Au clair de la Lune, Act II
Mar. 7th, 2022 11:29 am![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
CowT 12. WEEK 4.
M2: 009
Il Boss della Port Mafia non aveva più nulla da dire.
Quando si voltò per andarsene, portò con sé il calice di vino rosso. Paul lo guardò, in silenzio, sospeso in un’indecisione che si era protratta troppo a lungo. A quell’uomo doveva la sua sopravvivenza, sì, certo, ma c’era un debito di gran lunga più pesante a legarli e Paul Verlaine era stanco di nascondersi dietro a mura ridotte in macerie .
“Mori?”
Ad appena un paio di passi dalla porta, il Boss si voltò per concedergli di nuovo la sua attenzione.
Paul dischiuse le labbra, esitò, poi scosse la testa e si alzò in piedi. “Non era solo un sogno.”
Mori inarcò le sopracciglia, prese un sorso di vino e tornò sui suoi passi. Lo fece lentamente, come se stesse soppesando qualcosa. “Vuoi farmi credere che quella scenetta familiare, con sfondo Parigi non è solo il frutto della tua disperazione?” Non lo chiese con l’intento di deriderlo.
Al contrario, Paul intravide della curiosità nei suoi occhi. Ne approfittò. “Quando dico che Dazai è per te la stessa cosa che Chuuya è per me, sono sincero.”
“Non torniamo su questo punto o-“
“Dobbiamo farlo, invece.”
Mori alzò gli occhi al cielo. “Fammi indovinare: vuoi minacciarmi di rivelare tutto a Chuuya?” Ipotizzò, annoiato. “Vuoi raccontargli quello che sai della nascita di Elise Mori-Goethe, così che lui possa riferirlo a Dazai?” Sbuffò. “È veramente questo il tuo piano per riabilitarti agli occhi di Chuuya, affossare me e la mia credibilità?”
Paul scosse la testa. “Ti ho già detto che non ho alcun interesse a minacciare Dazai.”
“No, non hai parlato di Dazai, ma del suo bambino,” gli ricordò Mori. “Sakunosuke è troppo piccolo per soffrire la verità. Tuttavia, hai da guadagnarci se-“
“Perché le persone come me e te non riescono a togliersi dalla testa il preconcetto che chiunque sia sul punto di tradirli o danneggiarli?” Domandò Paul, esasperato. “Nonostante tutto, io ho ancora qualcosa da perdere, Mori. Quel qualcosa è nelle tue mani, non sono né abbastanza stupido né sufficientemente potente per farti la guerra.”
Mori rifletté brevemente su quelle parole, poi annuì. “Sì, hai ragione,” concordò. “Tuttavia…” Si avvicinò al francese e cominciò a girargli intorno con passo lento, come un cacciatore che studia la sua preda, prima di abbatterla. “Se le nostre storie sono simili e, con esse, quelle di Dazai e Chuuya, significa che hai mentito per tutto questo tempo.”
Paul restò immobile. Se Mori, con il suo atteggiamento, voleva ricordargli chi dei due aveva il coltello dalla parte del manico, che lo facesse pure. Non era nel suo interesse sollevare la propria testa sopra quella del Boss e indispettirlo. La Francia, Parigi, tutto quello era un sogno già svanito. Alla Port Mafia doveva sia la sua vita che quella di Chuuya. L’Europa non gli avrebbe mai concesso un trattamento simile.
“Dazai sta scrivendo una nuova storia che ci coinvolge tutti. Sei sceso qui sotto per informarmi del mio ruolo in essa.”
Mori annuì. “È così.”
“Alla luce degli ultimi eventi, penso sia utile a entrambi gettare la maschera.”
“Ma io non l’ho gettata, mio caro Verlaine,” gli ricordò Mori. “Me l’hai strappata di dosso pochi istanti fa, usufruendo di tutte le tue conoscenze di ex Spia del governo francese.”
Hai già osato troppo, gli stava dicendo. Non ti conviene fare un altro passo falso.
Le loro personalità erano diverse, le loro posizioni non erano nemmeno paragonabili, ma erano entrambi uomini orgogliosi. Verlaine sapeva che per ottenere qualcosa da Mori Ougai, doveva prima compiacerlo, dargli qualcosa che non possedeva nessun altro.
“Allora pareggiamo i conti,” propose Paul. “Quante ore ha impiegato Elise… No, Dazai. Quante ore ha impiegato Dazai a nascere?”
Mori si fermò alle sue spalle, ma il francese non aveva bisogno di guardarlo in faccia per sapere che lo aveva preso in contropiede. “Perchè questa domanda?”
“Chuuya ci ha messo otto ore e mezzo,” raccontò Verlaine. “Dicono che quel dolore si dimentichi. Dicono che una volta che hai il tuo bambino tra le braccia, tutto passa.” Piegò le labbra in un sorriso malinconico. “Sono trascorsi vent’anni e io non ho dimenticato niente, né il dolore né il momento in cui è passato.”
Il silenzio che seguì fu pesante come un macigno.
Quando si mosse, il rumore dei passi di Mori parve quello di un tamburo di guerra, solo meno veloce.
Una volta faccia a faccia, forse per la prima volta da quando erano stati privati della loro umanità, né il Boss della Port Mafia né il Re degli Assassini indossavano una maschera.
Mori appoggiò il calice di vino sul basso tavolino: gli si era chiuso lo stomaco.
“Il 29 Aprile di vent’anni fa,” cercò di ricostruire gli eventi con le informazioni che aveva. “Era il primo anno della guerra, quello in cui tutti erano convinti di poter vincere in pochi mesi.”
Paul annuì. “Sì, lo ripetevano spesso anche a noi Spie. Ogni giorno arrivava qualche informazione top secret che avrebbe cambiato le sorti del conflitto. Ogni. Maledetto. Giorno.”
Mori rise. “Questi sì, che sono flashback di guerra,” scherzò, ma anche lui sapeva che non c’era assolutamente niente di divertente. Superò il basso tavolino e si accomodò di nuovo sul divano: sarebbe stata una lunga conversazione.
Paul tornò alla sua poltrona.
“Tu dov’eri?” Domandò Mori. “Quel fatidico 29 Aprile, dov’eri?”
“Al sicuro,” rispose Paul. Era la seconda volta che raccontava quella storia, ma si accorse presto che era più facile parlarne con qualcuno che aveva vissuto esperienze simili alle sue, senza fare parte della sua storia. “Ero in una cascina di campagna, fuori Parigi. Mi avevano offerto cliniche, medici privati, ma ho rinunciato a tutto. L’idea di finire sotto le mani di un uomo di scienza, chiuso in un ambiente completamente sterile…”
“Posso comprendere,” ammise Mori, incrociando le gambe. “Chi era il vostro superiore?” Domandò. “Chi coordinava le mosse tue e di Randou?”
“Lo conosci molto bene.” Paul gli offrì solo quell’inizio.
Mori impiegò mezzo secondo a trovare la risposta. “Victor…” La sua voce tradiva un poco di nostalgia. “Victor Hugo.”
Paul annuì. “Quando scoprì che io e Arthur aspettavamo un bambino, fece il possibile per aiutarci, senza che la ragion di stato si mettesse di mezzo.”
“Viste le tue origini, un tuo figlio naturale avrebbe attirato l’attenzione di molti scienziati appassionati di abilità.” Mori aveva il risultato finale tra le mani e, sì, Chuuya era davvero oggetto d’interesse per molte persone. “Col sennò di poi, il vostro è il primo caso che conosco in cui un’abilità viene passata dal genitore al figlio in modo così… Semplice. Chuuya ha ereditato il tuo potere con la stessa naturalezza con cui ha ereditato i tuoi occhi.” Il Boss si concesse un istante per studiare il viso dell’uomo di fronte a sé, poi si massaggiò la fronte. “Maledizione!”
Per un attimo, Paul fece fatica a riconoscere il Boss tutto d’un pezzo che conosceva. “Tutto bene?”
Mori lasciò cadere il braccio lungo il fianco. “Sì,” disse, ma aveva i nervi a fior di pelle. “Pensavo al fatto che ho Chuuya davanti agli occhi tutti i giorni e non mi è mai venuto il dubbio che… Diavolo, persino Kouyou lo ha notato e non ha passato con te nemmeno la metà del tempo.”
“Di che stai parlando?”
“Di quanto Chuuya ti somigli,” disse Mori. “I suoi capelli rossi, se confrontanti ai tuoi biondi, possono distrarre ma…” Strinse le labbra e annuì tra sé e sé. “Sì, lo ammetto, mi sono distratto.” Se si contava la storia di Dazai e Oda, quella era la seconda volta. Ma non era né il luogo né il momento per riflettere sulle sue mancanze.
“Cascina di campagna, fuori Parigi.” Mori riprese il discorso. “Otto ore… Per curiosità, quante volte hai invocato la morte?”
