Sia maledetto chi s'innamora delle stelle
Mar. 4th, 2019 05:40 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
[CowT#9. Quarta Settimana. M2: "dimenticarsi di qualcuno/qualcosa"]
[Terra. Accademia Galaxy Garrison. 7 mesi dall’inizio dell’assedio Galra.]
James Griffin.
Dipartimento piloti: fighter.
Cadetto Senior.
Data di nascita: 26/06/2xxx - Data di morte: ___________
Il pilota non fece particolarmente caso ai suoi dati riportati sull’etichetta posta sul retro del piccolo registratore digitale. Seduto nella semi oscurità della sua camera, James aveva occhi solo per quell’unico spazio lasciato vuoto.
Respirava ancora. Non esisteva una data di morte con cui completare quei dati di riconoscimento.
Non che la vita non fosse già un viaggio a senso unico per sua natura.
Tuttavia, con quell’apparecchio tra le mani, James prese veramente coscienza della sua mortalità. Aveva vent’anni e forse non sarebbe mai arrivato a trenta.
Lui e i suoi compagni erano soldati in guerra contro un nemico troppo potente per la Terra. La sorte che li attendeva tutti era divenuta terribilmente chiara con ogni nome che si aggiungeva al muro della memoria giù, nell’atrio.
Un tempo, in quello stesso punto erano ricordati i nomi degli astronauti che avevano fatto la storia dell’esplorazione spaziale.
L’era in cui la Galaxy Garrison creava piloti, ingegneri, scienziati e informatici era finita. Ora erano tutti soldati, dal primo all’ultimo, dal cadetto più inesperto all’ufficiale veterano.
Chiunque fosse in grado di pilotare un jet era una risorsa umana da lanciare contro il nemico. Sì, lanciare. Molti di loro non erano altro che bombe a mano tirate alla cieca: esplodevano in pochi secondi e spesso senza colpire il bersaglio.
Quella era la strategia di combattimento dell’Ammiraglio Sanda. Seguirla era un voto al suicidio, ma Samuel Holt non aveva abbastanza potere per impedire che altri giovani divenissero carne da macello. Il suo messaggio di speranza era divenuto cenere come i corpi dei piloti a cui non si poteva dare degna sepoltura.
Voltron non c’era più e con lui i suoi Paladini.
Quello era uno dei motivi per cui James non era ancora riuscito a registrare alcun messaggio. La persona a cui avrebbe voluto rivolgere le sue ultime parole non le avrebbe mai ascoltate.
Come accadeva da una settimana a quella parte, James lasciò cadere il registratore digitale tra le coperte del letto.
Fissò il soffitto sopra il suo letto senza vederlo.
“Hai sempre avuto la lingua lunga,” disse un ragazzino che non era veramente lì, un’eco della sua memoria. “Che cosa ti ha lasciato senza parole, James?”
La guerra portava gli uomini alla follia e la sua aveva il volto e la voce dell’unica persona che gli aveva lasciato dentro un segno indelebile.
“Mamma e papà non ti hanno insegnato a stare zitto?” Sibilò James alla stanza vuota, riesumando una crudeltà per cui ora provava vergogna.
Fu il silenzio a rispondergli.
James si coprì il viso con il braccio e scivolò in un sonno senza sogni.
***
Il giorno seguente, dopo l’ennesima prova non del tutto soddisfacente con i nuovi jet da combattimento ideati da Samuel Holt, nello spogliatoio dell’hangar non si parlava che di quei registratori.
“Hai consegnato il tuo?” Domandò Nadia, togliendosi il casco dalla testa.
“Il giorno dopo aver ricevuto l’apparecchio.” Rispose Leiff, finendo di sfilarsi la tuta.
“Cosa? Ma non hai riflettuto neanche un po’ su che cosa dire?”
Leiff scrollò le spalle. L’indifferenza con cui affrontava la questione era assurda quanto la leggerezza che mostrava Nadia.
James non ne era sorpreso. Le conosceva ma non sapeva se la naturalezza con cui accettavano la loro posizione era figlia dell’ingenuità o della troppa paura.
Non aveva mai visto Leiff perdere il controllo o Nadia sottotono. In cuor suo, James sperava che non cambiassero e confidare loro i pensieri che lo tenevano sveglio la notte sarebbe stato controproducente.
