[personal profile] odetjoy
CowT#9 Settimana 7: M11 "Ruota"





Fino a che punto un uomo poteva sacrificarsi per un bene superiore?
“Keith…”
E quando quel bene superiore impallidiva di fronte alle ragioni del cuore?
“Keith, ti prego… Ti prego…”
Il Paladino Nero si era posto quelle domande molte volte nel corso della guerra, così come il suo predecessore.
Vittoria o morte.
Morto o conoscenza.
Le alternative erano sempre state altre, più semplici, più personali: dovere o amore.
Il Paladino Nero che si era ritrovato al suo posto diecimila anni prima aveva scelto a costo di tradire i suoi amici, la sua gente e lo stesso universo che aveva giurato di proteggere.
“Spetta a te scegliere, Paladino Nero.”
“Non sono il Paladino Nero.”
Lo era stato, ma il Guardiano del Cielo era un altro e giaceva immobile tra le braccia del suo Paladino Rosso, una volta Blu.
“Allura ti ha riportato indietro, Shiro. Lei può-”
“Allura non è qui!”
Quanti battiti erano rimasti al cuore di Keith?
“Non esiste altro modo…”
“Shiro, non farlo!”
“Mi dispiace, Lance…”
“Shiro, ti prego, non fargli questo!”
Aveva compiuto il suo dovere molte volte Takashi Shirogane, il Campione, il Paladino Nero, il Capitano dell’Atlas.
“... Ho giurato che non si sarebbe presa anche te.”
La sua scelta si concretizzò in un bagliore di luce viola.




[2 settimane dopo la fine della guerra]


