Au clair de la lune
Feb. 14th, 2022 03:13 pmCow-T 12. First Week.
M1: Passato.
La luce dorata del primo pomeriggio entrava dall’unica finestra della piccola mansarda, illuminandola completamente. Fuori da quei vetri, Parigi era silenziosa, una città dai tetti tutti uguali, come ve ne erano tante nel mondo. Solo la Torre Eiffel, visibile in lontananza, interrompeva quel paesaggio quasi anonimo.
Era proprio per quella finestra che Paul aveva scelto quel luogo. E Arthur, come spesso accadeva, lo aveva accontentato.
Di notte, quando il cielo si faceva nero e le luci artificiali sfidavano la notte, la porzione di città incorniciata in quella vecchia struttura di legno, dai cardini cigolanti, diveniva un quadro da cui era difficile allontanare lo sguardo.
Ogni volta che ripensava alla sua Parigi, Paul Verlaine ricordava quella finestra, a come lo aveva fatto sentire umano, quando di ordinario sulla sua strada non vi era mai stato niente. Non aveva mai cercato un’esistenza fatta di piccole cose: era difficile immaginare di vivere una vita racchiusa in una semplice routine, quando Paul per natura andava contro la gravità stessa.
Eppure, una volta, per un momento di follia, l’aveva immaginata. Lontano da Parigi, dalle persone, ai confini del mondo.
Quei trentacinque metri quadri, contenuti in quattro mura e dal soffitto spiovente erano tutto quello che gli aveva concesso l’illusione di casa.
Paul non ricordava per quanto erano rimasti a vivere in quella mansarda - qualche mese, ma non sapeva dare un numero preciso: erano abituati a spostarsi in fretta - ma era stato l’ultimo luogo in cui lui e Arthur erano stati insieme, prima di Yokohama.
Era per questo che, ogni volta che chiudeva gli occhi, tornava lì.
E quel luogo, come se fosse un giardino perduto dell’Eden, diveniva il teatro di ogni sogno che non aveva osato confidare a nessuno, nemmeno ad Arthur.
“Au clair de la Lune. Mon ami Pierrot. Prête-moi ta plume. Pour écrire un mot.”
La giostrina continuava ruotare, nonostante la culla fosse vuota.
La ninna che riempiva la stanza non proveniva dal carillon, troppo usurato per continuare a cantare ancora, ma dalle labbra del giovane uomo steso sul divano.
I capelli lunghi gli ricadevano sulla spalla destra e un pugnetto paffuto era stretto sulle ciocche dorate. Il bambino accoccolato sul suo petto dormiva da un po’, ma Paul cantava ancora, accarezzando i capelli rossi già piuttosto folti.
“Ma chandelle est morte. Je n'ai plus de feu. Ouvre-moi ta porte. Pour l'amour de Dieu.”
Gli piaceva arricciare quei fili di rame intorno alla dita. Da quando si erano fatti più lunghi, alcuni riccioli erano spuntati alla base del collo del piccino. Chissà se, diventando grande, avrebbe avuto i capelli ondulati come Arthur?
Il respiro sereno della creatura addormentata gli solleticava il collo e le labbra di Paul erano piegate in un sorriso segreto, che nessuno - nemmeno il suo compagno - aveva mai visto. Avrebbe potuto usare tutte le poesie d’amore mai state scritte per descrivere il legame tra sé e Arthur.
Ma Chuuya era un’altra cosa.
Qualcosa di tanto forte da mettere in ombra il sentimento per l’uomo che gli aveva dato un nome, una vita e lo aveva reso una persona. A Chuuya era bastato esistere per avere quel potere. Perché ogni battito del cuore di quel bambino rassicurava Paul che non era solo a quel mondo, che aveva finalmente trovato quell’unica cosa che Arthur non era riuscito a dargli: la comprensione che può esistere solo tra due esseri simili.
Chuuya però non avrebbe sofferto quel che aveva sofferto lui. Paul lo avrebbe protetto, lo avrebbe guidato e lo avrebbe guardato camminare nel mondo, come ogni essere umano.
Anche se di umano avevano soltanto l’aspetto.
“Se continui di questo passo, finirai per viziarlo.”
Paul udì le parole di Arthur, prima di vederlo passare dietro al divano, per poi sparire verso l’angolo cottura. “Non ti ho sentito rientrare,” disse, cercando di sollevarsi senza svegliare il bambino addormentato.
“Stavi cantando,” rispose l’altro. “Eri distratto.” C’era una nota di rimprovero nella sua voce.
Una volta in piedi, Paul si ritrovò a fissare la sua schiena. “Se fosse stata una minaccia, me ne sarei accorto.”
Arthur gli lanciò un’occhiata veloce da sopra la spalla: stava tirando fuori da una busta di carta la loro cena di quella sera e alcune cose per il bambino. “Sicuro?”
Chuuya si lamentò nel sonno. Paul lo cullò contro la spalla, stando attento che non si mettesse i suoi capelli in bocca. “Ero certo che il mio periodo d’addestramento fosse terminato tempo fa,” disse, senza celare il sarcasmo. “Mi hanno insegnato bene il mio lavoro, sai? Ho imparato dal migliore.” Non era una lusinga, ma una frecciatina.
Arthur smise di fare quello che stava facendo per guardarlo apertamente in faccia. “Di questo passo, quel bambino ti farà uccidere,” disse, schietto.
Paul scrollò le spalle. “Sì, sono le conseguenze da mettere in conto quando si è una spia governativa e si tradisce la patria.”
“Parlo sul serio, Paul.”
“Non lo sto mettendo in dubbio.”
“Quando sei con quel bambino, il resto del mondo smette di esistere,” disse Arthur, critico. “Vuoi proteggerlo? Allora comportati come se volessi farlo.”
La voce con cui gli parlava era calma, ma Paul sentiva la rabbia tra le righe, la frustrazione per il guaio in cui li aveva cacciati entrambi - sempre ammesso che guaio fosse un termine esaustivo per riferirsi al tradimento della propria patria. Arthur aveva dedicato tutta la sua vita a servire il Governo, a cancellare le tracce di tutto quello che per i poteri alti era da considerare sbagliato.
Paul era uno di quegli sbagli.
Chuuya era uno di quegli sbagli.
Al primo era stata concessa una seconda possibilità per guadagno, non certo per gentilezza - a quella aveva sopperito Arthur - ma quel bambino meritava qualcosa di meglio del divenire un’arma.
“Pensavo di non essere da solo in questo,” disse Paul, guardando il faccino paffuto di Chuuya premuto contro la sua spalla. La boccuccia a cuore si era dischiusa nel sonno, rendendolo più adorabile di quanto già non fosse. Forse era vero che quella creatura era una distrazione pericolosa: sarebbe rimasto ore a guardarla.
“Mi sembra di essere qui, di fronte a te,” ribatté Arthur.
Paul sollevò gli occhi azzurri sul compagno. “Ma non vuoi esserci.”
“Ti sto proteggendo, Paul. Sto cercando un nuovo posto, uno più sicuro.”
“In campagna?” Domandò il biondo. “Lontano da tutti, come ti avevo detto?”
“Da quando ti conosco, non hai mai chiesto nulla. Ti ho regalato un cappello per il tuo compleanno e non ti è piaciuto,” gli ricordò Arthur. “Ora non fai che chiedere.”
Paul scrollò le spalle una seconda volta. “È umano avere desideri,” disse. “Continui a ripetere che lo sono, nonostante io ti dica di smetterla. Non puoi biasimarmi, se comincio a comportarmi come tale. Chi lo sa? Forse mi stai convincendo.” Posò un bacio sulla fronte di Chuuya. “Questo piccolino non dovrà vivere con la mia stessa maledizione.”