Discutere con Ryan della sua paura della morte sarebbe stato altrettanto inutile. James non era abituato a mettersi a nudo. Lo aveva fatto solo una volta e non se l’era più sentita di correre il rischio.
Era entrato alla Garrison per divenire un pilota, non per trovare dei compagni per la vita. Mentre indossava la giacca bianca e arancione sopra la t-shirt nera, James realizzò che nemmeno su quel punto era rimasto fedele a se stesso. Con le ragazze era più facile parlare che con Ryan - persino Leiff sapeva essere più loquace. Lui, però, era con James da più tempo, abbastanza da sapere cose che alle altre due non avrebbe mai raccontato.
Non che James fosse andato da Ryan a fare un resoconto dettagliato di ciò che accadeva dietro le porte del dormitorio. Semplicemente, si erano ritrovati a poca distanza l’uno dall’altro nel periodo più intenso della loro adolescenza. Perlomeno, intenso lo era stato per James. Con Ryan era difficile misurare le emozioni a occhio nudo.
Mentre Nadia svelava a tutti loro il contenuto del suo messaggio registrato, James realizzò che lui è Ryan non avevano mai parlato degli eventi che avevano preceduto il fallimento della Missione Kerberos.
Al tempo, James avrebbe dato qualsiasi cosa per dimenticare metà della sua vita. Era assurdo, però, che negli anni non fosse mai sfuggita una parola a riguardo, un riferimento casuale a quei loro primi anni da cadetti.
Forse per Ryan quei ricordi non avevano un significato particolare. Nessuno si era frantumato il cuore nella sua storia, non era nemmeno certo che qualcuno si fosse innamorato.
James sapeva solo che McClain - il fratello - aveva continuato a essere una scimmia urlatrice fino al giorno in cui non era misteriosamente scomparso. Guardò Ryan, si accorse che era l’unico ad avere la divisa addosso e che li stava aspettando.
Ti capita più di pensarci? Avrebbe voluto chiedergli. Non lo fece perché allora il compagno di squadra avrebbe potuto replicare: E a te capita?
E allora a James sarebbero rimaste due possibilità: mentire col rischio che Ryan se ne accorgesse, oppure dire che no, non gli capitava di pensarci… Non aveva mai smesso.
James accantonò l’idea prima che la sua espressione pensierosa destasse qualche sospetto.
La sua fortuna fu che Nadia impiegò un’eternità a uscire dalla sua tuta, o nessuno l’avrebbe salvato dal suo interrogatorio. Mentre si accingeva a recuperare gli stivali, qualcuno entrò nello spogliatoio e chiamò il suo nome: “cadetto Griffin?”
James sollevò lo sguardo: il Comandante Adam Sànchez era un passo oltre la porta e lo fissava senza una reale espressione.
Non aspettò che il cadetto si alzasse e si mettesse sull’attenti. “Seguimi,” ordinò.
James s’infilò gli stivali velocemente e ubbidì. Non cercò gli sguardi dei suoi compagni, anche se sentì i loro occhi su di sé fino a che la porta dello spogliatoio non si richiuse.
Sànchez aspettò che li raggiungesse, ma James rimase un passo dietro di lui per rispetto. “Dove andiamo, sir?”
“Da nessuna parte,” rispose il Comandante. “Facciamo un giro.”
James fissò la sua schiena con perplessità ma non obiettò.
Adam Wright faceva parte del corpo dei piloti scelti. Era stato il co-pilota dell’astro splendente della Galaxy Garrison, Takashi Shirogane, sia da cadetto che nelle missioni ufficiali. Era passato all’ingegneria aerospaziale nello stesso periodo in cui la spedizione su Kerberos era stata annunciata.
Per quel che James ne sapeva, Iverson lo aveva richiamato alla Garrison dopo che Shirogane era piovuto - letteralmente - dal cielo a bordo di un mezzo alieno.
Quella storia, però, era divenuta pubblica solo dopo il ritorno del Comandante Holt.
Al momento, Adam Wright non solo era uno degli assistenti di Samuel Holt, ma anche il responsabile dell’addestramento di James e della sua squadra. In quanto unico pilota della sua generazione capace di tenere testa a Takashi Shirogane, non c’era persona più qualificata alla Galaxy Garrison.
“Ho commesso un errore, sir?” Domandò James.
Adam gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla. “Pensi di averlo fatto?”
“No.”