Shiro si svegliò di soprassalto, la fronte imperlata di sudore e il respiro bloccato in gola. Non riuscì a muoversi per dieci lunghissimi secondi e quando recuperò il controllo del suo corpo, si mosse lentamente, come se avesse paura di cadere nel vuoto da un momento all’altro.
Era un’esperienza che aveva vissuto davvero e gli era rimasta addosso.
Chiuse gli occhi e inspirò profondamente dal naso, avvertì i polmoni riempirsi d’aria, il petto sollevarsi e prese piena consapevolezza del suo corpo, compreso l’arto artificiale che giaceva sulla coperte alla sua destra. Si convinse di essere al sicuro, all’interno della sua camera e riuscì ad allontanare gli occhi grigi dal soffitto.
Il cuscino accanto al suo era sgualcito ma chi aveva passato la notte al suo fianco non era lì. Shiro accarezzò le lenzuola con la mano artificiale e attraverso meccanismi che anche la sua mente faceva difficoltà a comprendere, sentì che erano tiepide. Non doveva essere da solo da molto tempo.
Si alzò in piedi con un sospiro. Uscendo dalla stanza, la sua bocca si spalancò per uno sbadiglio. Infilò la mano sinistra sotto l’orlo della canotta bianca per grattarsi l’addome e percepì sotto le unghie le linee in rilievo delle cicatrici.
Non ci faceva più caso. Erano i segni che il capitolo più oscuro della sua storia gli aveva lasciato addosso e non poteva cancellarlo, solo accettarlo.
Accettare era una parte molto importante delle battute finali del conflitto che aveva incendiato i cieli di tutto l’universo conosciuto per diecimila anni.
Voltron non esisteva più e quella era la parte più difficile. Con la caduta dell’Imperatrice Honerva, le ultime battaglie da combattere erano perfettamente alla portata dei guerrieri addestrati della ribellione.
Gradualmente ma più velocemente del previsto stava nascendo un ordine nuovo di tutte le cose che non aveva bisogno dei Paladini e dei loro leoni.
Fare un passo indietro al momento giusto aveva fatto parte del piano da prima della battaglia contro Zarkon.
Quello che Shiro non aveva previsto - e di cui non riusciva a discutere con i suoi compagni per codardia - era che la felicità i vedere finalmente quella guerra concludersi sarebbe impallidita di fronte al senso di vuoto, di malinconia che aleggiava su tutti loro.
Dov’era il senso di libertà che Shiro si era aspettato di trovare alla fine del viaggio? Perché si sentiva soffocare nonostante non vi fosse più nulla a imprigionarlo da tanto tempo?
Fu l’Atlas a dargli un po’ di conforto. Shiro la sentì accarezzare la sua coscienza come un tempo aveva fatto Black.
Black.
Keith soffriva la sua mancanza come era successo a lui?
Lo trovò nell’area comune e le ultime tracce di sonno scivolarono via quando lo vide arrampicato sul bancone della cucina.
“Perchè mettono sempre i cereali al cioccolato sull’ultimo ripiano?” Borbottava tra sè e sè. “Se li mangiamo solo io e Pidge, come ci finiscono sull’ultimo ripiano?”
Shiro si morse la lingua per evitare di fare esclamazioni allarmate che avrebbero potuto spaventarlo e fargli perdere l’equilibrio. Si avvicinò e lasciò che fosse Keith a voltarsi e accorgersi della sua presenza.
“Buongiorno,” lo salutò con un sorriso.
“Keith…” Shiro gli porse la mano. “Coraggio, scendi,” disse, pazientemente.
L’altro annuì distrattamente, continuando a trafficare all’interno dell’ultimo ripiano della credenza. “Lascia che trovi quei maledetti cereali e-”
“Keith, scendi,” ripetè Shiro, secco.
Il giovane smise di fare quello che stava facendo e abbassò lo sguardo. Qualsiasi replica morì nel momento in cui vide l’espressione di Shiro. Afferrò la sua mano – la destra, quella artificiale – e lasciò che lo guidasse fino a terra.
“Non stavo facendo nulla di pericoloso,” disse Keith, con perplessità e non arroganza.
Shiro continuò la ricerca per lui e gli rispose solo dopo aver trovato la scatola rossa e gialla dei cereali al cioccolato. “Potevi cadere.”
Keith accennò un sorriso. “Ho un buon equilibrio.”
“Potevi avere un mancamento,” replicò Shiro. “Ti capita spesso.”
Il più giovane si fece serio di colpo.
“Siediti,” il Capitano indicò i sette sgabelli posti intorno alla lunga penisola con un cenno del capo. “Preparo io la colazione per tutti e due.” Aprì il frigo e recuperò il cartone del latte. Se Hunk li avesse visti invadere il suo regno, avrebbe tenuto loro il muso per tutta la giornata - e forse li avrebbe anche lasciati a digiuno fino a sera.
Keith si accomodò senza obiettare ma non rimase in silenzio. “Hai bisogno di riposare, Shiro. La responsabilità di tutta la nave grava sulle tue spalle.”
“Non devi preoccuparti per me.”
“Potrei dirti la stessa cosa.”
Shiro mise il pentolino sul fornello acceso e si voltò. “Non in questa circostanza, Keith,” replicò. “La tua condizione è delicata. Non posso non prendermi cura di te.”
“Non possiamo prenderci cura l’uno dell’altro come sempre?”
Shiro sorrise. Si allontanò dal fornello e aggiustò una ciocca corvina dietro l’orecchio del più giovane con una carezza. “Se facessimo come sempre, saresti tu a prenderti cura di me per la maggior parte del tempo. Ho un sacco di debiti da ripagare, lasciami fare.”
“Non sono debiti, Shiro.”
“Lo so,” il Capitano si chinò e posò un bacio sulla sua guancia, proprio sopra la cicatrice. “Tu lasciami fare lo stesso.”
Keith sorrise timidamente, intimamente felice delle attenzioni che riceveva ma costantemente timoroso di essere visto come un peso, un disturbo. La guerra era finita, non c’era più un estremo bisogno di loro sugli ultimi campi di battaglia e questo garantiva a tutti una libertà di cui forse un tempo avevano goduto, ma di cui non rammentavano nulla.
L’universo aveva bisogna di Atlas come roccaforte, un punto fermo in un periodo di burrascosa transizione ma aveva imparato a combattere per se stesso, senza l’ausilio di difensori leggendari.
Momenti come quello, spesi tra di loro, a fare qualcosa di semplice come consumare una colazione in compagnia l’uno dell’altro sembravano rubati.
Non era così. Era solo l’abitudine di dover mettere un bene più grande prima di ogni cosa. Forse non sarebbe andata mai via del tutto.
Keith non s’interrogava sugli effetti a lunga a scadenza che la storia di guerra che avevano scritto avrebbe avuto su tutti loro: non c’era modo di prevederlo, lo avrebbero scoperto un giorno alla volta. A lui bastava avere Shiro vicino, sapere che Lance, Hunk e Pidge erano al sicuro con loro e ricordare che sua madre c’era se aveva bisogno di lei.
Erano sopravvissuti per avere un domani e lì finiva tutto ciò che considerava fondamentale. Il resto - la perdita di Red, di Black e del titolo di Paladino - poteva affrontarlo e imparare ad accettarlo.
“Come mai ti sei svegliato così presto?” Domandò Shiro, notando solo in quel momento che il cielo fuori aveva appena cominciato a schiarirsi. “Incubi?” Aggiunse, preoccupato.
Keith lo rassicurò con un sorriso. “No… Non lo so, sento qualcosa.”
Shiro sorrise a sua volta con un sopracciglio inarcato. “Spiegami…”
Keith abbassò lo sguardo su di sè. “È come se qualcosa mi solleticasse da dentro,” disse, lisciando la stoffa della t-shirt bianca con entrambe le mani. “O come farfalle nello stomaco, non lo so.”
Shiro spense il fornello e recuperò due tazze dalla credenza, una la porse a Keith e la seconda l’appoggiò di fronte allo sgabello che gli era accanto. “Lotor dice che sei sensibile a fenomeni che passano inosservati alla maggior parte delle creature nell’universo,” disse, versando il latte caldo per lui e per il più giovane. “Forse si tratta di questo…”
Keith scrollò le spalle. “Non ho mai creduto a questa mia sensibilità di cui Lotor parla.”
“Perchè per te è normale.” Shiro recuperò due cucchiai dal cassetto accanto al lavandino e, finalmente, si sedette. “Come è normale per lui.”
Keith afferrò la scatola di cereali con una smorfia. “Non credo che niente di quello che concerne me o lui si possa definire normale.”
Era un dato di fatto: Keith era l’unico ibrido Galra per metà Terrestre come Lotor era il solo ad avere sangue Altean nelle vene.
“Per questo siete amici,” disse Shiro
“Non siamo amici...”
“Quando eravate prigionieri di Honerva vi siete salvati a vicenda. Non c’è nulla di male se ti senti legato a lui.”
Al tempo in cui Honerva aveva catturato il Black Lion e il suo Paladino, Lotor era stato dato per morto da molto tempo. Voltron non aveva riportato indietro un cadavere durante il suo scontro mortale con Sincline, ma era stato contro ogni pensiero razionale credere che il Principe dei Galra fosse sopravvissuto a lungo nella dimensione di mezzo per cui lui stesso aveva creato l’accesso.
Lontano da occhi indiscreti, era stata sua madre a salvarlo ed era a causa sua che il cammino di Lotor e quello di Keith si erano incrociati. Al tempo dell’alleanza del Principe con Voltron, Keith aveva già lasciato il Castello dei Leoni per seguire Kolivan e divenire un membro delle Lama di Marmora. Non si erano mai presentati ufficialmente, eppure si erano salvati la vita a vicenda senza che Lotor lo sapesse.
Era ironico come Keith avesse portato a galla i suoi crimini attraverso il racconto di Romelle, per poi essere l’unico ad aver parlato in sua difesa quando Honerva era caduta.
Lotor non era innocente ma nessuno di loro lo era.