Suo malgrado, Paul rise. “Il dolore non è stato atroce per tutte e otto le ore. È stata una cosa graduale.”
“Graduale,” ripeté Mori, con un sorriso tirato. “Non ho la minima idea di cosa sia un parto graduale. Randou era lì con te?”
Paul annuì. “Sì, Arthur è rimasto con me per tutto il tempo. Non avevamo uno staff medico. Non c’era nessuno in quella cascina, tranne noi due. Abbiamo avuto paura, ma ce la siamo cavata.”
“Già, fa paura…” Confermò Mori. “Guerre, complotti, crescere nella Mafia… Nah!” Scosse la testa. “Non ha importanza quale storia ti abbia portato fino a lì, a quel momento. È impossibile non avere paura.”
“Tu avevi Johann con te?”
Mori scosse la testa. “Se ti ricordi che mio figlio è nato il 19 Giugno, dovresti ricordare anche qualcos’altro.”
Paul fece mente locale. Non impiegò molto tempo. “L’Assedio di Weimar.”
Mori annuì. “La prima volta che Hans si è mostrato al mondo per quello che è. Erano Francesi, giusto?”
“Francesi e Belga.”
“Non ne è tornato neanche uno.”
“No. Dopo quell’evento, anche le Spie sotto copertura vennero richiamate,” ricordò Paul. “Tu dov’eri?”
“Hans aveva una casa in città, di quelle d’alta borghesia, quasi aristocratiche. Non la sopportava.” Mori poteva contare le notti che ci aveva dormito sulla punta delle dita. “Possedeva una seconda casa, con giardino. Non era propriamente in campagna, ma c’era pace lì. Quando l’attacco è cominciato, era il luogo migliore in cui potessi essere.”
“Johann non aveva un amico medico?”
“Sì, Friedrich. Non andavamo molto d’accordo, ma sapeva fare il suo lavoro,” confermò Mori. “Serviva qualcuno sulla prima linea e la mia data di scadenza era a luglio. Se ne sono andati per una notte. Una. Quando Hans è tornato, alle prime luci dell’alba, non ero più solo.”
“È stato così veloce?” Domandò Paul.
“Due ore,” rispose Mori. “Avevo otto anni di differenza con la più grande delle mie sorelle minori. Tutt’oggi ricordo le loro nascite, le ore di attesa, mio padre che si faceva tutti i piani dei cinque grattacieli della Port Mafia per farsi passare il nervoso. Per nove mesi mi ero aspettato quello.”
Paul venne colpito da un’intuizione: era la prima volta che raccontava la sua storia a qualcuno che poteva comprenderla nel profondo, ma era lo stesso anche per Mori.
Non volendo, si stavano liberando entrambi di un fardello vecchio di vent’anni.
“Invece, no.” Mori scosse la testa lentamente. “Fuori dalle mie finestre, Weimar bruciava e io urlavo come non ho mai urlato in tutta la mia vita. Non mi vergogno a raccontarlo. Non c’è stato un momento di ragionevolezza in cui ho capito cosa mi stava succedendo e cosa dovevo fare. È stato tutto istinto: il mio corpo mi ha ordinato di spingere e io ho spinto. Mezz’ora dopo, ho stretto Dazai tra le braccia.” Gli sfuggì un sospiro. “Ora Dazai ha un bambino di un anno e mezzo, che non crescerà qui. E torniamo al motivo per cui Chuuya sta piangendo.”
“Lo hai fatto nascere tu, vero?”
Mori allargò le braccia. “Vedi altri validi candidati?” Domandò, sarcastico. “L’alternativa era affidare tutto a Chuuya, ma sviene alle ecografie.”
Paul inarcò le sopracciglia. “Sviene alle ecografie?”
“È un ragazzo molto emotivo.”
Il francese rise di nuovo. “Sì… Sì, lo è.”
“Se ripenso al tuo Arthur, non gli somiglia molto,” commentò Mori.
“No, non sembra neanche figlio suo,” ammise Paul. Ciò non toglieva che Chuuya fosse l’unica cosa buona nata dal loro amore. “Forse lo rivedo in quella lieve ondulatura che ha sui capelli. Io li ho più lisci, ma è un dettaglio veramente minuscolo.”
Mori appoggiò la nuca allo schienale del divano. “Quando è nato, Dazai era la fotocopia delle mie sorelle. Aveva il nome Mori scritto in faccia. Invece, te lo confesso, io quando lo guardo, qualcosa di Hans la rivedo. Non tanto nell’aspetto fisico, anche se penso che mi supererà in altezza, ma in alcuni atteggiamenti. Quando suona il pianoforte, starei a osservarlo per ore…”
“E perché non lo fai?” Domandò Paul.
Mori tornò al presente e lo guardò negli occhi. “Perché non sono suo padre, Paul,” disse, come se si stesse confidando con un amico. “Io sono il mentore, il suo Boss. Sono il mostro che ha ucciso l’uomo che ama - perché ancora lo ama - e ha fatto nascere suo figlio. Sono la persona di cui si fidava e che lo ha tradito.”
Paul non gli credette fino in fondo. “Dazai se ne è andato sbattendo la porta, poi è tornato a bussare, in cerca di aiuto. Tu e Chuuya eravate lì dietro, pronti a riaprire.”
Mori non poteva negare.
“Nessun Boss lascia libera la poltrona di un Dirigente traditore, nella speranza che torni,” aggiunse Paul. “Non sei solo il suo Boss o il suo mentore. Sei qualcos’altro. Se Arthur fosse ancora parte di questo mondo e Chuuya mi concedesse una seconda possibilità, io mollerei tutto subito per loro.”
“Perché, a dispetto di quello che credi, tu sei un essere umano.” Mori sospirò, nostalgico. “Anche io ero così,” disse, come se l’argomento non avesse appena toccato l’unico punto vivo del suo cuore. “Più Hans di me. Avevamo la certezza che il nostro legame bastasse a farci vincere contro il mondo intero. Era un sogno romantico, bellissimo ma la realtà è un’altra cosa. Oggi, io sono il Boss della Port Mafia e lui è Direttore dei Servizi Segreti tedeschi. Andiamo per i quarant’anni e abbiamo una grossa dose di responsabilità sulle spalle. L’amore non basta, non in questo mondo.”
Era una verità a cui Paul non voleva credere, ma non aveva prove a suo favore per offrire una controtesi, a parte le poesie che gli erano tanto care. “Chuuya sa tutto.”
Mori non apparve affatto sorpreso.
“Anche Dazai lo sa.”
Quello ebbe il potere di far inarcare il sopracciglio destro del Boss. “Dazai?”
“Chuuya mi era accanto, poco prima che perdessi il controllo,” raccontò Paul. “Ho usato la mia abilità per lanciarlo via. In quel momento, gli ho passato alcuni dei miei ricordi con Arthur. Frammenti, sì, ma-“
“Abbastanza da spingerlo a cercarti e volere un confronto con te,” concluse Mori. “Me lo ha chiesto, me lo ricordo. Siete andati avanti ore, qui sotto. Chuuya non ha mai parlato di cosa vi siete detti, ma è diventato di colpo più grande.”
“Si è confidato con Dazai. T’infastidisce che non sia venuto da te?”
“Non lo dico spesso, ma sono felice quando si gestiscono da soli, dimenticandosi di me.” Mori scosse la testa. “No, nemmeno il fatto che tu abbia mentito a me è così grave,” ammise. “Il tuo segreto non ha alcun potere su di me, ma lo ha avuto su Chuuya. Se vuoi un mio modesto parere: la verità ha colmato parte di quel vuoto che si portava dentro. Una volta conosciuta la storia che lo ha messo al mondo, non gli è rimasto che pensare a quella da scrivere per se stesso.”
Paul annuì. “Era la mia speranza.”
Mori si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle gambe. “Chuuya è diverso da Dazai,” disse. “Io sono diverso da te.”
Il francese inspirò dal naso. “So di essere ripetitivo, ma in quanto Dirigente della Port Mafia, giuro che non farò o dirò mai niente per mettere a rischio il tuo segreto. La tua storia con Dazai non è affar mio.”
Mori annuì, soddisfatto. “Cosa mi dici dei diari di Randou?” Domandò. Ogni parola pronunciata in quella stanza avrebbe potuto far tremare la Port Mafia fin dalle fondamenta, ma Mori aveva bisogno dei dettagli. In particolare, quelli da spionaggio intercontinentale. “Le date non corrispondono agli eventi. Secondo quelle, Chuuya doveva avere tre o quattro anni, quando tu e Randou vi siete incontrati.”
“Arthur ha scritto quei diari mentre aspettavo Chuuya. Sentiva la necessità di lasciare qualcosa, ma doveva creare un sistema di depistaggio.”
“Non c’è traccia della gravidanza in quelle pagine.”
“Non doveva esserci. Quello era il modo di Arthur di raccontare la nostra storia a nostro figlio, nel caso ci fosse successo qualcosa.”
