno si preoccupasse.
Rintarou guardò il bicchiere che stringeva tra le dita: era vuoto. Commentò la cosa in silenzio, con una scrollata di spalle. Pochi istanti prima, era stato pieno di acqua fresca: l’unica bevanda disponibile in quel posto che non lo facesse dare di stomaco al primo sorso.
Appoggiato al parapetto di quel balcone, Rintarou poteva avvertire con fastidiosa chiarezza il profumo dei fiori - suddivisi in tre colori per omaggiare la bandiera della Francia - e anche quello al retrogusto di fogna dell’acqua sottostante.
Rintarou rabbrividì e si strinse nelle spalle, maledicendosi per essere uscito in tutta fretta, senza preoccuparsi di prendere il cappotto. Ora, il pensiero di rientrare era letteralmente vomitevole. Lanciò un’occhiata al salone affollato alle sue spalle: tutte le alte personalità del Continente erano lì, che bevevano e ballavano, come se non stringessero nelle loro mani il destino di tutta l’Europa, forse del mondo intero.
Rintarou prese un respiro profondo e l’odore stagnante del fiume non lo fece sentire meglio. Chiuse gli occhi e costrinse il conato di vomito a tornare da dove era risalito.
“Maledizione…”



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-

-Parigi, ancora-
Tra la fine dell’inverno e l’inizio della primavera.



“Maledizione…”
Dazai Osamu non sapeva più che fare per liberarsi dal mal di testa che lo torturava già da qualche giorno. Dava la colpa al cambio di fuso orario, al cibo francese, a Mori, che lo aveva trascinato in un viaggio oltre ben due oceani, senza che ne avesse alcuna voglia. Avevano dovuto trascinarlo fisicamente sull’aereo privato e Chuuya si era sprecato in insulti e imprecazioni contro la sua persona per tutto il processo.
Dazai si piegò fino a toccare il parapetto in ferro battuto con la fronte. Non era ancora sufficientemente caldo per starsene all’esterno con solo la giacca del completo sopra la camicia leggera, ma rientrare non era un’opzione. Il salone da ballo puzzava. Non aveva importanza quanto fosse ampio l’ambiente, i profumi delle signore - tutti diversi e spruzzati con eccessiva generosità - mischiati agli odori di fumo, cibo e liquori vari ed eventuali creavano un qualcosa di vergognosamente disgustoso.
“Voglio andare a casa,” si lagnò Dazai, mentre la Torre Eiffel lo giudicava da lontano. Dover partecipare alle grandi occasioni di gala della malavita era quanto di peggio ci fosse nella sua vita - dopo Chuuya, ovviamente. In quanto Dirigente più giovane della storia della Port Mafia, quelle sciocchezze non mancavano mai d’investirlo come un fiume in piena. E Mori - quel sadico bastardo - era tanto consapevole del suo disagio che aveva fatto della baldoria il suo nuovo hobby preferito. Ogni volta che la situazione al quartier generale era tranquilla e il Boss respirava troppa aria di noia, et voilà, decideva di togliersi lo sfizio e organizzare qualcosa per risollevare gli animi.
Gli animi di tutti, tranne quello di Dazai.
Mori agiva appositamente per infastidirlo un po’, tanto poi toccava a Chuuya - in particolare ai suoi nervi - pagare il prezzo più alto per il malumore del partner. Perché al Boss della Port Mafia piaceva accendere la miccia, ma gli piaceva ancor di più vedere la gente scapicollarsi per evitare lo scoppio.
Quando l’evento di gala non era in casa, invece, la questione assumeva tutto un altro peso: l’invito andava valutato, così come l’organizzazione o il singolo malavitoso che lo aveva spedito. La Port Mafia non concedeva la propria attenzione a chiunque, ma in caso di risposta positiva - su cui ad avere l’ultima parola era sempre e solo Mori Ougai - ai cinque grattacieli neri che tagliavano il cielo di Yokohama si scatenava l’inferno.
Mori Ougai era un soldato e ci si aspettava da lui un certo pragmatismo - anche se non sapeva nemmeno prepararsi il caffè da solo - ma era anche un esteta. La presenza della Port Mafia in casa altrui doveva essere assolutamente notata da tutti. Non era ammesso nulla che non fosse oggettivamente impeccabile.
Nulla. Compreso il Dirigente più giovane.
Ma Dazai Osamu non voleva essere altro che il solito, annoiato dalla vita, se stesso, particolarmente incline a causare disastri intorno a sé - specie alle spese di Chuuya.
Il diciottenne si costrinse a sollevare gli occhi scuri sulla torre illuminata in lontananza, che nulla aveva a che fare con i cinque simboli del mondo oscuro di Yokohama. C’erano luci ovunque in quella città, troppe per una creatura della notte.
Parigi, Dazai decise che l’avrebbe ricordata proprio così: la città delle luci.
Le idiozie sentimentali per cui quel luogo era famoso in tutto il mondo non lo toccavano, ma essere lì, da solo, era uno spreco di tempo peggiore di quanto un evento di gala lo fosse in sé.
Qualcuno lo prese di sorpresa e gli appoggiò un cappotto sulle spalle.
Smise di tremare.
“Ti senti bene?”




-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


“Si sente bene?”
Rintarou sobbalzò e quelle mani estranee gli strinsero le spalle, come per rassicurarlo. “Sono io, signorino,” disse Hirotsu, facendo un passo indietro per farsi vedere e riconoscere.
Nell’incrociare lo sguardo della sua guardia del corpo, il giovane Mori lasciò andare un sospiro e rise di se stesso. “Oh, certo, Hirotsu. Chi altri potresti essere? Per favore, non prendermi alle spalle.”