“Tu non sei maledetto, Paul,” disse Arthur, stancamente, come se stesse ripetendo quel ritornello da una vita intera. “Non puoi esserlo, non quando guardi il bambino in quel modo.”
Paul accennò un sorriso. “Ha un nome, ti ricordi? Si chiama Chuuya.”
Arthur sospirò. “Dio solo sa dove lo hai sentito.”
“Non sarebbe stato male Marie Cosette, ma vorrei evitare di farmi odiare in futuro. È nato a Yokohama, è giusto che abbia un nome che onori la sua terra.” Paul fece un paio di passi in avanti. “Vuoi tenerlo?”
“No.”
Paul sorresse la testolina del bambino e lo allontanò da sé. “Dai, Arthur.”
“Ho detto di no.”
Troppo tardi. Paul aveva messo il compagno in una condizione in cui il bambino sarebbe caduto a terra, se Arthur non si fosse deciso a prenderlo.
Chuuya non fu molto contento del cambio di braccia e non si fece scrupoli a farlo capire.
“Paul, riprendilo,” lo pregò Arthur, sporgendosi verso l’altro.
Il biondo lo accontento, deridendo la sua goffaggine senza malizia. “Dovrai farci l’abitudine, non compirà vent’anni domani.”
Un’ombra comparve nella periferia dello sguardo di Paul, in direzione della finestra. Si voltò e vedere il Demone vestito di nero gli spezzò il respiro. L’uomo incrociò il suo sguardo, ma non disse nulla.
“Paul, che ti prende?” Domandò Arthur. Lui non poteva vederlo.
Il Demone non disse nulla. Si limitò a sorridergli, poi infilò le mani nelle tasche del cappotto e attraversò la mansarda con passi cadenzati. Scomparve nell’angolo più buio della stanza, come se fosse divenuto un tutt’uno con le ombre.
“Paul?” Arthur gli afferrò la spalla per invitarlo a guardarlo di nuovo.
Nel farlo, Paul avvertì la spiacevole sensazione di cadere nel vuoto.
Quando Paul Verlaine si svegliò, era seduto sulla sua poltrona di vimini, al centro del salotto che costituiva il cuore della dimora sotterranea che la Port Mafia gli aveva concesso.
“Mi spiace averla svegliata, signor Verlaine,” disse un uomo dai capelli grigi, con un monocolo all’occhio destro. Hirotsu Ryuro, leader della Black Lizard, una delle poche persone che scendeva nei suoi appartamenti con regolarità. Paul lo conosceva bene perché la maggior parte dei ragazzini che addestrava erano sue proposte e, in seguito, alla fine dell’addestramento d’assassini, capitava spesso che tornassero sotto il suo comando. La loro era una relazione formale, di lavoro e nulla più.
Hirotsu non godeva certo della confidenza per entrare in casa sua senza permesso.
A meno che qualcuno dai piani alti non glielo avesse ordinato.
“È accaduto qualcosa?” Domandò Paul, senza muovere un muscolo.
Il veterano si permise di avvicinarsi di un paio di passi e posò una bottiglia di Romanée-Conti sul basso tavolino al centro della stanza. “Un omaggio da parte del Boss.”
Paul fissò la bottiglia come se potesse esplodere da un momento all’altro, disseminando schegge di vetro e spruzzando liquido scarlatto ovunque, come in una scena del crimine particolarmente pittoresca.
Non era un regalo. Era un messaggio in codice.
Paul sollevò gli occhi azzurri sul leader della Black Lizard. “Che cosa è successo a Chuuya?”
Hirotsu era stato preparato a rispondere a quella domanda. “Il Boss verrà presto a farle visita,” disse. “Sarà lui stesso a darle tutte le risposte di cui ha bisogno. Fino ad allora, si goda il vino.”
Paul non bevve neanche una goccia di quel Romanée-Conti. Nemmeno si preoccupò di spostare la bottiglia da dove Hirotsu l’aveva lasciata.
Mori Ougai si presentò nelle sue stanze cinque giorni dopo, vestito completamente di nero come nel suo sogno. “Verlaine.” Lo sorpreso che era occupato a leggere uno dei suoi libri di poesie, seduto sulla sua solita poltrona.
“Mori.” Salutò a sua volta, chiudendo il volumetto e lasciandolo sul tavolino che aveva davanti, accanto alla bottiglia di vino in toccata.
Il Boss si guardò intorno, fingendosi interessato all’arredamento. “Però…” Commentò tra sé e sé. “Voi francesi avete questo talento a rendere qualunque ambiente così accogliente.”
Paul non aveva preteso molto per la sua nuova dimora, ma aveva fatto in modo che quel luogo assomigliasse quanto più possibile a quella mansarda, che era stata l’ultima casa sua e di Arthur. Poco importava che fosse almeno tre volte più grande.
“Mi posso sedere?” Domandò Morì, indicando il divano dirimpetto alla poltrona del francese.
Paul non fece in tempo a rispondere che l’uomo vestito di nero si era già accomodato. Non poteva certo rimproverarlo per la sua sfacciataggine: se c’era un padrone di casa in quella stanza, quello non era di certo il francese.
Mori notò immediatamente la bottiglia di vino ancora sigillata e si corrucciò. “Non hai gradito il mio regalo?”
“Che cosa è successo a Chuuya?” Domandò Paul, diretto.
Mori non parve sorpreso. “Prevedibile,” mormorò. “Vorrà dire che, per questa volta soltanto, farò io gli onori di casa, ma sappi che non è mia abitudine.”
Paul lo guardò, mentre si dirigeva verso la cucina, come se abitasse quelle stanze e sapesse esattamente come muoversi. Tornò nel salotto con un cavatappi e due calici di vino. Il francese evitò di chiedersi come avesse trovato quei tre oggetti con tanta facilità, quando lui stesso non era certo di sapere dove fossero riposti.
“Dunque, dunque…” Mori stappò il Romanée-Conti e versò il vino rosso nei due calici. Ne prese uno per sé e tornò al suo posto. “Di cosa stavamo parlando?”
Il Boss della Port Mafia era un grande giocatore e Paul comprese immediatamente di essere appena diventato il suo giocattolo per il tempo di quella bevuta. Non molto tempo prima, il francese era stato un tipo combattivo - per non dire distruttivo - poi la morte lo aveva toccato e diversi aspetti della sua personalità si erano ridimensionati.
Quando la Port Mafia lo aveva accolto, era stato Paul a chiedere di rimanere isolato dal resto dell’organizzazione e dal mondo. Mori non lo aveva certo rinchiuso, come non gli aveva chiesto nulla, fino a che lui stesso non si era proposto di addestrare le nuove reclute per dare un senso al suo tempo. Nei quattro anni della sua nuova vita di semi-isolamento, Mori era sceso a parlare con lui più di una volta.
“Per fare conoscenza,” si era giustificato la prima volta.
Paul si era sorpreso di scoprire che era stato sincero.
Il lavoro era stata l’ultima cosa a entrare nelle loro conversazioni. Prima di tutto, Mori aveva notato i suoi libri, poi erano passati ai racconti sull’Europa e, alla fine, inevitabilmente, avevano parlato anche di Arthur e di Chuuya.
Paul poteva affermare che i rapporti tra lui e il Boss della Port Mafia erano civili. Di certo non erano intimi, ma trovavano la compagnia l’uno dell’altro interessante.
Questa volta era diverso e Paul non aveva alcuna fatica a intuire il perché, ma c’era un dettaglio che aveva bisogno di chiarire, prima che quel gioco iniziasse. “Quella non era la tua abilità,” disse.
