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CowT#9 Settimana 7: M12 "Gemelli"



Caro padre,
quando questa lettera ti raggiungerà avrai già appreso la notizia della vittoria sulla spiagge di Marley. Ti scrivo dal nuovo quartier generale, Shadis mi ha nominato Capo Squadra dopo l’ottima riuscita dell’ultima missione che ho guidato. Abbiamo issato la bandiera di Eldia in tutte le città dell’arcipelago di Cold Stone, a poche miglia dalla costa nemica. Di notte, rivolgendo lo sguardo all’orizzonte, si possono vedere le luci della capitale di Marley dalla scogliera.
Dall’inizio del conflitto, Eldia non è mai stata così vicina dal ribaltare le sorti del conflitto.
Mi spiace, padre, so che le questioni di guerra non ti sono care e che preferiresti avermi a casa, invece di sapermi un soldato in questo scontro.
Non mi aspetto che tu decida di rispettare la mia scelta ma ti sono grato per averla accettata. Mi auguro dal profondo del cuore che questa lettera ti trovi in salute.
Spero, un giorno, di riuscire a renderti orgoglioso di me.
Tuo figlio.


Erw-



“Attenzione! Bomba in arrivo!”
Erwin non riuscì a evitare il getto d’acqua, che lo colpì sullo stomaco, ma ebbe i riflessi pronti per sollevare la lettera e il diario che stava usando come appoggio per scrivere. Non andò altrettanto bene con il calamaio, che cadde di lato macchiando di nero lo scoglio bianco. Erwin lo raddrizzò prontamente, sporcandosi le dita d’inchiostro nel processo. Ormai il danno era fatto.
Sollevò gli occhi sugli altri giovani soldati, che si erano bloccati non appena essersi resi conto che il loro scherzo non aveva divertito il loro compagno in alcun modo.
“Scusaci, Erwin,” disse Hanji, sinceramente costernata. “Cercavamo solo di… Non ci eravamo accorti che-”
“Lo so,” la interruppe Erwin, senza nessuna particolare inclinazione, la mano sporca d’inchiostro sospesa a mezz’aria.
Hanji lo liberò del diario e della lettera, porgendole un fazzolletto di stoffa. “Prendi. Le tracce d’inchiostro rimarranno per qualche giorno ma se lo asciughi non rischierai di macchiarti ulteriormente.”
Erwin scosse la testa. “Le macchie non andranno più via.”
“Non importa, Erwin,” insistette la ragazzina.
Il soldato accettò l’offerta forzando un sorriso. “Sei gentile, Hanji.”
“Ho combinato il danno per prima.” Lei si aggiustò gli occhiali sul naso e sollevò lo sguardo sui giovani che erano rimasti a osservare la scena in silenzio, intimoriti dalla reazione del loro Capo Squadra. “Andate a tediare qualcun altro,” disse con un gesto della mano che invitava a levarsi di torno.
“Tu non vieni, Hanji?” Domandò uno dei ragazzi.
“No, resto a fare a compagnia a Erwin. Cercate Mike, non sia mai che si faccia due risate.”
Il Capo Squadra non disse nulla mentre puliva via le tracce fresche d’inchiostro, lasciando le dita macchiate di bluastro. “Chiederò a qualcuno al villaggio di provare a pulirlo.”
Hanji scosse la testa, restituendo il diario e la lettera al legittimo proprietario. “Non ci provare! Me la sono cercata.”
Erwin si cacciò il fazzoletto sporco in tasca promettendo a se stesso che avrebbe provato a porre rimedio al danno anche senza il permesso dell’amica.
“Ti ho anche bagnato la camicia,” aggiunse Hanji.
“Con questo caldo non è un problema,” disse Erwin, piegando la lettera con cura e infilandola dentro il diario. “Torniamo al campo.”
“Sicuro? Non vuoi stare un po’ lontano dalla folla?”
“Mi serviva solo un po’ di calma per scrivere.”