“Solitamente, è difficile farlo,” replicò il mafioso, aggiustandosi gli occhiali dalla montatura leggera sul naso. “Qualcosa la turba?”
Mori piegò la labbra in una smorfia irritata, sollevando il bicchiere ormai vuoto. “Non riesco a ingoiare nulla che non sia acqua,” rispose. “Sono un fascio di nervi. Tutto sembra avere un odore nauseante e sento di essere sul principio di un conato di vomito. Parigi è una favola, dicevano.” La sua voce era pregna di sarcasmo.
Hirotsu divenne serio, quasi allarmato. “Avverto il signor Hans che lei-“
“Non voglio rintanarmi nella mia stanza,” lo bloccò Rintarou, fermo. “Stanotte tutti fingono indifferenza, ma domani si decideranno le sorti del mondo intero in questa città. La presenza mia e di Hans è fondamentale.”
La realtà era un po’ più complessa: Johann Goethe, detto Hans, non si sarebbe disturbato a mettere piede a Parigi per nessuna ragione al mondo, ma Rintarou lo aveva trascinato perché nessun Governo avrebbe lasciato un dotato di abilità del suo calibro indisturbato, non con una guerra in corso. Il giovane Mori aveva ben pensato che fosse saggio giocare d’anticipo. Secondo il suo pensiero, il conflitto tra le forze europee era ormai inevitabile, ma erano ancora in tempo per giocare tutte le loro carte e combatterlo, invece di subirlo. Hans aveva l’animo di un poeta e gli era difficile essere in sintonia con la linea di pensiero di un principe della Mafia. La natura del giovane tedesco, fatta di ideali a volte utopici, gli impediva di considerare la guerra qualcosa da toccare con mano. Rintarou era cresciuto in un. Ondò diverso, ammantato di tenebre, dove anche un migliore amico può pugnalarti alle spalle. Forse Hirotsu non se ne era accorto - anche se Rintarou ne dubitava, era solo troppo discreto per parlarne - ma da quando avevano lasciato la loro casa fuori Weimar, lui e Hans non si erano rivolti una singola parola.
La guerra altro non era che un gioco di potere e Rintarou sapeva essere un ottimo giocatore. Per la sicurezza di Hans e di tutto quello che era loro, era disposto anche a giocare da solo.
“Hirotsu, ti dispiace?” Rintarou gli porse il bicchiere vuoto. “Mi porteresti un po’ di acqua fresca, è davvero l’unica cosa che riesca a farmi stare un po’ meglio.”
La guardia del corpo afferrò la stoviglia di cristallo. “Ma ingerire troppi liquidi fa salire il rischio di vomitare.”
Rintarou alzò gli occhi al cielo. “Studio medicina, so come funziona.”
“Non ne dubito, ma forse dovrebbe farsi visitare da un medico che abbia almeno raggiunto la maggiore età.”
Il giovane dai capelli corvini lo guardo storto. “Giovane non è sinonimo di non qualificato.”
“Forse,” concordò Hirotsu, “ma lo è di testardo e avventato.”
Rintarou sapeva in che cosa si stava trasformando quella conversazione e aveva lo stomaco troppo sottosopra per affrontarla con il giusto mordente. “Ti sono grato per tutto quello che fai per me,” disse, con sincerità, nella speranza che la guardia del corpo non elaborasse ulteriormente l’obiezione che tratteneva in gola da un po’. “La tua lealtà verso la mia famiglia non sarà mai ripagata abbastanza.”
“Non voglio essere ripagato,” ribatté la guardia del corpo. Fu allora che il fanciullo seppe che l’altro non si sarebbe fatto scrupoli a superare certi confini, pur di far valere la sua ragione. “Vorrei solo che lei non rendesse il mio lavoro più difficile. Ammetto che non è mai stato nella sua natura evitare i guai, ma devo fare appello alla sua ragionevolezza.” Non si spinse oltre, non disse ad alta voce le parole che più avrebbero adirato il suo giovane signore. Hirotsu voleva che il diciassettenne si convincesse da solo di quale fosse la strada giusta, anche se non l’avrebbe portato dove desiderava.
Mori Rintarou però era giovane - molto giovane - e l’arroganza non gli era mai mancata, nemmeno quella di mettersi contro il mondo stesso per proteggere ciò che per lui aveva valore. Si umettò le labbra. Le sue parole successive furono semplici e chiare, nessun frutto di un’elaborata riflessione: “non tornerò a Yokohama.”
Hirotsu si permise di allungare la mano per afferrargli il braccio. Sapeva che sarebbe stato più facile spostare una montagna a mani nude, che convincere il suo giovane signore a cambiare idea. “Se domani scoppiasse una guerra in Europa-“
“Io tornerei a Weimar e la combatterei con Hans,” concluse Rintarou. Per Hans, ma la guardia del corpo non doveva essere per forza messa al corrente di quella sfumatura. Non aveva altro d’aggiungere.
Per Hirotsu era diverso. Quel giovane uomo di nemmeno trent’anni si era inginocchiato al cospetto del capo famiglia dei Mori e aveva giurato sulla sua vita che avrebbe protetto l’ultimo erede di quel nome a qualunque costo. Forse i genitori di Rintarou, che erano rimasti a Yokohama e gli avevano permesso di seguire Johann Goethe in Germania, avevano sperato che quell’amore giovanile sfiorasse con la stessa velocità con cui era sbocciato. Nessuno ci avrebbe trovato qualcosa di strano: la passione era accecante a quell’età, ma anche altrettanto veloce. Per questo Hirotsu era partito al fianco di Rintarou, per essere certi che il ragazzino - di soli quindici anni al tempo della partenza - non rimanesse completamente solo in un continente di cui aveva solo letto sui libri. Certo, Mori Rintarou era tutto, meno che privo di risorse ma c’era un margine di cui un genitore poteva avvalersi per preoccuparsi. Hirotsu era lì per acquistare quei timori, non per lasciare che Rintarou marciasse su un campo di battaglia straniero in nome del suo primo amore.
