Feb. 14th, 2022

Cow-T 12. First Week.
M1: Passato.




La luce dorata del primo pomeriggio entrava dall’unica finestra della piccola mansarda, illuminandola completamente. Fuori da quei vetri, Parigi era silenziosa, una città dai tetti tutti uguali, come ve ne erano tante nel mondo. Solo la Torre Eiffel, visibile in lontananza, interrompeva quel paesaggio quasi anonimo.
Era proprio per quella finestra che Paul aveva scelto quel luogo. E Arthur, come spesso accadeva, lo aveva accontentato.
Di notte, quando il cielo si faceva nero e le luci artificiali sfidavano la notte, la porzione di città incorniciata in quella vecchia struttura di legno, dai cardini cigolanti, diveniva un quadro da cui era difficile allontanare lo sguardo.
Ogni volta che ripensava alla sua Parigi, Paul Verlaine ricordava quella finestra, a come lo aveva fatto sentire umano, quando di ordinario sulla sua strada non vi era mai stato niente. Non aveva mai cercato un’esistenza fatta di piccole cose: era difficile immaginare di vivere una vita racchiusa in una semplice routine, quando Paul per natura andava contro la gravità stessa.
Eppure, una volta, per un momento di follia, l’aveva immaginata. Lontano da Parigi, dalle persone, ai confini del mondo.
Quei trentacinque metri quadri, contenuti in quattro mura e dal soffitto spiovente erano tutto quello che gli aveva concesso l’illusione di casa.
Paul non ricordava per quanto erano rimasti a vivere in quella mansarda - qualche mese, ma non sapeva dare un numero preciso: erano abituati a spostarsi in fretta - ma era stato l’ultimo luogo in cui lui e Arthur erano stati insieme, prima di Yokohama.
Era per questo che, ogni volta che chiudeva gli occhi, tornava lì.
E quel luogo, come se fosse un giardino perduto dell’Eden, diveniva il teatro di ogni sogno che non aveva osato confidare a nessuno, nemmeno ad Arthur.




“Au clair de la Lune. Mon ami Pierrot. Prête-moi ta plume. Pour écrire un mot.”
La giostrina continuava ruotare, nonostante la culla fosse vuota.
La ninna che riempiva la stanza non proveniva dal carillon, troppo usurato per continuare a cantare ancora, ma dalle labbra del giovane uomo steso sul divano.
I capelli lunghi gli ricadevano sulla spalla destra e un pugnetto paffuto era stretto sulle ciocche dorate. Il bambino accoccolato sul suo petto dormiva da un po’, ma Paul cantava ancora, accarezzando i capelli rossi già piuttosto folti.
“Ma chandelle est morte. Je n'ai plus de feu. Ouvre-moi ta porte. Pour l'amour de Dieu.”
Gli piaceva arricciare quei fili di rame intorno alla dita. Da quando si erano fatti più lunghi, alcuni riccioli erano spuntati alla base del collo del piccino. Chissà se, diventando grande, avrebbe avuto i capelli ondulati come Arthur?
Il respiro sereno della creatura addormentata gli solleticava il collo e le labbra di Paul erano piegate in un sorriso segreto, che nessuno - nemmeno il suo compagno - aveva mai visto. Avrebbe potuto usare tutte le poesie d’amore mai state scritte per descrivere il legame tra sé e Arthur.
Ma Chuuya era un’altra cosa.
Qualcosa di tanto forte da mettere in ombra il sentimento per l’uomo che gli aveva dato un nome, una vita e lo aveva reso una persona. A Chuuya era bastato esistere per avere quel potere. Perché ogni battito del cuore di quel bambino rassicurava Paul che non era solo a quel mondo, che aveva finalmente trovato quell’unica cosa che Arthur non era riuscito a dargli: la comprensione che può esistere solo tra due esseri simili.
Chuuya però non avrebbe sofferto quel che aveva sofferto lui. Paul lo avrebbe protetto, lo avrebbe guidato e lo avrebbe guardato camminare nel mondo, come ogni essere umano.
Anche se di umano avevano soltanto l’aspetto.
“Se continui di questo passo, finirai per viziarlo.”
Paul udì le parole di Arthur, prima di vederlo passare dietro al divano, per poi sparire verso l’angolo cottura. “Non ti ho sentito rientrare,” disse, cercando di sollevarsi senza svegliare il bambino addormentato.
“Stavi cantando,” rispose l’altro. “Eri distratto.” C’era una nota di rimprovero nella sua voce.
Una volta in piedi, Paul si ritrovò a fissare la sua schiena. “Se fosse stata una minaccia, me ne sarei accorto.”
Arthur gli lanciò un’occhiata veloce da sopra la spalla: stava tirando fuori da una busta di carta la loro cena di quella sera e alcune cose per il bambino. “Sicuro?”
Chuuya si lamentò nel sonno. Paul lo cullò contro la spalla, stando attento che non si mettesse i suoi capelli in bocca. “Ero certo che il mio periodo d’addestramento fosse terminato tempo fa,” disse, senza celare il sarcasmo. “Mi hanno insegnato bene il mio lavoro, sai? Ho imparato dal migliore.” Non era una lusinga, ma una frecciatina.
Arthur smise di fare quello che stava facendo per guardarlo apertamente in faccia. “Di questo passo, quel bambino ti farà uccidere,” disse, schietto.
Paul scrollò le spalle. “Sì, sono le conseguenze da mettere in conto quando si è una spia governativa e si tradisce la patria.”
“Parlo sul serio, Paul.”
“Non lo sto mettendo in dubbio.”
“Quando sei con quel bambino, il resto del mondo smette di esistere,” disse Arthur, critico. “Vuoi proteggerlo? Allora comportati come se volessi farlo.”
La voce con cui gli parlava era calma, ma Paul sentiva la rabbia tra le righe, la frustrazione per il guaio in cui li aveva cacciati entrambi - sempre ammesso che guaio fosse un termine esaustivo per riferirsi al tradimento della propria patria. Arthur aveva dedicato tutta la sua vita a servire il Governo, a cancellare le tracce di tutto quello che per i poteri alti era da considerare sbagliato.
Paul era uno di quegli sbagli.
Chuuya era uno di quegli sbagli.
Al primo era stata concessa una seconda possibilità per guadagno, non certo per gentilezza - a quella aveva sopperito Arthur - ma quel bambino meritava qualcosa di meglio del divenire un’arma.
“Pensavo di non essere da solo in questo,” disse Paul, guardando il faccino paffuto di Chuuya premuto contro la sua spalla. La boccuccia a cuore si era dischiusa nel sonno, rendendolo più adorabile di quanto già non fosse. Forse era vero che quella creatura era una distrazione pericolosa: sarebbe rimasto ore a guardarla.
“Mi sembra di essere qui, di fronte a te,” ribatté Arthur.
Paul sollevò gli occhi azzurri sul compagno. “Ma non vuoi esserci.”
“Ti sto proteggendo, Paul. Sto cercando un nuovo posto, uno più sicuro.”
“In campagna?” Domandò il biondo. “Lontano da tutti, come ti avevo detto?”
“Da quando ti conosco, non hai mai chiesto nulla. Ti ho regalato un cappello per il tuo compleanno e non ti è piaciuto,” gli ricordò Arthur. “Ora non fai che chiedere.”
Paul scrollò le spalle una seconda volta. “È umano avere desideri,” disse. “Continui a ripetere che lo sono, nonostante io ti dica di smetterla. Non puoi biasimarmi, se comincio a comportarmi come tale. Chi lo sa? Forse mi stai convincendo.” Posò un bacio sulla fronte di Chuuya. “Questo piccolino non dovrà vivere con la mia stessa maledizione.”
“Tu non sei maledetto, Paul,” disse Arthur, stancamente, come se stesse ripetendo quel ritornello da una vita intera. “Non puoi esserlo, non quando guardi il bambino in quel modo.”
Paul accennò un sorriso. “Ha un nome, ti ricordi? Si chiama Chuuya.”
Arthur sospirò. “Dio solo sa dove lo hai sentito.”
“Non sarebbe stato male Marie Cosette, ma vorrei evitare di farmi odiare in futuro. È nato a Yokohama, è giusto che abbia un nome che onori la sua terra.” Paul fece un paio di passi in avanti. “Vuoi tenerlo?”
“No.”
Paul sorresse la testolina del bambino e lo allontanò da sé. “Dai, Arthur.”
“Ho detto di no.”
Troppo tardi. Paul aveva messo il compagno in una condizione in cui il bambino sarebbe caduto a terra, se Arthur non si fosse deciso a prenderlo.
Chuuya non fu molto contento del cambio di braccia e non si fece scrupoli a farlo capire.
“Paul, riprendilo,” lo pregò Arthur, sporgendosi verso l’altro.
Il biondo lo accontento, deridendo la sua goffaggine senza malizia. “Dovrai farci l’abitudine, non compirà vent’anni domani.”