Mori alzò il braccio destro, puntando l’indice verso il muro, ma era la città all’esterno che voleva indicare. “Suribachi esiste. Il dottor N è esistito, insieme a tutta la sua sperimentazione. Un mostro è comparso a Yokohama, ormai più di un decennio fa.”
“Ti posso spiegare,” disse Paul. “Sui diari di Arthur si parla di una missione in solitaria qui, a Yokohama. Sono descritti i pericoli, le ragioni, ogni cosa… Compresa quella maledetta festa di compleanno.”
“Lo odiavi proprio quel cappello, eh?”
“Nostro figlio è nato durante la prima primavera della Grande Guerra. Cinque anni e mezzo dopo, ce lo hanno portato via.” La voce di Paul si fece più flebile sul finire della frase.
Animato da nuovo interesse, Mori drizzò la schiena. “Chi?”
“Non lo so,” rispose Verlaine. “Ancora oggi, non sono sicuro di chi incolpare. Hugo fece il possibile per la nostra situazione. Non eravamo le prime Spie ad avere un bambino, ma io rendevo tutto un po’ più complicato. Al tempo, quando rapirono Chuuya, accusai chiunque, persi completamente la testa!” Non gli importò di restare composto.
Mori non lo biasimò. “So che cosa intendi.”
“Arrivai ad accusare Arthur stesso,” confessò Paul. “Le nazioni erano stanche di massacrarsi, qualsiasi cosa sarebbe bastata per far finire tutto, ma, no, fino all’ultimo hanno spinto i dotati di abilità a combattere per conquistare una qualche forma di superiorità. Confermai la mia fama di Re degli Assassini in quello stesso periodo. Non avevo pietà per nessuno, nemmeno quando sarebbe stato ragionevole usare un approccio più diplomatico. Mio figlio mi era stato portato via, per me il mondo poteva anche bruciare.”
Mori annuì, gli occhi bassi. “Conosco anche quella sensazione.”
“Fu Hugo a mandarci a Yokohama. Sono certo che lui sapesse cosa stesse facendo, ma non ci disse nulla per impedirci di perdere la calma.” La voce di Paul cambiò, divenne più triste - quasi disperata - ma anche oscura - pregna di odio. “In quel laboratorio sotterraneo, dentro quel tubo di vetro, c’era il mio bambino. Lo avevo creduto morto per un anno e mezzo ed era lì, davanti a me. Tu come ti sei sentito, quando hai rivisto Dazai?”
Mori scosse la testa. “Non so descrivertelo.”
“Esatto.” Paul sembrava sul punto di scoppiare a piangere. “Lo abbiamo liberato, ce ne stavamo andando ed ecco che Arthur comincia a parlare di protocolli di sicurezza del Governo, di esami che avrebbero dovuto fare a Chuuya per essere certi che non gli avessero fatto nulla.” Scosse la testa, come se non fosse lì, ma di nuovo in quel tunnel di roccia che portava al mare. “Tutto è andato in pezzi. Arthur ha cercato di rimediare. Oggi sono certo che non avrebbe fatto del male a nostro figlio, ma… Oggi è tardi.”
Per la seconda volta, calò un silenzio insopportabilmente pesante nella stanza. Mori non riuscì a reggerlo per molto. “Cinque anni e mezzo…” Ripeté. “Dazai ne aveva due. Sono certo che non ricordi niente di Weimar, come potrebbe? Ma cinque anni…”
“Chuuya non ricorda nulla, prima di Suribachi, lo sai,” disse Paul, con un sorriso triste. “La mia famiglia ha avuto poco tempo, ma a lui lo hanno tolto tutto. N ha pagato per questo e per tutto il resto.”
Mori gli concesse qualche istante per recuperare il controllo delle sue emozioni. “Chuuya…” Mormorò, come se quel nome gli suonasse improvvisamente estraneo.
“Mio figlio si presenta al mondo con il nome di un esperimento. Questa cosa mi dilania.” Confessò Paul.
“Era la mia prossima domanda,” ammise Mori. “Qual è il suo vero nome?”
Paul accennò un sorrisetto amaro e scosse la testa. “Se ti chiedessi come si chiama tuo figlio, come mi risponderesti?”
“Dazai Osamu,” rispose Mori, senza esitare e comprese il messaggio ancor prima che l’altro glielo spiegasse.
“Ecco…” Paul provò a scrollarsi di dosso il malanimo, anche se sapeva che certi dolori nemmeno il tempo li avrebbe mai sanati. “Non abbiamo mai fatto una visita medica con Chuuya. Tutto quello che ho avuto di quella gravidanza è stato un test positivo e la pancia che cresceva.”
“Da medico, ti dico che siete stati fortunati.”
“Io ero convinto che fosse una femmina e volevo darle il nome in codice della madre di Arthur. Sì, era una Spia anche lei.”
“E il nome sarebbe?”
“Marie Cosette.”
“Perché l’ho chiesto?” Mori si schiaffò una mano in faccia: dopo quella rivelazione, come avrebbe potuto guardare Chuuya in faccia, senza scoppiare a ridere come un idiota ogni maledetta volta. “Quindi, avete scoperto solo alla nascita che era un maschio?”
Paul annuì. “Nicolas George,” disse, con la voce di chi parla di un grande amore passato. “Nicolas era uno dei nomi di Arthur, George l’ho scelto io. Alla fine, lo chiamavamo solo Nicolas o Nicki.” Una pausa. “Elise da dove viene?”
“Für Elise,” rispose Mori. “La prima volta che ho sentito Hans suonare, stava eseguendo quella. È la colonna sonora del nostro primo incontro.”
“Solo Elise?” Indagò Paul. “Nessuno nome giapponese per onorare la tua terra?”
Mori scosse la testa. “La mia famiglia è stata uccisa alla fine del primo inverno della Grande Guerra, mentre io ero al sesto mese di gravidanza,” spiegò. “Il Boss di allora tentò di liberarsi anche di me, attraverso la mia guardia del corpo. Era Hirotsu.”
Paul lo fissò con gli occhi sgranati, sbalordito. “Hirotsu ha cercato di farti del male?”
Mori scosse la testa. “Mi ha salvato,” spiegò. “Al fronte era pieno di cadaveri non identificati. Nessuno alla Port Mafia sapeva della mia bambina, così non fu difficile trovare un corpo che potesse essere scambiato per il mio.”
“E il DNA?”
“Mi tagliarono i capelli,” rispose Mori, arricciolandosi le ciocche intorno alle dita con una smorfia indispettita. “Ci ho messo anni a farli ricrescere come volevo.”
Qualcosa suggeriva a Paul che al tempo dei fatti, a Mori non era importato assolutamente nulla dei suoi capelli. Ingigantiva il fatto più superfluo per non parlare di cosa davvero gli aveva fatto male: il massacro della sua famiglia.
“Non era sicuro dare a mia figlia un nome giapponese,” aggiunse il Boss della Port Mafia. “Una volta nata Elise, Hans si rifiutò di registrarla come se fosse solo figlia sua. Disse che la Port Mafia sapeva benissimo che eravamo amanti e che il suo nome era pericoloso quanto il mio.” Si umettò le labbra. “Nemmeno io ho mai scoperto chi me l’ha portata via,” aggiunse.
“L’Arma di Weimar,” disse Paul. “Dazai riesce a fermare Chuuya soltanto toccandolo. Quello era il potere che avrebbe cambiato davvero le sorti del conflitto. Qualcuno parlava della Grande Guerra come di uno scontro tra divinità, un’eco della mitologia classica in epoca moderna. L’esistenza della tua bambina bastava a condannarli tutti alla mortalità. Dazai ti ha mai raccontato nulla della sua infanzia?”
Mori scosse la testa, ma il francese era certo che non glielo avrebbe raccontato comunque. “Dice di non ricordare come dovrebbe,” rispose. “I primi tempi, ho provato ad applicare un po’ di pressione sulla sua memoria, ma ho ottenuto solo guai. Alla fine, ho deciso che mi sarei concentrato su quello che avevo di lui e, in parte, ha funzionato.”
“E Dazai Osamu?” Domandò Paul. “Da dove viene quel nome?”
“Conosco la risposta,” ammise Mori. “Ma preferisco tenerla per me.”
“Le storie dei nomi sono importanti,” mormorò Paul. “Per il resto dei miei giorni, chiamerò mio figlio con un nome di cui non conosco la provenienza.”
Il Boss rimase in silenzio per un po’, studiandolo. C’era ancora un dettaglio della storia che non gli era stato rivelato. “Esperimenti?” Domandò. “Un effetto della tua abilità che non conoscevi? Che cosa ti ha permesso di portare in grembo Chuuya e di metterlo al mondo?”
“Mi spiace, ti deluderò,” rispose Verlaine. “Nessuno effetto speciale come il tuo. Semplice ed elementare biologia.”