Il fatto problematico, per quanto comprensibile a diciassette anni, era che Rintarou - e forse lo stesso Johann Goethe - era convinto che non vi fosse nessun altro amore al di fuori di quello per Hans.
Di fronte a quel sentimento, nemmeno la guerra poteva spaventare il giovane Mori.
“Non è la tua battaglia, Rintarou.” L’ultima volta che lo aveva chiamato per nome e gli aveva dato del tu non la ricordavano con esattezza nessuno dei due.
Rintarou stesso se ne sorprese. “Non puoi chiedermi quello che mi stai chiedendo,” disse, tradendo una lieve nota di disperazione. “Pensavo fossi mio amico e-“
“Se mi consideri tuo amico, ascolta le mie parole: il tuo mondo continuerà a esistere anche dopo Hans.” L’affetto di Hirotsu per chi gli era davanti era sincero. Tenere Mori Rintarou al sicuro non era solo un lavoro, ma una questione personale: aveva un debito da ripagare nei confronti del padre di quel fanciullo.
Il viso di Rintarou divenne una maschera di ghiaccio e la guardia del corpo seppe di aver varcato un limite che non avrebbe mai dovuto osare oltrepassare. Il giovane liberò il braccio dalla sua stretta, ma lo fece con garbo. “Questa è la guerra di chi è nato con un dono ed è stato giudicato maledetto tutta la vita per questo,” disse. “E io lo sono, Hirotsu, sono maledetto. Hans lo è, come me. Se per entrambi esiste un mondo in cui uno dei due non ha un posto, allora deve essere un mondo miseramente vuoto. E io non lo voglio.” Scosse appena la testa, per sottolineare la forza di quel desiderio. “Yokohama può essere un posto sicuro ora, ma non lo sarà per sempre.”
“È comunque meglio di qui, signorino.” Hirotsu era tornato ai toni formali, ma era disposto a giocarsi il posto pur di conquistarsi l’ultima parola. “In Europa, lei è isolato, come lo sono io. Le uniche reti di cui può disporre sono quelle tessute dal signor Hans e sono leali a lei solo di riflesso. Sa bene che non sono paragonabili alla protezione che può offrirle la Port Mafia e-“
“Non ti obbligo a restare, Hirotsu,” disse Rintarou, di colpo, l’espressione indecifrabile. “Se io posso scegliere di restare, tu puoi decidere di tornare a casa. È un tuo diritto. Non sarebbe mai tradimento, non potrei mai farti questo. Io ho un motivo per combattere questa guerra, tu no.”
Di fronte a quelle parole, Hirotsu lasciò cadere le spalle e si arrese. “Ma dove vuole che vada, Rintarou?” Accennò un sorriso. “Quando si sente meglio, il signor Hans l’aspetta dentro.”
Mori accennò un sorriso furbetto. “No, non è vero.”
“Beh… Se dovete combattere questa guerra insieme, sarebbe bene parlare. Non sono un esperto di relazioni, ma penso sia la base.”
“Ricevuto il messaggio,” disse Rintarou, accettando il consiglio con un sorriso. In quel momento, sperò che la vita gli concedesse l’occasione di dimostrare la sua gratitudine a quel giovane uomo, che la Port Mafia non avrebbe esitato a sacrificare, se necessario. “Ma prima di andare da Hans, cercherò di vincere questa guerra ancor prima che cominci.”



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


“Ehi, calmo, sono io!” Mori gli spettinò i capelli con fare paterno, senza aspettare che Dazai la smettesse di guardarlo storto.
Il diciottenne non fece nulla per nascondere il suo malanimo e come la presenza del Boss non facesse che peggiorarlo. “Che cosa vuoi?” Non si sforzò nemmeno di simulare la più basilare forma di cordialità. Se c’era una cosa che odiava più degli eventi di gala, era fare qualcosa ai suddetti eventi che non fosse immedesimarsi col mobilio. Contro ogni sua aspettativa, la presenza di Mori non annunciò l’arrivo di nessuna noia ulteriore. “Tieni,” il Boss gli porse un bicchiere di acqua. “Può sembrare banale, ma una buona idratazione è il primo rimedio contro il mal di testa, compresi quelli da Jet-Lag. Dubito che tu beva quanto dovresti. Se fosse per te, dimenticheresti persino di respirare.”
“Magari…” Borbottò Dazai, afferrando il bicchiere d’acqua e finendolo in due generose sorsate. Tempo un minuto e si sentì davvero meglio. Guardò il Boss con sospetto. “Che cosa mi hai dato?”
Il sorriso di Mori divenne tirato. “Fino a prova contraria, non sono io quello con il vizio di versare sostanze illecite nei bicchieri.”
Dazai cambiò completamente discorso - perché così gli era più comodo - sollevando il braccio destro per portare l’attenzione sul cappotto nero con cui l’uomo gli aveva coperto le spalle. Nessuno colpo di scena: era il proprio, quello che il Boss gli aveva regalato a quattordici anni. Ci era praticamente cresciuto dentro ed era cominciato a stargli davvero a pennello solo da un anno a questa parte.
“Ho visto che tremavi come un pulcino, ma non accennavi a rientrare,” disse Mori. “Quando ti prendono quei brutti raffreddori da salirti la febbre, diventi una palla al piede più del solito: evitiamo, grazie.”