Un’ombra comparve nella periferia dello sguardo di Paul, in direzione della finestra. Si voltò e vedere il Demone vestito di nero gli spezzò il respiro. L’uomo incrociò il suo sguardo, ma non disse nulla.
“Paul, che ti prende?” Domandò Arthur. Lui non poteva vederlo.
Il Demone non disse nulla. Si limitò a sorridergli, poi infilò le mani nelle tasche del cappotto e attraversò la mansarda con passi cadenzati. Scomparve nell’angolo più buio della stanza, come se fosse divenuto un tutt’uno con le ombre.
“Paul?” Arthur gli afferrò la spalla per invitarlo a guardarlo di nuovo.
Nel farlo, Paul avvertì la spiacevole sensazione di cadere nel vuoto.




Quando Paul Verlaine si svegliò, era seduto sulla sua poltrona di vimini, al centro del salotto che costituiva il cuore della dimora sotterranea che la Port Mafia gli aveva concesso.
“Mi spiace averla svegliata, signor Verlaine,” disse un uomo dai capelli grigi, con un monocolo all’occhio destro. Hirotsu Ryuro, leader della Black Lizard, una delle poche persone che scendeva nei suoi appartamenti con regolarità. Paul lo conosceva bene perché la maggior parte dei ragazzini che addestrava erano sue proposte e, in seguito, alla fine dell’addestramento d’assassini, capitava spesso che tornassero sotto il suo comando. La loro era una relazione formale, di lavoro e nulla più.
Hirotsu non godeva certo della confidenza per entrare in casa sua senza permesso.
A meno che qualcuno dai piani alti non glielo avesse ordinato.
“È accaduto qualcosa?” Domandò Paul, senza muovere un muscolo.
Il veterano si permise di avvicinarsi di un paio di passi e posò una bottiglia di Romanée-Conti sul basso tavolino al centro della stanza. “Un omaggio da parte del Boss.”
Paul fissò la bottiglia come se potesse esplodere da un momento all’altro, disseminando schegge di vetro e spruzzando liquido scarlatto ovunque, come in una scena del crimine particolarmente pittoresca.
Non era un regalo. Era un messaggio in codice.
Paul sollevò gli occhi azzurri sul leader della Black Lizard. “Che cosa è successo a Chuuya?”
Hirotsu era stato preparato a rispondere a quella domanda. “Il Boss verrà presto a farle visita,” disse. “Sarà lui stesso a darle tutte le risposte di cui ha bisogno. Fino ad allora, si goda il vino.”




Paul non bevve neanche una goccia di quel Romanée-Conti. Nemmeno si preoccupò di spostare la bottiglia da dove Hirotsu l’aveva lasciata.
Mori Ougai si presentò nelle sue stanze cinque giorni dopo, vestito completamente di nero come nel suo sogno. “Verlaine.” Lo sorpreso che era occupato a leggere uno dei suoi libri di poesie, seduto sulla sua solita poltrona.
“Mori.” Salutò a sua volta, chiudendo il volumetto e lasciandolo sul tavolino che aveva davanti, accanto alla bottiglia di vino in toccata.
Il Boss si guardò intorno, fingendosi interessato all’arredamento. “Però…” Commentò tra sé e sé. “Voi francesi avete questo talento a rendere qualunque ambiente così accogliente.”
Paul non aveva preteso molto per la sua nuova dimora, ma aveva fatto in modo che quel luogo assomigliasse quanto più possibile a quella mansarda, che era stata l’ultima casa sua e di Arthur. Poco importava che fosse almeno tre volte più grande.
“Mi posso sedere?” Domandò Morì, indicando il divano dirimpetto alla poltrona del francese.
Paul non fece in tempo a rispondere che l’uomo vestito di nero si era già accomodato. Non poteva certo rimproverarlo per la sua sfacciataggine: se c’era un padrone di casa in quella stanza, quello non era di certo il francese.
Mori notò immediatamente la bottiglia di vino ancora sigillata e si corrucciò. “Non hai gradito il mio regalo?”
“Che cosa è successo a Chuuya?” Domandò Paul, diretto.
Mori non parve sorpreso. “Prevedibile,” mormorò. “Vorrà dire che, per questa volta soltanto, farò io gli onori di casa, ma sappi che non è mia abitudine.”
Paul lo guardò, mentre si dirigeva verso la cucina, come se abitasse quelle stanze e sapesse esattamente come muoversi. Tornò nel salotto con un cavatappi e due calici di vino. Il francese evitò di chiedersi come avesse trovato quei tre oggetti con tanta facilità, quando lui stesso non era certo di sapere dove fossero riposti.
“Dunque, dunque…” Mori stappò il Romanée-Conti e versò il vino rosso nei due calici. Ne prese uno per sé e tornò al suo posto. “Di cosa stavamo parlando?”
Il Boss della Port Mafia era un grande giocatore e Paul comprese immediatamente di essere appena diventato il suo giocattolo per il tempo di quella bevuta. Non molto tempo prima, il francese era stato un tipo combattivo - per non dire distruttivo - poi la morte lo aveva toccato e diversi aspetti della sua personalità si erano ridimensionati.
Quando la Port Mafia lo aveva accolto, era stato Paul a chiedere di rimanere isolato dal resto dell’organizzazione e dal mondo. Mori non lo aveva certo rinchiuso, come non gli aveva chiesto nulla, fino a che lui stesso non si era proposto di addestrare le nuove reclute per dare un senso al suo tempo. Nei quattro anni della sua nuova vita di semi-isolamento, Mori era sceso a parlare con lui più di una volta.
“Per fare conoscenza,” si era giustificato la prima volta.
Paul si era sorpreso di scoprire che era stato sincero.
Il lavoro era stata l’ultima cosa a entrare nelle loro conversazioni. Prima di tutto, Mori aveva notato i suoi libri, poi erano passati ai racconti sull’Europa e, alla fine, inevitabilmente, avevano parlato anche di Arthur e di Chuuya.
Paul poteva affermare che i rapporti tra lui e il Boss della Port Mafia erano civili. Di certo non erano intimi, ma trovavano la compagnia l’uno dell’altro interessante.
Questa volta era diverso e Paul non aveva alcuna fatica a intuire il perché, ma c’era un dettaglio che aveva bisogno di chiarire, prima che quel gioco iniziasse. “Quella non era la tua abilità,” disse.
Mori fece finta di non capire. “A cosa ti riferisci?”
“Sei stato bravo a nascondere le vere capacità di Vita Sexualis,” disse Paul, “ma sappiamo entrambi che non può permetterti di avere potere sulla mente delle persone.”
“Oh, certo!” Mori si stava prendendo gioco di lui apertamente. “Ti stai riferendo a quell’adorabile sogno in cui ti ho fatto visita.”
Paul Verlaine poteva essere l’ombra di se stesso, ma questo non significava che se ne sarebbe stato zitto a subire. “Non avevi alcun diritto…”
“No, in realtà era Chuuya a non avere alcun diritto di venire qui sotto a fare una confessione a cuore aperto,” ammise Mori, poi prese un sorso di vino. “Ma non posso infierire su di un ragazzino con il cuore spezzato, quindi vediamocela tra adulti. È più ragionevole.”
I fatti erano semplici: dal giorno in cui Paul era entrato nella Port Mafia, Chuuya lo aveva cercato due volte. La prima, quasi tre anni prima, si era presentato in compagnia di un mafioso di basso rango e lo aveva fatto nella speranza di ottenere da lui delle informazioni che lo aiutassero a salvare Dazai dal Marchese De Sade. La seconda visita era avvenuta un paio di settimane prima, subito dopo che Dazai aveva lasciato per sempre la Port Mafia, portando con sé il bambino avuto dal mafioso di basso grado della prima volta.
“Era distrutto,” commentò Paul, per giustificare la condotta del più giovane.
È distrutto,” disse Mori, schietto, ingoiando il resto del suo vino in una sola sorsata. “Tu non bevi?” Aveva messo da parte la facciata amichevole per tradire un po’ del suo nervosismo.
Paul allungò la mano per afferrare il calice, ma non assaggiò il vino. “Perché sei qui, Mori?” Se dovevano vedersela tra adulti, tanto valeva essere diretti.
“Ho bisogno di sapere che cosa ti ha raccontato Chuuya, nei dettagli,” rispose il Boss. “E nel caso tu abbia dubbi, la mia non è una richiesta.”
Paul non aveva alcuna ragione per mentire. “Tutto. Mi ha raccontato tutto. Della Mimic, del ragazzo che hai mandato a morire e che si è rivelato essere l’amante di Dazai,” rispose. “Mi ha detto di come è sparito per una cinquantina di giorni, nascosto da un suo amico del Governo, che era un doppiogiochista della nostra intelligence, se ho capito bene. Mi ha parlato della licenza governativa, di come Dazai lo ha chiamato disperato perché pensava di star perdendo il suo bambino - di cui tu e lui, ovviamente, non sapevate nulla. Tutto il resto è stato un resoconto piuttosto straziante dei diciotto mesi successivi, o forse erano di più… Non ricordo.”