Mori fece finta di non capire. “A cosa ti riferisci?”
“Sei stato bravo a nascondere le vere capacità di Vita Sexualis,” disse Paul, “ma sappiamo entrambi che non può permetterti di avere potere sulla mente delle persone.”
“Oh, certo!” Mori si stava prendendo gioco di lui apertamente. “Ti stai riferendo a quell’adorabile sogno in cui ti ho fatto visita.”
Paul Verlaine poteva essere l’ombra di se stesso, ma questo non significava che se ne sarebbe stato zitto a subire. “Non avevi alcun diritto…”
“No, in realtà era Chuuya a non avere alcun diritto di venire qui sotto a fare una confessione a cuore aperto,” ammise Mori, poi prese un sorso di vino. “Ma non posso infierire su di un ragazzino con il cuore spezzato, quindi vediamocela tra adulti. È più ragionevole.”
I fatti erano semplici: dal giorno in cui Paul era entrato nella Port Mafia, Chuuya lo aveva cercato due volte. La prima, quasi tre anni prima, si era presentato in compagnia di un mafioso di basso rango e lo aveva fatto nella speranza di ottenere da lui delle informazioni che lo aiutassero a salvare Dazai dal Marchese De Sade. La seconda visita era avvenuta un paio di settimane prima, subito dopo che Dazai aveva lasciato per sempre la Port Mafia, portando con sé il bambino avuto dal mafioso di basso grado della prima volta.
“Era distrutto,” commentò Paul, per giustificare la condotta del più giovane.
“È distrutto,” disse Mori, schietto, ingoiando il resto del suo vino in una sola sorsata. “Tu non bevi?” Aveva messo da parte la facciata amichevole per tradire un po’ del suo nervosismo.
Paul allungò la mano per afferrare il calice, ma non assaggiò il vino. “Perché sei qui, Mori?” Se dovevano vedersela tra adulti, tanto valeva essere diretti.
“Ho bisogno di sapere che cosa ti ha raccontato Chuuya, nei dettagli,” rispose il Boss. “E nel caso tu abbia dubbi, la mia non è una richiesta.”
Paul non aveva alcuna ragione per mentire. “Tutto. Mi ha raccontato tutto. Della Mimic, del ragazzo che hai mandato a morire e che si è rivelato essere l’amante di Dazai,” rispose. “Mi ha detto di come è sparito per una cinquantina di giorni, nascosto da un suo amico del Governo, che era un doppiogiochista della nostra intelligence, se ho capito bene. Mi ha parlato della licenza governativa, di come Dazai lo ha chiamato disperato perché pensava di star perdendo il suo bambino - di cui tu e lui, ovviamente, non sapevate nulla. Tutto il resto è stato un resoconto piuttosto straziante dei diciotto mesi successivi, o forse erano di più… Non ricordo.”
“Ah,” commentò Mori. “Ti ricordi tutto, tranne il numero dei mesi.”
Paul si decise a prendere un sorso di quel Romanée-Conti. “Sul serio, come sta?”
Mori inspirò dal naso e appoggiò le spalle allo schienale del divano. “Piange.”
Gli occhi azzurri del francese divennero grandi, allarmati. “Piange?”
“Non riesco a calmarlo,” ammise Mori. “Nemmeno Kouyou. È qualcosa fuori dalla nostra portata.”
“Non riesci a calmarlo o non riesci ad affrontarlo?” Paul appoggiò il calice sul tavolino e si alzò in piedi. “Lascia che gli parli.” Se il Boss della Port Mafia temeva di avvicinare Chuuya, non lo biasimava per la cautela: era difficile maneggiare una bomba atomica formato persona che affrontava le sue prime pene d’amore.
“Lo hai già fatto.” Mori lo rimise immediatamente al suo posto, sollevandosi a sua volta. “Per quanto possa suonare crudele, il cuore spezzato di Chuuya, in questo momento, non è la priorità.”
“Per te!” Ribatté Paul, a tono. “Non è Dazai quello che sta piangendo, quindi non c’è alcun bisogno di correre ai ripari, vero?”
“Siediti, Verlaine,” ordinò il Boss della Port Mafia, lapidario. “Ho detto che ne avremmo parlato tra adulti ragionevoli.”
Il francese inspirò profondamente dal naso e tornò al suo posto. Mori fece lo stesso.
“Si tratta del bambino, vero?” Domandò Paul. “È lui la tua priorità.”
L’altro fu bravo a evitare di ammettere di essere coinvolto. “È anche quella di Chuuya.”
“Sì, ma a che prezzo?”
Anche Mori abbandonò il calice vuoto sul tavolino. “Che immagine romantica…” Commentò.
Paul aveva perso il filo del discorso. “A cosa ti riferisci?”
“Alla mansarda a Parigi,” chiarì Mori. “Tu, Randou e il piccolo Chuuya, insieme contro il mondo. È questa la forma del tuo desiderio irrealizzabile?”
Paul strinse i braccioli della poltrona con rabbia. “È solo un sogno.” Sminuire ciò che di più prezioso gli era rimasto era il solo modo a sua disposizione per proteggersi.
“E nel tuo sogno vedi Chuuya come una creatura fragile, innocente, da proteggere?” Il sarcasmo nella voce di Mori era fastidioso. “Chuuya ha vent’anni, Verlaine. Si è fatto male, ha rischiato consapevolmente e ha perso. Si rialzerà e diventerà un adulto. Non mi preoccupo di questo.”
“Sì, si rialzerà,” convenne Paul. “Ma dopo che hai un bambino tra le braccia e decidi di proteggerlo, non lo dimentichi.”
“È proprio questo il punto ed il motivo per cui sono qui,” confessò Mori. “La sicurezza di quel bambino deve avere la priorità su tutto. È così per tutte le persone coinvolte, Chuuya compreso, e ora fai parte della storia anche tu.”
Paul si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo. “Non ho alcun interesse a uscire di qui. Come posso minacciare il bambino di Dazai?”
“Non temo che tu sia una minaccia,” chiarì Mori. “Devi solo sapere che, se la situazione lo richiedesse, la vita di quel bambino deve venire prima di qualsiasi cosa, compresa quella di Chuuya.”
Verlaine strinse la labbra, poi le piegò in un sorriso amaro. “Vedi una tempesta all’orizzonte, Mori?” Si sporse in avanti. “La temi?”
Il Boss della Port Mafia non rispose.
“No, penso che la tempesta per te sia appena passata,” aggiunse Paul. “L’hai provocata tu stesso e non hai saputo domarla.”
“Scegli con cura le tue prossime parole, Verlaine,” lo avvertì Mori.
“Come si chiama?”
“Eh?”
“Il bambino di Dazai,” specificò Paul. “Come si chiama?”
Mori fece una mezza smorfia, che non era per lui ma per la risposta che stava per dargli: “Sakunosuke,” disse. “Come suo padre.”
Paul non faceva alcuna fatica a immaginare che Dazai avesse fatto quella scelta solo per fare un dispetto al suo mentore. O forse il suo era solo sincero amore nei confronti dell’uomo che aveva perso e da cui aveva avuto un figlio. Chi poteva saperlo? Laggiù, dalle sue parti, non arrivavano grandi notizie, figurarsi quelle che sfuggivano al Boss stesso.
“L’ho incontrato, una volta,” ammise Paul.
Per la prima volta da quando era entrato nei suoi appartamenti, il viso di Mori si animò di un’espressione sincera. “Quando?”