Mori fece due più due. “Sei come Dazai.”
Paul annuì. “Quando crei una vita artificiale, t’interessa che abbia un corpo sano e funzionale, ma qualcosa sfugge sempre. Non ha importanza quanto gli scienziati ci provino. Giocano a fare Dio ma non riescono a eguagliarlo. Un’arma con le sembianze di una donna non era nei piani e il mio creatore non ha mai mancato di ricordarmelo. Ero un oggetto per lui, la mia identità di genere si è formata tra un suo esperimento e l’altro. Quando Arthur mi ha trovato e si è presentata la questione di trovarmi un nome, ho deciso che sarei stato Paul Verlaine e che non avrei saputo vivere in nessun altro modo. In verità, ti confido, credevo di essere sterile.”
Mori annuì. “Lo credevo anche io. Anzi, ti dirò, penso di esserlo stato per un po’. La forza che comandava il mio corpo era in divenire. A un certo punto, deve essere scattato qualcosa… Non saprei dirtelo nemmeno io.”
“Dopo quanto tempo è arrivato Dazai?”
“Più di due anni,” rispose Mori. “Per questo ero certo di non dovermi preoccupare di nulla.”
Paul tornò con la mente a quel primo anno con Arthur. “Non te lo so dire con precisione, ma Chuuya deve essere arrivato dopo sei o sette mesi che la relazione tra me e Arthur era divenuta di altra natura.” Sospirò.
Mori scrollò le spalle. “Dazai è sempre stato pigro. Ha avuto un episodio di rush quando è nato, poi è finita la magia.”
Dopo tutto quel che si erano confidati, Paul Verlaine guardava il Boss della Port Mafia e lo vedeva sotto una luce diversa. In quel preciso momento, Mori gli ricordò tanto il ragazzino di diciassette anni che aveva incontrato alla vigilia dello scoppio della Grande Guerra.
“Non ti ricordi di me, vero?” Domandò il francese.
“È la seconda volta che accenni al fatto che ci siamo già incontrati,” disse Mori. “Lo hai fatto anche la sera in cui i ragazzi hanno organizzato quella festa intorno al pianoforte del 34-Est.” Si passò una mano tra i capelli corvini, poi scosse la testa. “Perché non mi ricordo di te?”
“Essere invisibile era il mio lavoro, Mori,” lo giustificò Paul. “Anzi, quella notte a Parigi mi sono esposto anche troppo, ma era così chiaro quello che ti stava accadendo e sapevo che, senza alcun indizio, non ci saresti arrivato in fretta.”
Gli occhi scuri del Boss s’illuminarono. “Il ragazzo coi capelli biondi al bancone del bar…"
Paul annuì, soddisfatto. “Ricordo la tua espressione esausta e la determinazione con cui t’imponevi di mantenere il controllo, ma la nausea da primo trimestre ti stava mettendo in ginocchio.”
Mori fece una smorfia disgustata al ricordo. “Primo trimestre? Ho vomitato per sei mesi!”
Paul avrebbe voluto fare una battuta su Dazai e il modo innato in cui si trasformava nel problema di chiunque facesse parte della sua vita. A quanto pareva, era una tattica con cui aveva fatto pratica fin dal grembo materno. Dopo breve riflessione, Verlaine decise di non mettere alla prova il buon umore - altalenante - del suo superiore.
“Dopo quanto tempo hai scoperto di aspettare Dazai?” Domandò Paul.
“Non ricordo nemmeno cosa mi dissi per mettermi la pulce nell’orecchio,” ammise Mori. “So solo che quando io e Hans tornammo in camera d’albergo, lui mi strinse forte e io, per la prima volta, lasciai perdere il mio realismo e sperai che l’indomani non succedesse niente.” Scosse la testa. “Ero a Weimar e mentre le nazioni d’Europa si dichiaravano guerra, facendo riecheggiare quella promessa di morte in tutto il globo, io presi un test di gravidanza di nascosto.”
Una pausa, gli occhi scuri si tinsero di una sfumatura che il francese identificò come tristezza, un sentimento troppo umano per l’uomo che gli era davanti.
“È facile pensare che la mia vita sia cambiata con Hans e con la partenza per l’Europa,” aggiunse Mori. “Non è la verità. Anche dopo lo scoppio della guerra, potevo ancora tornare sui miei passi.”
“Ma l’arrivo di un figlio segna un punto nella vita delle persone,” concluse Paul. “Quella notte, a Parigi, io sapevo di Chuuya. Lo sapeva anche Arthur ed è per questo che mi sono ritrovato a fare compagnia a te.”
“Non ne era felice,” intuì Mori.
“Hans lo era?”
“Sì,” rispose il Boss ed era sincero. “Fui io a creare un melodramma. Non sapevocome dirglielo, non sapevo se dirglielo. Senza contare che, in quanto dotati di abilità, eravamo chiamati a combattere sulla prima linea. Tutto questo, mentre cercavo di venire a patti col fatto che avessi una vita dentro di me. Nella lista dei traumi della mia vita, penso che quell’esperienza abbia un buon secondo o terzo posto.”
Paul aveva un metro di paragone diverso: non era mai riuscito a percepire se stesso come essere umano, nonostante gli infiniti sforzi di Arthur. Non essere nato, ma essere stato creato, aveva influenzato ogni esperienza della sua esistenza. Nulla lo aveva preparato a Chuuya, ma realizzare di poter essere per quel bambino ciò che a lui non era stato concesso, lo aveva reso determinato a metterlo al mondo fin da subito. Arthur aveva avuto un’idea completamente diversa.
“Hai mai pensato di non tenerlo?” Domandò Paul, schietto. “La tua abilità ti aveva rinchiuso in un corpo che non era tuo completamente, eri lontano dalla tua famiglia e sia tu che Hans eravate molto giovani. Inoltre, sì, c’era la guerra. Ti sei ritrovato con molto a cui pensare in poco tempo.”
“Mi par di capire che siamo in due,” ribatté Mori.
“Era ragionevole pensare di porre fine alla gravidanza.”
“Così come lo era per te, Verlaine.”
“Nessuno dei due lo ha fatto,” concluse Paul.
“Io avevo diciassette anni, ero avventato e molto innamorato del padre del mio bambino. Tu, invece?”
“Io ero molto innamorato dell’idea di Chuuya, di quello che poteva rappresentare per me.” Era una confessione difficile da fare. “Tanto da mettere in discussione il mio legame con Arthur. Se è vero che in una storia c’è sempre qualcuno che ama di più, penso che quel qualcuno fosse lui.”
“L’amore mi è sfuggito da tempo, Verlaine,” disse Mori. “Non mi riferisco alle persone che lo rappresentavano per me, ma al sentimento stesso. So di essere stato innamorato e so che qualcuno ha amato me, ma è come se fosse successo a un’altra persona.”
“Chuuya mi ha raccontato tutto della gravidanza di Dazai. Non mi ha detto quasi nulla di te, a parte le cose scontate.”
“Che vuoi che ti dica?” Mori sorrise con amarezza. “Per chiarire il legame tra me e Dazai ci vorrebbe una chiacchierata lunga giorni, che tu non hai bisogno di sentire e io non ho voglia di fare. Alla fine di tutto, il Demone fanciullo della Port Mafia non esiste più. Dazai non avrebbe mai scelto me. Ne ero consapevole fin dall’inizio: la mia sola esistenza lo fa star male. Mi pento di aver fatto nascere quel bambino e di averci provato comunque?” Mori scosse la testa. “Dazai è vivo e Sakunosuke è una meraviglia. Non ho altro d’aggiungere.”
Paul credeva di capire. “E come pensi di fare con Chuuya?”
“Penso che cambierò idea.” Il Boss della Port Mafia si alzò in piedi con un saltello. “So perché mi hai rivelato tutto. Volevo che fossi perfettamente consapevole di che cosa ho tra le mie mani e te ne sono grato. Per tanto, penso che mi farò da parte e convincerò Chuuya a venire da te.”
Paul scosse la testa. “Sei tu il suo punto di riferimento, non io.”
“Sono il suo punto di riferimento, non sono suo padre,” ribatté Mori. “Ci sono situazioni in cui una carezza vale più di mille consigli ragionevoli.” Sì ricordò della notte in cui Dazai aveva letto gli scritti di Oda Sakunosuke, di come aveva pianto fino all’alba. Mori gli aveva accarezzato i capelli in silenzio per tutto il tempo, anche se aveva capito da solo di non essere la persona migliore per quella circostanza. Lasciare Dazai da solo con quel dolore non era mai stata un’opzione.
“Ma questa è una cosa che possiamo capire solo io e te, Verlaine,” aggiunse Mori. “Dazai la imparerà tra qualche anno e, forse un giorno, capiterà anche al tuo Chuuya. Che giochino pure a fare i cani randagi. Che ci odino,” mentre se ne andava, si voltò e fece l’occhiolino a Verlaine. “Quello che non capiscono è che noi continueremo ad amarli.”