Da parte sua, Shiro aveva era stato avvelenato per breve tempo dalla stessa oscurità che il Principe aveva respirato per tutta la vita. Quella consapevolezza, il fatto che Keith fosse sopravvissuto alla prigionia grazie a lui avevano spinto Shiro a prendersi la responsabilità di concedergli una seconda possibilità.
“Se definisco Lotor un mio amico, Lance non mi farà più vivere,” si lamentò Keith. “Hunk e Pidge lo guardano con scetticismo e diffidenza e hanno tutte le ragioni per farlo, ma Lance…” Alzò gli occhi al cielo.
Shiro sorrise. “Sai che la questione tra Lotor e Lance è più complicata, più personale.”
Keith annuì. “Il problema con la questione è che è chiusa. Lance non lo accetta e finge di non capirlo. Lotor è troppo razionale per pensarci ancora.”
“E tu cosa ne pensi?” Domandò Shiro.
Keith scrollò le spalle. Quando parlò non c’era delusione o rancore nella sua voce: “penso che lei avesse il diritto di fare la sua scelta e l’ha fatta: se ne è andata.”
Allura.
Shiro pensava a lei ogni volta che lo sguardo gli cadeva sulla sua mano destra e sapeva che, anche se non lo diceva, Keith faceva lo stesso.
Quando era arrivato il momento di pensare all’Atlas come la loro nuova casa, Shiro l’aveva pensata abbastanza grande per tutti loro.
Lo aveva fatto per Keith, per non costringerlo a rimanere su di un pianeta che gli era sembrato troppo piccolo ancor prima di conoscere le stelle. Lo aveva fatto per tutti gli altri perchè, nonostante avessero delle vite e delle famiglie a cui tornare, sarebbe stato impossibile continuare gli uni senza gli altri dopo tutto quello che avevano condiviso.
Voltron poteva non esistere più ma il legame tra i suoi Paladini c’era ancora.
L’Atlas aveva dato a Shiro il potere di costruire e lui lo aveva fatto suo col pensiero di creare un luogo sicuro in cui tenerli insieme. Allura aveva deciso di fare lo stesso partendo dalle macerie di Altea e per un assurdo gioco del destino, la stanza che Shiro aveva pensato per lei era finita a Lotor.
Keith si abbandonò contro lo schienale del suo sgabello con un sospiro. Fece roteare il cucchiaio nei cereali immersi nel latte senza nessun interesse a volerne mangiare ancora.
Shiro se ne accorse. “Stai bene?”
“Solo un po’ di nausea…”
“Vuoi che ti accompagni in camera?”
“No, ho ancora fame…” Keith ridacchiò. “È una strana sensazione. Ho lo stomaco chiuso ma voglio mangiare.”
Senza pensarci, Shiro lasciò andare la sua tazza di latte e allungò la mano sinistra per accarezzargli il ventre. Keith intercettò la sua mano a metà strada, intrecciò le dita alle sue e gli impedì di toccarlo. “No…” Mormorò con un sorriso dolce ma malinconico. “Per favore…”
Shiro non insistette ma non lasciò andare la sua mano. “Sicuro di non aver fatto nessuno incubo?”
Keith poteva nascondersi da lui quanto voleva ma le volte che ci riusciva era Shiro a lasciarlo fare. Non poteva più concedergli una simile libertà. La totale fiducia reciproca era sempre stata un caposaldo della loro relazione ancor prima che divenissero amanti, compagni ma la nuova situazione aveva fatto nascere in Shiro nuovi timori, che non era capace di affrontare con la lucidità da stratega che lo contraddistingueva.
Keith si chiudeva e Shiro era terrorizzato al pensiero di non poterlo raggiungere più. Non poteva lasciare andare la presa. Anche se l’altro si fosse dimenato per liberarsi, Shiro non poteva lasciarlo andare. Si portò quella mano alle labbra e studiò l’espressione del più giovane con attenzione. “Hai parlato con tua madre?” Credeva fosse importante che lo facesse per una ragione egoistica: era certo che Krolia lo avrebbe spalleggiato se avesse saputo delle condizioni del figlio. Non che Hunk e Pidge gli remassero contro ma Keith aveva su di loro un ascendente diverso. Lo guardavano da lontano, pronti a intervenire se avesse chiesto aiuto.
Keith, però, non era il tipo da chiedere una mano a nessuno e se Voltron aveva smussato molti angoli del suo carattere, la sua assenza aveva riportato le cose al loro stato originale. Non era più il solitario di un tempo, certo, era cresciuto e aveva imparato che legare con gli altri non gli avrebbe fatto per forza del male. Tuttavia, Shiro aveva la netta sensazione che avesse sostituito una maschera con un’altra. Dove prima c’era un cipiglio scontroso, ora c’era un sorriso appena accennato ma la natura di quel l’espressione non cambiava: c’era qualcosa di molto più profondo sotto e Shiro temeva di non essere più in grado di capire cosa.
“Non l’ho più vista dalla fine della guerra,” rispose Keith, quasi si stesse giustificando.
“No, ma la senti regolarmente.”
“Non è una cosa di cui posso parlare attraverso uno schermo tra una missione e un’altra.”
Shiro non poteva che dargli ragione.
“Inoltre è troppo presto e lo sanno già troppe persone.”
“Otto settimane,” chiarì Shiro. “Sono otto settimane.”
Keith lo guardò dritto negli occhi. “Le hai contate.” Non era sorpreso.
“Lo farò fino a che non ti farai visitare da qualcuno.”
Il giovane Galra lasciò andare un sospiro e prese un altro cucchiaio di cereali. “Lo fa anche Lance.”
Lance. Shiro non lo avrebbe mai detto ad alta voce ma l’ex Paladino Rosso era il suo più grande alleato in quella nuova fase del suo rapporto con Keith. Poteva essere invadente, rumoroso e molto Lance ma, a differenza di Hunk e Pidge, non gli bastava mantenere un occhio vigile. Lance si prendeva attivamente cura di Keith e Shiro gliene era infinitamente grato.
Lance non si limitava a mettere in riga il giovane Galra ma anche gli altri due compagni e Keith poteva sbuffare quanto voleva, questo non faceva altro che esortarlo a dare il meglio di sè. L’unica pecca era che finiva di sfogarsi torturando Lotor.
Perché Lotor sapeva.
Lotor era stato il primo a saperlo ed era da lui che Shiro lo aveva saputo. Keith non aveva potuto. Quando erano arrivati, non era più in sè ed era rimasto cosciente pochi istanti.
Shiro non avrebbe mai dimenticato quel momento: Keith che piangeva e sorrideva tra le braccia con il viso pallido, i capelli umidi di sudore appiccicati alla fronte e le labbra sporche di sangue.
“Mi hai trovato.” Aveva mormorato, ignorando le urla sue e di Lance che lo esortavano a restare sveglio. “Mi hai salvato…”
Era morto un istante dopo.
“Non voglio parlarne, Shiro.” Le parole di Keith lo fecero tornare alla realtà. “Non ancora…”
Ogni parola, ogni atteggiamento di Keith nei confronti della creatura che gli cresceva dentro erano una continua contraddizione. Quando tutto era finito, quando lo aveva riportato indietro e Allura aveva assicuro loro che andava tutto bene, Keith aveva nascosto il viso contro il petto di Shiro piangendo per il sollievo.
Da quel giorno in poi, Keith aveva mostrato la sua felicità in brevi istanti come quello di poco prima, quando si era accarezzato la pancia parlando di farfalle nello stomaco. Però non permetteva a Shiro di mostrare la stessa tenerezza. Non gli piaceva che qualcuno parlasse del bambino.
Lance lo faceva e Keith aveva rinunciato a farlo desistere per esasperazione.
Era come se volesse essere felice ma avesse paura di lasciare che quel sentimento raggiungesse il suo cuore.
Un bagliore azzurrognolo illuminò la cucina.
Keith sorrise ancor prima che il corpo di Kosmo prendesse forza. “Ciao…” Mormorò. Lasciò andare la mano di Shiro e girò lo sgabello per permettere al lupo di poggiare la testa sulle sue gambe. “Dove sei stato? Ti sei comportato bene?”
Keith lo accarezzava e Kosmo premeva con insistenza il muso contro il suo grembo. Era un gesto che non aveva mai compiuto prima, una dimostrazione che quell’animale aveva un modo tutto suo per intuire le cose. Oppure era semplicemente sensibile ai cambiamenti del suo padrone grazie a istinti che loro non possedevano.
Shiro si sporse verso il lupo e lo allontanò con un gesto della mano che non fu brusco ma nemmeno gentile. “Piano, Kosmo,” disse, secco.
Il lupo guaì e si mise seduto ai piedi dello sgabello del giovane Galra, la testa china in segno di sottomissione.
Keith lo fissò sbalordito. “Non stava facendo niente.”
No, ma a Shiro dava fastidio che quel lupo potesse dare al suo compagno attenzione che da lui non accettava. “Deve imparare a fare attenzione quando gioco con te.”
“Lo sa perfettamente,” replicò Keith. “Non lo noti che non mi salta più addosso e che va da Lance quando vuole giocare? Lo sente quello che sta succedendo, non è stupido.”
Shiro rinunciò a voler far valere il suo punto di vista: sapeva che poteva fidarsi di Kosmo, che avrebbe sbranato chiunque avesse cercato di alzare una mano su di Keith, lui compreso. La verità era che lo disturbava che il suo compagno lo tenesse a distanza.
La porta della cucina si aprì senza preavviso. Quella zona dell’Atlas era riservata a chi aveva fatto parte della squadra di Voltron e Shiro non si disturbò a sollevare lo sguardo dalla sua tazza di latte.
“James!” Disse Keith sorpreso. “Che cosa ci fai qui?”
Shiro guardò il cadetto con la stessa espressione perplessa.
James Griffin aveva l’espressione di qualcuno evidentemente a disagio, che avrebbe volentieri evitato di essere lì. “C’è traffico nell’hangar principale…” Si limitò a dire.
Shiro non comprese e il fatto che non si stesse rivolgendo a lui, che era l’Ammiraglio dell’Atlas, ma a Keith lo mandò ancor più in confusione.
A differenza sua, al giovane Galra non bastarono ulteriori spiegazioni per comprendere quello che stava accadendo. Sbuffò. “Lo stanno facendo di nuovo!” Esclamò irritato.