S’incamminarono tra gli scogli bianchi.
“È una lettera per tuo padre?” Domandò Hanji, sebbene conoscesse già la risposta.
Erwin annuì. “Ci provo…”
“Ancora nessuna risposta?”
Il Capo Squadra scrollò le spalle. “Continuiamo a spostarci,” disse. “In zona di guerra è difficile che una lettera trovi il soldato a cui è indirizzata.”
“Sicuramente è così,” concordò. “Nemmeno io ho ricevuto nulla dai miei da quando abbiamo lasciato Paradise, anche se non sono una figlia tanto devota da scrivere regolarmente. La mia famiglia pensa che privandomi del loro amore tornerò a casa prima di subito, ma non funziona proprio così.”
“Mi dispiace,” disse Erwin, sinceramente.
“Nah! Cambiando discorso: il Re è qui!”
“Uri Reiss è al campo?”
Hanji annuì con entusiasmo. “Accompagnato dal Capitano Ackerman e da un paio dei Principi. Non so quali, non ci ho mai capito niente con gli eredi di quella famiglia.”
“Perché tutte le informazioni che li riguardano sono riservate,” disse Erwin. “Lo stesso Uri Reiss dovrebbe avere un figlio illegittimo con gli stessi privilegi di un’Altezza Reale ma nessun diritto sulla corona. Poi ci sono i figli di suo fratello, Rod e, infine, i membri del ramo cadetto della dinastia, fuggiti da Marley anni fa. Uno dei Principi, di fatto, non è un Reiss.”
Hanji sbatté le palpebre un paio di volte, sconvolta. “Non ci ho capito niente.”
Erwin ridacchiò. “È una famiglia reale che ha creato un impero distruggendone un altro, prima di essere confinata su di un'isola con i superstiti della propria gente. È complicata per sua natura.”





Sulla soglia dei quarant'anni il Capitano Kenneth Ackerman, detto Kenny, era un uomo che le aveva vissute tutte. Nato nobile, suo malgrado, accolto a corte ancora adolescente per essere la guardia del corpo dell'allora erede al trono, di cui era divenuto amante prima dei vent'anni. Era sopravvissuto allo sterminio della sua famiglia avvenuto per ordine del vecchio e folle Re e, non contento, era tornato alla corte di Paradise a testa alta, si era guadagnato un titolo militare di tutto rispetto - ma che non lo aveva reso un uomo rispettabile neanche un po’ - e, lungo il processo, aveva anche cresciuto un bambino.
“Quali pensieri di merda affollano la tua testolina, moccioso?” Domandò Kenny, dondolandosi sull'unica sedia che aveva trovato, giusto per spezzare il silenzio e perché non sapere almeno la natura delle riflessioni di suo figlio gli metteva ansia.
Il nanerottolo nemmeno si voltò a guardarlo. “Non penso a niente…“
Uri era ancora in riunione con i Comandanti e Frieda era con lui. Kenny era stato invitato a partecipare a sua volta, ma l'ultima cosa che voleva era mettere suo figlio in una tenda piena di leader militari e farlo interessare alla causa contro Marley. Già l'idea di combattere lo attraeva troppo per i gusti di Kenny.
Levi,” disse con tono più fermo, afferrando il primo oggetto innocuo che trovo - uno dei suoi stivali - e lanciandolo contro suo figlio. “Guardami in faccia quando ti parlo!”
Lo mancò di mezzo metro - di proposito, ovviamente - ma il gesto fu sufficiente a convincere il ragazzino a fulminarlo con uno sguardo. “Che cosa vuoi?”
Kenny ridacchiò. “Bene! Incazzati con me e smettila di guardare l'orizzonte con quell'aria afflitta!”
Levi lanciò un'altra occhiata verso il mare e Kenny non poté evitare di notare che per vederlo bene si era dovuto sedere sopra i due bauli di Frieda. “Quella striscia di terra laggiù è Marley?”