“Quando Chuuya si è messo a investigare sul Marchese De Sade per conto suo,” raccontò il francese. “Tu lo avevi messo da parte e lui ti ha disubbidito, cercando informazioni da me.”
“Questo fatto lo ricordo, ma nessuno mi fece il nome di Oda Sakunosuke all’epoca.”
Ricordare le persone era un’altra deformazione professionale di Paul. “Alto, capelli rossi, ma più scuri di quelli di Chuuya,” lo descrisse, tanto per assicurarsi che stessero parlando della stessa persona. “Occhi azzurri e-“
“Sì, sì, bello, perfetto, un balsamo per l’anima,” lo interruppe Mori, spazientito.
Paul inarcò le sopracciglia. “Chi lo ha definito balsamo per l’anima?”
“Lascia perdere. Sto facendo i conti col fatto che tutta la Port Mafia ha notato Oda Sakunosuke prima di me.”
“Balsamo per l’anima. È piuttosto poetico.” Paul ebbe difficoltà a immaginare Dazai descrivere una persona con simili parole, ma chi altro avrebbe mai potuto pronunciarle per causare una tale reazione nel Boss della Port Mafia?
“Sì e ne ho abbastanza di poeti nella mia vita.” Mori si era lasciato prendere dai nervi nel sentir nominare l’amante del suo pupillo e questo lo aveva fatto sbottonare un po’, quanto bastò al francese per avere un’intuizione.
Paul abbassò lo sguardo, concedendosi un paio d’istanti per riflettere su quella ipotesi. “Ho passato gli ultimi giorni a chiedermi chi nella Port Mafia avesse il potere d’interferire con i sogni.” Riportò gli occhi azzurri su quelli scuri dell’uomo vestito di nero. “La mia è stata una visione limitata. Nessuno nella Port Mafia ha un tale potere, ma un poeta del tuo passato sì.”
Mori non si scompose, forse non era nemmeno sorpreso dalla piega che stava prendendo quella loro conversazione.
“Non facevo ancora parte del mondo dello spionaggio, quando tu e Johann Goethe eravate sulla bocca di tutta Europa,” ammise Paul. “Ma ci sono una serie infinita di Dossier su di voi, sulla tremenda scomparsa del Generale Jünger e sull’arma di Weimar.”
Mori fu bravo a non tradire nulla, ma Paul era una spia ed era sempre stato bravo nel suo lavoro. Non si era guadagnato la fama di Re degli Assassini per niente e sapeva riconoscere quando una persona si sentiva minacciata.
Mori Ougai era un predatore e non era abituato a interpretare quella parte, non da quando aveva lasciato Rintarou morire in Germania.
Paul decise di osare, di riportare alla luce una parte di sé che aveva a lungo taciuto. “ “19 Giugno,” disse, come se quella data avesse lo stesso peso di un segreto di stato. “È una data molto precisa ed è ripetuta diverse volte nei fascicoli europei riguardo Mori Rintarou.” Paul annuì un paio di volte. “19 Giugno,” ripeté, come se stesse rigirando il coltello nella piaga. “I compleanni sono importanti e ti sei preoccupato di festeggiare quel giorno ogni anno, fino all’incidente con la Mimic. Poco importava che Dazai ne fosse infastidito.”
“Sii chiaro,” ordinò Mori. “Smettila di giocare.”
Certo, tutto il divertimento decadeva nel momento in cui non era il padrone di casa a decidere le regole.
“Ci sono coincidenze troppo strane per essere davvero tali. Il 19 Giugno è solo la più evidente.”
“Sii chiaro, ho detto.”
“So che cos’è Dazai per te,” disse. “È la stessa cosa che Chuuya è per me.”
“No.” Mori scosse la testa, rifiutandosi di accettare quel punto di vista. “Dazai non è un bel sogno che faccio per consolare me stesso.”
“Non ha importanza. Ti ha rifiutato, come Chuuya ha rifiutato me. Entrambi abbiamo commesso lo stesso errore: uccidere ciò che amavano nella speranza che si legassero più a noi. Perché era questo il piano, vero? Togliere a Dazai ciò che lo faceva sentire umano e che, quindi, lo portava lontano da te.”
Mori chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, come se stesse cercando la pazienza per ripetere una cosa per la centesima volta. “Ho fatto quel che andava fatto per la Port Mafia.”
“E ora un bambino che non sarebbe mai dovuto nascere è venuto al mondo senza padre,” concluse Paul. “Quante volte dovremmo ripetere gli stessi errori?”
“Qui nessuno ha detto che quel bambino non sarebbe mai dovuto nascere,” ribatté Mori.
“Forse, ma lui la penserà allo stesso modo, quando conoscerà il peso della propria storia?”
“Non è una storia peggiore di altre.”
“Nemmeno quella di Elise Mori-Goethe lo è.” Eccolo lì, Paul Verlaine, spia del Governo francese, Re degli Assassini. “Eppure a Dazai non l’hai mai raccontata.”
Mori incassò il colpo da maestro. “Se tutto fosse andato secondo i piani, tu non avresti raccontato a Chuuya delle sue origini.”
“È una storia diversa,” ribatté Paul. “È difficile spiegare a un bambino che non ci sono due genitori dietro la tua nascita. La tua, a confronto, è una storia piuttosto banale. Perdonami, c’è una cosa che non riesco a capire: tu sei vivo, Johann Goethe è vivo e Dazai è vivo e c’è un muro a dividervi tutti e tre. Mori Rintarou ha perso tutto quello che aveva perché era giovane, non era preparato o abbastanza forte per proteggerlo. Mori Ougai ha sia l’esperienza che il potere… Eppure non fai niente per avere ciò che desideri realmente.”
Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso diabolico. “E tu pensi di sapere cosa desidero io?”
Paul scrollò le spalle. “Io so che tenevo Chuuya in spalla e ho messo in discussione tutto, compresa la persona che mi aveva dato tutto, pur di garantirgli un futuro migliore del mio passato,” disse. “Elise, la bambina della tua storia, l’hai portata in grembo, l’hai messa al mondo e l’hai cresciuta, fino a che non te l’hanno portata via. Io ho sempre avuto difficoltà a sentirmi umano, ma tu esattamente che cosa sei?”
Mori non aveva una risposta da dargli e Paul non se l’aspettava.
La loro conversazione poteva dirsi conclusa. Anzi, forse si era protratta troppo oltre.
“Non preoccuparti per Chuuya,” disse il Boss della Port Mafia, alzandosi in piedi. “Posso aver commesso i miei errori con Dazai, ma non accadrà con lui. E non temere: non l’ho mai sottratto a te e non è mia intenzione farlo ora. È libero di vederti quando preferisce. Il mio compito era chiarire il ruolo di tutti in questa storia.”
Paul si sollevò dalla poltrona di vimini. “Chuuya non è tuo. Non importa quante volte s’inginocchierà al tuo cospetto o ti dimostrerà la sua lealtà. Lui non ti apparterrà mai, non ne nel modo in cui desideri. La sua presenza non basterà a sostituire quello che hai perso. Quel vuoto sarà sempre lì, a tormentarti fino alla fine dei tuoi giorni.” Gli occhi azzurri si tinsero di malinconia. “E io condividerò il tuo stesso destino.”
Mori Ougai non si adirò per la sua sincerità. Al contrario, fece una cosa del tutto inaspettata: si avvicinò al tavolino, si versò dell’altro vino e alzò il calice, come per fare un brindisi solitario.
“In questo specifico caso, non posso far altro che darti completamente ragione,” ammise e bevve un sorso. “Se Chuuya è mai appartenuto a qualcuno, quel qualcuno è Dazai. E io e te, mio caro Paul Verlaine, non riusciremo mai ad accettarlo.”