***



Veronica McClain era a metà della sua prima tazza di caffè mattutina quando un trafelato Coran entrò nella sala di controllo dell’hangar principale con la giacca della divisa allacciata a metà. “Che cosa mi sono perso?” Domandò allarmato, premendo il naso contro la vetrata.
Veronica ridacchiò, diabolica. “Non molto. Sono stati fermi mezz’ora perchè sua altezza si è scordato di togliere il freno a mano ma Lance si è rifiutato di farglielo notare per cinque tentate partenze di seguito.”
Il vecchio Altean la guardò perplesso. “Freno a mano?”
“Un congegno meccanico di vecchia generazione che impedisce all’auto di muoversi quando nessuno è a bordo,” spiegò lei.
“Ah, capisco!”
La vecchia auto blu, che Lance McClain era andato appositamente a recuperare a Cuba prima della partenza dell’Atlas solo per poter offrire loro quello spettacolo mattutino, sembrava ancor più piccola in mezzo ai jet della squadra MFE.
“Non abbiamo un microfono interno?” Domandò Coran.
Veronica sospirò avvilita. “Pidge e Hunk hanno provato a montarne uno, ma Lance li ha beccati.”
“Eh… Quel ragazzo è sveglio e conosce i suoi polli.”
“Quando vuole…”



***



“La frizione la devi lasciare gradualmente! E non provare a guardarmi così, guarda la strada!”
Vicino ai portelloni, dal lato opposto dell’hangar rispetto all’auto blu, la voce di Lance McClain era l’unica cosa che si poteva udire.
E Acxa continuava a ignorarla con risolutezza, mentre seguiva da vicino le manovre di scarico delle provviste che Kolivan le aveva ordinato di consegnare all’Atlas. Per sua sfortuna, le sue compagne di squadra non erano altrettanto disinteressate.
“Sarebbe bello fare parte dell’equipaggio solo per assistere a questo spettacolo regolarmente,” disse Ezor con occhi brillanti.
“Sì, ma se non si schiantano mai alla lunga diventa noioso,” replicò Zethrid incrociando le braccia contro il petto. “Coso, fagli prendere velocità!” Urlò, rivolgendosi al Terrestre seduto al posto del passeggero.
Acxa strinse gli occhi per un istante, poi prese un respiro profondo. “Vi dispiace restare concentrate?”
Le due si voltarono a lanciare un’occhiata ai robot che si occupavano del lavoro di carico-scarico. “Su cosa?” Domandò Ezor. “Non c’è niente da fare.”
Acxa strinse le labbra e decise di non insistere: era una battaglia persa. La guerra era finita e la necessità di ogni Galra – purosangue o meno – di trovare per se stesso un posto in quel nuovo universo, le aveva spinte a ritrovarsi nelle file della Lama di Marmora ma erano ormai lontani i tempi in cui Ezor e Zethrid guardavano ad Acxa come una figura a cui fare riferimento. Krolia aveva preso il suo ruolo per loro, un po’ come Keith aveva occupato quello di Lotor.
“Lasciala stare,” intervenne Zethrid. “Fa la noiosa perchè non c’è in giro il suo micino preferito.”
Acxa lasciò andare un altro sospiro: doveva aspettarselo.
“Oh!” Esclamò Ezor. “Il micino rosso.”
“Non era quello nero?”
“Sì, ma va vestito di rosso. Quello vestito di blu, che sta torturando Lotor in questo momento, pilotava il Red Lion.”
Zethrid ci pensò. “E l’Ammiraglio che pilota?”
“L’Atlas…”
“No, prima.”
“Il Black Lion per un po’... Poi l’Atlas.”
“Ma va ancora in giro vestito di nero!”
Ezor scrollò le spalle. “La divisa della Principessa è rosa e lei pilotava il Blue Lion.”
Zethrid si grattò la nuca. “Quelli di Voltron sono strani.”
Acxa lasciò andare un sospiro di sollievo: almeno per una volta si erano stufate presto di tormentarla con Keith.