Kenny reclinò la testa da un lato ma da dove era riusciva a stento a vedere l'acqua blu oltre la scogliera. “Sì,” rispose comunque. “Ma a te cosa importa? Non ci andrai mai!”
Levi alzò gli occhi al cielo. “Perché mi hai permesso di venire se ti senti in dovere di controllarmi a vista?”
Kenny allargò le braccia. “Dovevo lasciarti a corte da solo con Rod Reiss e quel biondino che ti sbava dietro?”
Levi storse la bocca. “Zeke non mi sbava dietro.”
Kenny alzò gli occhi al cielo. “Io o Uri dobbiamo averti fatto cadere da piccolo per farti diventare tanto stupido.”
Zeke Jeager era l'ultimo superstite del ramo cadetto della famiglia Fritz - poi divenuta Reiss -, rimasto prigioniero su Marley in seguito alla cacciata di tutti gli Eldian dal continente. Era arrivato alla corte di Paradise all'età di dodici anni su di una zattera che aveva toccato le rive dell'isola per puro miracolo. A Kenny stava sinceramente in quel posto e il suo giudizio su di lui peggiorava drasticamente ogni volta che si aggirava nei pressi di Levi.
“Zeke è interessato a Frieda, non a me.”
“Levi, abbi pietà di me! È interessato a lei solo per ragioni politiche!”
“Sei solo un paranoico di merda, Kenny.”
“Ehi, moccioso, per te sono papà!” Ogni volta che Kenny udiva una stronzata del genere uscire dalla sua bocca sentiva il vecchio se stesso ridere di gusto nella sua testa, seguito dalla voce di Kuchel che lo prendeva in giro con tenerezza.
Aveva rinunciato con codardia a essere il padre di Levi nella sua vita precedente solo per attaccarsi a quel ruolo con le unghie e con i denti per ogni giorno della seconda vita di suo nipote.
Levi saltò giù dai due bauli.
“Dove credi di andare?” Sbraitò Kenny, prima ancora che il suo moccioso decidesse di prendere la via dell’uscita.
“Qui dentro puzza,” rispose Levi. “Mi serve aria.”
“Tu la puzza ce l’hai nel cervello? Ehi! Ti ho già detto di guardarmi in faccia quando ti parlo!” Kenny afferrò il secondo dei suoi stivali e lo lanciò in direzione del ragazzino. Lo mancò di nuovo ma per poco che prendesse Uri mentre rientrava.
“Che sta succedendo qui?” Domandò il Re, rivolgendosi direttamente al suo Capitano. “Kenny?”
Il diretto interessato incrociò le braccia e voltò lo sguardo di lato, rifiutandosi di rispondere come un bambino.
“Mi tedia,” rispose Levi, con tono incolore.
“Sono tuo padre, tediarti è il mio fottuto lavoro!” Replicò Kenny puntando un indice minaccioso contro il ragazzino ingrato a cui aveva dato il nome di suo nonno.
Uri sospiro. “D’accordo,” raccolse lo stivale da terra e lo riportò al suo legittimo proprietario. “Kenny, perchè non la smetti di torturarlo?”
Il Capitano lo fissò allibito. “Io?” Domandò, indicandosi. “Io torturo lui?”
“Non puoi portarlo lontano da casa e pretendere che se ne stia al chiuso tutto il giorno,” replicò Uri, gentilmente.
Kenny assottigliò gli occhi. “Voi complottate per farmi fuori, vero?”
Levi sbuffò. “Che stronzo…”
“Levi,” lo rimproverò Uri, prontamente. “Non ti rivolgere a tuo padre in quel modo.”
Il ragazzino rientrò immediatamente nei ranghi e buttò lì uno scusa a mezza bocca. Erano quelli i terribili momenti in cui Kenny assaggiava per davvero il sapore dell’impotenza: non aveva importanza quanto provasse a farsi rispettare - o temere - da Levi, al moccioso di merda non incuteva neanche un briciolo di soggezione. Uri, invece, era dolce con i bambini la maggior parte del tempo e all’occorrenza gli bastava uno sguardo per convincere Levi e Frieda e tornare al loro posto.