Il Comandante accennò un sorriso. “Deciso, sicuro… Nel tuo dossier vieni descritto come un leader e sto cominciando a capire il perché.”
“Mi sta mettendo alla prova, sir?”
“No…” Arrivati in fondo al corridoio, Wright aspettò di salire in ascensore prima di aggiungere altro. “Sei l’unico della tua squadra a non aver consegnato il suo registratore,” disse, mentre le porte scorrevoli si richiudevano.
James continuò a guardare di fronte a sé, fissando il suo riflesso distorto sulla parete di metallo. “Non credevo vi fosse una scadenza per la consegna.”
“Non ve ne è una,” confermò Wright, osservando il ragazzo con la coda dell’occhio. “Tuttavia, in quanto ufficiale responsabile della vostra squadra sono tenuto a indagare in caso di comportamenti sospetti.”
James lo guardò apertamente. “In che modo la mia condotta può essere definita sospetta?”
Wright accennò un sorriso. “Rilassati, cadetto, non hai fatto nulla che possa mettere in discussione il modo ligio in cui segui le regole.”
L’ultima volta che qualcuno glielo aveva fatto notare, lo aveva fatto per insultarlo. James si umettò le labbra. “Non capisco, sir.”
“Nemmeno io,” ammise il Comandante. “Non capisco perché un giovane pilota così sicuro, sprezzante del pericolo e tanto carismatico da essere leader di una squadra di piloti scelti, abbia difficoltà a fare i conti con la morte.”
James sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego, sir?”
Wright lo guardò dritto negli occhi. “Non mi fraintendere,” disse in tono più gentile. “Solo un pazzo non avrebbe paura al tuo posto.”
“Teme che abbia paura di volare, signore?”
“Se temo che ti tirerai indietro quando il tuo momento arriverà? No, Griffin. Sarai il primo a volare là fuori e sarai l’ultimo a rientrare. Non dubito di questo.”
“Allora, mi perdoni, ma non capisco il motivo di questa conversazione.”
Le porte dell’ascensore si aprirono: erano in uno degli hangar-cantieri, quello in cui Samuel Holt stava assemblando un arma senza precedenti chiamata Atlas.
“Il motivo di questa conversazione, Griffin, è più personale,” spiegò Wright, poggiando entrambe le mani sulla balaustra. “Dovresti avere un futuro certo a vent’anni e non preoccuparti di pronunciare le tue ultime parole. Credo che i tuoi compagni abbiamo affrontato questa cosa con sana ingenuità. Tu no. Tu ti stai prendendo tempo per riflettere, per renderti conto che potresti davvero morire. In quanto leader, so che non farai mai pesare i tuoi pensieri sui tuoi compagni, non ha importanza quanto ti fidi di loro. Tuttavia, cadetto, non è saggio perdersi in una riflessione sulla morte da solo.”
Si guardarono. L’espressione del Comandante non tradiva niente e nemmeno quella di James. “Mi sta dicendo che posso parlarne con lei, sir?”
“Qualcosa del genere…”
James annuì. “Grazie, ma posso farcela.”
Wright non parve sorpreso o deluso dalla sua risposta. Gli rivolse un sorriso paziente. “Devi farcela, Griffin.”
***
Quella sera, nella sua stanza, James calciò via gli stivali e si sedette a gambe incrociate sul suo letto, determinato a liberarsi di quel dannato registratore digitale. Lo fissò in cagnesco per un tempo assurdamente lungo.
Quando decise che stava diventando ridicolo, afferrò l’apparecchio e coprì l’unico tasto rosso con il pollice. Non avviò la registrazione.
Con orrore, realizzò che non sapeva a chi rivolgerle quelle ultime parole. I suoi genitori erano la scelta più ovvia e non gli fece piacere rendersi conto che era anche la più sbagliata. Quando gli era stato detto che erano al sicuro, in uno dei rifugi, James aveva fatto una telefonata ma non era andato a cercarli.
Poggiò la fronte contro il registratore e lasciò andare un sospiro frustrato. Non poteva essere onesto con la sua famiglia, non dovevano sapere che il loro figlio perfetto era una bugia.
James era un investimento per loro, lo era stato nel momento in cui era nato. Non gli avevano mai fatto mancare niente, eppure non gli avevano dato nulla. Gli avevano insegnato concetti futili come inferiore e superiore, e quanto fosse necessario appartenere alla seconda categoria.