Lotor aveva preso tante decisioni sbagliate nella sua vita, di alcune si era pentito e stava cercando di rimediare, per altre esisteva solo l’accetazione. Se quella, però, doveva essere la sua punizione, era disposto a ritrattare con il leader della Lama di Marmora.
“Non lo senti?” Domandò Lance, tirandosi il lobo dell’orecchio. “Il motore sta soffrendo, cambia la marcia!”
Senza distogliere gli occhi dal parabrezza, Lotor abbassò la frizione con il piede sinistro e afferrò la leva posta tra il suo sedile e quello del suo irritabile insegnante – cambio, Lance gli aveva detto che si chiamava cambio –, la tirò verso il basso e diede un po’ di gas.
L’auto inchiodò e si spense di colpo.
Conscio di questo stava per seguire, Lotor chiuse gli occhi e accettò il suo triste destino.
“Ti ho detto che la frizione la devi lasciare piano!” Urlò Lance, come se non fossero a meno di un metro di distanza l’uno dall’altro.
Lotor non riusciva nemmeno a stare seduto dritto in quella scatola blu con le ruote e a stento riusciva a muovere le gambe per passare dal freno all'acceleratore e poi di nuovo al freno.
Lance andò avanti per un lungo minuto su quanto fosse assurdamente impossibile insegnargli una cosa semplice come guidare un auto e, per la prima volta da quando l’Atlas aveva lasciato la Terra, Lotor osò mettere in discussione l’utilità di quelle umilianti lezioni mattutine.
“Blue…” Lotor non si era disturbato a imparare i loro nomi quando erano alleati ed era troppo tardi per rimediare, così aveva ripiegato sui colori. Keith era un’eccezione, ma il suo nome l’aveva saputo molto dopo e in altre circostanze. “Non credo che imparare a guidare questo mezzo di trasporto dalla dubbia tecnologia mi aiuterà a comprendere meglio la cultura di voi Terrestri.”
Perchè tutto era cominciato da lì. Quando Keith gli aveva detto – non glielo aveva nè chiesto nè ordinato, ma era stato chiaro che per lui non ci fosse altra scelta – che sarebbero partiti a bordo dell’Atlas, insieme a un equipaggio composto per lo più da abitanti della Terra, Lotor gli aveva umilmente chiesto di aiutarlo a conoscere alcuni usi e costumi della vita quotidiana della sua gente così da rendere la convivenza più facile per ambo le parti.
Il destino infausto aveva voluto che Lance McClain – Blue per lui – fosse presente al momento di quello scambio di battute. Keith non aveva neanche avuto il tempo di replicare, Lance era intervenuto con una risata stridula seguita da un: “Keith era un alieno per noi ancor prima che scoprissimo che lo era per davvero!”
Il giovane mezzo Galra non aveva negato.
“Ci penso io a farti conoscere la cultura dei noi Terrestri!” Aveva concluso Lance con un sorrisetto diabolico a cui Lotor ingenuamente non aveva dato peso. Da quel che ricordava della loro breve convivenza al Castello dei Leoni, il Paladino Rosso era una caotica creatura incapace di essere una minaccia per chiunque.
Quello che Lotor aveva sottovalutato era il potere del caos che poteva scatenare.
Di fatto, Lance reagì alla sua protesta assottigliando gli occhi e battendo con insistenza l’indice contro il cofano dell’auto. “Questa è cultura!” Esclamò. “Tutti i mezzi di trasporto moderni sono dei discendenti di questa! L’Ammiraglio dell’Atlas ha cominciato con questa!”
Lotor inarcò le sopracciglia. “Non mi sembra lo faccia ancora…”
“Keith la sa guidare!” Sbottò Lance. “Le auto si guidano. I mezzi con le ruote si guidano! Quelli che non le hanno si pilotano, impara!”
“Siamo nello spazio,” replicò Lotor con una pazienza che irritò Lance ancor di più. “I mezzi con le ruote servono a poco nello spazio.”
Lance colse la palla al balzo per farlo sentire peggio. “E chi è in quest’auto che non ha il permesso di far volare nemmeno una nave cargo?” Domandò con un sorrisetto sarcastico. Sghignazzò. “Dopotutto, perchè dovrei andare a divertirmi a raccontare in giro che il terzo miglior pilota dell’universo non è in grado di guidare un’auto col cambio?”
Sarebbe dovuta suonare come una promessa di ulteriori umiliazioni pubbliche.
Lotor non perse la sua compostezza nemmeno per un istante. “Ti do un motivo per cui non farlo: nell’universo nessuno sa cosa sia il cambio e tra i Terrestri ho sentito qualcuno definirlo roba da età della pietra.”
Sentendosi privato dei suoi dieci secondi di trionfo, la voce di Lance si fece ancora più stridula. “Hai parlato con Hunk e Pidge? Tu non devi parlare con Hunk e Pidge!”
“Perchè?” Domandò Lotor con un sospiro annoiato. C’è rischio che m’insegnino qualcosa di utile?
“Perchè sono roba mia!” Esclamò Lance. I suoi occhi si erano fatti di un blu più scuro. Loro se ne accorse e invece di rispondere, lo studiò: quella era rabbia vera, non una reazione volutamente esagerata per spingerlo all’esasperazione.
“Accendi il motore e guida!” Ordinò Lance.