Dazai sbuffò, facendo ondeggiare il bicchiere tra le dita. “Quel salone puzza.”
“Sì, l’aria è un po’ viziata, ma-“
“Non è viziata, puzza!” Dazai sottolineò quell’ultima parola con astio. “E tu perché mi guardavi?” Aggiunse. “Non devi fare un’impressione gloriosa di fronte a qualche malavitoso parigino?”
“Fatto!” Esclamò Mori. “La vittoria è nostra e la portiamo a casa, ma adesso mi sto annoiando.”
“Ah!” Il giovane viso di Dazai s’illuminò in un esagerato sorriso vittorioso. “Finalmente lo hai ammesso!”
Mori simulò un paio di colpi di tosse, fingendo indifferenza. “Ammesso che cosa?”
“Che questi carnevali,” Dazai indicò il salone animato a festa con un vago gesto della mano, “a lungo andare, annoiano anche te. Arrivi, fai la tua grande entrata in scena, ti pavoneggi un po’-“
“Io non mi pavoneggio!”
“Godi del suono della tua stessa voce, fino a che non ottieni ciò che vuoi, e allora, adieu! Spegnete le luci, fate tacere la musica, il Boss della Port Mafia non ha voglia di trattenersi oltre.” Dazai lo guardò da capo a piedi con aria giudicante. “La fai tanto lunga a me e Chuuya ma, alla fine, non sei affatto più composto ed elegante di noi.”
Mori appoggiò le mani sul parapetto in ferro battuto del balcone. Come l’ultima volta che era stato in quel luogo, ad addobbarlo vi erano dei fiori, ma la natura di quella festa di gala non aveva reso necessario che fossero dei colori della bandiera francese. Sollevò gli occhi scuri sulla Torre Eiffel e, con un po’ di nostalgia nel cuore, gettò le maschere - quelle che poteva permettersi. “Hai ragione, Dazai, ma questo lo sai già. Non hai bisogno che io te lo confermi.”
Il diciottenne scrollò le spalle. “Quando lo fai, non mi dispiace.”
Era da un po’ che non parlavano da soli, loro due. Mori non ricordava nemmeno l’ultima volta che il giovane aveva messo piede nel suo ufficio. Eppure, un tempo, gli piaceva guardare Yokohama da lassù. Era successo qualcosa tra l’incidente con Verlaine e il Conflitto della Testa di Drago che aveva reso Dazai improvvisamente irraggiungibile. Letteralmente. Mori ormai parlava più con la segreteria telefonica del giovane Dirigente, che con Dazai stesso. Per carità, il diciottenne continuava a portare a casa il lavoro e meritarsi il suo titolo più di chiunque altro, ma era Hirotsu a fare da tramite per i rapporti ufficiali. Dazai era sparito dalla scena al punto che persino Chuuya se ne era lamentato. E se lo faceva Chuuya…
“Dazai, è successo qualcosa?” Domandò Mori, gli occhi scuri puntati su quello scoperto del fanciullo.
Dazai non ricambiò lo sguardo, trovando il bicchiere tra le sue mani infinitamente più interessante. “Dillo tu a me. Trattativa vantaggiosa?”
Mori decise di assecondarlo. “La trattativa, sì. Le informazioni sotto banco le sto ancora valutando.”
“Che genere d’informazioni?”
“Uno squadrone speciale dell’esercito francese sembra essersi trasformato in un gruppo terroristico.”
Dazai aggrottò la fronte. “Dopo dieci anni?”
“Sono condannati per crimini di guerra, quando la loro unica colpa è stato ricevere un ordine troppo tardi.” Qualche volta, Mori si fermava a chiedersi quando la Grande Guerra avrebbe smesso di sputare storie fuori dall’inferno che aveva creato. La maggior parte delle volte, lasciava quel pensiero lì, sospeso nel vuoto. Altre, aveva il coraggio di dirsi che non sarebbe mai vissuto per vedere quel giorno: anche lui era una di quelle storie.
“Il dolore, l’odio…” Mormorò Mori. “Ci sono cose che nemmeno le ceneri di una guerra possono seppellire, non del tutto.”
Dazai si decise a guardarlo in faccia. “Ne parli come se la cosa ci riguardi.”
“Ci riguarda, infatti,” confermò Mori. “La mia fonte dice che puntano verso Oriente.”
“L’Oriente è vasto.”
“Non lo sono altrettanto gli obiettivi che conviene colpire. Potrebbero arrivare ai nostri confini in una decina di giorni.”
“Sono ricercati, li bloccheranno.”
“Bisogna scovarli, prima di beccarli.”
“Ho capito!” Dazai alzò le braccia al cielo, il bicchiere stretto nella mano destra. “Lavoro, lavoro e ancora lavoro!”
Mori si lasciò andare a una risata. “Ti stai pentendo di non esserti goduto la serata di gala?”
“No!” Esclamò Dazai, riportando le braccia lungo i fianchi. “Sto pensando che il lavoro-lavoro-lavoro verrà subito dopo questa fottuta serata di gala.”
“Linguaggio, ragazzino.”
“Dillo a Chuuya, non a me.”
“Da quanto tempo non ci parli?” Mori colse la breccia nel muro di Dazai e si fiondò subito a colpirla.
Dazai non parve soffrire l’attacco. “Io non parlo con Chuuya. Lui mi urla addosso, io lo esaspero, qualche volta ci scappa un dispetto e così via.”
“E da quanto tempo non fate tutto questo e così via?”
Stanco di tenere il bicchiere in mano, Dazai lo lanciò oltre il parapetto senza troppe cerimonie. Mori lo seguì con lo sguardo fino a che poté, ma il buio non lo aiutò a capire se la stoviglia s’infranse in mezzo alla strada o finì nel letto del fiume.