Non lo avevano criticato quando aveva scelto di divenire un esploratore spaziale e non un avvocato come suo padre. Al contrario, ne erano stati entusiasti. Non avevano dubitato nemmeno per un istante che sarebbe stato il migliore e James non aveva mai preso in considerazione l’idea di essere da meno.
Inferiore o superiore.
Era inutile essere il migliore quando si volava al fianco di un prodigio. James non avrebbe mai potuto spiegarlo ai suoi genitori.
No, non avrebbe sprecato le sue ultime parole per raccontare una bugia. Se doveva morire a vent’anni, voleva lasciare qualcosa che avesse significato e per qualcuno che potesse comprenderlo.
Non poteva rivolgersi ai suoi compagni. Era il loro leader e sarebbe andato contro la sua natura appoggiarsi a loro.
James serrò i denti sul labbro inferiore. Infilò le dita tra i capelli e tirò abbastanza da sentire dolore.
“Quella frangia è ridicola.”
Chiuse gli occhi e cercò di scacciare il ricordo della sua voce dalla testa.
“Pensa a quel disastro che hai per capelli, mullet.”
“Papà raccontava che ce l’ho da quando sono nato.”
Sicuramente aveva un suono diverso d’allora, più da uomo e meno da ragazzino.
Sempre ammesso che fosse ancora vivo per parlare. Anche lui aveva avuto il tempo di pensare alle sue ultime parole? A chi le aveva rivolte?
James dubitava che gli avesse dedicato il suo ultimo pensiero. Lui, al contrario, non riusciva a pensare ad altri da quando Samuel Holt era tornato alla Garrison sulle sue gambe portando con sé una storia di guerra, di alieni e di Paladini leggendari.
James lanciò il registratore dall’altra parte della camera è si coprì gli occhi con entrambe le mani. “Sei morto al suo fianco?” Sibilò. “Magari sei morto per lui. Non hai mai voluto nessun altro, no?” Finì per urlare alla stanza vuota. “Cazzo…” Picchiò il pugno contro la propria fronte. “Cazzo, cazzo, cazzo…”
***
Una settimana dopo, James non aveva ancora consegnato il suo registratore. Ogni giorno, lui e la sua squadra si presentavano nell’hangar per mettere alla prova i nuovi jet-MFE. Samuel Holt e gli ingegneri al suo comando lavoravano al progetto costantemente e ogni volta c’era qualcosa nella tecnica di volo. James era consapevole dell’enorme responsabilità che comportava pilotare uno di quei mezzi, ma non poteva fare meno di sorridere come un bambino ogni volta che ne faceva decollare uno.
James Griffin amava volare. Non aveva scelto la Galaxy Garrison per la gloria fine a se stessa, lo aveva fatto perchè aveva passato tutta la sua infanzia a sognare con gli occhi rivolti al cielo.
Se doveva morire in quella guerra, voleva farlo volando.
Prima di ogni prova di volo, Adam Wright spiegava loro la manovra che avrebbero dovuto eseguire e come comportarsi nel caso i jet non avessero risposto ai loro comandi. Quando tornavano tutti con i piedi per terra, il giovane ufficiale parlava con loro dei risultati ottenuti, li spingeva a identificare i loro errori e li abituava a elaborare strategie di volo all’ultimo minuto.
“Bisogna saper improvvisare,” diceva Wright. “Siete piloti scelti, non avete bisogno di eseguire solo manovre da manuale. Se riuscite a essere imprevedibili, il nemico non saprà come colpirvi.”
James sentiva i suoi occhi su di sè per la maggior parte del tempo. Non aveva paura di rispondere al suo sguardo ma fingeva di non conoscere il motivo di tutte quelle attenzioni.
Non aveva importanza. Nel momento in cui decollava, tutti i suoi turbamenti svanivano e tornava ad essere il pilota leader di cui la Garrison, la sua squadra e il suo pianeta avevano bisogno.
La notte era un po’ più dura brandire quella determinazione e usarla contro quel piccolo apparecchio che lo derideva dall’angolo in cui James lo aveva gettato. Non lo aveva più toccato d’allora: era inutile sforzarsi di dire qualcosa che non aveva importanza, e tutto quello che avrebbe voluto buttare fuori non sapeva a chi raccontarlo.
Adam Wright non andò a cercarlo una seconda volta. Gli aveva dato la sua disponibilità e se ne avesse avuto bisogno, toccava a James fare il passo successivo.