Mentre le porte dell’ascensore si richiudevano e Keith gli spiegava la situazione per la terza volta da quando erano usciti dalla cucina, Shiro continuò a guardarlo perplesso. “Hai chiesto a Lance d’insegnare a Lotor a guidare un’auto col cambio?”
“No, io non ho chiesto nulla!” Puntualizzò il giovane Galra, finendo di allacciarsi la giacca rossa e bianca. “Lotor mi ha chiesto d’insegnargli tutto sul popolo della Terra.”
Shiro rise sotto i baffi. “A te?”
Keith lo guardò. “Lance ha reagito allo stesso modo.”
Perchè ti conosciamo bene, Keith. Pensò l’Ammiraglio dell’Atlas ma non lo disse. “E come siete arrivati da questo alla macchina col cambio?”
“Lance era lì, ci ha sentiti,” continuò Keith. “Sai com’era prima che partissimo, subito dopo che Allura se ne è andata.”
Shiro annuì: rientrare della guerra per loro non era stata una marcia trionfale, non c’era stata una folla pronta ad accoglierli e se ci fosse stata, non ci avrebbero fatto caso. Quel genere di scene accadevano nei bei racconti, forse anche in quelli che avevano la prima generazione di Paladini come protagonisti.
Per i giovani che era stato i difensori dell’universo in quel secondo e ultimo atto della storia di Voltron, l’aria di casa aveva avuto il sapore di tutte le lacrime che non avevano potuto versare prima. Ognuno di loro aveva avuto il suo motivo per lasciarsi andare alla tristezza. Rinunciando a Voltron, Lance aveva privato dello scopo con cui aveva dato valore a se stesso per tanto tempo. Lasciare andare Allura gli aveva dato il colpo di grazia. Il vuoto che era seguito gli aveva tolto la voglia di scherzare, di fungere da spalla di supporto per i suoi compagni. Lance, che aveva sempre riconosciuto nella solitudine e nel silenzio i suoi peggiori nemici, aveva fatto dell’isolamento il suo modo poco costruttivo di affrontare la situazione.
“Quella è stata la prima volta in cui ha riso dalla fine della guerra,” raccontò Keith con malinconia. “Mi ha preso in giro un istante dopo, a modo suo, senza cattiveria. Ero talmente sorpreso di vederlo di nuovo così che non gli ho nemmeno risposto. Si è offerto lui di insegnare a Lotor tutto quello che c’è da sapere sui Terrestri. È andato a recuperare la vecchia auto di suo padre, la prima che ha imparato a guidare e ha convinto Lotor che non era degno di essere chiamato pilota se non la sapeva portare.”
“Io non so guidare un’auto col cambio…” Disse Shiro, come se lo avesse appena realizzato.
Keith ridacchiò. “Lo so.” Il suo sorriso malinconico. “Sapevo che stavo condannano Lotor ma all’idea di poterlo esasperare a modo suo, Lance si è illuminato.”
Shiro intrecciò le dita tra i capelli corvini in una carezza che lo rassicurò sulla sua approvazione. “E lo hai lasciato fare,” concluse.
Keith appoggiò la tempia alla sua spalla. “Lotor se la caverà, è sopravvissuto a peggio.”
Shiro rise. “Ma Lance è Lance.”
“E Lance ora ha bisogno di questo,” concluse Keith. “Posso accettare di vedere Lotor esasperato, a quello c’è rimedio. Di fronte alla disperazione di Lance non sapevo cosa fare, mi spaventava.”
“Si chiama affetto, Keith,” mormorò Shiro tra i suoi capelli.
No, non lo era. Meglio, non era solo quello. C’era anche tanto senso di colpa. Keith poteva essere stato l’ultimo Paladino Nero, ma non si era mai sentito un leader, non era mai riuscito a prendere sulle spalle tutti i suoi compagni e sorreggerli come Shiro era stato capace di fare. Fino alla fine, Keith si era voltato alla ricerca dell’approvazione di quegli occhi grigi e quando non l’aveva avuta – prima che tutta la storia del progetto Kuron venisse rivelata –, se ne era andato perchè non era stato in grado di sopportarlo.
Voltron non aveva reso Keith quello che Shiro credeva. Gli aveva dato tante cose e tutte avevano avuto il loro prezzo. Era morto per la loro vittoria e quella sensazione di freddo intenso gli sarebbe rimasta sotto la pelle per il resto della sua vita. Quello che ne era uscito era un giovane uomo che, sì, aveva più consapevolezza di sè ma quella conoscenza aveva portato nuove insicurezze, limiti, paure.
Keith non era più solo ma questo comportava più persone da poter deludere. Abbassò lo sguardo su di sè, afferrò l’orlo della giacca e tirò per distendere la stoffa in un gesto nervoso. Era stato facile rendere orgoglioso Shiro, ma il suo universo si era fatto più grande e cresceva giorno dopo giorno, insieme alla possibilità di fallire miseramente e perdere tutto.
“Stai bene?” Domandò Shiro.
Keith si staccò da lui per guardarlo negli occhi. “Eh?”
“Ti sei irrigidito di colpo.”
Il giovane Galra scosse la testa: non voleva essere un peso nè per Shiro nè per nessun altro. Per sua fortuna, le porte dell’ascensore si aprirono prima che l’Ammiraglio potesse indagare ulteriormente.