M1: Passato.
La luce dorata del primo pomeriggio entrava dall’unica finestra della piccola mansarda, illuminandola completamente. Fuori da quei vetri, Parigi era silenziosa, una città dai tetti tutti uguali, come ve ne erano tante nel mondo. Solo la Torre Eiffel, visibile in lontananza, interrompeva quel paesaggio quasi anonimo.
Era proprio per quella finestra che Paul aveva scelto quel luogo. E Arthur, come spesso accadeva, lo aveva accontentato.
Di notte, quando il cielo si faceva nero e le luci artificiali sfidavano la notte, la porzione di città incorniciata in quella vecchia struttura di legno, dai cardini cigolanti, diveniva un quadro da cui era difficile allontanare lo sguardo.
Ogni volta che ripensava alla sua Parigi, Paul Verlaine ricordava quella finestra, a come lo aveva fatto sentire umano, quando di ordinario sulla sua strada non vi era mai stato niente. Non aveva mai cercato un’esistenza fatta di piccole cose: era difficile immaginare di vivere una vita racchiusa in una semplice routine, quando Paul per natura andava contro la gravità stessa.
Eppure, una volta, per un momento di follia, l’aveva immaginata. Lontano da Parigi, dalle persone, ai confini del mondo.
Quei trentacinque metri quadri, contenuti in quattro mura e dal soffitto spiovente erano tutto quello che gli aveva concesso l’illusione di casa.
Paul non ricordava per quanto erano rimasti a vivere in quella mansarda - qualche mese, ma non sapeva dare un numero preciso: erano abituati a spostarsi in fretta - ma era stato l’ultimo luogo in cui lui e Arthur erano stati insieme, prima di Yokohama.
Era per questo che, ogni volta che chiudeva gli occhi, tornava lì.
E quel luogo, come se fosse un giardino perduto dell’Eden, diveniva il teatro di ogni sogno che non aveva osato confidare a nessuno, nemmeno ad Arthur.
“Au clair de la Lune. Mon ami Pierrot. Prête-moi ta plume. Pour écrire un mot.”
La giostrina continuava ruotare, nonostante la culla fosse vuota.
La ninna che riempiva la stanza non proveniva dal carillon, troppo usurato per continuare a cantare ancora, ma dalle labbra del giovane uomo steso sul divano.
I capelli lunghi gli ricadevano sulla spalla destra e un pugnetto paffuto era stretto sulle ciocche dorate. Il bambino accoccolato sul suo petto dormiva da un po’, ma Paul cantava ancora, accarezzando i capelli rossi già piuttosto folti.
“Ma chandelle est morte. Je n'ai plus de feu. Ouvre-moi ta porte. Pour l'amour de Dieu.”
Gli piaceva arricciare quei fili di rame intorno alla dita. Da quando si erano fatti più lunghi, alcuni riccioli erano spuntati alla base del collo del piccino. Chissà se, diventando grande, avrebbe avuto i capelli ondulati come Arthur?
Il respiro sereno della creatura addormentata gli solleticava il collo e le labbra di Paul erano piegate in un sorriso segreto, che nessuno - nemmeno il suo compagno - aveva mai visto. Avrebbe potuto usare tutte le poesie d’amore mai state scritte per descrivere il legame tra sé e Arthur.
Ma Chuuya era un’altra cosa.
Qualcosa di tanto forte da mettere in ombra il sentimento per l’uomo che gli aveva dato un nome, una vita e lo aveva reso una persona. A Chuuya era bastato esistere per avere quel potere. Perché ogni battito del cuore di quel bambino rassicurava Paul che non era solo a quel mondo, che aveva finalmente trovato quell’unica cosa che Arthur non era riuscito a dargli: la comprensione che può esistere solo tra due esseri simili.
Chuuya però non avrebbe sofferto quel che aveva sofferto lui. Paul lo avrebbe protetto, lo avrebbe guidato e lo avrebbe guardato camminare nel mondo, come ogni essere umano.
Anche se di umano avevano soltanto l’aspetto.
“Se continui di questo passo, finirai per viziarlo.”
Paul udì le parole di Arthur, prima di vederlo passare dietro al divano, per poi sparire verso l’angolo cottura. “Non ti ho sentito rientrare,” disse, cercando di sollevarsi senza svegliare il bambino addormentato.
“Stavi cantando,” rispose l’altro. “Eri distratto.” C’era una nota di rimprovero nella sua voce.
Una volta in piedi, Paul si ritrovò a fissare la sua schiena. “Se fosse stata una minaccia, me ne sarei accorto.”
Arthur gli lanciò un’occhiata veloce da sopra la spalla: stava tirando fuori da una busta di carta la loro cena di quella sera e alcune cose per il bambino. “Sicuro?”
Chuuya si lamentò nel sonno. Paul lo cullò contro la spalla, stando attento che non si mettesse i suoi capelli in bocca. “Ero certo che il mio periodo d’addestramento fosse terminato tempo fa,” disse, senza celare il sarcasmo. “Mi hanno insegnato bene il mio lavoro, sai? Ho imparato dal migliore.” Non era una lusinga, ma una frecciatina.
Arthur smise di fare quello che stava facendo per guardarlo apertamente in faccia. “Di questo passo, quel bambino ti farà uccidere,” disse, schietto.
Paul scrollò le spalle. “Sì, sono le conseguenze da mettere in conto quando si è una spia governativa e si tradisce la patria.”
“Parlo sul serio, Paul.”
“Non lo sto mettendo in dubbio.”
“Quando sei con quel bambino, il resto del mondo smette di esistere,” disse Arthur, critico. “Vuoi proteggerlo? Allora comportati come se volessi farlo.”
La voce con cui gli parlava era calma, ma Paul sentiva la rabbia tra le righe, la frustrazione per il guaio in cui li aveva cacciati entrambi - sempre ammesso che guaio fosse un termine esaustivo per riferirsi al tradimento della propria patria. Arthur aveva dedicato tutta la sua vita a servire il Governo, a cancellare le tracce di tutto quello che per i poteri alti era da considerare sbagliato.
Paul era uno di quegli sbagli.
Chuuya era uno di quegli sbagli.
Al primo era stata concessa una seconda possibilità per guadagno, non certo per gentilezza - a quella aveva sopperito Arthur - ma quel bambino meritava qualcosa di meglio del divenire un’arma.
“Pensavo di non essere da solo in questo,” disse Paul, guardando il faccino paffuto di Chuuya premuto contro la sua spalla. La boccuccia a cuore si era dischiusa nel sonno, rendendolo più adorabile di quanto già non fosse. Forse era vero che quella creatura era una distrazione pericolosa: sarebbe rimasto ore a guardarla.
“Mi sembra di essere qui, di fronte a te,” ribatté Arthur.
Paul sollevò gli occhi azzurri sul compagno. “Ma non vuoi esserci.”
“Ti sto proteggendo, Paul. Sto cercando un nuovo posto, uno più sicuro.”
“In campagna?” Domandò il biondo. “Lontano da tutti, come ti avevo detto?”
“Da quando ti conosco, non hai mai chiesto nulla. Ti ho regalato un cappello per il tuo compleanno e non ti è piaciuto,” gli ricordò Arthur. “Ora non fai che chiedere.”
Paul scrollò le spalle una seconda volta. “È umano avere desideri,” disse. “Continui a ripetere che lo sono, nonostante io ti dica di smetterla. Non puoi biasimarmi, se comincio a comportarmi come tale. Chi lo sa? Forse mi stai convincendo.” Posò un bacio sulla fronte di Chuuya. “Questo piccolino non dovrà vivere con la mia stessa maledizione.”