“Che merda…” Bofonchiò il Capitano Ackerman.
Uri gli lanciò uno sguardo eloquente e Kenny tornò a chiudersi dietro un muro di offeso silenzio.
“Levi, perché non vai da tua cugina?” Propose Uri, gentilmente. “Si trova nell’infermeria a fare amicizia con i giovani. Ti va di farle compagnia e assicurarsi che tutti tengano le mani al loro posto?”
Kenny inchiodò lo sguardo contro la nuca del compagno ma il sovrano era un altro soggetto immune alla sua aura minacciosa.
Levi accettò la proposta senza mostrare alcun interesse. “Certo,” si limitò a dire, ma il Capitano Ackerman sapeva che nel profondo stava esultando.
“Prudenza e tornate prima che faccia buio,” furono le condizioni che Uri impose.
Levi annuì due volte e uscì dalla tenda senza concedere al padre il tempo di dire la sua in proposito. Quando Uri si voltò a guardarlo, Kenny stava ancora lì a boccheggiare. “Ti rendi conto di che stronzata hai fatto, Uri?”
Il sovrano appoggiò la schiena al bordo del tavolo su cui il Capitano aveva sgraziatamente posto i piedi privi di stivali. “Devi smetterla di fare così.”
“Devo smettere di fare cosa?” Domandò Kenny, annoiato. “Di essere suo padre? Di proteggerlo? D’impedirgli di volare verso un destino che lo condannerà a morte certa? Abbandonarlo non è andato bene e adesso non va bene prendermi le mie responsabilità con lui?”
Uri gli sorrise pazientemente. “Da quando ha compiuto quindici anni, sei peggiorato.”
“Mi lusinghi sempre, Uri.”
“Che cosa è cambiato?”
“Niente…”
“Kenny…”
Il Capitano gesticolò nervosamente, cercando una via d’uscita da quella situazione di merda ma avrebbe fatto prima a spararsi in testa piuttosto che convincere il sovrano a cambiare discorso. “Non so cosa succede dopo i suoi quattordici anni,” ammise.
Uri lo sospettava. “Non sapevi che cosa sarebbe successo nemmeno i primi sei.”
“Non dire stronzate, sai che è diverso!” Replicò Kenny. “I primi sei anni della sua vita è stato completamente dipendente da noi. Dopo sapevo che cosa fare perchè lo aveva già vissuto, ma adesso… Non mi guarda più come prima.”
Suo malgrado, Uri scoppiò a ridere.
“Che cazzo ridi? È una tragedia!” Sbottò il Capitano. “Non è mai stato un moccioso facile, non mi ha mai reso le cose semplici ma quella volta, prima che lo lasciassi… Che cazzo ne so! Si fidava ciecamente di me, anche se ero un pezzo di merda e l’ho tradito quando l’ho lasciato.”
Uri annuì ascoltando ogni parola con attenzione.
“Se ora sparissi dalla circolazione, lo stronzetto salterebbe di gioia!” Concluse Kenny con rabbia, sbracciando verso il punto in cui Levi era sparito. “Moccioso di merda…”
Il sovrano poggiò una mano sul ginocchio del Capitano. “È esattamente il contrario: è tanto sicuro della tua presenza nella sua vita che ti dà per scontato. Quindici anni, Kenny, non puoi pretendere che cerchi ancora la nostra mano.”
Kenny s’imbronciò come il più viziato dei mocciosi. “Quanto me ne pento…”
“Non è vero e lo sai.”
“Oh, sì, lo so! Per questo mi odio e detesto Kuchel per avermi messo in questa situazione di merda… Di nuovo.”