***







“È morto qualcuno?” Domandò Dayak, portando la sua spettrale presenza all’interno della sala di controllo dell’hanagr principale.
“Non ancora, madam,” rispose Coran, il naso ancora premuto contro la vetrata.
“Rapporto,” ordinò la Galra, spostandosi accanto al vecchio Altean.
“Sono arrivati a metà dell’hangar dopo tre tentativi fallimentari,” raccontò Coran.
Dayak assottigliò gli occhi e guardò l’auto blu come se fosse un escremento particolarmente grande. “Vergogna…” Sibilò.
“Oh, non temere!” Esclamò Coran, allontanando per un istante lo sguardo dal piccolo veicolo a quattro ruoto. “Il mio ragazzo sta strigliando come si deve il tuo!”
“Voglio ben vedere. Stiamo andando avanti così da settimane e non ci sono miglioramenti!” Sibilò la tata Galra con esasperazione. “Vergogna. Tanta vergogna.”
“Vuole del caffè, madam?” Intervenne Veronica con un sorriso cortese.
Dayak la guardò ma non rispose immediatamente. Intuendo che si trovasse in difficoltà ma che fosse troppo orgogliosa per chiedere spiegazioni, Coran si sporse verso di lei. “Si tratta di quella strana brodaglia scura…” Suggerì in un sussurro.
“Ti ringrazio, fanciulla,” rispose prontamente Dayak. “Ma declino l’offerta.”
Un minuto più tardi, la porta scorrevole si aprì per la terza volta.
“No! Hanno già cominciato!” Esclamò Pidge correndo accanto a Coran.
Dietro di lei, Hunk nascose uno sbadiglio dietro la mano. “Dovremmo chiedere a Lance di spostare lo spettacolo dopo l’ora di colazione. Troppe emozioni di prima mattina, a stomaco vuoto non fanno bene.”
“Non vi siete persi grandi colpi di scena,” li rassicurò Coran, stringendo la spalla dell’ex Paladino Verde.
“Non me lo perdonerei mai se il motore di quella cosa prendesse fuoco in mia assenza,” disse Pidge, premendo entrambe le mani sulla vetrata.
Hunk inarcò le sopracciglia, poggiando un gomito sul pannello illuminato. “Tecnicamente non accadrà,” disse. “La frizione sarà la prima ad abbandonare il campo di battaglia e, nel remoto caso in cui non dovesse accadere, il motore si limiterà a suicidarsi per mettere fine alle sue sofferenze e l’auto non si riaccenderà più.”
Veronica scosse la testa, avvicinandosi alla macchina del caffè per versarsi una seconda tazza. “Voi non conoscete la storia di quell’auto,” disse. “Quando Lance è nato, era già vecchia. L’unica ragione per cui mio padre l’ha tenuta è per insegnarci a guidare senza mettere a rischio la vera auto di famiglia. La maggior parte dei kilometri segnati li ha percorsi facendo la via di casa nostra avanti e indietro. Papà è stato furbo: ci sono pochissimi ostacoli contro cui schiantarsi su quella strada.”
Pidge e Hunk si scambiarono un’occhiata complice. “E Lance quanti ne ha presi di quegli ostacoli?” Domandò lei con un sorriso diabolico.
Veronica cercò di non ridere. “Un palo della luce, un cassonetto dell’immondizia e la bicicletta di nostro nipote, che ha distrutto.”
“Lo sapevo!” Esclamò Pidge.
Hunk fece spallucce. “Beh… Almeno non ha investito nessuno.”
“Sì, invece!” Esclamò Veronica con un sorrisetto che poteva competere con quello di Pidge. “Si è investito da solo! Ha parcheggiato l’auto nel vialetto, che è un poco in pendenza ma non troppo, senza mettere il freno a mano. La macchina ha cominciato a retrocedere mentre ci passava dietro e l’ha preso in pieno!”
Calò un silenzio imbarazzante. La tata Galra e il vecchio Altean non avevano capito metà del racconto e per non mostrare la loro ignoranza si limitarono a tacere.
Pidge e Hunk non erano altrettanto fortunati ma, mentre Veronica ridacchiava al ricordare la disavventura del fratello, loro erano un poco preoccupati.
“Forse dovremmo far scendere Lotor da lì prima che ci rimetta la testa?” Propose Hunk
“La mia paura è che la testa ce la rimetta Lance nel tentativo di decapita lui,” replicò Pidge.
Coran si mise subito sull’attenti. “Questa cosa del cambio manuale prevede una decapitazione?” Domandò, terrorizzato.
Dayak ebbe una reazione molto più composta. “E io che pensavo che i Terrestri fossero un popolo pacifico,” disse con interesse.
Coran sospirò stancamente. “Prova ad averne cinque in giro tutto il giorno, tutti i giorni.”
Dayak strinse le labbra fino a farle divenire una linea sottile. “Le mie doti di educatrici erano indiscusse in tutto l’Impero.”
“Oh, madam, con uno è una storia ma a ritrovarsi con sei…” Il vecchio Altean lasciò la frase sospesa a metà e lasciò andare un sospiro molto eloquente.
Veronica inarcò un sopracciglio e si sporse sul pannello di controllo per rivolgersi ai due giovani. “Per capire… Combattevate alla guerra o giocavate all’asilo?”
“Tutte e due,” rispose i Paladini all’unisono.
“Fino a che Keith e Lance non divenivano padroni della scena,” aggiunse Hunk. “A quel punto, era un teen-drama vero e proprio.”
Pidge annuì. “Quando poi Keith se ne è andato e ha lasciato il posto a Lotor è stato tipo wow!”
Hunk storse la bocca in una smorfia. “Mi sento un po’ in colpa a prenderlo in giro per quella parentesi dopo tutto quello che è successo.”
Pidge guardò il compagno, poi abbassò gli occhi con aria colpevole: tutti loro avevano squalificato i sentimenti di Lance per Allura al punto da renderli buon materiale per prenderlo in giro. Quando poi era successo il peggio, si erano tutti ritrovati incapace di reagire e di sostenere un compagno che per loro c’era stato dall’inizio alla fine.
“Starà bene,” disse Veronica di colpo. Non rideva più, ma le sue labbra erano piegate in un sorriso gentile mentre fissava l’auto con a bordo il fratello minore. “Ero preoccupata anche io, ma ora so che starà bene… Oh, ha frenato?”
Gli occhi di tutti tornarono sull’auto blu.
“Ha di nuovo perso potenza?” Domandò Coran.
“No,” rispose Pidge, poggiando la fronte contro il vetro. “Il motore ancora va, posso sentire il rumore da qui.”
Dayak inarcò un sopracciglio. “Era ora che Lotor cominciasse ad avere il controllo di quel mezzo infernale.”
La Galra ebbe appena il tempo di cantare vittoria per la dignità ritrovata del proprio Principe che l’impresa tragi-comica che si stava consumando sotto gli occhi di tutte le alte personalità dell’Atlas giunse alla sua inaspettata conclusione.
Non fu Keith a porvi fine, nonostante mise piede nell’hangar principale appena in tempo per divenire testimone e quasi vittima del tutto. Nessuno dalla sala di controllo si disturbò a lasciare la propria postazione e mai Lance si sarebbe sognato di porre fine di sua iniziativa alla tortura che stava facendo subire a Lotor.
Fu proprio il mezzo di tanta crudeltà a porre fine alla questione. Dopo decenni di onorato servizio alle dipendenze della famiglia McClain, quella povera auto sgangherata decise che il suo tempo era finalmente giunto.
Si piantò in mezzo allo spiazzo dell’hangar nello stesso momento in cui Keith e Shiro giunsero sulla scena. Lance non ebbe nemmeno il tempo di urlare contro Lotor - che da parte sua non era responsabile dell’inaspettato arresto del veicolo - che il cofano saltò per aria e dal motore uscì una gran nuvole di fumo come se fosse stata una bomba.
Keith gelò a una decina di metri dall’abitacolo sgangherato. “Ma che diav-?”
Una ruota spuntò fuori dalla nube di fumo che si era propagata per tutta l’hangar, rimbalzò violentemente a terra e poi prese a sfrecciare in direzione del giovane Galra. Alle sue spalle, Shiro fu tempestivo a muoversi, ad allungare il braccio per afferrare il compagno e tirarlo via dalla traiettoria di quella ruota volante. Keith, però, era sempre stato il più veloce dei due.
Mentre si spostava di lato e evitava la rovinosa collisione, Shiro rimase congelato nel gesto di afferrarlo e così non poté evitare di essere investito in pieno.
La botta alla testa fu forte ma non perse mai i sensi. Udì Keith chiamare il suo nome allarmato, ma la sua voce si rilassò in una risata non appena si accorse che non aveva riportato danni di grave entità.
“Che cosa c’è di così divertente?” Domandò Shiro, mettendosi a sedere sul pavimento. Non poteva credere di avere ancora la testa attaccata al collo.
Keith gli rivolse il primo sorriso sincero da tanto, troppo tempo e poggiò la punta dell’indice sul suo zigomo. “Hai i segni del pneumatico tatuati in faccia!”
Shiro non riuscì ad afferrare il senso di quella frase così semplice: era troppo intontito. Se dalla botta o dal sorriso di Keith non gli era dato saperlo.