“Chuuya non è un mio amico,” disse Dazai.
“E chi lo è?” Domandò Mori. “La Port Mafia vanta molti profitti firmati col tuo nome, ma c’è troppo silenzio in giro. Tutti sappiamo che non sei in grado d’intrattenerti da solo. Con chi stai giocando, Dazai?”
Il diciottenne si strinse nel cappotto nero e cambiò discorso. “Sfilo per un’ora di fronte ai tuoi alleati francesi, così che vedano il temuto Demone fanciullo della Port Mafia, Dirigente più giovane della storia e bla, bla, bla... Poi me ne torno in camera mia e ci resto fino al giorno della partenza.”
“Affare fatto,” gli concesse Mori.
Prima di rientrare nel salone, Dazai gli lanciò un’ultima occhiata. “Non posso assicurarti che non dirò a qualche signora con una generosa dose di profumo addosso che puzza!”
Mori si massaggiò la fronte stancamente.



-1 giorno prima dello scoppio della Grande Guerra-


Rintarou non amava particolarmente le questioni diplomatiche, ma gli piaceva parlare e non aveva mai avuto problemi a usare l’arte oratoria a suo vantaggio. In assenza di un’abilità in grado di farlo emergere come uomo d’azione, sua madre si era premurata d’insegnargli un altro tipo di forza: quella della parola.
A Mori Rintarou era bastato brandire quell’arma per far parlare di sé in tutti i salotti d’Europa. Il Fiore d’Oriente di Johann Goethe non era solo un accessorio esteticamente piacevole da mostrare alle alte personalità del continente. Rintarou irradiava fascino e carisma con una naturalezza che, se decideva di divenire il centro della scena, impediva a chiunque di staccargli gli occhi di dosso.
Johann - Hans - Goethe avrebbe mentito se avesse detto che quella personalità magnetica non era stata la prima cosa a spingerlo verso il fanciullo di Yokohama con una forza travolgente. Al tempo del loro primo incontro, non aveva pensato che anche il resto del mondo sarebbe stato soggetto a quello stesso magnetismo.
Eccolo lì, Mori Rintarou, al centro di quel salone affollato di burocrati e generali, che dirigeva conversazioni con una maestria che quasi suggeriva l’idea che l’Europa non fosse altro che un giocattolo tra le sue dita.
Hans ne era certo, se Rintarou avesse avuto voce in capitolo nella riunione del Gran Consiglio che si sarebbe tenuta l’indomani, il pericolo di una guerra globale sarebbe divenuto alla stregua di un brutto sogno.
Di fatto, Rintarou non era altro che un fanciullo proveniente da un paese lontano, che era troppo determinato e orgoglioso per subire gli eventi con impassibilità, così tentava di costruirsi una scacchiera personale con cui giocare e vincere su tutti gli altri.
Seduto su uno degli sgabelli dell’angolo bar, con i gomiti appoggiati sul bancone di legno lucido e un bicchiere vuoto stretto tra le dita, Hans non poteva fare a meno di lanciare sguardi oltre la propria spalla per osservare quella creatura oscura, che gli aveva preso l’anima senza chiedere il permesso. Era bellissimo, il suo Rintarou, brillante come una stella nera in mezzo a quella massa di mediocrità, che costituiva l’alta società del Continente.
Solo Dio sapeva quanto avrebbe voluto strapparlo a quella scena, portarlo via, in un luogo in cui la minaccia di una guerra catastrofica non potesse toccarli. Ma non era possibile fuggire dal mondo stesso.
“Goethe.” Lo salutò un uomo con il doppio dei suoi anni, sedendosi sullo sgabello alla sua destra.
Hans gli rivolse l’attenzione fuggevole di uno sguardo con la coda dell’occhio e nulla più. Era vestito con l’alta uniforme dell’esercito tedesco, i corti capelli biondi erano tirati all’indietro e, sebbene non avesse ancora quarant’anni, il viso dell’uomo era segnato da un vissuto di cui Hans non conosceva tutti i dettagli. Non gli interessava: erano pochi i dotati di abilità senza una storia tragica da raccontare alle spalle.
“Generale Jünger,” rispose. Quanto gli avrebbe fatto comodo un altro drink in quel momento, ma il barista sembrava essere sparito dalla circolazione.
“Non hai una bella cera, Johann.” Il militare gettò subito da parte le formalità.
“Mi perdoni, non sono quel genere di uomo che vede profitto o gloriosi propositi nell’incendiare l’Europa intera,” ribatté Hans. Era stanco, forse aveva anche bevuto troppo per essere rispettoso, indipendentemente da chi lo disturbava.
“Temo sia passato il tempo in cui far valere un’idea potesse fare qualche differenza,” disse Jünger. “Sappiamo entrambi che le nazioni che brindano e scherzano oggi, domani si dichiareranno guerra.”
Hans aveva il voltastomaco al solo pensiero. “E lei, ovviamente, è favorevole a questa follia.”
“Sono realista,” ribatté Jünger. “Non si può fare nulla per evitare l’inevitabile.”
Hans alzò gli occhi al cielo, annoiato. “Me lo risparmi, Generale,” disse, lapidario. “È un ritornello che già conosco.”
Jünger diede una breve occhiata alla sala alle loro spalle. “Qualcosa mi dice che il tuo Fiore d’Oriente ha a che fare con questo ritornello di cui parli.”
“Le sarei grato se non lo chiamasse così.” Per la prima volta da quando quella conversazione era iniziata, Hans guardò l’uomo dritto in faccia. “Ha un nome.”
Jünger annuì. “Rintarou Mori.”