M2: 009
Il Boss della Port Mafia non aveva più nulla da dire.
Quando si voltò per andarsene, portò con sé il calice di vino rosso. Paul lo guardò, in silenzio, sospeso in un’indecisione che si era protratta troppo a lungo. A quell’uomo doveva la sua sopravvivenza, sì, certo, ma c’era un debito di gran lunga più pesante a legarli e Paul Verlaine era stanco di nascondersi dietro a mura ridotte in macerie .
“Mori?”
Ad appena un paio di passi dalla porta, il Boss si voltò per concedergli di nuovo la sua attenzione.
Paul dischiuse le labbra, esitò, poi scosse la testa e si alzò in piedi. “Non era solo un sogno.”
Mori inarcò le sopracciglia, prese un sorso di vino e tornò sui suoi passi. Lo fece lentamente, come se stesse soppesando qualcosa. “Vuoi farmi credere che quella scenetta familiare, con sfondo Parigi non è solo il frutto della tua disperazione?” Non lo chiese con l’intento di deriderlo.
Al contrario, Paul intravide della curiosità nei suoi occhi. Ne approfittò. “Quando dico che Dazai è per te la stessa cosa che Chuuya è per me, sono sincero.”
“Non torniamo su questo punto o-“
“Dobbiamo farlo, invece.”
Mori alzò gli occhi al cielo. “Fammi indovinare: vuoi minacciarmi di rivelare tutto a Chuuya?” Ipotizzò, annoiato. “Vuoi raccontargli quello che sai della nascita di Elise Mori-Goethe, così che lui possa riferirlo a Dazai?” Sbuffò. “È veramente questo il tuo piano per riabilitarti agli occhi di Chuuya, affossare me e la mia credibilità?”
Paul scosse la testa. “Ti ho già detto che non ho alcun interesse a minacciare Dazai.”
“No, non hai parlato di Dazai, ma del suo bambino,” gli ricordò Mori. “Sakunosuke è troppo piccolo per soffrire la verità. Tuttavia, hai da guadagnarci se-“
“Perché le persone come me e te non riescono a togliersi dalla testa il preconcetto che chiunque sia sul punto di tradirli o danneggiarli?” Domandò Paul, esasperato. “Nonostante tutto, io ho ancora qualcosa da perdere, Mori. Quel qualcosa è nelle tue mani, non sono né abbastanza stupido né sufficientemente potente per farti la guerra.”
Mori rifletté brevemente su quelle parole, poi annuì. “Sì, hai ragione,” concordò. “Tuttavia…” Si avvicinò al francese e cominciò a girargli intorno con passo lento, come un cacciatore che studia la sua preda, prima di abbatterla. “Se le nostre storie sono simili e, con esse, quelle di Dazai e Chuuya, significa che hai mentito per tutto questo tempo.”
Paul restò immobile. Se Mori, con il suo atteggiamento, voleva ricordargli chi dei due aveva il coltello dalla parte del manico, che lo facesse pure. Non era nel suo interesse sollevare la propria testa sopra quella del Boss e indispettirlo. La Francia, Parigi, tutto quello era un sogno già svanito. Alla Port Mafia doveva sia la sua vita che quella di Chuuya. L’Europa non gli avrebbe mai concesso un trattamento simile.
“Dazai sta scrivendo una nuova storia che ci coinvolge tutti. Sei sceso qui sotto per informarmi del mio ruolo in essa.”
Mori annuì. “È così.”
“Alla luce degli ultimi eventi, penso sia utile a entrambi gettare la maschera.”
“Ma io non l’ho gettata, mio caro Verlaine,” gli ricordò Mori. “Me l’hai strappata di dosso pochi istanti fa, usufruendo di tutte le tue conoscenze di ex Spia del governo francese.”
Hai già osato troppo, gli stava dicendo. Non ti conviene fare un altro passo falso.
Le loro personalità erano diverse, le loro posizioni non erano nemmeno paragonabili, ma erano entrambi uomini orgogliosi. Verlaine sapeva che per ottenere qualcosa da Mori Ougai, doveva prima compiacerlo, dargli qualcosa che non possedeva nessun altro.
“Allora pareggiamo i conti,” propose Paul. “Quante ore ha impiegato Elise… No, Dazai. Quante ore ha impiegato Dazai a nascere?”
Mori si fermò alle sue spalle, ma il francese non aveva bisogno di guardarlo in faccia per sapere che lo aveva preso in contropiede. “Perchè questa domanda?”
“Chuuya ci ha messo otto ore e mezzo,” raccontò Verlaine. “Dicono che quel dolore si dimentichi. Dicono che una volta che hai il tuo bambino tra le braccia, tutto passa.” Piegò le labbra in un sorriso malinconico. “Sono trascorsi vent’anni e io non ho dimenticato niente, né il dolore né il momento in cui è passato.”
Il silenzio che seguì fu pesante come un macigno.
Quando si mosse, il rumore dei passi di Mori parve quello di un tamburo di guerra, solo meno veloce.
Una volta faccia a faccia, forse per la prima volta da quando erano stati privati della loro umanità, né il Boss della Port Mafia né il Re degli Assassini indossavano una maschera.
Mori appoggiò il calice di vino sul basso tavolino: gli si era chiuso lo stomaco.
“Il 29 Aprile di vent’anni fa,” cercò di ricostruire gli eventi con le informazioni che aveva. “Era il primo anno della guerra, quello in cui tutti erano convinti di poter vincere in pochi mesi.”
Paul annuì. “Sì, lo ripetevano spesso anche a noi Spie. Ogni giorno arrivava qualche informazione top secret che avrebbe cambiato le sorti del conflitto. Ogni. Maledetto. Giorno.”
Mori rise. “Questi sì, che sono flashback di guerra,” scherzò, ma anche lui sapeva che non c’era assolutamente niente di divertente. Superò il basso tavolino e si accomodò di nuovo sul divano: sarebbe stata una lunga conversazione.
Paul tornò alla sua poltrona.
“Tu dov’eri?” Domandò Mori. “Quel fatidico 29 Aprile, dov’eri?”
“Al sicuro,” rispose Paul. Era la seconda volta che raccontava quella storia, ma si accorse presto che era più facile parlarne con qualcuno che aveva vissuto esperienze simili alle sue, senza fare parte della sua storia. “Ero in una cascina di campagna, fuori Parigi. Mi avevano offerto cliniche, medici privati, ma ho rinunciato a tutto. L’idea di finire sotto le mani di un uomo di scienza, chiuso in un ambiente completamente sterile…”
“Posso comprendere,” ammise Mori, incrociando le gambe. “Chi era il vostro superiore?” Domandò. “Chi coordinava le mosse tue e di Randou?”
“Lo conosci molto bene.” Paul gli offrì solo quell’inizio.
Mori impiegò mezzo secondo a trovare la risposta. “Victor…” La sua voce tradiva un poco di nostalgia. “Victor Hugo.”
Paul annuì. “Quando scoprì che io e Arthur aspettavamo un bambino, fece il possibile per aiutarci, senza che la ragion di stato si mettesse di mezzo.”
“Viste le tue origini, un tuo figlio naturale avrebbe attirato l’attenzione di molti scienziati appassionati di abilità.” Mori aveva il risultato finale tra le mani e, sì, Chuuya era davvero oggetto d’interesse per molte persone. “Col sennò di poi, il vostro è il primo caso che conosco in cui un’abilità viene passata dal genitore al figlio in modo così… Semplice. Chuuya ha ereditato il tuo potere con la stessa naturalezza con cui ha ereditato i tuoi occhi.” Il Boss si concesse un istante per studiare il viso dell’uomo di fronte a sé, poi si massaggiò la fronte. “Maledizione!”
Per un attimo, Paul fece fatica a riconoscere il Boss tutto d’un pezzo che conosceva. “Tutto bene?”
Mori lasciò cadere il braccio lungo il fianco. “Sì,” disse, ma aveva i nervi a fior di pelle. “Pensavo al fatto che ho Chuuya davanti agli occhi tutti i giorni e non mi è mai venuto il dubbio che… Diavolo, persino Kouyou lo ha notato e non ha passato con te nemmeno la metà del tempo.”
“Di che stai parlando?”
“Di quanto Chuuya ti somigli,” disse Mori. “I suoi capelli rossi, se confrontanti ai tuoi biondi, possono distrarre ma…” Strinse le labbra e annuì tra sé e sé. “Sì, lo ammetto, mi sono distratto.” Se si contava la storia di Dazai e Oda, quella era la seconda volta. Ma non era né il luogo né il momento per riflettere sulle sue mancanze.
“Cascina di campagna, fuori Parigi.” Mori riprese il discorso. “Otto ore… Per curiosità, quante volte hai invocato la morte?”
Suo malgrado, Paul rise. “Il dolore non è stato atroce per tutte e otto le ore. È stata una cosa graduale.”