***



Veronica si alzò in piedi e si portò la mano destra alla fronte in un sentito saluto militare. “È stato un onore…”
Sconvolto, Coran la guardò. “Lance non sarà mica morto?”
“Ovvio che no!” Esclamò la giovane McClain, come se il fratello non fosse altro che un dettaglio trascurabile. “Mi stavo rivolgendo alla macchina di famiglia, quella su cui io e miei fratelli siamo cresciuti e che ha visto nascere i nostri due primi nipoti. Non è solo un pezzo di storia, ma un membro della famiglia.”
“Comprendo il tuo sentimento, Veronica,” intervenne Hunk, educatamente. “Ma non sarebbe meglio andare a controllare in che stato versa l’altro membro della tua famiglia, quella in carne e ossa, tuo fratello, hai presente?”
Pidge, da parte sua, era piegata sul pannello di controllo e non la smetteva di ridere.
“Il Capitano è stato investito da una ruota volante?” Domandò Acxa, sporgendosi verso il vetro.
Dayak si massaggiò il mento con aria interessata. “Chi lo avrebbe mai detto che i Terrestri potessero nascondere armi tanto pericolose in oggetti dall’aspetto completamente inutile.”




***



Lance fissava il vuoto.
Fuori dai finestrini - miracolosamente integri - dell’auto si vedeva solo fumo, fumo e ancora fumo. Non aveva sentito il rumore del cofano che atterrava da qualche parte nell’hangar, ma era certo che una ruota fosse schizzata in aria, che altre due si fossero sgonfiate di colpo di loro iniziativa e aveva troppa paura di scendere e scoprire che ne era stato della quarta.
A dirla tutta, aveva anche il terrore di voltarsi verso Lotor e scoprire in che stato versava lui.
I vetri erano miracolosamente tutti intatti e, di fatto, non c’era motivo per cui loro due dovessero aver riportato danni. Lance McClain, però, era un ragazzo fortunato, così fortunato che non sarebbe stato eccessivo immaginarlo seduto al posto del passeggero di un’auto il cui air-bag aveva soffocato a morte il Principe dei Galra.
Lotor, che baciato dalla fortuna non lo era mai stato, ci metteva del suo e una fine tanto ridicola sarebbe stata quasi coerente con l’assurdità di tutta la sua esistenza.
Lance già s’immaginava come avrebbero raccontato la storia: il Paladino Blu, poi Rosso assassinò il Principe dei Galra alla fine della guerra in un modo che solo i Terrestri poterono comprendere.
Sicuramente era un’impresa che li avrebbe resi entrambi immortali, ma poi Keith lo avrebbe sentito?
Per fortuna - o sfortuna - di Lance, fu proprio Lotor a interrompere tutto quel tragi-comico fantasticare. Da principio, il Paladino non seppe identificare il tipo di suono che stava emettendo: Lotor aveva sorriso in sua presenza, in generale sorrideva un sacco - fino a che non si sentiva più costretto a fingere d’indossare la maschera - ma sentirlo ridere fu tutta un’altra esperienza.
Lance si voltò e lo trovò nella posizione più ridicola che avesse mai visto assumere da una persona - e i suoi compagni lo avevano reso protagonista e testimone di tante situazione assurde- : il Principe dei Galra se ne stava con entrambe le mani sospese a mezz’aria, una stretta sul volante e l’altra sul cambio. Nessuno dei due pezzi era attaccato alla sua posizioe originale.
Nel tentativo di soffocare una risata, Lance emise un verso simile al grugno di un maiale. Si voltò, si nascose contro il finestrino e cercò di simulare il tono più iracondo che riuscì a tirare fuori. “Vai al diavolo!”
Lotor rise più forte.

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