“Tu non sei maledetto, Paul,” disse Arthur, stancamente, come se stesse ripetendo quel ritornello da una vita intera. “Non puoi esserlo, non quando guardi il bambino in quel modo.”
Paul accennò un sorriso. “Ha un nome, ti ricordi? Si chiama Chuuya.”
Arthur sospirò. “Dio solo sa dove lo hai sentito.”
“Non sarebbe stato male Marie Cosette, ma vorrei evitare di farmi odiare in futuro. È nato a Yokohama, è giusto che abbia un nome che onori la sua terra.” Paul fece un paio di passi in avanti. “Vuoi tenerlo?”
“No.”
Paul sorresse la testolina del bambino e lo allontanò da sé. “Dai, Arthur.”
“Ho detto di no.”
Troppo tardi. Paul aveva messo il compagno in una condizione in cui il bambino sarebbe caduto a terra, se Arthur non si fosse deciso a prenderlo.
Chuuya non fu molto contento del cambio di braccia e non si fece scrupoli a farlo capire.
“Paul, riprendilo,” lo pregò Arthur, sporgendosi verso l’altro.
Il biondo lo accontento, deridendo la sua goffaggine senza malizia. “Dovrai farci l’abitudine, non compirà vent’anni domani.”
Un’ombra comparve nella periferia dello sguardo di Paul, in direzione della finestra. Si voltò e vedere il Demone vestito di nero gli spezzò il respiro. L’uomo incrociò il suo sguardo, ma non disse nulla.
“Paul, che ti prende?” Domandò Arthur. Lui non poteva vederlo.
Il Demone non disse nulla. Si limitò a sorridergli, poi infilò le mani nelle tasche del cappotto e attraversò la mansarda con passi cadenzati. Scomparve nell’angolo più buio della stanza, come se fosse divenuto un tutt’uno con le ombre.
“Paul?” Arthur gli afferrò la spalla per invitarlo a guardarlo di nuovo.
Nel farlo, Paul avvertì la spiacevole sensazione di cadere nel vuoto.
Quando Paul Verlaine si svegliò, era seduto sulla sua poltrona di vimini, al centro del salotto che costituiva il cuore della dimora sotterranea che la Port Mafia gli aveva concesso.
“Mi spiace averla svegliata, signor Verlaine,” disse un uomo dai capelli grigi, con un monocolo all’occhio destro. Hirotsu Ryuro, leader della Black Lizard, una delle poche persone che scendeva nei suoi appartamenti con regolarità. Paul lo conosceva bene perché la maggior parte dei ragazzini che addestrava erano sue proposte e, in seguito, alla fine dell’addestramento d’assassini, capitava spesso che tornassero sotto il suo comando. La loro era una relazione formale, di lavoro e nulla più.
Hirotsu non godeva certo della confidenza per entrare in casa sua senza permesso.
A meno che qualcuno dai piani alti non glielo avesse ordinato.
“È accaduto qualcosa?” Domandò Paul, senza muovere un muscolo.
Il veterano si permise di avvicinarsi di un paio di passi e posò una bottiglia di Romanée-Conti sul basso tavolino al centro della stanza. “Un omaggio da parte del Boss.”
Paul fissò la bottiglia come se potesse esplodere da un momento all’altro, disseminando schegge di vetro e spruzzando liquido scarlatto ovunque, come in una scena del crimine particolarmente pittoresca.
Non era un regalo. Era un messaggio in codice.
Paul sollevò gli occhi azzurri sul leader della Black Lizard. “Che cosa è successo a Chuuya?”
Hirotsu era stato preparato a rispondere a quella domanda. “Il Boss verrà presto a farle visita,” disse. “Sarà lui stesso a darle tutte le risposte di cui ha bisogno. Fino ad allora, si goda il vino.”
Paul non bevve neanche una goccia di quel Romanée-Conti. Nemmeno si preoccupò di spostare la bottiglia da dove Hirotsu l’aveva lasciata.
Mori Ougai si presentò nelle sue stanze cinque giorni dopo, vestito completamente di nero come nel suo sogno. “Verlaine.” Lo sorpreso che era occupato a leggere uno dei suoi libri di poesie, seduto sulla sua solita poltrona.
“Mori.” Salutò a sua volta, chiudendo il volumetto e lasciandolo sul tavolino che aveva davanti, accanto alla bottiglia di vino in toccata.
Il Boss si guardò intorno, fingendosi interessato all’arredamento. “Però…” Commentò tra sé e sé. “Voi francesi avete questo talento a rendere qualunque ambiente così accogliente.”
Paul non aveva preteso molto per la sua nuova dimora, ma aveva fatto in modo che quel luogo assomigliasse quanto più possibile a quella mansarda, che era stata l’ultima casa sua e di Arthur. Poco importava che fosse almeno tre volte più grande.
“Mi posso sedere?” Domandò Morì, indicando il divano dirimpetto alla poltrona del francese.
Paul non fece in tempo a rispondere che l’uomo vestito di nero si era già accomodato. Non poteva certo rimproverarlo per la sua sfacciataggine: se c’era un padrone di casa in quella stanza, quello non era di certo il francese.
Mori notò immediatamente la bottiglia di vino ancora sigillata e si corrucciò. “Non hai gradito il mio regalo?”
“Che cosa è successo a Chuuya?” Domandò Paul, diretto.
Mori non parve sorpreso. “Prevedibile,” mormorò. “Vorrà dire che, per questa volta soltanto, farò io gli onori di casa, ma sappi che non è mia abitudine.”
Paul lo guardò, mentre si dirigeva verso la cucina, come se abitasse quelle stanze e sapesse esattamente come muoversi. Tornò nel salotto con un cavatappi e due calici di vino. Il francese evitò di chiedersi come avesse trovato quei tre oggetti con tanta facilità, quando lui stesso non era certo di sapere dove fossero riposti.
“Dunque, dunque…” Mori stappò il Romanée-Conti e versò il vino rosso nei due calici. Ne prese uno per sé e tornò al suo posto. “Di cosa stavamo parlando?”
Il Boss della Port Mafia era un grande giocatore e Paul comprese immediatamente di essere appena diventato il suo giocattolo per il tempo di quella bevuta. Non molto tempo prima, il francese era stato un tipo combattivo - per non dire distruttivo - poi la morte lo aveva toccato e diversi aspetti della sua personalità si erano ridimensionati.
Quando la Port Mafia lo aveva accolto, era stato Paul a chiedere di rimanere isolato dal resto dell’organizzazione e dal mondo. Mori non lo aveva certo rinchiuso, come non gli aveva chiesto nulla, fino a che lui stesso non si era proposto di addestrare le nuove reclute per dare un senso al suo tempo. Nei quattro anni della sua nuova vita di semi-isolamento, Mori era sceso a parlare con lui più di una volta.
“Per fare conoscenza,” si era giustificato la prima volta.
Paul si era sorpreso di scoprire che era stato sincero.
Il lavoro era stata l’ultima cosa a entrare nelle loro conversazioni. Prima di tutto, Mori aveva notato i suoi libri, poi erano passati ai racconti sull’Europa e, alla fine, inevitabilmente, avevano parlato anche di Arthur e di Chuuya.
Paul poteva affermare che i rapporti tra lui e il Boss della Port Mafia erano civili. Di certo non erano intimi, ma trovavano la compagnia l’uno dell’altro interessante.
Questa volta era diverso e Paul non aveva alcuna fatica a intuire il perché, ma c’era un dettaglio che aveva bisogno di chiarire, prima che quel gioco iniziasse. “Quella non era la tua abilità,” disse.