“Ah,” commentò Mori. “Ti ricordi tutto, tranne il numero dei mesi.”
Paul si decise a prendere un sorso di quel Romanée-Conti. “Sul serio, come sta?”
Mori inspirò dal naso e appoggiò le spalle allo schienale del divano. “Piange.”
Gli occhi azzurri del francese divennero grandi, allarmati. “Piange?”
“Non riesco a calmarlo,” ammise Mori. “Nemmeno Kouyou. È qualcosa fuori dalla nostra portata.”
“Non riesci a calmarlo o non riesci ad affrontarlo?” Paul appoggiò il calice sul tavolino e si alzò in piedi. “Lascia che gli parli.” Se il Boss della Port Mafia temeva di avvicinare Chuuya, non lo biasimava per la cautela: era difficile maneggiare una bomba atomica formato persona che affrontava le sue prime pene d’amore.
“Lo hai già fatto.” Mori lo rimise immediatamente al suo posto, sollevandosi a sua volta. “Per quanto possa suonare crudele, il cuore spezzato di Chuuya, in questo momento, non è la priorità.”
“Per te!” Ribatté Paul, a tono. “Non è Dazai quello che sta piangendo, quindi non c’è alcun bisogno di correre ai ripari, vero?”
“Siediti, Verlaine,” ordinò il Boss della Port Mafia, lapidario. “Ho detto che ne avremmo parlato tra adulti ragionevoli.”
Il francese inspirò profondamente dal naso e tornò al suo posto. Mori fece lo stesso.
“Si tratta del bambino, vero?” Domandò Paul. “È lui la tua priorità.”
L’altro fu bravo a evitare di ammettere di essere coinvolto. “È anche quella di Chuuya.”
“Sì, ma a che prezzo?”
Anche Mori abbandonò il calice vuoto sul tavolino. “Che immagine romantica…” Commentò.
Paul aveva perso il filo del discorso. “A cosa ti riferisci?”
“Alla mansarda a Parigi,” chiarì Mori. “Tu, Randou e il piccolo Chuuya, insieme contro il mondo. È questa la forma del tuo desiderio irrealizzabile?”
Paul strinse i braccioli della poltrona con rabbia. “È solo un sogno.” Sminuire ciò che di più prezioso gli era rimasto era il solo modo a sua disposizione per proteggersi.
“E nel tuo sogno vedi Chuuya come una creatura fragile, innocente, da proteggere?” Il sarcasmo nella voce di Mori era fastidioso. “Chuuya ha vent’anni, Verlaine. Si è fatto male, ha rischiato consapevolmente e ha perso. Si rialzerà e diventerà un adulto. Non mi preoccupo di questo.”
“Sì, si rialzerà,” convenne Paul. “Ma dopo che hai un bambino tra le braccia e decidi di proteggerlo, non lo dimentichi.”
“È proprio questo il punto ed il motivo per cui sono qui,” confessò Mori. “La sicurezza di quel bambino deve avere la priorità su tutto. È così per tutte le persone coinvolte, Chuuya compreso, e ora fai parte della storia anche tu.”
Paul si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo. “Non ho alcun interesse a uscire di qui. Come posso minacciare il bambino di Dazai?”
“Non temo che tu sia una minaccia,” chiarì Mori. “Devi solo sapere che, se la situazione lo richiedesse, la vita di quel bambino deve venire prima di qualsiasi cosa, compresa quella di Chuuya.”
Verlaine strinse la labbra, poi le piegò in un sorriso amaro. “Vedi una tempesta all’orizzonte, Mori?” Si sporse in avanti. “La temi?”
Il Boss della Port Mafia non rispose.
“No, penso che la tempesta per te sia appena passata,” aggiunse Paul. “L’hai provocata tu stesso e non hai saputo domarla.”
“Scegli con cura le tue prossime parole, Verlaine,” lo avvertì Mori.
“Come si chiama?”
“Eh?”
“Il bambino di Dazai,” specificò Paul. “Come si chiama?”
Mori fece una mezza smorfia, che non era per lui ma per la risposta che stava per dargli: “Sakunosuke,” disse. “Come suo padre.”
Paul non faceva alcuna fatica a immaginare che Dazai avesse fatto quella scelta solo per fare un dispetto al suo mentore. O forse il suo era solo sincero amore nei confronti dell’uomo che aveva perso e da cui aveva avuto un figlio. Chi poteva saperlo? Laggiù, dalle sue parti, non arrivavano grandi notizie, figurarsi quelle che sfuggivano al Boss stesso.
“L’ho incontrato, una volta,” ammise Paul.
Per la prima volta da quando era entrato nei suoi appartamenti, il viso di Mori si animò di un’espressione sincera. “Quando?”
“Quando Chuuya si è messo a investigare sul Marchese De Sade per conto suo,” raccontò il francese. “Tu lo avevi messo da parte e lui ti ha disubbidito, cercando informazioni da me.”
“Questo fatto lo ricordo, ma nessuno mi fece il nome di Oda Sakunosuke all’epoca.”
Ricordare le persone era un’altra deformazione professionale di Paul. “Alto, capelli rossi, ma più scuri di quelli di Chuuya,” lo descrisse, tanto per assicurarsi che stessero parlando della stessa persona. “Occhi azzurri e-“
“Sì, sì, bello, perfetto, un balsamo per l’anima,” lo interruppe Mori, spazientito.
Paul inarcò le sopracciglia. “Chi lo ha definito balsamo per l’anima?”
“Lascia perdere. Sto facendo i conti col fatto che tutta la Port Mafia ha notato Oda Sakunosuke prima di me.”
Balsamo per l’anima. È piuttosto poetico.” Paul ebbe difficoltà a immaginare Dazai descrivere una persona con simili parole, ma chi altro avrebbe mai potuto pronunciarle per causare una tale reazione nel Boss della Port Mafia?
“Sì e ne ho abbastanza di poeti nella mia vita.” Mori si era lasciato prendere dai nervi nel sentir nominare l’amante del suo pupillo e questo lo aveva fatto sbottonare un po’, quanto bastò al francese per avere un’intuizione.
Paul abbassò lo sguardo, concedendosi un paio d’istanti per riflettere su quella ipotesi. “Ho passato gli ultimi giorni a chiedermi chi nella Port Mafia avesse il potere d’interferire con i sogni.” Riportò gli occhi azzurri su quelli scuri dell’uomo vestito di nero. “La mia è stata una visione limitata. Nessuno nella Port Mafia ha un tale potere, ma un poeta del tuo passato sì.”
Mori non si scompose, forse non era nemmeno sorpreso dalla piega che stava prendendo quella loro conversazione.
“Non facevo ancora parte del mondo dello spionaggio, quando tu e Johann Goethe eravate sulla bocca di tutta Europa,” ammise Paul. “Ma ci sono una serie infinita di Dossier su di voi, sulla tremenda scomparsa del Generale Jünger e sull’arma di Weimar.”
Mori fu bravo a non tradire nulla, ma Paul era una spia ed era sempre stato bravo nel suo lavoro. Non si era guadagnato la fama di Re degli Assassini per niente e sapeva riconoscere quando una persona si sentiva minacciata.
Mori Ougai era un predatore e non era abituato a interpretare quella parte, non da quando aveva lasciato Rintarou morire in Germania.
Paul decise di osare, di riportare alla luce una parte di sé che aveva a lungo taciuto. “ “19 Giugno,” disse, come se quella data avesse lo stesso peso di un segreto di stato. “È una data molto precisa ed è ripetuta diverse volte nei fascicoli europei riguardo Mori Rintarou.” Paul annuì un paio di volte. “19 Giugno,” ripeté, come se stesse rigirando il coltello nella piaga. “I compleanni sono importanti e ti sei preoccupato di festeggiare quel giorno ogni anno, fino all’incidente con la Mimic. Poco importava che Dazai ne fosse infastidito.”
“Sii chiaro,” ordinò Mori. “Smettila di giocare.”
Certo, tutto il divertimento decadeva nel momento in cui non era il padrone di casa a decidere le regole.
“Ci sono coincidenze troppo strane per essere davvero tali. Il 19 Giugno è solo la più evidente.”
“Sii chiaro, ho detto.”
“So che cos’è Dazai per te,” disse. “È la stessa cosa che Chuuya è per me.”
“No.” Mori scosse la testa, rifiutandosi di accettare quel punto di vista. “Dazai non è un bel sogno che faccio per consolare me stesso.”
“Non ha importanza. Ti ha rifiutato, come Chuuya ha rifiutato me. Entrambi abbiamo commesso lo stesso errore: uccidere ciò che amavano nella speranza che si legassero più a noi. Perché era questo il piano, vero? Togliere a Dazai ciò che lo faceva sentire umano e che, quindi, lo portava lontano da te.”
Mori chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, come se stesse cercando la pazienza per ripetere una cosa per la centesima volta. “Ho fatto quel che andava fatto per la Port Mafia.”