Lo fece ma non in direzione del giovane ufficiale.
Veronica McClain non era sua amica.
Tecnicamente era una sua superiore e James non si sarebbe mai sognato di prendersi troppe confidenze con un ufficiale di grado maggiore, ma la guerra aveva il potere di diminuire la distanza tra i soldati coinvolti nelle stesse missioni.
Lui e Veronica si conoscevano appena, eppure James andò da lei come se fosse una delle ragazze della sua squadra.
“Vuoi un caffè?” Domandò Veronica, infilandosi dietro il bancone della caffetteria degli ufficiali. “I ragazzi che lavoravano qui servivano solo brodaglie scure. Io ti farò bere un vero caffè.”
James annuì, sedendosi su uno degli alti sgabelli. Non era mai stato lì, non aveva mai raggiunto i gradi necessari per avere il diritto di frequentare quella zona dell’Accademia. Prima della guerra, doveva essere stata una sala elegante, seppur essenziale, con tavolini sempre puliti, disposti lungo la vetrata che dava sul deserto.
Ora era ancor peggio della mensa dei cadetti alla fine della pausa pranzo.
“Di che cosa volevi parlarmi?” Domandò Veronica, preparando la macchina per il caffè.
James incrociò le braccia sopra il bancone. “Tu avrai sicuramente parlato con Samuel Holt.”
“Di cosa?”
“Di tuo fratello.”
Veronica smise di fare quello che stava facendo per guardarlo. “Perchè questa domanda?” L’aveva presa di sorpresa e non le aveva fatto piacere.
James abbassò lo sguardo: Veronica non era in attesa di un Paladino che ribaltasse le sorti della guerra, aspettava solo che il suo fratellino tornasse a casa.
“Ci sono delle persone…” James scosse la testa. “C’è una persona che è con tuo fratello… O dovrebbe esserlo.”
“Uno degli altri cadetti?”
“Non è più un cadetto.”
Veronica recuperò due tazze da sotto il lavandino, passò un panno umido al loro interno e le sistemò sul bancone. “Keith…” Disse con un sospiro.
Sentirla pronunciare il suo nome in quel modo, come se lo conoscesse, prese James completamente alla sprovvista. “Lo conoscevi?”
A differenza di tutti gli altri cadetti, Keith aveva mangiato in quella sala, aveva camminato nelle aree riservate solo agli ufficiali e si era anche introdotto nell’appartamento di uno di loro senza pagarne le conseguenze. Per un breve periodo, Lance era stato il secondo candidato a divenire il co-pilota di Keith – poi si era schiantato durante la simulazione d’esame ed era stato sbattuto nel corso dei cargo-pilot –, non era poi così assurdo che Shirogane lo avesse presentato a Veronica.
“Non ne ho avuto bisogno,” spiegò la giovane McClain con un sorriso nostalgico. “Lance non parlava d’altro! Io scendevo ad offrirgli la colazione e lui si lanciava in lunghi monologhi su Keith!” Sospirò. “Keith di qua, Keith di là. Keith ha fatto questo, Keith ha fatto quello.” Rise. “Quando ho capito che si trattava della stella di Shiro, ho riso.”
James sbatté le palpebre un paio di volte. “La stella di Shiro??”
“Da un’idea di Matt… Matthew Holt, il figlio maggiore di Sam.”
“So chi è Matthew Holt.”
“È l’unico di noi a essere riuscito ad avvicinarsi a Keith,” raccontò Veronica, afferrando la caffettiera fumante per versarne il contenuto nelle due tazze sul bancone. “A parte Shiro, ma questo tu lo sai.”
James annuì, prendendo la sua tra le mani. “Sì, lo so…” Si umettò le labbra. “Il Comandante Holt non ti ha detto nulla di lui? Di Keith, intendo.”
Veronica bevve un sorso di caffè. “Non proprio,” rispose. “Sta bene. So che sta bene ma quando Sam li ha lasciati, Keith non era con Lance.”
James la guardò. “Keith e Lance non sono entrambi Paladini di Voltron?”
“L’universo è piuttosto grande,” disse Veronica con una scrollata di spalle. “Non è assurdo pensare che non partecipino tutti alla stessa missione.”
Il pilota si rigirò la tazza tra le mani. Non aveva preso neanche un sorso del suo caffè. “Keith è l’unico a non aver registrato un messaggio per la sua famiglia.”