“Graduale,” ripeté Mori, con un sorriso tirato. “Non ho la minima idea di cosa sia un parto graduale. Randou era lì con te?”
Paul annuì. “Sì, Arthur è rimasto con me per tutto il tempo. Non avevamo uno staff medico. Non c’era nessuno in quella cascina, tranne noi due. Abbiamo avuto paura, ma ce la siamo cavata.”
“Già, fa paura…” Confermò Mori. “Guerre, complotti, crescere nella Mafia… Nah!” Scosse la testa. “Non ha importanza quale storia ti abbia portato fino a lì, a quel momento. È impossibile non avere paura.”
“Tu avevi Johann con te?”
Mori scosse la testa. “Se ti ricordi che mio figlio è nato il 19 Giugno, dovresti ricordare anche qualcos’altro.”
Paul fece mente locale. Non impiegò molto tempo. “L’Assedio di Weimar.”
Mori annuì. “La prima volta che Hans si è mostrato al mondo per quello che è. Erano Francesi, giusto?”
“Francesi e Belga.”
“Non ne è tornato neanche uno.”
“No. Dopo quell’evento, anche le Spie sotto copertura vennero richiamate,” ricordò Paul. “Tu dov’eri?”
“Hans aveva una casa in città, di quelle d’alta borghesia, quasi aristocratiche. Non la sopportava.” Mori poteva contare le notti che ci aveva dormito sulla punta delle dita. “Possedeva una seconda casa, con giardino. Non era propriamente in campagna, ma c’era pace lì. Quando l’attacco è cominciato, era il luogo migliore in cui potessi essere.”
“Johann non aveva un amico medico?”
“Sì, Friedrich. Non andavamo molto d’accordo, ma sapeva fare il suo lavoro,” confermò Mori. “Serviva qualcuno sulla prima linea e la mia data di scadenza era a luglio. Se ne sono andati per una notte. Una. Quando Hans è tornato, alle prime luci dell’alba, non ero più solo.”
“È stato così veloce?” Domandò Paul.
“Due ore,” rispose Mori. “Avevo otto anni di differenza con la più grande delle mie sorelle minori. Tutt’oggi ricordo le loro nascite, le ore di attesa, mio padre che si faceva tutti i piani dei cinque grattacieli della Port Mafia per farsi passare il nervoso. Per nove mesi mi ero aspettato quello.”
Paul venne colpito da un’intuizione: era la prima volta che raccontava la sua storia a qualcuno che poteva comprenderla nel profondo, ma era lo stesso anche per Mori.
Non volendo, si stavano liberando entrambi di un fardello vecchio di vent’anni.
“Invece, no.” Mori scosse la testa lentamente. “Fuori dalle mie finestre, Weimar bruciava e io urlavo come non ho mai urlato in tutta la mia vita. Non mi vergogno a raccontarlo. Non c’è stato un momento di ragionevolezza in cui ho capito cosa mi stava succedendo e cosa dovevo fare. È stato tutto istinto: il mio corpo mi ha ordinato di spingere e io ho spinto. Mezz’ora dopo, ho stretto Dazai tra le braccia.” Gli sfuggì un sospiro. “Ora Dazai ha un bambino di un anno e mezzo, che non crescerà qui. E torniamo al motivo per cui Chuuya sta piangendo.”
“Lo hai fatto nascere tu, vero?”
Mori allargò le braccia. “Vedi altri validi candidati?” Domandò, sarcastico. “L’alternativa era affidare tutto a Chuuya, ma sviene alle ecografie.”
Paul inarcò le sopracciglia. “Sviene alle ecografie?”
“È un ragazzo molto emotivo.”
Il francese rise di nuovo. “Sì… Sì, lo è.”
“Se ripenso al tuo Arthur, non gli somiglia molto,” commentò Mori.
“No, non sembra neanche figlio suo,” ammise Paul. Ciò non toglieva che Chuuya fosse l’unica cosa buona nata dal loro amore. “Forse lo rivedo in quella lieve ondulatura che ha sui capelli. Io li ho più lisci, ma è un dettaglio veramente minuscolo.”
Mori appoggiò la nuca allo schienale del divano. “Quando è nato, Dazai era la fotocopia delle mie sorelle. Aveva il nome Mori scritto in faccia. Invece, te lo confesso, io quando lo guardo, qualcosa di Hans la rivedo. Non tanto nell’aspetto fisico, anche se penso che mi supererà in altezza, ma in alcuni atteggiamenti. Quando suona il pianoforte, starei a osservarlo per ore…”
“E perché non lo fai?” Domandò Paul.
Mori tornò al presente e lo guardò negli occhi. “Perché non sono suo padre, Paul,” disse, come se si stesse confidando con un amico. “Io sono il mentore, il suo Boss. Sono il mostro che ha ucciso l’uomo che ama - perché ancora lo ama - e ha fatto nascere suo figlio. Sono la persona di cui si fidava e che lo ha tradito.”
Paul non gli credette fino in fondo. “Dazai se ne è andato sbattendo la porta, poi è tornato a bussare, in cerca di aiuto. Tu e Chuuya eravate lì dietro, pronti a riaprire.”
Mori non poteva negare.
“Nessun Boss lascia libera la poltrona di un Dirigente traditore, nella speranza che torni,” aggiunse Paul. “Non sei solo il suo Boss o il suo mentore. Sei qualcos’altro. Se Arthur fosse ancora parte di questo mondo e Chuuya mi concedesse una seconda possibilità, io mollerei tutto subito per loro.”
“Perché, a dispetto di quello che credi, tu sei un essere umano.” Mori sospirò, nostalgico. “Anche io ero così,” disse, come se l’argomento non avesse appena toccato l’unico punto vivo del suo cuore. “Più Hans di me. Avevamo la certezza che il nostro legame bastasse a farci vincere contro il mondo intero. Era un sogno romantico, bellissimo ma la realtà è un’altra cosa. Oggi, io sono il Boss della Port Mafia e lui è Direttore dei Servizi Segreti tedeschi. Andiamo per i quarant’anni e abbiamo una grossa dose di responsabilità sulle spalle. L’amore non basta, non in questo mondo.”
Era una verità a cui Paul non voleva credere, ma non aveva prove a suo favore per offrire una controtesi, a parte le poesie che gli erano tanto care. “Chuuya sa tutto.”
Mori non apparve affatto sorpreso.
“Anche Dazai lo sa.”
Quello ebbe il potere di far inarcare il sopracciglio destro del Boss. “Dazai?”
“Chuuya mi era accanto, poco prima che perdessi il controllo,” raccontò Paul. “Ho usato la mia abilità per lanciarlo via. In quel momento, gli ho passato alcuni dei miei ricordi con Arthur. Frammenti, sì, ma-“
“Abbastanza da spingerlo a cercarti e volere un confronto con te,” concluse Mori. “Me lo ha chiesto, me lo ricordo. Siete andati avanti ore, qui sotto. Chuuya non ha mai parlato di cosa vi siete detti, ma è diventato di colpo più grande.”
“Si è confidato con Dazai. T’infastidisce che non sia venuto da te?”
“Non lo dico spesso, ma sono felice quando si gestiscono da soli, dimenticandosi di me.” Mori scosse la testa. “No, nemmeno il fatto che tu abbia mentito a me è così grave,” ammise. “Il tuo segreto non ha alcun potere su di me, ma lo ha avuto su Chuuya. Se vuoi un mio modesto parere: la verità ha colmato parte di quel vuoto che si portava dentro. Una volta conosciuta la storia che lo ha messo al mondo, non gli è rimasto che pensare a quella da scrivere per se stesso.”
Paul annuì. “Era la mia speranza.”
Mori si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle gambe. “Chuuya è diverso da Dazai,” disse. “Io sono diverso da te.”
Il francese inspirò dal naso. “So di essere ripetitivo, ma in quanto Dirigente della Port Mafia, giuro che non farò o dirò mai niente per mettere a rischio il tuo segreto. La tua storia con Dazai non è affar mio.”
Mori annuì, soddisfatto. “Cosa mi dici dei diari di Randou?” Domandò. Ogni parola pronunciata in quella stanza avrebbe potuto far tremare la Port Mafia fin dalle fondamenta, ma Mori aveva bisogno dei dettagli. In particolare, quelli da spionaggio intercontinentale. “Le date non corrispondono agli eventi. Secondo quelle, Chuuya doveva avere tre o quattro anni, quando tu e Randou vi siete incontrati.”
“Arthur ha scritto quei diari mentre aspettavo Chuuya. Sentiva la necessità di lasciare qualcosa, ma doveva creare un sistema di depistaggio.”
“Non c’è traccia della gravidanza in quelle pagine.”
“Non doveva esserci. Quello era il modo di Arthur di raccontare la nostra storia a nostro figlio, nel caso ci fosse successo qualcosa.”