“E ora un bambino che non sarebbe mai dovuto nascere è venuto al mondo senza padre,” concluse Paul. “Quante volte dovremmo ripetere gli stessi errori?”
“Qui nessuno ha detto che quel bambino non sarebbe mai dovuto nascere,” ribatté Mori.
“Forse, ma lui la penserà allo stesso modo, quando conoscerà il peso della propria storia?”
“Non è una storia peggiore di altre.”
“Nemmeno quella di Elise Mori-Goethe lo è.” Eccolo lì, Paul Verlaine, spia del Governo francese, Re degli Assassini. “Eppure a Dazai non l’hai mai raccontata.”
Mori incassò il colpo da maestro. “Se tutto fosse andato secondo i piani, tu non avresti raccontato a Chuuya delle sue origini.”
“È una storia diversa,” ribatté Paul. “È difficile spiegare a un bambino che non ci sono due genitori dietro la tua nascita. La tua, a confronto, è una storia piuttosto banale. Perdonami, c’è una cosa che non riesco a capire: tu sei vivo, Johann Goethe è vivo e Dazai è vivo e c’è un muro a dividervi tutti e tre. Mori Rintarou ha perso tutto quello che aveva perché era giovane, non era preparato o abbastanza forte per proteggerlo. Mori Ougai ha sia l’esperienza che il potere… Eppure non fai niente per avere ciò che desideri realmente.”
Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso diabolico. “E tu pensi di sapere cosa desidero io?”
Paul scrollò le spalle. “Io so che tenevo Chuuya in spalla e ho messo in discussione tutto, compresa la persona che mi aveva dato tutto, pur di garantirgli un futuro migliore del mio passato,” disse. “Elise, la bambina della tua storia, l’hai portata in grembo, l’hai messa al mondo e l’hai cresciuta, fino a che non te l’hanno portata via. Io ho sempre avuto difficoltà a sentirmi umano, ma tu esattamente che cosa sei?”
Mori non aveva una risposta da dargli e Paul non se l’aspettava.
La loro conversazione poteva dirsi conclusa. Anzi, forse si era protratta troppo oltre.
“Non preoccuparti per Chuuya,” disse il Boss della Port Mafia, alzandosi in piedi. “Posso aver commesso i miei errori con Dazai, ma non accadrà con lui. E non temere: non l’ho mai sottratto a te e non è mia intenzione farlo ora. È libero di vederti quando preferisce. Il mio compito era chiarire il ruolo di tutti in questa storia.”
Paul si sollevò dalla poltrona di vimini. “Chuuya non è tuo. Non importa quante volte s’inginocchierà al tuo cospetto o ti dimostrerà la sua lealtà. Lui non ti apparterrà mai, non ne nel modo in cui desideri. La sua presenza non basterà a sostituire quello che hai perso. Quel vuoto sarà sempre lì, a tormentarti fino alla fine dei tuoi giorni.” Gli occhi azzurri si tinsero di malinconia. “E io condividerò il tuo stesso destino.”
Mori Ougai non si adirò per la sua sincerità. Al contrario, fece una cosa del tutto inaspettata: si avvicinò al tavolino, si versò dell’altro vino e alzò il calice, come per fare un brindisi solitario.
“In questo specifico caso, non posso far altro che darti completamente ragione,” ammise e bevve un sorso. “Se Chuuya è mai appartenuto a qualcuno, quel qualcuno è Dazai. E io e te, mio caro Paul Verlaine, non riusciremo mai ad accettarlo.”
CowT 12. First Week.
M1: Passato





Le note di un pianoforte erano l’unica cosa a riempire i saloni della villa dormiente, che la notte precedente era stata teatro di festeggiamenti al sapore di vino e di baci rubati. Nascosta tra le montagne fuori Ginevra, circondata dall’ultima neve dell’inverno, una generazione di giovani dotati di abilità aveva creato il rifugio perfetto in cui sollazzarsi in attesa della primavera. Pochi giorni ancora e quel luogo, non più remoto e irraggiungibile, avrebbe perso tutto il suo fascino. Gli ospiti che vi risiedevano sarebbero tornati al loro paese di origine, lasciando George da solo a decidere i dettagli della sua prossima impresa.
Quella mattina però il pensiero era ancora lontano. Disteso sul tappeto della sala da pranzo - non ricordava né come né quando ci era finito - George tornò nel mondo dei vivi accompagnato da quella melodia e maledicendo il mal di testa da post-sbronza.
Qualcuno gli camminò accanto, ignorando completamente la sua presenza a terra. George ebbe dei pensieri poco gentili anche nei confronti di quello sconosciuto. Poteva essere l’unico non dotato di abilità in quella villa, ma rimaneva pur sempre il solo e unico Lord Byron.
Si mise a carponi con gran fatica e i riccioli scuri gli ricaddero sugli occhi, che non riusciva a tenere aperti. Fuori dalle finestre il cielo era uggioso, ma la luce era comunque accecante per i suoi poveri sensi, intorpiditi dalle ultime tracce di alcol.
George impiegò dieci minuti buoni a mettersi in piedi. Per tutto il tempo, la musica di quel pianoforte derise la sua goffaggine e la facilità con cui gli piaceva perdere la sua dignità di uomo - qualunque cosa volesse dire. A George piaceva ricordare al mondo che faceva parte della nobiltà inglese, ma sottostare all’etichetta non era di suo interesse. Al contrario, scandalizzare era diventato il suo talento. Peccato che non fosse un’abilità in grado di servire alla ragion di stato.
Infermo sulle gambe, George si costrinse a uscire dalla sala da pranzo. Attraversò il salone principale e, a metà dell’atrio, la sua mente riuscì a recuperare quel tanto di lucidità che bastava per riconoscere la melodia che lo aveva strappato al sonno: la Für Elise di Beethoven.
La porta della sala della musica era aperta.
Con il paesaggio innevato che faceva da sfondo fuori dalle finestre, il nero lucido del pianoforte a coda faceva male agli occhi. E il pianista che vi sedeva di fronte si integrava così bene a quello schema cromatico: era pallido - quel genere di pallore di cui George era certo scrivessero i poeti - i capelli corvini incorniciavano il giovane viso. Persino i vestiti che aveva addosso erano neri. Le sue mani si muovevano sui tasti con disinvoltura, come se la musica fosse la sua seconda natura. Non che servisse una grande abilità per suonare quel pezzo, ma era il linguaggio del corpo a dare a tutto un fascino che impedì a George di allontanare gli occhi.
Non avrebbe mai saputo spiegarlo a parole, ma il modo in cui quel fanciullo suonava gli conferiva un aspetto semplicemente incantevole.
Lord Byron era solito provare incanto con facilità, la stessa con cui poi tramutava quel sentimento in disinteresse. Pur conoscendo la sua natura mutevole, George non si era mai fatto scrupoli a soddisfare ogni suo capriccio. Illudere, ferire e umiliare non lo preoccupavano. Poche erano le persone che gli avevano toccato il cuore e neanche a loro era riuscito a rimanere fedele - almeno, non nella carne.
Quella creatura vestita di nero aveva lo aveva strappato via dai sogni figli del vino. Con un sorrisetto che prometteva guai, decise che meritava un piccolo risarcimento per il disturbo.
“Byron…”
George saltò come una molla, mentre un giovane uomo dai capelli biondi lo superava. La melodia s’interruppe di colpo con una nota stonata.
Il fanciullo dai capelli corvini sorrise. “Buongiorno, Hans.”
Johann Goethe si passò una mano tra le onde dorate, cercando di dargli una parvenza di ordine. A giudicare dalla patina di sonno che ricopriva quegli occhi azzurri, la musica doveva aver destato molestamente anche lui.
“Stai svegliando tutta la casa, Rintarou,” disse Goethe.
Il fanciullo dai capelli corvini reagì alla notizia con una scrollata di spalle. “C’è stata una gran confusione per tutta la notte. Non sono riuscito a riposare bene e mi sono svegliato di cattivo umore.”
Goethe alzò gli occhi al cielo. “Da quando suoni per farti passare il malumore?”
“Da quando suonare disturba chi il malumore me lo ha provocato,” rispose il giovane - Rintarou - con un sorriso che, se fosse stato possibile, avrebbe ucciso.
Goethe lasciò cadere le spalle. La giornata era appena iniziata ed era già stanco.
“Il signorino è risentito perché non è salito in camera come aveva promesso,” disse una terza voce.
George si piegò di lato - e dovette attaccarsi all’architrave della porta per mantenere l’equilibrio e non cadere rovinosamente - e vide che vi era un terzo uomo dietro il pianoforte, intento a servire la colazione sul tavolo sotto la finestra. Doveva essere il tipo che era uscito dalla cucina e gli era passato accanto, ignorandolo deliberatamente.
“Il signorino dovrebbe imparare a prepararsi il caffè da solo, Hirotsu” ribatté Goethe, senza rancore. Rintarou gli lanciò un’occhiata storta. “Il signorino è anche molto viziato e capriccioso.”