“Bene, ora sarei felice se si dimenticasse di lui e anche di me,” aggiunse Hans, facendo roteare il bicchiere tra le sue mani.
Jünger lo guardò con pietà. “Non potrai sottrarti questa volta, Johann.”
Le labbra del giovane tedesco si distesero in un sorriso tirato, che non raggiunse i suoi occhi. “Sì, me lo hanno già detto. Eppure, guardi un po’, vengono tutti da me, imploranti perché metta il mio potere al servizio del loro paese. Per quel che mi riguarda, quei Governi possono anche bruciare nell’incendio divampato da loro stessi.”
“E tu pensi che esista un posto da cui poter guardare, illeso, l’umanità che distrugge se stessa?” Domandò Jünger. “Anche se fuggissi in Giappone, insieme al tuo amante, saresti costretto a scendere sul campo a combattere, prima o poi. Non esiste una torre d’avorio in cui nascondersi, aspettando in pace che tutto questo finisca. Prendere una posizione è il primo passo per sopravvivere.”
“L’ho già presa una posizione,” ribatté Hans. “Ma non è al servizio di alcun Governo.”
Jünger girò lo sgabello e il più giovane seppe che l’oggetto della sua attenzione era divenuto Rintarou. “Combatteresti per lui fino alla morte,” intuì il Generale. “Per proteggerlo… Per proteggere quello che avete, indipendentemente dalla nazione che saresti chiamato a mettere in ginocchio.”
Hans non confermò né negò: entrambe le cose erano completamente inutili.
“In tal caso,” Jünger si alzò in piedi, “è mio dovere ricordarti che la Germania è il tuo paese e Weimar è la tua casa. La tua posizione personale è molto chiara e la rispetto. Non hai molte possibilità di scelta per quanto riguarda quella politica, invece.”
Hans inspirò profondamente dal naso. “Alcuni dei miei più cari amici non sono tedeschi.”
“Ne sono consapevole.”
“Non scenderò su di un campo di battaglia, in nome di una causa che non mi appartiene, per uccidere un amico.”
Jünger scrollò le spalle. “Anche questo lo rispetto,” ammise, “ma penso che tu debba rivalutare la tua posizione. Victor Hugo, William Shakespeare… Sacrificheresti loro per Rintarou o Rintarou per loro?”
Hans strinse le labbra, come se qualcuno lo avesse accoltellato e stesse rigirando lentamente la lama nella ferita. Non aveva bisogno di riflettere sulla risposta, ma faceva male comunque.
“Questa illusione di te, il tuo amore e le persone a te care che combattete contro il mondo intero è un sogno infantile da cui devi svegliarti,” disse Jünger, con la pragmaticità tipica degli uomini dell’esercito. “E mentre lo fai ed accetti di vivere nel mondo reale, chiediti se uno degli amici che difendi tanto si farebbe gli stessi scrupoli per te.”
Il Generale lo lasciò così, con quella condanna a gravare sul suo cuore e sul suo futuro. Un pensiero pericoloso gli attraversò la testa: non c’era un uomo che non fosse armato in quella stanza e se avesse voluto, gli sarebbe bastato un sforzo di volontà per spingere ognuno di loro ad ammazzarsi ora e subito.
Se lo avesse fatto, non ci sarebbe stata alcuna riunione del Gran Consiglio. Nessun politico o alto militare avrebbe deciso del destino di migliaia di persone, mentre sedeva comodamente su di una sedia.
Se in quella stanza, fossero tutti morti quella notte, l’indomani in Europa ci sarebbe stata solo la pace.
“Ehi!” Rintarou si sedette sullo sgabello lasciato libero da Jünger, distogliendolo da quell’intento distruttivo.
Hans dovette guardarlo in modo strano, perché il sorriso entusiasta sul viso di Rintarou ebbe vita breve. “Stai bene?” Indagò.
No, non stava bene per niente. Non sarebbe stato bene mai più.
Non c’era una via d’uscita dalla promessa di morte che il mondo stava facendo a tutti loro. Jünger aveva terribilmente ragione: quell’immagine di lui e Rintarou contro il mondo intero era un sogno romantico e pericoloso da cui si doveva svegliare.
E se avesse ucciso ogni persona in quella stanza, l’avrebbe tramutato in una tragica realtà.
Il suo mutismo spinse Rintarou a prendere di nuovo la parola. “Il potere che vanti su questi politici è di gran lunga maggiore di quello che credevo,” disse. “Tutti sarebbero disposti ad accoglierti a braccia aperte, non importa le condizioni e-“
“Basta, Rintarou,” disse Hans, con voce grave.
Il più giovane si zittì, poi scosse la testa: non gliel’avrebbe mai data vinta. “Hans, ascolta,” gli afferrò la mano, allontanandola dal bicchiere vuoto. “Tutto sta nel trovare la giusta strategia a lunga scadenza."
Il tedesco scosse la testa. “Questo non è uno scontro tra organizzazioni malavitose, Rintarou,” disse. “È una guerra mondiale, nemmeno tu puoi credere di riuscire a prevedere tutte le variabili ed avere il totale controllo della situazione.”
“Non è così diverso,” ribatté il giovane mafioso. “Sarà la prima guerra della storia tra dotati di abilità. I Governi metteranno in campo i più potenti per avere la meglio sugli altri. È una partita a scacchi, esattamente come uno scontro tra organizzazioni rivali, solo in scala più grande.”
Hans si massaggiò la fronte stancamente. “Non posso crederci…”
Rintarou si fece più vicino. “A cosa?”