Uri sorrise tristemente. “La prima volta lo hai reso forte,” disse. “Forse non potevi davvero dargli di più o avevi solo paura di farlo. Ora, però, lo hai reso felice, lo hai tenuto al sicuro, lo hai fatto sentire amato. Non hai temuto per lui allora, perchè dovresti farlo adesso che gli hai dato veramente tutto ciò che hai?”
Kenny lo guardò con astio. “Perché sei così rilassato?”
“Perché mi fido di nostro figlio,” rispose Uri. “Perché non puoi farlo anche tu?”
Il Capitano cercò le parole giuste da dire e quando non le trovò, sbuffò e tolse i piedi dal tavolo per infilare l'unico stivale che aveva a portata di mano. “Non è a Levi che non do fiducia,” disse, alzandosi in piedi per recuperare il secondo. “Ma al mondo di merda in cui è nato.”




***



Dalla loro parte del campo, Erwin trovò la stessa calma che era andato a cercare tra i massi della scogliera. Era corsa voce che l’erede al trono fosse nella tenda dell’infermeria a fare visita ai soldati feriti nell’ultima azione e tutti quelli della sua squadra - adolescente costretti in un mondo di adulti che non perdevano occasione per dimostrare la loro vera età - erano emigrati uno ad uno in quella direzione accusando un misterioso mal di pancia che si era diffuso tra loro a macchia d’olio.
Il Comandante Shadis aveva lasciato correre la cosa alzando gli occhi al cielo. Nonostante la sua fama di militare intransigente, era un uomo gentile e comprensivo nei confronti dei suoi ragazzi. Sapeva che era indispensabile farsi rispettare ma non farsi odiare da loro.
Erwin lo stimava profondamente: aveva combattuto quella guerra fin dall’inizio e aveva visto Eldia trionfare su Marley e cadere per sua madre decine di volte. Gli orrori di cui era stato testimone non si potevano contare e il fatto che fosse sopravvissuto tanto nella milizia era una fortuna, ma non per lui.
La stanchezza che Erwin scorgeva nel suo sguardo durante le cerimonie di commemorazione dei caduti era pari alla fermezza con cui li guidava sul campo di battaglia. Quando lo guardava, Erwin scorgeva del sollievo nella sua espressione misto a un marcato senso di pietà. Il giovane Smith sapeva che se la guerra non se lo fosse preso prima, sarebbe toccato a lui il ruolo del comando e quel giorno avrebbe segnato la fine della maledizione a cui Shadis si era condannato da solo, se per dovere nei confronti della patria o dei compagni caduti non era dato saperlo.
“Il Comandante ti sta guardando,” disse Hanji, sedendosi a gambe incrociate sulla spiaggia.
Erwin si era ritirato vicino alla riva per scrivere un’altra lettera a sua padre, più personale ed aveva confidato nel fatto che il rumore del mare potesse aiutarlo. Non era servito: si era ritrovato tra le mani l’ennesimo rapporto militare condito con le sue preghiere di figlio ingrato. Forse Erwin avrebbe solo dovuto accettare che era assurdo chiedere a un padre di essere orgoglioso di sapere il suo unico figlio costantemente a due passi dalla morte.
“Perchè non chiedi una licenza di qualche giorno?” Propose Hanji con un sorrise gentile. “Torni a casa, tuo padre ti rivede in salute e forse riuscite a tranquillizzarvi entrambi. Shadis non ti dirà di no dopo una vittoria schiacciante come quella a cui hai contribuito.”
Erwin passò gli occhi azzurri sulle poche righe scritte sull’ennesimo foglio di carta strappato dal suo diario. “Proprio perchè abbiamo ottenuto una vittoria schiacciante non mi posso allontanare,” disse. Non confessò all’amica che temeva che i rapporti tra lui e suo padre sarebbero peggiorati se si fossero ritrovati l’uno di fronte all’altro.
Erwin riusciva rimanere saldo e fiero durante un attacco contro Marley, ma non poteva sopportare nemmeno l’idea di uno scontro con suo padre.