Il terzo uomo - sulla trentina, con due baffi scuri sotto il naso e un paio di occhiali dalla montatura leggera - sospirò. “Temo di non poter dissentire.”
Rintarou assunse un’espressione scandalizzata e si voltò di colpo. “Hirotsu!”
“Con tutto il rispetto,” il maggiordomo - George non sapeva davvero che altro potesse essere - si avvicinò per porgere al suo giovane signore la tazza di caffè incriminata, “penso che lei debba ascoltare le ragioni del signor Hans, prima di accusarlo di qualsiasi cosa.”
Le labbra di Goethe si piegarono in un sorriso grato. “Grazie, Hirotsu.”
Rintarou borbottò qualcosa, sorseggiando il suo caffè caldo.
“Stavo parlando con Victor nel salottino sul retro,” raccontò il giovane dai capelli biondi. “Parlavamo e bevevamo. Penso che a un certo punto sia arrivato William e abbia proposto uno stupido gioco dei suoi.”
Rintarou ridacchiò. “Abbastanza stupido da intrattenere entrambi, pare.”
“Mi sono addormentato sul divano,” concluse Goethe. “Niente di più, niente di meno e… Se vuoi far finta di suonare il pianoforte, almeno tieni uno spartito sul leggio!” Aggiunse con tono di rimprovero, indicando il punto del pianoforte in questione.
Rintarou gli rivolse una smorfietta da superiore. “Non mi serve.”
Goethe si portò una mano al viso e si massaggiò la fronte.
Sentendosi ignorato in casa sua, Lord Byron strinse le labbra in una smorfia piena di sdegno e s’impegnò subito per divenire il centro della scena. “Non faceva finta,” intervenne. “Suonava per davvero.”
Goethe sollevò lo sguardo stanco. “Oh, giusto, Byron, sei qui…”
Rintarou si accorse di lui per la prima volta.
“Hans, amico mio!” Esclamò George, facendo un passo in avanti - e ci mancò poco che inciampasse nei suoi stessi piedi. “Non essere severe col tuo amico. Piuttosto, perché non me lo hai presentato quando siete arrivati?” Circondò le spalle di Goethe con un braccio, cosa di cui il tedesco non fu affatto contento.
“Lo ha fatto,” rispose Rintarou. “Ma siete ubriaco, drogato e quant’altro da almeno tre giorni, my Lord.
George aprì la bocca, poi la richiuse. Lasciò andare Goethe, che fu ben lieto di allontanarsi, e simulò un colpo di tosse per darsi un contegno - anche se la camicia sporca di vino e i capelli in disordine non gli facevano un gran favore. “Rintarou,” ripeté. “In Europa si parla di te, ma non del tuo nome.”
Il giovane dai capelli corvini inarcò le sopracciglia. “Davvero?” Anche gli occhi erano scuri, grandi, profondi come il mare di notte. “Sentito, Hans? In Europa si parla di me.”
“In Europa ci si annoia molto,” commentò Goethe.
Rintarou appoggiò la tazza di caffè sopra il pianoforte con un po’ troppa forza. “Vuoi litigare? Litighiamo!”
“Puoi aspettare che mi passi la sbronza?” Lo pregò Goethe. Il maggiordomo si avvicinò una seconda volta, offrendo un’altra tazza fumante al tedesco. “Grazie, Hirotsu.”
“Hirotsu, non fraternizzare col nemico,” disse Rintarou.
L’uomo con i baffi si limitò a ridacchiare.
Notando di essere stato di nuovo scansato dalla scena, George cercò d’imporsi una seconda volta. “Quindi è lui il fiore d’Oriente con cui sei tornato da Yokohama, Hans!”
Sì, in tutti i salotti d’Europa era girato quel pettegolezzo: il giovane Johann Goethe era volato in Giappone per rispondere all’invito di un’organizzazione dalla natura oscura, non aveva accettato la proposta che gli era stata fatta, ma era tornato affiancato da un adolescente di cui tutti decantavano il fascino magnetico.
George avrebbe mentito se avesse detto che Rintarou non aveva attirato il suo interesse semplicemente suonando una melodia per bambini, ma - per citare Goethe - viziato e capriccioso erano davvero gli aggettivi che più si addicevano alla situazione.
Accanto a lui, il tedesco per poco non si strozzò col suo caffè. “Sì, un fiore!” Esclamò, ridendo e tossendo al contempo. “Sentito, Hirotsu, abbiamo tra le mani un delicato fiore d’Oriente!”
“Sua madre sarebbe orgogliosa, signorino,” disse il maggiordomo.
Se uno sguardo avesse potuto far del male, quello di Rintarou avrebbe trapassato Goethe senza pietà. “Vai all’inferno, Johann Goethe.”
Nonostante quelle parole, sul viso del tedesco comparve un sorriso che esprimeva il più puro e sincero affetto. “Ci sono già,” rispose, “ma sono in ottima compagnia, quindi non mi lamento.”
George vide lo sguardo di Rintarou divenire meno affilato. Non aveva idea di come, ma Goethe era riuscito a smorzare l’atmosfera.
Fu un momento breve.
“E impara a leggere gli spartiti.”
Rintarou poggiò il gomito sui tasti del pianoforte, provocando un suono spiacevole, poi borbottò un insulto ai danni del giovane tedesco.
“Come fa a suonare il piano senza leggere lo spartito?” Domandò George.
“Impara la sequenza delle note a memoria,” rispose Goethe.
“Capisco, ma perché le memorizzi le deve conoscere,” insistette Lord Byron.
Il tedesco scosse la testa. “Rintarou, qui, memorizza il movimento delle mani.”
George strabuzzò gli occhi. “Prego?”
Goethe annuì. “Suona un pezzo, uno qualunque, non ha importanza la complessità. Dopo al massimo tre esecuzioni, saprà ripeterlo alla perfezione.”
“Il signorino è molto intelligente,” buttò lì Hirotsu.
Il padrone di casa rimase a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. “È assurdo…”
“Esatto!” Esclamò Rintarou. “Massimo risultato con minimo sforzo. È strategia, mio caro Hans.”
“La musica è un’arte,” ribatté Goethe. “Le strategie lasciale agli uomini di guerra.”
Guerra.
Un’altra parola che riempiva la bocca di molti in Europa, in particolare negli ultimi due anni. Era anche per sfuggire un po’ a quella promessa di morte e distruzione che aleggiava su tutti loro che George aveva invitato tutti i rampolli di un’élite di dotati di abilità a rifugiarsi nella sua villa, lontano dalle regole del mondo.
Una parentesi ricreativa di cui uomini d’onore come Johann Goethe potevano godere solo a metà. Rintarou però l’aveva disprezzata apertamente.
George fece per chiedergli il motivo per cui non si era unito alla baldoria. Che cosa lo aveva infastidito tanto da spingerlo a rifugiarsi in camera sua?
Non ne ebbe il tempo.
“Hans…” La voce di Rintarou spezzò il silenzio. “Suoniamo qualcosa?”
Goethe allontanò dalle labbra la sua tazza di caffè. Impiegò poco più di un istante a poggiarla sul pianoforte, accanto a quella del giovane dai capelli corvini.
George rimase dov’era, dimenticato - di nuovo. Per nulla pronto a demordere, fece per aprire bocca. Gli occhi scuri del giovane di Yokohama a stento lo avevano degnato di uno sguardo e la cosa lo irritava.
Rintarou aveva avuto l’insolenza di attirare la sua attenzione e George Gordon Byron non poteva soprassedere sulla cosa.
Furono proprio quegli occhi a zittirlo e non dovettero neanche guardarlo per avere un simile potere. La musica tornò a riempire la stanza, Goethe attaccò la melodia - a George sfuggì completamente il nome del pezzo - Rintarou lo seguì e lo sguardo che si scambiarono in quel momento raccontò più di un romanzo di mille pagine.
Sconfitto, Lord Byron non poté fare altro che rimanere in silenzio.
Quando se ne andò, nessuno se ne accorse.



Ma nell’ipotesi e nel dubbio di aver disimparato tutto
E nell’ipotesi e nel dubbio che io mi sia perso
Che abbia lasciato distrattamente indietro un pezzo
Tu insegnami come si fa ad imparare la felicità
Per dimostrarti che se fossimo dei suoni, sarebbero canzoni
E se fossimo stagioni, verrebbe l’inverno
L’inverno dei fiori






-Yokohama, 15 anni dopo-


La luna era un enorme occhio dalle sfumature rossastre. Era piena e il suo bagliore soffocava quello di tutte le stelle, rendendo il cielo nero pece, come il mare che si estendeva oltre le luci del porto di Yokohama.
La città non dormiva, non lo faceva mai davvero.
Col favore delle tenebre, i Demoni uscivano allo scoperto e, nel buio, scrivevano una storia che non avrebbe conosciuto nessuno al di fuori di loro. Forse la gente comune poteva percepirli, intuire la loro presenza in una notizia catastrofica al telegiornale, ma non avrebbero mai scoperto il significato dietro la loro esistenza.