Mori alzò il braccio destro, puntando l’indice verso il muro, ma era la città all’esterno che voleva indicare. “Suribachi esiste. Il dottor N è esistito, insieme a tutta la sua sperimentazione. Un mostro è comparso a Yokohama, ormai più di un decennio fa.”
“Ti posso spiegare,” disse Paul. “Sui diari di Arthur si parla di una missione in solitaria qui, a Yokohama. Sono descritti i pericoli, le ragioni, ogni cosa… Compresa quella maledetta festa di compleanno.”
“Lo odiavi proprio quel cappello, eh?”
“Nostro figlio è nato durante la prima primavera della Grande Guerra. Cinque anni e mezzo dopo, ce lo hanno portato via.” La voce di Paul si fece più flebile sul finire della frase.
Animato da nuovo interesse, Mori drizzò la schiena. “Chi?”
“Non lo so,” rispose Verlaine. “Ancora oggi, non sono sicuro di chi incolpare. Hugo fece il possibile per la nostra situazione. Non eravamo le prime Spie ad avere un bambino, ma io rendevo tutto un po’ più complicato. Al tempo, quando rapirono Chuuya, accusai chiunque, persi completamente la testa!” Non gli importò di restare composto.
Mori non lo biasimò. “So che cosa intendi.”
“Arrivai ad accusare Arthur stesso,” confessò Paul. “Le nazioni erano stanche di massacrarsi, qualsiasi cosa sarebbe bastata per far finire tutto, ma, no, fino all’ultimo hanno spinto i dotati di abilità a combattere per conquistare una qualche forma di superiorità. Confermai la mia fama di Re degli Assassini in quello stesso periodo. Non avevo pietà per nessuno, nemmeno quando sarebbe stato ragionevole usare un approccio più diplomatico. Mio figlio mi era stato portato via, per me il mondo poteva anche bruciare.”
Mori annuì, gli occhi bassi. “Conosco anche quella sensazione.”
“Fu Hugo a mandarci a Yokohama. Sono certo che lui sapesse cosa stesse facendo, ma non ci disse nulla per impedirci di perdere la calma.” La voce di Paul cambiò, divenne più triste - quasi disperata - ma anche oscura - pregna di odio. “In quel laboratorio sotterraneo, dentro quel tubo di vetro, c’era il mio bambino. Lo avevo creduto morto per un anno e mezzo ed era lì, davanti a me. Tu come ti sei sentito, quando hai rivisto Dazai?”
Mori scosse la testa. “Non so descrivertelo.”
“Esatto.” Paul sembrava sul punto di scoppiare a piangere. “Lo abbiamo liberato, ce ne stavamo andando ed ecco che Arthur comincia a parlare di protocolli di sicurezza del Governo, di esami che avrebbero dovuto fare a Chuuya per essere certi che non gli avessero fatto nulla.” Scosse la testa, come se non fosse lì, ma di nuovo in quel tunnel di roccia che portava al mare. “Tutto è andato in pezzi. Arthur ha cercato di rimediare. Oggi sono certo che non avrebbe fatto del male a nostro figlio, ma… Oggi è tardi.”
Per la seconda volta, calò un silenzio insopportabilmente pesante nella stanza. Mori non riuscì a reggerlo per molto. “Cinque anni e mezzo…” Ripeté. “Dazai ne aveva due. Sono certo che non ricordi niente di Weimar, come potrebbe? Ma cinque anni…”
“Chuuya non ricorda nulla, prima di Suribachi, lo sai,” disse Paul, con un sorriso triste. “La mia famiglia ha avuto poco tempo, ma a lui lo hanno tolto tutto. N ha pagato per questo e per tutto il resto.”
Mori gli concesse qualche istante per recuperare il controllo delle sue emozioni. “Chuuya…” Mormorò, come se quel nome gli suonasse improvvisamente estraneo.
“Mio figlio si presenta al mondo con il nome di un esperimento. Questa cosa mi dilania.” Confessò Paul.
“Era la mia prossima domanda,” ammise Mori. “Qual è il suo vero nome?”
Paul accennò un sorrisetto amaro e scosse la testa. “Se ti chiedessi come si chiama tuo figlio, come mi risponderesti?”
“Dazai Osamu,” rispose Mori, senza esitare e comprese il messaggio ancor prima che l’altro glielo spiegasse.
“Ecco…” Paul provò a scrollarsi di dosso il malanimo, anche se sapeva che certi dolori nemmeno il tempo li avrebbe mai sanati. “Non abbiamo mai fatto una visita medica con Chuuya. Tutto quello che ho avuto di quella gravidanza è stato un test positivo e la pancia che cresceva.”
“Da medico, ti dico che siete stati fortunati.”
“Io ero convinto che fosse una femmina e volevo darle il nome in codice della madre di Arthur. Sì, era una Spia anche lei.”
“E il nome sarebbe?”
“Marie Cosette.”
“Perché l’ho chiesto?” Mori si schiaffò una mano in faccia: dopo quella rivelazione, come avrebbe potuto guardare Chuuya in faccia, senza scoppiare a ridere come un idiota ogni maledetta volta. “Quindi, avete scoperto solo alla nascita che era un maschio?”
Paul annuì. “Nicolas George,” disse, con la voce di chi parla di un grande amore passato. “Nicolas era uno dei nomi di Arthur, George l’ho scelto io. Alla fine, lo chiamavamo solo Nicolas o Nicki.” Una pausa. “Elise da dove viene?”
“Für Elise,” rispose Mori. “La prima volta che ho sentito Hans suonare, stava eseguendo quella. È la colonna sonora del nostro primo incontro.”
“Solo Elise?” Indagò Paul. “Nessuno nome giapponese per onorare la tua terra?”
Mori scosse la testa. “La mia famiglia è stata uccisa alla fine del primo inverno della Grande Guerra, mentre io ero al sesto mese di gravidanza,” spiegò. “Il Boss di allora tentò di liberarsi anche di me, attraverso la mia guardia del corpo. Era Hirotsu.”
Paul lo fissò con gli occhi sgranati, sbalordito. “Hirotsu ha cercato di farti del male?”
Mori scosse la testa. “Mi ha salvato,” spiegò. “Al fronte era pieno di cadaveri non identificati. Nessuno alla Port Mafia sapeva della mia bambina, così non fu difficile trovare un corpo che potesse essere scambiato per il mio.”
“E il DNA?”
“Mi tagliarono i capelli,” rispose Mori, arricciolandosi le ciocche intorno alle dita con una smorfia indispettita. “Ci ho messo anni a farli ricrescere come volevo.”
Qualcosa suggeriva a Paul che al tempo dei fatti, a Mori non era importato assolutamente nulla dei suoi capelli. Ingigantiva il fatto più superfluo per non parlare di cosa davvero gli aveva fatto male: il massacro della sua famiglia.
“Non era sicuro dare a mia figlia un nome giapponese,” aggiunse il Boss della Port Mafia. “Una volta nata Elise, Hans si rifiutò di registrarla come se fosse solo figlia sua. Disse che la Port Mafia sapeva benissimo che eravamo amanti e che il suo nome era pericoloso quanto il mio.” Si umettò le labbra. “Nemmeno io ho mai scoperto chi me l’ha portata via,” aggiunse.
“L’Arma di Weimar,” disse Paul. “Dazai riesce a fermare Chuuya soltanto toccandolo. Quello era il potere che avrebbe cambiato davvero le sorti del conflitto. Qualcuno parlava della Grande Guerra come di uno scontro tra divinità, un’eco della mitologia classica in epoca moderna. L’esistenza della tua bambina bastava a condannarli tutti alla mortalità. Dazai ti ha mai raccontato nulla della sua infanzia?”
Mori scosse la testa, ma il francese era certo che non glielo avrebbe raccontato comunque. “Dice di non ricordare come dovrebbe,” rispose. “I primi tempi, ho provato ad applicare un po’ di pressione sulla sua memoria, ma ho ottenuto solo guai. Alla fine, ho deciso che mi sarei concentrato su quello che avevo di lui e, in parte, ha funzionato.”
“E Dazai Osamu?” Domandò Paul. “Da dove viene quel nome?”
“Conosco la risposta,” ammise Mori. “Ma preferisco tenerla per me.”
“Le storie dei nomi sono importanti,” mormorò Paul. “Per il resto dei miei giorni, chiamerò mio figlio con un nome di cui non conosco la provenienza.”
Il Boss rimase in silenzio per un po’, studiandolo. C’era ancora un dettaglio della storia che non gli era stato rivelato. “Esperimenti?” Domandò. “Un effetto della tua abilità che non conoscevi? Che cosa ti ha permesso di portare in grembo Chuuya e di metterlo al mondo?”
“Mi spiace, ti deluderò,” rispose Verlaine. “Nessuno effetto speciale come il tuo. Semplice ed elementare biologia.”
Mori fece due più due. “Sei come Dazai.”