“Come vanno i tuoi incubi?” Domandò Hanji.
Erwin sospirò e sollevò gli occhi azzurri sul mare, sull’orizzonte tagliato dalla linea nera delle coste di Marley. “Come sono sempre andati,” rispose. L’amica era l’unica con cui ne parlava. Se Shadis avesse saputo, non ci avrebbe pensato due volte a spedirlo a casa, forse a congedarlo definitivamente.
Ci si poteva aspettare che un soldato perdesse la testa sulla strada della guerra ma un Capo Squadra, il primo candidato a divenire il più giovane Comandante a combattere contro Marley, non poteva permettersi di non essere assolutamente lucido.
“Sono sempre gli stessi?” S’informò Hanji. “Mike dice che ti sente agitarti nel sonno, a volte. Si preoccupa per te ma non lo dice perchè non dai a vedere nulla. Non vuole metterti difficoltà.”
“Ne parla con te, però.”
“Perchè sa che a me non puoi tenere nascosto niente,” replicò Hanji con un sorriso furbetto.
Suo malgrado, anche gli angoli della bocca di Erwin si sollevarono. “E ha ragione…”
“E allora?” Insistette Hanji, facendo toccare le loro spalle. “Sei riuscito a ricordare il suo nome?”
Si riferiva al giovane dai capelli corvini che Erwin vedeva nei suoi sogni, l’unica immagine onirica ricorrente che non fosse ragione di paura o orrore.
“No, non ancora,”
“Io ho riflettuto,” lo informò Hanji.
“Non ne avevo dubbi.”
“Non ci sono prove scientifiche a riguardo, ma se questi sogni sempre uguali fossero ricordi?” Propose. “Se il fanciullo dai capelli corvini e dagli occhi di ghiaccio che continui a sognare sia la tua anima gemella perduta? Forse non ricordare il suo nome è la prova d’amore che devi superare per ritrovarla.”
Erwin inarcò le folte sopracciglia in un’espressione di assoluta perplessità. “Stai scherzando, Hanji?”
L’amica scoppiò a ridere. “Certo che sì!” Si rotolò sulla sabbia. “Hai fatto una faccia!”
Suo malgrado, anche Erwin sorrise un poco.
Una folata di vento gli investì e il giovane Capo Squadra chiuse gli occhi per impedire alla sabbia di accecarlo. Perse presa sulla lettera scritta per suo. Erwin si mosse velocemente ma il vento di mare continuò a soffiare facendo volare la missiva sempre più lontano.
Si alzò in piedi, la inseguì ma fu qualcun altro ad afferrarla per lui.
Levi si ritrovò con la lettera tra le mani per puro caso, solo in un secondo momento notò il ragazzo dai capelli biondi che la stava inseguendo.
“Scusami,” disse Erwin, piantandosi di fronte a lui.
Levi scosse la testa e gli riconsegnò la missiva. Aspettò che il ragazzo lo ringraziasse o che semplicemente si facesse da parte per farlo passare, ma il soldato non si mosse.
“Hai intenzione di farmi passare?” Chiese scocciato.
Erwin sobbalzò, come se si fosse incantato. “Scusami…”
“Lo hai già detto.”
Si guardarono ancora. Non c’era nessuna reale espressione sul viso di Levi, ma Erwin sembrava aver visto un fantasma.
“Sai dirmi dove si trova la tenda dell’infermeria?” Domandò il giovane nobile.
Solo allora il Capo Squadra si fece da parte. “È la grande tenda scura al centro del campo.”
Levi annuì due volte. “Grazie…” Disse a mezza bocca e riprese a camminare.
Erwin non si mosse, come impietrito.
Solo quando Hanji gli afferrò il polso si riscosse. “Tutto bene?” Domandò preoccupata. “Lo conosci?”
Erwin continuò a fissare il giovane dai capelli corvini mentre spariva tra le tende dell’accampamento militare. “Non se sono sicuro…” rispose.

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