Il mondo non poteva essere buono, non era nella natura umana.
La pace assoluta era una mera utopia.
Il caos, invece, era una minaccia costante.
Per evitarlo, per riportare le cose al loro - seppur precario - equilibrio, un Demone s’innalzò su tutti gli altri per commettere un regicidio.
Nessuno indossava una corona in quella stanza, eppure il ragazzino aveva avuto l’impressione che ne fosse caduta una a terra, quando la gola del Boss era stata recisa. Era stato Mori Ougai, con le mani e il viso sporchi di sangue, a raccoglierla. Dazai Osamu pensò che fosse stato un altro sogno lucido dei suoi.
Quando il ragazzino allontanò l’unico occhio scoperto dalla luna rossa, tornando a essere presente a se stesso, la scena in quella camera da letto si era fatta notevolmente più affollata.
Il cadavere del Boss era stato spostato dal letto a una barella, dentro uno dei sacchi neri dell’obitorio.
“Causa della morte?” Domandò uno dei nuovi arrivati: un uomo dai capelli grigi, i baffi e un monocolo a coprirgli l’occhio destro. “La presenza di un testimone non è sufficiente, vorranno un’autopsia.”
“E gliela daremo,” disse Mori, come se fosse una cosa da poco. “Il suo stato fisico non era migliore di quello mentale. Sommiamo il tutto a un’età approssimativa sopra i sessantacinque anni e nessuno farà domande alla parola infarto.”
“Ha la gola recisa,” puntualizzò un secondo uomo estraneo a Dazai, dai lunghi capelli neri e con addosso un cappotto troppo pesante per l’aria di primavera.
“Ed è per questo che useremo immediatamente il forno crematorio nel sotterraneo,” disse Mori, lanciando un’occhiata critica agli schizzi di sangue sulla carta da parati. “Dove si stanno radunando gli altri Dirigenti?”
“Nella sala riunioni di questo edificio,” rispose l’uomo con il monocolo.
Mori annuì, soddisfatto. “Molto bene,” disse, “che nessuno salga a questo piano. Randou, usa l’ascensore privato per raggiungere l’obitorio e liberati immediatamente del cadavere. Penseremo noi a giustificare la tua assenza.”
“E il ragazzino?” Aggiunse l’uomo con il monocolo.
Mori si voltò verso Dazai lentamente, come se avesse ignorato la sua presenza di proposito fino a quel momento. “Vai, Randou,” ordinò all’uomo dai lunghi capelli neri.
Il movimento della barella provocò un rumore metallico, che nell’assoluto silenzio della stanza parve assordante. Dazai trasalì, ma non emise alcun verso. Non appena il cadavere fu fuori dalla stanza, l’atmosfera divenne improvvisamente più distesa.
Persino Mori lasciò andare un sospiro, come se si fosse liberato di un gran peso.
L’uomo col monocolo tirò fuori un fazzoletto dalla tasca interna della giacca e lo porse al medico. Mori lo ringraziò e se lo passò sul viso, ripulendosi dagli schizzi di sangue come poteva. “Temo ci sia poco da fare per questi vestiti,” disse, afferrando tra l’indice e il pollice il colletto del camicie non più bianco.
“Mi dia qualche minuto e le farò avere dei vestiti puliti,” disse l’uomo col monocolo.
“Efficiente come sempre, Hirotsu,” commentò Mori. “Se riuscissi a procurarmi anche un po’ di schiuma da barba e una lametta, meriteresti la poltrona da Dirigente molto più di un paio di persone che la occupano già.”
“Arriviamo vivi a domani, prima di parlare di promozioni,” disse Hirotsu, con fare pragmatico.
Mori accettò quella specie di rimprovero benevole con un sorriso. “Grazie della schiettezza.”
“Mi scusi se insisto, ma il ragazzino ha bisogno di qualcosa?” Domandò Hirotsu, tradendo una premura che non ci si sarebbe aspettati da una mafioso veterano.
Lo sguardo di Mori incrociò quello di Dazai. “No,” disse, sicuro. “Ci penso io.”
Hirotsu piegò la testa con rispetto. “Boss.” Si congedò.
Sorpreso da un brivido freddo che gli attraversava la schiena, Mori non lo guardò mentre usciva dalla camera da letto sporca di sangue. Una volta rimasto solo con Dazai, l’aria si fece più respirabile. “Bene…” Disse, senza una ragione precisa.
Il ragazzino continuò a essere una silenziosa e inquietante presenza nell’angolo.
Indeciso sul da farsi, il medico che aveva appena fatto di se stesso il nuovo Boss della Port Mafia esaurì la distanza tra sé e il suo piccolo complice. “Hai avuto paura?” Era una domanda legittima, ma fatta da chi lo aveva trascinato fino al covo dei Demoni con il preciso intento di renderlo testimone - e complice - di un omicidio suonava un po’ ridicolo.
Dazai scosse la testa. Il suo occhio scuro era un enorme pozzo nero, che a stento sembrava appartenere a una persona viva. Da parte sua, Mori non era né sorpreso né preoccupato: lo aveva saputo fin dall’inizio che il ragazzino non versava in uno stato psicologico ottimale. Se non avesse ammesso che quel dettaglio gli faceva comodo, avrebbe mentito.
“Ehi…” Mori usò di proposito un linguaggio informale, ma non avrebbe accettato altro silenzio come risposta. “Hai capito che cosa abbiamo appena fatto qui, vero?”
Hai ucciso il Boss della Port Mafia.” Furono le prime parole che pronunciò Dazai. Non tardò a sottolineare come i ruoli diversi che avevano avuto nella vicenda non presupponessero l’esistenza di alcun noi. “Io sono rimasto a guardare. Era quello che volevi, che guardassi.”
A Mori sfuggì un ghignetto divertito. “Te ne lavi subito le mani, eh?”
“No.” Dazai scosse la testa. “Ma anche se siamo insieme, siamo da soli, io e te.”
Gli angoli della bocca di Mori si abbassarono, mentre capiva l’antifona: erano complici nei fatti, ma non erano una squadra.
“Ti sei reso il Boss della Port Mafia,” concluse Dazai, senza nessuna particolare intonazione.
“E non ti ha fatto alcun effetto vedere un uomo venire ucciso in quel modo?” Indagò Mori. La sua era semplice curiosità.
Dazai scosse la testa una seconda volta. “No,” rispose. “Non credevo ci sarebbe stato tanto sangue.”
Eccolo lì, il guizzo di umanità in cui Mori aveva sperato. L’omicidio in sé non lo aveva disturbato, ma la quantità di sangue versato, sì.
“Era vecchio e rinsecchito, dove lo teneva tutto quel sangue?” Aggiunse Dazai.
Mori ridacchiò di tanta ingenuità. “Sai quanti litri di sangue può contenere il corpo di un uomo adulto?”
Non si aspettava una risposta, ma arrivò: “sei…”
“Vero.” Il medico annuì. “Ma non ci si rende conto di quanto sangue sia, fino a che non lo si vede schizzare da tutte le parti in pochi secondi.”
Dazai fissò l’unico occhio sano sulla carta da parati deturpata dalle macchie scure. “Non andrà mai via,” disse.
Mori scrollò le spalle. “Non sarà un problema,” replicò. “Puliremo quel che potremo, distruggeremo il resto e sigilleremo questo posto. Non ho intenzione di dormire nel letto di un morto.”
Quando Hirotsu tornò, lo fece con dei vestiti puliti e tutto l’occorrente perché Mori potesse radersi. Il medico non gli diede modo di entrare nella camera da letto una seconda volta. “Prepara tutto al piano di sotto,” ordinò sulla porta.
Dazai lo guardò attraversare la stanza con ampie falcate, fino a sparire nel bagno personale del Boss. Un fascio di luce bianca diede fine all’oscurità, che era stata padrona nella scena fino a quel momento.
Con passi lenti, Dazai si allontanò dalla finestra per osservare la scena all’interno della piccola stanza adiacente. Mori gli dava la schiena, il camice sporco di sangue giaceva a terra, insieme alla camicia e alla cravatta da quattro soldi. Il medico gli lanciò un’occhiata attraverso il grande specchio, gli rivolse un mezzo sorriso e tornò a fare quello che gli stava facendo.
Dazai ebbe tutto il tempo di notare le cicatrici che segnavano la pelle pallida dell’uomo. Ognuna di quelle antiche ferite raccontava una storia, ma Dazai nemmeno conosceva quella che aveva portato Mori a essere uno dei Cinque Dirigenti della Port Mafia e il medico personale del Boss appena morto.
Sì, era un medico e, sì, gli aveva salvato la vita. Da quello e divenire il suo primo scacco da giocare nella sua ascesa a Boss della Port Mafia ce ne passava.
“Che cosa c’è?” Lo sguardo di Dazai doveva aver messo Mori sotto pressione, perché aveva allontanato il viso dal lavandino e lo guardava con il viso per metà sporco di schiuma da barba.