Mori fece finta di non capire. “A cosa ti riferisci?”
“Sei stato bravo a nascondere le vere capacità di Vita Sexualis,” disse Paul, “ma sappiamo entrambi che non può permetterti di avere potere sulla mente delle persone.”
“Oh, certo!” Mori si stava prendendo gioco di lui apertamente. “Ti stai riferendo a quell’adorabile sogno in cui ti ho fatto visita.”
Paul Verlaine poteva essere l’ombra di se stesso, ma questo non significava che se ne sarebbe stato zitto a subire. “Non avevi alcun diritto…”
“No, in realtà era Chuuya a non avere alcun diritto di venire qui sotto a fare una confessione a cuore aperto,” ammise Mori, poi prese un sorso di vino. “Ma non posso infierire su di un ragazzino con il cuore spezzato, quindi vediamocela tra adulti. È più ragionevole.”
I fatti erano semplici: dal giorno in cui Paul era entrato nella Port Mafia, Chuuya lo aveva cercato due volte. La prima, quasi tre anni prima, si era presentato in compagnia di un mafioso di basso rango e lo aveva fatto nella speranza di ottenere da lui delle informazioni che lo aiutassero a salvare Dazai dal Marchese De Sade. La seconda visita era avvenuta un paio di settimane prima, subito dopo che Dazai aveva lasciato per sempre la Port Mafia, portando con sé il bambino avuto dal mafioso di basso grado della prima volta.
“Era distrutto,” commentò Paul, per giustificare la condotta del più giovane.
“È distrutto,” disse Mori, schietto, ingoiando il resto del suo vino in una sola sorsata. “Tu non bevi?” Aveva messo da parte la facciata amichevole per tradire un po’ del suo nervosismo.
Paul allungò la mano per afferrare il calice, ma non assaggiò il vino. “Perché sei qui, Mori?” Se dovevano vedersela tra adulti, tanto valeva essere diretti.
“Ho bisogno di sapere che cosa ti ha raccontato Chuuya, nei dettagli,” rispose il Boss. “E nel caso tu abbia dubbi, la mia non è una richiesta.”
Paul non aveva alcuna ragione per mentire. “Tutto. Mi ha raccontato tutto. Della Mimic, del ragazzo che hai mandato a morire e che si è rivelato essere l’amante di Dazai,” rispose. “Mi ha detto di come è sparito per una cinquantina di giorni, nascosto da un suo amico del Governo, che era un doppiogiochista della nostra intelligence, se ho capito bene. Mi ha parlato della licenza governativa, di come Dazai lo ha chiamato disperato perché pensava di star perdendo il suo bambino - di cui tu e lui, ovviamente, non sapevate nulla. Tutto il resto è stato un resoconto piuttosto straziante dei diciotto mesi successivi, o forse erano di più… Non ricordo.”
“Ah,” commentò Mori. “Ti ricordi tutto, tranne il numero dei mesi.”
Paul si decise a prendere un sorso di quel Romanée-Conti. “Sul serio, come sta?”
Mori inspirò dal naso e appoggiò le spalle allo schienale del divano. “Piange.”
Gli occhi azzurri del francese divennero grandi, allarmati. “Piange?”
“Non riesco a calmarlo,” ammise Mori. “Nemmeno Kouyou. È qualcosa fuori dalla nostra portata.”
“Non riesci a calmarlo o non riesci ad affrontarlo?” Paul appoggiò il calice sul tavolino e si alzò in piedi. “Lascia che gli parli.” Se il Boss della Port Mafia temeva di avvicinare Chuuya, non lo biasimava per la cautela: era difficile maneggiare una bomba atomica formato persona che affrontava le sue prime pene d’amore.
“Lo hai già fatto.” Mori lo rimise immediatamente al suo posto, sollevandosi a sua volta. “Per quanto possa suonare crudele, il cuore spezzato di Chuuya, in questo momento, non è la priorità.”
“Per te!” Ribatté Paul, a tono. “Non è Dazai quello che sta piangendo, quindi non c’è alcun bisogno di correre ai ripari, vero?”
“Siediti, Verlaine,” ordinò il Boss della Port Mafia, lapidario. “Ho detto che ne avremmo parlato tra adulti ragionevoli.”
Il francese inspirò profondamente dal naso e tornò al suo posto. Mori fece lo stesso.
“Si tratta del bambino, vero?” Domandò Paul. “È lui la tua priorità.”
L’altro fu bravo a evitare di ammettere di essere coinvolto. “È anche quella di Chuuya.”
“Sì, ma a che prezzo?”
Anche Mori abbandonò il calice vuoto sul tavolino. “Che immagine romantica…” Commentò.
Paul aveva perso il filo del discorso. “A cosa ti riferisci?”
“Alla mansarda a Parigi,” chiarì Mori. “Tu, Randou e il piccolo Chuuya, insieme contro il mondo. È questa la forma del tuo desiderio irrealizzabile?”
Paul strinse i braccioli della poltrona con rabbia. “È solo un sogno.” Sminuire ciò che di più prezioso gli era rimasto era il solo modo a sua disposizione per proteggersi.
“E nel tuo sogno vedi Chuuya come una creatura fragile, innocente, da proteggere?” Il sarcasmo nella voce di Mori era fastidioso. “Chuuya ha vent’anni, Verlaine. Si è fatto male, ha rischiato consapevolmente e ha perso. Si rialzerà e diventerà un adulto. Non mi preoccupo di questo.”
“Sì, si rialzerà,” convenne Paul. “Ma dopo che hai un bambino tra le braccia e decidi di proteggerlo, non lo dimentichi.”
“È proprio questo il punto ed il motivo per cui sono qui,” confessò Mori. “La sicurezza di quel bambino deve avere la priorità su tutto. È così per tutte le persone coinvolte, Chuuya compreso, e ora fai parte della storia anche tu.”
Paul si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo. “Non ho alcun interesse a uscire di qui. Come posso minacciare il bambino di Dazai?”
“Non temo che tu sia una minaccia,” chiarì Mori. “Devi solo sapere che, se la situazione lo richiedesse, la vita di quel bambino deve venire prima di qualsiasi cosa, compresa quella di Chuuya.”
Verlaine strinse la labbra, poi le piegò in un sorriso amaro. “Vedi una tempesta all’orizzonte, Mori?” Si sporse in avanti. “La temi?”
Il Boss della Port Mafia non rispose.
“No, penso che la tempesta per te sia appena passata,” aggiunse Paul. “L’hai provocata tu stesso e non hai saputo domarla.”
“Scegli con cura le tue prossime parole, Verlaine,” lo avvertì Mori.
“Come si chiama?”
“Eh?”
“Il bambino di Dazai,” specificò Paul. “Come si chiama?”
Mori fece una mezza smorfia, che non era per lui ma per la risposta che stava per dargli: “Sakunosuke,” disse. “Come suo padre.”
Paul non faceva alcuna fatica a immaginare che Dazai avesse fatto quella scelta solo per fare un dispetto al suo mentore. O forse il suo era solo sincero amore nei confronti dell’uomo che aveva perso e da cui aveva avuto un figlio. Chi poteva saperlo? Laggiù, dalle sue parti, non arrivavano grandi notizie, figurarsi quelle che sfuggivano al Boss stesso.
“L’ho incontrato, una volta,” ammise Paul.
Per la prima volta da quando era entrato nei suoi appartamenti, il viso di Mori si animò di un’espressione sincera. “Quando?”
“Quando Chuuya si è messo a investigare sul Marchese De Sade per conto suo,” raccontò il francese. “Tu lo avevi messo da parte e lui ti ha disubbidito, cercando informazioni da me.”