“Non è orfano?”
Sì, non c’era nessun familiare sulla Terra ad aspettare il ritorno di Keith. Ufficialmente, non esisteva nemmeno un fascicolo relativo alla sua scomparsa, a differenza degli altri tre cadetti e di Shirogane.
Keith Kogane era uscito dall’Accademia Galaxy Garrison passando dalla porta principale e nessuno aveva più avuto sue notizie. C’era una lunga parentesi di undici mesi tra la sua espulsione e il ritorno di Takashi Shirogane. Nessuno sapeva che cosa era accaduto in quel lasso di tempo, che cosa aveva fatto, dove aveva vissuto e come era riuscito a prendersi cura di sè.
Con la partenza di Shirogane, non c’era rimasto nessuno sulla Terra a preoccuparsi per Keith.
Davvero nessuno.
“Chi era lui per te?” Domandò Veronica di colpo.
James fu bravo a dissimulare. “Lo hai detto anche tu: tutti conoscevano Keith.”
La giovane donna lo guardò sospettosa da dietro le lenti degli occhiali. “Potrebbe esserci un rapporto dettagliato di una rissa tra te e lui nell’archivio dell’Accademia?”
James sbuffò. “Avevamo quattordici anni.”
“E c’era tanta tensione tra di voi che vi siete dovuti prendere a pugni subito dopo la vostra prima prova di volo?” Veronica rise. “Sul serio, Griffin. Chi era Keith Kogane per te?”
“Un compagno d’Accademia.”
“E…?”
“Un rivale, immagino.” Quella era la risposta più simile alla realtà che James era disposto a dare. “Keith era un prodigio e tutti lo odiavamo perchè non riuscivamo a essere alla sua altezza.”
“Odiavamo,” ripeté Veronica, assottigliando gli occhi. “Parola forte per descrivere il rapporto con un compagno di classe.”
“Adolescenza,” rispose James. “Ogni emozione è esageratamente intensa a quell’età.”
Le labbra di Veronica si piegarono in un sorriso furbetto. “Anche l’amore…”
Il pilota sapeva che se avesse abbassato il viso, si sarebbe tradito. Si premurò di tenere lo sguardo alto e di non mostrare più del dovuto. “Immagino di sì,” concordò.
Veronica reclinò la testa da un lato, stringendo le braccia in un broncio deluso. “Mi vuoi dire che non ti sei mai innamorato, Griffin?”
“Essere un pilota aveva la priorità,” rispose James. “Ed esserlo accanto a un prodigio come Keith richiedeva parecchie energie.”
Veronica si sporse in avanti. “Allora?” Sussurrò. “Me lo dici chi eri per lui?”
James prese un respiro profondo. “Il suo compagno di stanza.” Non era una bugia. “Il suo co-pilota.” Non stava mentendo, eppure quella non era la verità.
***
Adam infilò le dita sotto i nasello degli occhiali per massaggiarsi il naso. Era tardi, molto tardi, ma aveva smesso di dormire un'intera notte di seguito da quando la missione su Kerberos era stata annunciata.
“Nadia Rivazi,” disse Adam, riportando gli occhi sui quattro fascicoli aperti sulla scrivania. “Le piace volare. Si vede che le piace volare. Le piace rivaleggiare con il leader ma non lo fa mai con l'intenzione di metterlo in ombra. Sarebbe un buon braccio destro se riuscisse a restare seria per più di cinque minuti.”
Passò al secondo. “Ina Leifsdottir. È quanto di più simile ci sia a un cyborg. Mette più paura di Holt ma è molto più silenziosa e questo gioca molto a suo favore.” Sollevò lo sguardo per un istante. “Non ridere. Nessuno è mai riuscito a reggere per un'intera conversazione con Matthew Holt, a parte te.”
Seduto sul lato opposto della scrivania, Takashi gli sorrise dolcemente. “Eri solo geloso…”
Adam aggrottò la fronte. “Di Holt?” Scosse la testa. “Avevo tante insicurezze ma Matt non era una di quelle. Ah… Ryan Kinkade. Ogni volta che dice ah è un evento. Nella sua domanda di ammissione ha scritto che voleva fare il regista o qualcosa del genere. Non so come se la cava dietro la camera da presa ma sa volare. Ha un difetto: manca d'iniziativa.”
“Che cosa ti rendeva insicuro?” Domandò Takashi.