“Non puoi davvero essere convinto che vincerai questo gioco a modo tuo, Rintarou!” Hans alzò troppo la voce e qualche testa si voltò nella loro direzione. “Non sarà una partita a scacchi,” aggiunse, con tono più contenuto. “Sarà una catastrofe a cui non saremo mai preparati, non importa quanto la tua mente brillante sia in grado di elaborare strategie. Nel momento in cui scenderemo in campo, saremo armi con la sembianza di persone, imbracciate da qualcuno che non vedrà mai il fronte.” Riprese fiato. “E quelli che avremo davanti non saranno degli sconosciuti, ma le persone con cui abbiamo condiviso gli ultimi anni.”
Rintarou non reagì come Hans si era aspettato. I suoi occhi non divennero grandi per l’orrore di quella verità, perché lui a quella possibilità aveva già pensato e ci era passato sopra.
“Dimenticavo,” disse Hans, con astio. “Sei un principe della Mafia, pugnalare alle spalle per te non è un problema, non importa chi hai davanti.”
Lo aveva ferito e Rintarou non si disturbò a nasconderlo, come se quello a essere stato pugnalato fosse lui. Hans non gli diede il tempo di difendersi: liberò la mano da quella dell’amante e se ne andò.
Come congelato, Rintarou rimase a guardare, mentre l’uomo che amava lo lasciava lì, da solo.



-10 anni dopo la fine della Grande Guerra-


Chuuya se ne stava seduto al bancone dell’angolo bar, felice e contento di starsene per i fatti suoi con il suo calice di vino rosso. Non era un grande fan di quegli incontri diplomatici internazionali tra mafiosi, difetto che non mancava mai d’innervosire la sua Maestra.
“Se vuoi essere un Dirigente, non puoi essere solo un uomo d’azione,” diceva Kouyou, spingendolo ad adottare una condotta più contenuta e signorile. Chuuya fingeva di non capire che cosa intendesse e continuava a barcamenarsi tra un lavoro e l’altro, garantendo alla Port Mafia tutto il guadagno che poteva portargli e fingendo di non tenere il conto di quante missioni erano passate dall’ultima volta che lui e Dazai avevano lavorato insieme.
No, lo Sgombro non gli mancava. A chi sarebbe mai potuta mancare la sua caotica e ingombrante presenza? Quello che Chuuya non diceva ad alta voce - e non lo avrebbe fatto neanche sotto tortura - era che cominciava ad annoiarsi. Avrebbe dovuto essere felice per ogni giorno che passava senza catastrofi a minacciare l’equilibrio di Yokohama, della Port Mafia o della vita di uno di loro, ma la verità era che Chuuya non era fatto per incantare la gente a parole, in un salone illuminato da lampadari di cristallo come quello.
Dazai era quello bravo con le parole, quando non le usava per provocare disastri o dire cazzate, ma l’unico contributo che dava durante quelle serate di gala - sempre ammesso che riuscissero a trascinarcelo - era confondersi con l’arredamento, sfuggendo con abilità allo sguardo sempre attento di Mori.
Chuuya non avrebbe dovuto giudicarlo così aspramente come faceva, non quanto lui per primo sedeva su quello sgabello del bar nella speranza che nessuno lo chiamasse per essere presentato al Monsieur-tale-dei-tali. Non conosceva il francese e c’erano diversi dettagli del suo passato che glielo facevano andare indigesto, insieme a Parigi stessa. Tra questi vi era anche il cappello sulla sua testa, che era stato pensato per qualcun altro e su cui era scritto il nome di un terzo uomo.
Una conclusione colpì Chuuya sul momento, lì, con le labbra umide di vino rosso e quella musica classica del cazzo in sottofondo a dargli noia: la sua storia era già abbastanza incasinata senza che Dazai vi entrasse a gamba tesa, come se ne fosse il co-protagonista - di quelli carismatici, con la parlantina facile e l’atteggiamento da testa di cazzo, che riuscivano persino a mettere in ombra il personaggio principale.
Felice di quella sua ultima riflessione, annuì tra sé e sé. Se lo Sgombro aveva deciso d’ignorarlo, era tutto guadagno per lui e la sua salute mentale. Che continuasse pure a essere impegnato con qualunque cosa avesse rapito la sua attenzione - anche se Chuuya un po’ di curiosità in merito ce l’aveva - a Mori poteva mancare, ma a lui neanche un po’.
Dieci secondi dopo, Dazai si sedette accanto a lui come se nulla fosse.
“Diavolo, c’è una puzza qui dentro!” Si lamentò, incrociando le braccia sul tavolo e nascondendovi il viso.
Chuuya lo guardò con la coda dell’occhio, il calice sospeso a mezz’aria. Aveva appena fatto in tempo a convincersi che la lontananza di Dazai non solo non era un suo problema, ma che nemmeno lo disturbava e - cazzo - ecco che lo stronzo arrivava e gli parlava, come se non lo avesse ignorato deliberatamente per giorni.
Il rosso ingoiò a vuoto, ricordò quel discorso sul contenersi che Kouyou gli aveva fatto e riadagiò il bicchiere sul bancone molto lentamente.
Dazai non parlava, non faceva niente. Dopo aver offeso l’intera nazione francese con quel commento disgustato sull’odore dell’aria parigina, se ne stava piegato sul bancone come l’ultimo degli sbronzi.
Chuuya decise che non gli avrebbe chiesto come stava. Sebbene fosse a meno di mezzo metro da lui, non lo avrebbe sfiorato nemmeno per sbaglio. Per quel che lo riguardava, Dazai poteva anche essere sull’orlo di una crisi che lo avrebbe condotto a una morte precoce. Lui non si sarebbe disturbato a correre in suo soccorso.