“Questo fatto lo ricordo, ma nessuno mi fece il nome di Oda Sakunosuke all’epoca.”
Ricordare le persone era un’altra deformazione professionale di Paul. “Alto, capelli rossi, ma più scuri di quelli di Chuuya,” lo descrisse, tanto per assicurarsi che stessero parlando della stessa persona. “Occhi azzurri e-“
“Sì, sì, bello, perfetto, un balsamo per l’anima,” lo interruppe Mori, spazientito.
Paul inarcò le sopracciglia. “Chi lo ha definito balsamo per l’anima?”
“Lascia perdere. Sto facendo i conti col fatto che tutta la Port Mafia ha notato Oda Sakunosuke prima di me.”
“Balsamo per l’anima. È piuttosto poetico.” Paul ebbe difficoltà a immaginare Dazai descrivere una persona con simili parole, ma chi altro avrebbe mai potuto pronunciarle per causare una tale reazione nel Boss della Port Mafia?
“Sì e ne ho abbastanza di poeti nella mia vita.” Mori si era lasciato prendere dai nervi nel sentir nominare l’amante del suo pupillo e questo lo aveva fatto sbottonare un po’, quanto bastò al francese per avere un’intuizione.
Paul abbassò lo sguardo, concedendosi un paio d’istanti per riflettere su quella ipotesi. “Ho passato gli ultimi giorni a chiedermi chi nella Port Mafia avesse il potere d’interferire con i sogni.” Riportò gli occhi azzurri su quelli scuri dell’uomo vestito di nero. “La mia è stata una visione limitata. Nessuno nella Port Mafia ha un tale potere, ma un poeta del tuo passato sì.”
Mori non si scompose, forse non era nemmeno sorpreso dalla piega che stava prendendo quella loro conversazione.
“Non facevo ancora parte del mondo dello spionaggio, quando tu e Johann Goethe eravate sulla bocca di tutta Europa,” ammise Paul. “Ma ci sono una serie infinita di Dossier su di voi, sulla tremenda scomparsa del Generale Jünger e sull’arma di Weimar.”
Mori fu bravo a non tradire nulla, ma Paul era una spia ed era sempre stato bravo nel suo lavoro. Non si era guadagnato la fama di Re degli Assassini per niente e sapeva riconoscere quando una persona si sentiva minacciata.
Mori Ougai era un predatore e non era abituato a interpretare quella parte, non da quando aveva lasciato Rintarou morire in Germania.
Paul decise di osare, di riportare alla luce una parte di sé che aveva a lungo taciuto. “ “19 Giugno,” disse, come se quella data avesse lo stesso peso di un segreto di stato. “È una data molto precisa ed è ripetuta diverse volte nei fascicoli europei riguardo Mori Rintarou.” Paul annuì un paio di volte. “19 Giugno,” ripeté, come se stesse rigirando il coltello nella piaga. “I compleanni sono importanti e ti sei preoccupato di festeggiare quel giorno ogni anno, fino all’incidente con la Mimic. Poco importava che Dazai ne fosse infastidito.”
“Sii chiaro,” ordinò Mori. “Smettila di giocare.”
Certo, tutto il divertimento decadeva nel momento in cui non era il padrone di casa a decidere le regole.
“Ci sono coincidenze troppo strane per essere davvero tali. Il 19 Giugno è solo la più evidente.”
“Sii chiaro, ho detto.”
“So che cos’è Dazai per te,” disse. “È la stessa cosa che Chuuya è per me.”
“No.” Mori scosse la testa, rifiutandosi di accettare quel punto di vista. “Dazai non è un bel sogno che faccio per consolare me stesso.”
“Non ha importanza. Ti ha rifiutato, come Chuuya ha rifiutato me. Entrambi abbiamo commesso lo stesso errore: uccidere ciò che amavano nella speranza che si legassero più a noi. Perché era questo il piano, vero? Togliere a Dazai ciò che lo faceva sentire umano e che, quindi, lo portava lontano da te.”
Mori chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, come se stesse cercando la pazienza per ripetere una cosa per la centesima volta. “Ho fatto quel che andava fatto per la Port Mafia.”
“E ora un bambino che non sarebbe mai dovuto nascere è venuto al mondo senza padre,” concluse Paul. “Quante volte dovremmo ripetere gli stessi errori?”
“Qui nessuno ha detto che quel bambino non sarebbe mai dovuto nascere,” ribatté Mori.
“Forse, ma lui la penserà allo stesso modo, quando conoscerà il peso della propria storia?”
“Non è una storia peggiore di altre.”
“Nemmeno quella di Elise Mori-Goethe lo è.” Eccolo lì, Paul Verlaine, spia del Governo francese, Re degli Assassini. “Eppure a Dazai non l’hai mai raccontata.”
Mori incassò il colpo da maestro. “Se tutto fosse andato secondo i piani, tu non avresti raccontato a Chuuya delle sue origini.”
“È una storia diversa,” ribatté Paul. “È difficile spiegare a un bambino che non ci sono due genitori dietro la tua nascita. La tua, a confronto, è una storia piuttosto banale. Perdonami, c’è una cosa che non riesco a capire: tu sei vivo, Johann Goethe è vivo e Dazai è vivo e c’è un muro a dividervi tutti e tre. Mori Rintarou ha perso tutto quello che aveva perché era giovane, non era preparato o abbastanza forte per proteggerlo. Mori Ougai ha sia l’esperienza che il potere… Eppure non fai niente per avere ciò che desideri realmente.”
Le labbra di Mori si piegarono in un sorriso diabolico. “E tu pensi di sapere cosa desidero io?”
Paul scrollò le spalle. “Io so che tenevo Chuuya in spalla e ho messo in discussione tutto, compresa la persona che mi aveva dato tutto, pur di garantirgli un futuro migliore del mio passato,” disse. “Elise, la bambina della tua storia, l’hai portata in grembo, l’hai messa al mondo e l’hai cresciuta, fino a che non te l’hanno portata via. Io ho sempre avuto difficoltà a sentirmi umano, ma tu esattamente che cosa sei?”
Mori non aveva una risposta da dargli e Paul non se l’aspettava.
La loro conversazione poteva dirsi conclusa. Anzi, forse si era protratta troppo oltre.
“Non preoccuparti per Chuuya,” disse il Boss della Port Mafia, alzandosi in piedi. “Posso aver commesso i miei errori con Dazai, ma non accadrà con lui. E non temere: non l’ho mai sottratto a te e non è mia intenzione farlo ora. È libero di vederti quando preferisce. Il mio compito era chiarire il ruolo di tutti in questa storia.”
Paul si sollevò dalla poltrona di vimini. “Chuuya non è tuo. Non importa quante volte s’inginocchierà al tuo cospetto o ti dimostrerà la sua lealtà. Lui non ti apparterrà mai, non ne nel modo in cui desideri. La sua presenza non basterà a sostituire quello che hai perso. Quel vuoto sarà sempre lì, a tormentarti fino alla fine dei tuoi giorni.” Gli occhi azzurri si tinsero di malinconia. “E io condividerò il tuo stesso destino.”
Mori Ougai non si adirò per la sua sincerità. Al contrario, fece una cosa del tutto inaspettata: si avvicinò al tavolino, si versò dell’altro vino e alzò il calice, come per fare un brindisi solitario.
“In questo specifico caso, non posso far altro che darti completamente ragione,” ammise e bevve un sorso. “Se Chuuya è mai appartenuto a qualcuno, quel qualcuno è Dazai. E io e te, mio caro Paul Verlaine, non riusciremo mai ad accettarlo.”