Dazai strinse le labbra e si spostò a lato dell’uomo. Notò solo allora che si era legato i capelli corvini sulla nuca, forse per non bagnarli. “Fa male?” Domandò, dal nulla.
Gli occhi di Mori rifletterono la sua confusione. “Morire con la gola tagliata?” Ipotizzò. “In realtà, il sangue smette di arrivare al cervello molto velocemente e questo impedisce di elaborare qualsiasi-“
“No, intendevo radersi,” chiarì Dazai. “So di uomini che si feriscono, mentre lo fanno.”
Mori trovò qualche difficoltà nel mettere insieme le parole giuste per rispondere. Aveva appena reciso la gola di fronte a quel ragazzino, e Dazai dimostrava curiosità solo per il modo in cui si faceva la barba. Scosse la testa. “Ci si ferisce per distrazione,” spiegò Mori, non riusciva a quantificare quanto quella conversazione fosse fuori luogo. “Non fa male, guarda…” Passò la lametta sulla guancia destra, dove ancora c’era la schiuma da barba, poi la lavò sotto il getto dell’acqua.
Se non fosse stato per le gocce di sangue che correvano sulla superficie di ceramica bianca, verso lo scarico, sarebbero potuti assomigliare a un padre - molto giovane - che spiega a un figlio - troppo grande - come farsi la barba.
Dazai non fu impressionato dalla dimostrazione. Mori cominciò a porsi il dubbio di cosa volesse veramente da lui. “Ti piacerebbe?” Domandò.
“Cosa?”
“Farti crescere la barba… Per quanta barba si possa avere a quattordici anni.”
“Non posso,” replicò Dazai. “Lo sai. Mi hai tagliato i vestiti, hai visto il mio corpo.”
“Ti ho tagliato i vestiti perché avevi bisogno di cure mediche e c’era sangue d’appertutto.” Mori sentì la necessità di giustificarsi perché, in assenza di contesto, quel ragazzino non ci avrebbe messo molto a farlo passare da maniaco.
Assassino, era più che sufficiente. Era un’etichetta che gli apparteneva e non gli dava fastidio.
“E comunque esistono delle terapie ormonali,” aggiunse Mori. “Se desiderassi farti crescere la barba, intendo.”
“Non m’interessa,” disse Dazai, schietto. “Non ho mai voluto quel genere di cose. Sto bene così.” Sentire un ragazzino che aveva appena tentato il suicidio dire di stare bene suonava un tantino superbo, ma Mori non aveva tempo di duellare con quel pensiero, mentre aveva il sangue del vecchio Boss ancora addosso.
Lui e Dazai avrebbero avuto tutto il tempo del mondo per conoscersi, ora doveva solo preoccuparsi di portare entrambi fuori da quell’edificio sulle loro gambe e senza una condanna a morte a minacciarli.
Seguirono minuti di assoluto silenzio. L’occhio sano di Dazai studiava con meticolosità ogni suo movimento e Mori dovette ingoiare più volte la voglia di dargli uno schiaffo, ordinandogli di guardare altrove. Quello sguardo lo penetrava, esplorava le sue viscere e sembrava poter giudicare le azioni che aveva appena compiuto e anche quelle passate.
Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava.
Di colpo, il moccioso starnutì. Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss.
Brutto presagio.
“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”
Mori fece l’adulto, contò fino a dieci e si pulì il viso dalle ultime tracce di schiuma. “Aspettami di là,” disse, fermo.
Dazai non si mosse.
“Aspettami di là, ti ho detto,” ripeté Mori, guardandolo dritto in faccia.
Questa volta, Dazai gli ubbidì.




Quando entrarono in ascensore, Mori Ougai non assomigliava neanche a se stesso.
Non nel modo in cui Dazai lo aveva conosciuto.
L’uomo che indossava quel completo a tre pezzi nero, con i capelli acconciati sulla nuca e il viso perfettamente sbarbato non sembrava neanche il fratello gemello del medico arruffato da cui il Sensei lo aveva portato per salvargli la vita.
“Se continui a fissarmi, finirò per arrossire,” disse Mori, sarcastico, aggiustandosi i gemelli della giacca nera. Per rendere quell’immagine davvero perfetta, sarebbe servito un cappotto dello stesso colore. C’era ma era sulle spalle di Dazai e Mori non aveva accennato al fatto di volerlo indietro.
Il ragazzino portò l’unico occhio scoperto sulle porte scorrevoli dell’ascensore e queste si aprirono un istante dopo.
“Seguimi.” Mori lo precedette lungo il corridoio buio.
Dazai si assicurò di non restare mai a più di un passo di distanza da lui.
La porta della sala riunioni era già aperta e Hirotsu li aspettava sull’ingresso. “Gli altri stanno arrivando, Boss,” disse l’uomo. “Avete tutto il tempo di accomodarvi.”
Dazai comprese che l’uomo con il monocolo non si riferiva solo al nuovo leader della Port Mafia, ma anche a lui. “Vai avanti, coraggio.” Mori gli premette una mano tra le scapole, dandogli una spintarella perché fosse il primo ad entrare.
Il tavolo al centro della stanza era enorme, di forma ovale e di colore nero come il pavimento, in netto contrasto con le pareti rosse come il sangue. Cinque poltrone erano poste ai lati del mobile - tre a destra e due a sinistra - solo una era al suo vertice. Se la tavola fosse stata rotonda, come nelle antiche leggende anglosassoni che Dazai aveva conosciuto da bambino, avrebbe potuto suggerire una qualche idea di uguaglianza. Ma il messaggio che voleva dare quella stanza era molto chiaro: c’era un solo Re in quella corte e non era pari di nessuno dei suoi cinque Cavalieri.
Mori attraversò la stanza per allontanare la sedia al vertice dal tavolo nero. “Dazai, siediti.”
Il ragazzino rimase dov’era, fisso sulla porta.
Mori lo guardò. “Avanti,” batté la mano sullo schienale della poltrona. “Vieni qui.”
“Boss,” intervenne Hirotsu. “Con tutto il rispetto, non credo sia la circostanza giusta per-“
“Al contrario, è la circostanza migliore,” lo interruppe Mori, con un sorriso cortese. “Deve imparare e non gli daranno il tempo di farlo con calma, lo divoreranno prima. Dazai vieni qui.”
Il ragazzino non se lo fece ripetere una seconda volta. Non tentennò neppure nella sua marcia verso il posto del Boss della Port Mafia. Una volta seduto, Mori girò la poltrona verso il resto della stanza. Si chinò verso di lui. “Goditi lo spettacolo,” gli sussurrò all’orecchio.
Dazai non ebbe il tempo di fare domande.
Tre uomini, tutti e tre vestiti di nero ma con stili completamente diversi, entrarono nella sala in tutta fretta. Il più alto - forse anche il più vecchio - aveva le spalle larghe e due baffi grigi, simili a quelli di Hirotsu. Fece il suo ingresso in scena senza particolari scenate. Quando vide dove Dazai si era seduto, si limitò a lanciare a Mori un’occhiata eloquente. Fu il primo che il medico salutò: “Generale.”
“Dottore,” rispose questi.
“Non cominciare a ignorare la presenza di chi ti fa meno comodo, Mori!” Esclamò un uomo grasso, con le dita gonfie piene di anelli pacchiani. Se Dazai avesse potuto dire la sua, avrebbe detto che era quello che meglio incarnava l’immagine parodistica del malavitoso che apparteneva alle masse.
Chissà se era altrettanto stupido?
“Casinò, manteniamo la calma,” lo invitò Mori, con gentilezza.
Il viso dell’uomo grasso divenne paonazzo. “Chiamami col mio vero nome, se vuoi rivolgerti a me. Ti sarai anche tirato a lucido, ma sei e rimarrai sempre un cane del vecchio regime, rimasto randagio dopo il tradimento del proprio padre.”
Dazai corrugò la fronte, cercando di fare ordine tra quelle informazioni lanciate con tanta libertà, ma senza alcun criterio.
Mori non ne parve affatto toccato. “La mia poltrona da Dirigente non ti è mai andata a genio, Casinò,” disse, con un sospiro annoiato. “Immagino che ora avrai qualche difficoltà ad accettare gli ultimi eventi.”
“Gli ultimi eventi non hanno alcun senso né valore,” disse il terzo uomo, dalla corporatura simile a quella di un manico di scopa. Il suo occhio sinistro era andato, coperto da una benda nera, che lo faceva assomigliare a un pirata alla deriva, destinato a morire di fame.
Mori sgranò gli occhi, fingendosi sorpreso. “Credevo che il nostro buon vecchio Hirotsu avesse recapitato lo stesso messaggio a tutti.”
“Il Boss della Port Mafia è morto e, poco prima di spirare, ha scelto Mori Ougai come suo successore,” recitò l’uomo guercio. “Siamo tutti d’accordo che non possiamo dare alcun valore a questa decisione, sempre ammesso che sia stata fatta.”
“Per quale motivo, di grazia?” Domandò Mori, fingendosi ingenuo.