Giunto a tale conclusione liberatoria, Chuuya prese un altro sorso dal suo calice. Pessimo tempismo. Dazai sollevò la testa, la schiena scossa da quello che pareva un conato di vomito. Il rosso per poco non si strozzò con il suo vino, mentre l’altro si premeva una mano contro la bocca.
“Ehi, Sgombro!” Esclamò Chuuya, scendendo dallo sgabello per massaggiargli la schiena. “Se vomiti qui, Mori può dire addio ai suoi contatti internazionali e tu alla tua scorta a vita di granchio in scatola. Ti conviene respirare!”
Dazai drizzò la schiena, gli occhi chiusi. Inspirò dal naso ed espirò dalla bocca, seguendo un mantra che Mori gli aveva ripetuto fino all’esaurimento. Chissà se il Boss aveva tenuto il conto delle volte che aveva mischiato farmaci a caso nella speranza di prepararsi un cocktail letale, solo per ritrovarsi a vomitare dove capitava. La sensazione di malessere che Dazai provava in quel momento non era tanto diversa, solo che aveva smesso di fare quegli esperimenti da quasi due anni e ora era la voce di Chuuya a rassicurarlo.
“Così,” lo incitò il rosso, strofinando il palmo della mano tra le scapole dell’altro. “Stai riprendendo colore. Di che diavolo ti sei fatto?” Aggiunse con rabbia.
Dazai scosse la testa. “Non le faccio più quelle cose.”
Chuuya ripensò all’ultima volta che il suo partner aveva tentato di avvelenarsi e fu sorpreso di non ricordare con esattezza quando fosse successo. “Oh…” Commentò, sorpreso.
Un paio di respiri profondi e Dazai decise che aveva il completo controllo della situazione. “Sto bene,” decretò, allargando le braccia.
Chuuya tornò al suo posto. “E chi altri poteva ammalarsi non appena messo piede fuori dalla porta di casa?” Lo prese in giro.
“Due ore fa non stavo così,” si giustificò Dazai.
“E allora? I virus possono arrivare repentinamente,” disse Chuuya. “Questo, oppure la tua allergia a eventi di questo tipo sta raggiungendo livelli di una certa gravità.”
A Dazai sfuggì una mezza risata.
E, suo malgrado, Chuuya si accorse che quel suono gli era mancato. Sbuffò e ingoiò quel che rimaneva del suo viso in una sola sorsata.
L’altro si accorse del suo malanimo e lo guardò. “Adesso perché sei arrabbiato?”
“Non sono arrabbiato!” Negò Chuuya, con tono decisamente rabbioso. L’effetto che Dazai gli stava facendo non gli piaceva per niente, ma non poteva prendersi a pugni da solo.
Suvvia, si disse. Non era partito per la guerra. Era sempre a un passo da te, solo che non ti guardava neanche più.
Chuuya decise di farglielo notare, ma senza farla suonare come una cosa personale. “Toglimi una curiosità,” buttò lì, passando l’indice sul bordo del calice vuoto. “Dov’eri finito?”
Dazai sbatté la palpebra dell’unico occhio visibile, perplesso. “Che vuoi dire? Sono sempre stato a Yokohama, alla Port Mafia, come tutti voi.”
Chuuya scosse la testa. “Non è vero,” ribatté, guardandolo dritto negli occhi. “Non ti si vede più in giro. Non ti si sente più fare casino. Che cosa fai tutto il giorno? E non dirmi che lavori, perché tu e lo stacanovismo siete due mondi opposti.”
Dazai scrollò le spalle. “Non so davvero a cosa ti riferisci, sono sempre negli stessi posti.”
Non era vero. Non lo vedeva più al P.Pub, Akutagawa era più con quelli della Black Lizard che in sua compagnia e Mori stesso, una volta, si era lamentato del fatto che Dazai non mettesse più piede nel suo ufficio da un po’.
“Tu come stai?” Domandò il giovane Dirigente, di colpo.
Chuuya emise una risata gutturale, quasi che stesse cercando di ricacciare indietro un conato di vomito a sua volta. “Da non crederci.”
Dazai non capiva a cosa riferisse. “Che intendi?”
“Mi hai chiesto come sto,” gli sottolineò Chuuya. “Ricordo un tempo in cui ci auguravamo la morte ogni giorno e ora mi chiedi come sto?”
Dazai scrollò le spalle. “Vai a morire nella Senna, Chuuya,” disse, senza nessuna intonazione. “Va meglio così?”
“Cazzo…” A Chuuya sarebbe servito altro vino, ma il suo calice vuoto rispose al suo sguardo con pietà. “Come ci siamo ridotti così?”
Dazai scosse la testa e decise che quella conversazione non lo interessava più. “Mah!”
Chuuya la prese come una provocazione. “Mah?” Ripeté adirato. “Dazai, non ti si vede mai e nessuno sa dove ti vai a cacciare!”
“Non è una novità che nessuno sappia dove mi vado a cacciare.”
“È un miracolo se ancora rispondi al telefono, quando il Boss chiama.”
“Tu non mi chiami,” gli fece notare Dazai. “Se ti manco così tanto, potresti farlo.”
Mancanza. Quella parola a Chuuya non piaceva, presupponeva sempre qualcosa d’importante e Dazai non lo era per lui. Non doveva esserlo.
“Beh, anche se lo facessi, non ti risponderei,” aggiunse Dazai.
“Vaffanculo…” Chuuya lo disse a bassa voce, con un rancore profondo. Era un sentimento nato dal cuore, dove Dazai Osamu non sarebbe mai dovuto arrivare, non a lui. Quando si alzò per andarsene, il suo partner non fece nulla per fermarlo.
Chuuya decise che quella festa poteva andare avanti anche senza di lui.
Non si accorse dello sguardo di Dazai che lo seguì, fino a quando non poté farlo più.

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