Paul annuì. “Quando crei una vita artificiale, t’interessa che abbia un corpo sano e funzionale, ma qualcosa sfugge sempre. Non ha importanza quanto gli scienziati ci provino. Giocano a fare Dio ma non riescono a eguagliarlo. Un’arma con le sembianze di una donna non era nei piani e il mio creatore non ha mai mancato di ricordarmelo. Ero un oggetto per lui, la mia identità di genere si è formata tra un suo esperimento e l’altro. Quando Arthur mi ha trovato e si è presentata la questione di trovarmi un nome, ho deciso che sarei stato Paul Verlaine e che non avrei saputo vivere in nessun altro modo. In verità, ti confido, credevo di essere sterile.”
Mori annuì. “Lo credevo anche io. Anzi, ti dirò, penso di esserlo stato per un po’. La forza che comandava il mio corpo era in divenire. A un certo punto, deve essere scattato qualcosa… Non saprei dirtelo nemmeno io.”
“Dopo quanto tempo è arrivato Dazai?”
“Più di due anni,” rispose Mori. “Per questo ero certo di non dovermi preoccupare di nulla.”
Paul tornò con la mente a quel primo anno con Arthur. “Non te lo so dire con precisione, ma Chuuya deve essere arrivato dopo sei o sette mesi che la relazione tra me e Arthur era divenuta di altra natura.” Sospirò.
Mori scrollò le spalle. “Dazai è sempre stato pigro. Ha avuto un episodio di rush quando è nato, poi è finita la magia.”
Dopo tutto quel che si erano confidati, Paul Verlaine guardava il Boss della Port Mafia e lo vedeva sotto una luce diversa. In quel preciso momento, Mori gli ricordò tanto il ragazzino di diciassette anni che aveva incontrato alla vigilia dello scoppio della Grande Guerra.
“Non ti ricordi di me, vero?” Domandò il francese.
“È la seconda volta che accenni al fatto che ci siamo già incontrati,” disse Mori. “Lo hai fatto anche la sera in cui i ragazzi hanno organizzato quella festa intorno al pianoforte del 34-Est.” Si passò una mano tra i capelli corvini, poi scosse la testa. “Perché non mi ricordo di te?”
“Essere invisibile era il mio lavoro, Mori,” lo giustificò Paul. “Anzi, quella notte a Parigi mi sono esposto anche troppo, ma era così chiaro quello che ti stava accadendo e sapevo che, senza alcun indizio, non ci saresti arrivato in fretta.”
Gli occhi scuri del Boss s’illuminarono. “Il ragazzo coi capelli biondi al bancone del bar…"
Paul annuì, soddisfatto. “Ricordo la tua espressione esausta e la determinazione con cui t’imponevi di mantenere il controllo, ma la nausea da primo trimestre ti stava mettendo in ginocchio.”
Mori fece una smorfia disgustata al ricordo. “Primo trimestre? Ho vomitato per sei mesi!”
Paul avrebbe voluto fare una battuta su Dazai e il modo innato in cui si trasformava nel problema di chiunque facesse parte della sua vita. A quanto pareva, era una tattica con cui aveva fatto pratica fin dal grembo materno. Dopo breve riflessione, Verlaine decise di non mettere alla prova il buon umore - altalenante - del suo superiore.
“Dopo quanto tempo hai scoperto di aspettare Dazai?” Domandò Paul.
“Non ricordo nemmeno cosa mi dissi per mettermi la pulce nell’orecchio,” ammise Mori. “So solo che quando io e Hans tornammo in camera d’albergo, lui mi strinse forte e io, per la prima volta, lasciai perdere il mio realismo e sperai che l’indomani non succedesse niente.” Scosse la testa. “Ero a Weimar e mentre le nazioni d’Europa si dichiaravano guerra, facendo riecheggiare quella promessa di morte in tutto il globo, io presi un test di gravidanza di nascosto.”
Una pausa, gli occhi scuri si tinsero di una sfumatura che il francese identificò come tristezza, un sentimento troppo umano per l’uomo che gli era davanti.
“È facile pensare che la mia vita sia cambiata con Hans e con la partenza per l’Europa,” aggiunse Mori. “Non è la verità. Anche dopo lo scoppio della guerra, potevo ancora tornare sui miei passi.”
“Ma l’arrivo di un figlio segna un punto nella vita delle persone,” concluse Paul. “Quella notte, a Parigi, io sapevo di Chuuya. Lo sapeva anche Arthur ed è per questo che mi sono ritrovato a fare compagnia a te.”
“Non ne era felice,” intuì Mori.
“Hans lo era?”
“Sì,” rispose il Boss ed era sincero. “Fui io a creare un melodramma. Non sapevocome dirglielo, non sapevo se dirglielo. Senza contare che, in quanto dotati di abilità, eravamo chiamati a combattere sulla prima linea. Tutto questo, mentre cercavo di venire a patti col fatto che avessi una vita dentro di me. Nella lista dei traumi della mia vita, penso che quell’esperienza abbia un buon secondo o terzo posto.”
Paul aveva un metro di paragone diverso: non era mai riuscito a percepire se stesso come essere umano, nonostante gli infiniti sforzi di Arthur. Non essere nato, ma essere stato creato, aveva influenzato ogni esperienza della sua esistenza. Nulla lo aveva preparato a Chuuya, ma realizzare di poter essere per quel bambino ciò che a lui non era stato concesso, lo aveva reso determinato a metterlo al mondo fin da subito. Arthur aveva avuto un’idea completamente diversa.
“Hai mai pensato di non tenerlo?” Domandò Paul, schietto. “La tua abilità ti aveva rinchiuso in un corpo che non era tuo completamente, eri lontano dalla tua famiglia e sia tu che Hans eravate molto giovani. Inoltre, sì, c’era la guerra. Ti sei ritrovato con molto a cui pensare in poco tempo.”
“Mi par di capire che siamo in due,” ribatté Mori.
“Era ragionevole pensare di porre fine alla gravidanza.”
“Così come lo era per te, Verlaine.”
“Nessuno dei due lo ha fatto,” concluse Paul.
“Io avevo diciassette anni, ero avventato e molto innamorato del padre del mio bambino. Tu, invece?”
“Io ero molto innamorato dell’idea di Chuuya, di quello che poteva rappresentare per me.” Era una confessione difficile da fare. “Tanto da mettere in discussione il mio legame con Arthur. Se è vero che in una storia c’è sempre qualcuno che ama di più, penso che quel qualcuno fosse lui.”
“L’amore mi è sfuggito da tempo, Verlaine,” disse Mori. “Non mi riferisco alle persone che lo rappresentavano per me, ma al sentimento stesso. So di essere stato innamorato e so che qualcuno ha amato me, ma è come se fosse successo a un’altra persona.”
“Chuuya mi ha raccontato tutto della gravidanza di Dazai. Non mi ha detto quasi nulla di te, a parte le cose scontate.”
“Che vuoi che ti dica?” Mori sorrise con amarezza. “Per chiarire il legame tra me e Dazai ci vorrebbe una chiacchierata lunga giorni, che tu non hai bisogno di sentire e io non ho voglia di fare. Alla fine di tutto, il Demone fanciullo della Port Mafia non esiste più. Dazai non avrebbe mai scelto me. Ne ero consapevole fin dall’inizio: la mia sola esistenza lo fa star male. Mi pento di aver fatto nascere quel bambino e di averci provato comunque?” Mori scosse la testa. “Dazai è vivo e Sakunosuke è una meraviglia. Non ho altro d’aggiungere.”
Paul credeva di capire. “E come pensi di fare con Chuuya?”
“Penso che cambierò idea.” Il Boss della Port Mafia si alzò in piedi con un saltello. “So perché mi hai rivelato tutto. Volevo che fossi perfettamente consapevole di che cosa ho tra le mie mani e te ne sono grato. Per tanto, penso che mi farò da parte e convincerò Chuuya a venire da te.”
Paul scosse la testa. “Sei tu il suo punto di riferimento, non io.”
“Sono il suo punto di riferimento, non sono suo padre,” ribatté Mori. “Ci sono situazioni in cui una carezza vale più di mille consigli ragionevoli.” Sì ricordò della notte in cui Dazai aveva letto gli scritti di Oda Sakunosuke, di come aveva pianto fino all’alba. Mori gli aveva accarezzato i capelli in silenzio per tutto il tempo, anche se aveva capito da solo di non essere la persona migliore per quella circostanza. Lasciare Dazai da solo con quel dolore non era mai stata un’opzione.
“Ma questa è una cosa che possiamo capire solo io e te, Verlaine,” aggiunse Mori. “Dazai la imparerà tra qualche anno e, forse un giorno, capiterà anche al tuo Chuuya. Che giochino pure a fare i cani randagi. Che ci odino,” mentre se ne andava, si voltò e fece l’occhiolino a Verlaine. “Quello che non capiscono è che noi continueremo ad amarli.”