Adam scrollò le spalle. “Tu…” Rispose senza esitare. “Tutto di te mi metteva insicurezza. Mi sorprende che siamo durato tanto a lungo.”
“Forse mi amavi più delle tue insicurezze.”
“Ma tu non mi amavi più dei tuoi sogni, quindi…”
“Perché riduci tutto a questo?” Domandò Takashi. Non lo stava accusando. La sua follia almeno gli risparmiava tutto l'astio del loro ultimo periodo insieme.
“L'ultima volta che ci siamo visti non eravamo arrabbiati,” obiettò il fantasma di Takashi. Conosceva i suoi pensieri perché anche lui era un parto disperato della sua mente. Takashi non aveva più vent'anni, i suoi capelli non erano più neri e il suo viso era segnato da esperienze di cui non avrebbe mai conosciuto i dettagli.
“Solo un po’ tristi,” aggiunse Adam.
“Non lo sembravi. Malinconico, sì. Triste non lo avrei detto.”
“Non volevo mostrarlo.”
“Orgoglioso…”
“Non hai tentennato un istante nemmeno tu, smettila,” disse Adam, stancamente.
“Cos'altro ti rendeva insicuro, Adam?” Domandò Takashi, sporgendosi verso di lui.
Adam evitò la domanda e passò all'ultimo fascicolo. “James Griffin…” Storse la bocca in una smorfia sarcastica. “Sai qual è la prima esperienza di volo riportata? Co-pilota di Keith Kogane. Me lo ricordo, sai? È l'unica ragione per cui rammento il suo nome. Povero ragazzo…”
Takashi appoggiò il mento al palmo della mano. “Perché dici questo? Griffin è un pilota scelto. Ha tenuto testa al migliore. Dovrebbe essere un motivo d'orgoglio.”
“Per un pelo gli ha tenuto testa,” disse Adam, facendo scivolare gli occhi sui risultati accademici di James Griffin. “Non ha mai avuto possibilità contro di Keith. E lo sapeva… È un ragazzo sveglio, lo sapeva. Fa male rendersi conto che con le proprie capacità si può solo vivere all'ombra di qualcun altro.” E non parlava solo di James Griffin.
“Tu non sei mai voluto essere il migliore,” disse Takashi.
“Ciò non toglie che vivevo nella tua ombra.”
“Eppure quello eri riuscito ad accettarlo…”
“Lo so…” Adam annuì. “Questo ragazzo… Griffin mi preoccupa. È l'unico della squadra MFE a preoccuparmi.”
“Perché?”
“Lui è Keith si conoscevano da prima dell'Accademia. Sul registro di Griffin c’è un richiamo per rissa contro di lui… Erano compagni di stanza? Ma cosa passa per la testa di Morrison quando prende queste decisioni?”
“Si conoscevano,” disse Takashi. “Era due piloti. Li hanno assegnati alla stessa squadra subito dopo i test di ammissione nel simulatore. C'erano tutte le ragioni per assegnarli alla stessa stanza.”
Adam scrollò le spalle. “Immagino non sia stato difficile andare d'accordo: Keith passava tutto il suo tempo con te.”
Le sfumature del sorriso di Takashi cambiarono. “Eccola qui…” Mormorò.
“Cosa?” Domandò Adam.
“La tua più grande insicurezza.” Il fantasma di Takashi parlò con gentilezza ma le sue parole lo raggiunsero come un pugno.
Adam non ebbe la forza di obiettare. Se avesse cominciato a discutere con le proiezioni della sua mente, non sarebbe uscito da quella guerra con la testa sulle spalle… Sempre ammesso che ne sarebbe uscito.
“Sai una cosa?” Disse Veronica riempiendo le due tazze poggiate sul banco e del bar di caffè caldo appena fatto. “Mia madre mi ha insegnato a fare questo genere di cose pensando che al mio futuro uomo avrebbe fatto piacere ma non ho mai pensato di darle ragione.”
Adam sorrise sotto i baffi, prendendo un sorso di caffè. “Sei l'unica qui dentro che sappia farlo,” si giustificò.
Veronica annuì con un sorrisetto saputo. “Sono una sorella maggiore, Adam Wright. Non puoi mentire a me.”
“Non era mia intenzione farlo,” disse Adam. “Al contrario, se vuoi che sia diretto, lo sarò. Pensavo fosse poco elegante con una signora.”