Dazai dovette trattenersi dall’alzare gli occhi al cielo: dovevano davvero recitare tutta quella scena tragi-comica per mettere Mori a capo della Port Mafia? Non potevano arrivare direttamente al dunque, in cui tutti s’inginocchiavano o si sparavano a vicenda? Cominciava ad annoiarsi e ad avere sonno. Forse anche fame.
“Non vi è un testamento!” Intervenne Casinò. “Nemmeno uno scarabocchio su un pezzo di carta, con firma e data, che possa provare che il vecchio pazzo avesse una simile intenzione!”
“Lo hai appena detto: era pazzo.” Il Generale era l’unico a non urlare e fu anche il solo a dirigersi verso la sua poltrona e accomodarsi. “Vi ho visti assecondare ordini di gran lunga più deliranti di questa decisione e ora fate appello al fatto che il vecchio non fosse in grado d’intendere e di volere da un pezzo? Perché non ammettete che vi faceva comodo dirigervi in autonomia la vostra fetta di Port Mafia, mentre il resto di Yokohama andava a ferro e fuoco per mano di un Boss folle e violento?”
Dazai non sapeva se il Generale fosse un loro complice, come lo erano Hirotsu e il Dirigente dai lunghi capelli neri, ma doveva ammettere che gli piaceva. Inoltre, il silenzio che calò dopo le sue parole, diede motivo a Dazai di pensare che fosse una personalità più influente del grasso e del secco che erano rimasti sulla porta.
“Mori, poche chiacchiere,” aggiunse il Generale con fare pragmatico, rivolgendosi al medico. “Dicci quello che devi dire.”
Mori scrollò le spalle. “Non ho molto d’aggiungere a quello che sapete già,” ammise.
“E io dovrei inchinarmi al figlio bastardo dei Mori, come nuovo Boss della Port Mafia?” Casinò puntò l’indice grassoccio in direzione del medico. “Giammai!”
Dazai si umettò le labbra: figlio bastardo dei Mori. Ecco un’altra informazione che avrebbe portato a casa, per usare dopo.
“Dove sono le prove?” Domandò il Guercio. “Dov’è il cadavere? Chi ci assicura che non ti sia liberato del vecchio Boss per ascendere al potere?”
Dazai non avrebbe scommesso un soldo bucato sull’intelligenza di quei due individui, ma bisognava essere molto stupidi per non avanzare delle obiezioni simili in quella situazione. Dubitava che la sua testimonianza potesse cambiare qualcosa, ma fece per aprire bocca e fare la sua parte. Se non ci fossero cascati e lo avessero trivellato di colpi, ne sarebbe stato felice comunque.
“Mi sono occupato del cadavere del Boss personalmente.” Randou fece la sua entrata in scena al momento giusto e andò a sedersi, come aveva fatto il Generale prima di lui. “È nei sotterranei, nell’obitorio. Mori eseguirà l'autopsia non appena avrà messo in chiaro le cose con tutti voi.”
“Oh, certo!” Esclamò Casinò. “Mori è lì per sentire le ultime volontà del vecchio! Mori è lì per eseguire l’autopsia! Tutto molto comodo!”
“Non mi sovviene che tu abbia una laurea in medicina,” intervenne il Generale, annoiato da quei discorsi.
“Possiamo pagare qualcuno che ce l’abbia per eseguire una vera autopsia!” Intervenne il Guercio.
Casinò non fu molto felice della proposta o, meglio, che non l’avesse avanzata lui. “Certo, pagalo tu, così domani magicamente sarai il nuovo erede legittimo al posto del cane,” indicò Mori.
“E come un’autopsia potrebbe cambiare le cose in mio favore?” Domandò il Guercio.
“Potresti farlo passare come un omicidio che non è,” ipotizzò Casinò. “Questo condannerebbe Mori a morte prima di subito e Randou dietro di lui, per aver disposto del cadavere e non essersi accorto di alcuna ferita!”
“E se Mori lo avesse avvelenato?” Propose il Generale. “È un medico. Se sa come salvare una vita, sa anche come stroncarla senza lasciare tracce. Non accusare Randou per liberarti di due potenziali nemici in un colpo solo.”
Mori non parlava più e Dazai alzò lo sguardo per studiare la sua espressione: era calmo, non lasciava trasparire né soddisfazione né turbamento. Guardandolo negli occhi, era impossibile capire se quella scena fosse parte del suo piano o meno.
“I veleni lasciano tracce,” insistette il Guercio. “Un vero medico saprà trovarle.”
“A diciotto anni combattevo in prima linea nella Grande Guerra, mentre almeno due di voi passavano il tempo a ubriacarsi nelle migliori case di piacere di Yokohama,” intervenne Mori, stringendo una spalla del ragazzino seduto al suo fianco. “Io sono un vero medico.”
Dazai avvertì che era stato toccato un nervo scoperto. Forse fu per quello che Mori cercò un contatto fisico con lui, per evitarsi di fare qualcosa d’impulsivo che potesse rovinare il piano. Non si lasciò sfuggire gli sguardi rispettosi che arrivarono sia da Randou che dal Generale.
“Guardateci,” disse quest’ultimo. “Un vecchio pazzo è morto e noi stiamo qui a litigare sul suo cadavere. Ridicolo.”
“Abbi rispetto per il nostro superiore deceduto!” Disse Casinò, così, puramente a caso.
“Nessuno di noi aveva il ben che minimo rispetto per lui!” Ribatté con forza il Generale. “Lo temevamo, certo, ma rispetto... Questa parola non ha alcuna valore pronunciata dalla bocca di voi due.” Indicò il grasso e poi il secco. “Guardate alle cose come stanno e non siate idioti. Potete accettare Mori come nuovo Boss della Port Mafia, prendendo per garanzia il suo nome e la famiglia da cui proviene, o potete cominciare una guerra civile qui e ora.”
“Se lo farete,” intervenne Randou. “L’intera Yokohama brucerà entro la fine dell’anno, poi il conflitto riguarderà l’intero paese. Nessuno qui è in grado di prevedere le conseguenze, ma alcuni di noi hanno già combattuto una guerra tra abilità su larga scala. Pensate bene a dove sta il maggior guadagno per voi, se fare appello alla ragionevolezza non basta.”
Messo con le spalle al muro, Casinò cominciò a battere i piedi per terra come un bambino capriccioso.
“E chi ci dice che Mori non abbia mentito?” Insistette il Guercio. “Era il solo in quella stanza. Nessun altro ha sentito.”
“Ho sentito io,” intervenne Dazai. Nessuno gli aveva fatto segnale di parlare, ma era certo che quello fosse il suo turno. “Ero nella camera da letto del Boss col Dirigente Mori,” elaborò. “Il Boss sembrava in preda al dolore, faceva fatica a respirare. Ero in piedi vicino a, letto quando ha detto: in seguito alla mia morte, Mori Ougai diverrà il Boss della Port Mafia. Dopodiché ha preso a rantolare ed è andato avanti così per un po’... Alla fine, c’è stato solo silenzio.”
Le dita di Mori che gli stringevano la spalla gli confermarono che aveva fatto un ottimo lavoro.
Casinò strabuzzò gli occhietti minuscoli. “Chi è questo moccioso?” Domandò, notandolo per la prima volta. “Da dove spunta fuori e perché è seduto al posto del Boss?”
“È il tuo piccolo bastardo, Mori?” Domandò il Guercio, con disgusto.
Mori simulò una risata. “No, è il mio giovane assistente.”
Alla parola assistente, Dazai lanciò un’occhiata al medico con la coda dell’occhio, senza muovere la testa.
“Il suo nome è Dazai Osamu,” aggiunse. “Ricordatevi di lui, lo vedrete qui in giro per un bel po’.”
Casinò era fuori di sé. “È sulle parole di un bambino che vogliamo fondare il prossimo futuro della Port Mafia?” Domandò, fuori di sé, il viso paonazzo.
“O questo o la promessa di morte e distruzione di cui abbiamo già discusso,” disse il Generale. “Per quanto mi riguarda, ho già fatto la mia scelta.” Si alzò in piedi e guardò Mori. “Il Boss è morto. Lunga vita al Boss.” Appoggiò un ginocchio a terra e chinò la testa in segno di rispetto.
Appena un istante dopo, Randou fece lo stesso. Messi alle strette, il grasso e il secco non ebbero altra scelta che imitare i due colleghi.
Sulla porta, Hirotsu si concesse un sorriso che vide solo Mori. “Il Boss è morto,” ripeté, inginocchiandosi a sua volta. “Lunga vita al Boss.”
Dazai si aggrappò con forza ai braccioli della poltrona, travolto dall’ondata di qualcosa a cui non seppe dare un nome ma era oscura, potente. Alzò l’unico occhio sano su Mori e questi gli rivolse un sorriso, poi gli diede un buffetto sulla guancia.
Dazai fu l’unico a non inginocchiarsi. Rimase a testa alta, seduto alla destra del nuovo Boss della Port Mafia.

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