Veronica incrociò le braccia sul bancone. “A te non interessa fare colpo su di una bella donna e io ho troppo fratelli maschi per essere pretenziosa sul comportamento di un uomo. Rilassati e parla chiaro, Adam.”
“Hai parlato con Griffin ultimamente?” Adam beve un altro po’ di caffè.
Veronica inarcò un sopracciglio. “Sei qui anche tu per parlare di Keith?”
Adam rimase con il braccio sospeso a mezz'aria, poi riadagiò la tazzina sul bancone. “Griffin ha voluto sapere di Keith da te?”
“Stando a quanto ci ha detto Sam, Lance dovrebbe essere con lui,” spiegò Veronica. “E con Shiro.”
“Temo ci sia un malinteso, Veronica,” la bloccò Adam con garbo. “Non sono qui per parlare di Takashi. Se avessi voluto sapere qualcosa, sarei andato da Samuel Holt.”
Veronica annuì. “È quello che ho detto a Griffin, ma credo che si vergogni.”
Adam inarcò le sopracciglia. “Si vergogna di chiedere come sta un suo vecchio compagno di Accademia?”
Veronica s'imbronciò. “Io e te non siamo mai stati amici, Adam, ma non fingerti sorpreso con me. Non sono così ingenua: se sei venuto da me per parlare di Griffin, devono esserci dei sospetti a cui devi trovare conferma.”
Adam accennò un sorriso. “Che idea ti sei fatta?”
“T'interessa l'opinione di una donna che non conosci bene?”
“M'interessa l'opinione di una donna di cui un Holt si fida.” Suo malgrado, Matthew Holt aveva sempre avuto le intuizioni giuste e suo padre non poteva essere da meno.
Veronica si umettò le labbra. “La mia opinione è che non vieni a chiedere informazioni su di un vecchio compagno d'Accademia in punta di piedi, se non hai qualcosa da nascondere.”
Adam annuì. “Era il suo co-pilota. C'era rivalità tra loro, credo… Almeno da parte di Griffin.”
“Come mio fratello e decine di altri,” replicò Veronica. “Pensi che a Shiro non sia mai successo?”
Adam pensò a quella sera di pioggia del loro primo anno, quando aveva spaccato la faccia a un cadetto più grande per aver messo le mani addosso a Takashi. “Sì,” rispose. “Gli è successo.”
Veronica afferrò la sua tazza di caffè e poggiò la schiena al lavandino del bar. “James parla di Keith un po’ come lo faceva Lance,” disse. “È il suo sguardo mentre lo fa che è completamente diverso.”
“Tuo fratello conosceva Keith?” Era la domanda sbagliata. Tutti conoscevano Keith, era lui ad avere occhi solo per Takashi…
A parte quando Matthew Holt scivolava furtivamente nel mondo che si erano creati. Adam non l'aveva mai detto, ma era sempre stato geloso di questo.
“Non so quanto di quello che Lance mi raccontava fosse vero,” ammise Veronica. “Lui parlava di rivalità e di bisticci… Io credo che Keith nemmeno lo guardasse,” aggiunse con una nota amara. “Il mio povero Lance e i suoi amori proibiti.”
“Amori proibiti?” Domandò Adam.
“Non lo so,” ammise Veronica con un sorriso intenerito. “Conosco Lance e il mondo in cui parlava di Keith, pur insultandolo, era… Diverso.”
“È stato diverso anche il modo in cui te ne ha parlato Griffin?”
Veronica tamburellò le dita contro la ceramica bianca della sua tazza. “Lance nascondeva qualcosa in modo infantile. Gesticolava nervosamente, la voce gli diventava stridula e buttava addosso a Keith tutto l'astio che riusciva a provare,” raccontò. “James finge indifferenza. Non mostra nulla. Non copre una cosa con un'altra. Finge che non ci sia proprio niente. Anzi, credo che voglia convincersene.” Sorrise. “Per quel che ne so, Adam, quando un ragazzo cerca di dissimulare qualcosa con tanta cura, ha qualcosa di grosso da nascondere.”
Adam non replicò. Era come se Veronica stesse parlando di lui e dell'ostinazione con cui si rifiutava di chiedere a Samuel Holt di Takashi.
“Forse James Griffin ti preoccupa perché è come te, Adam.”
Adam sollevò lo sguardo ma non era stata Veronica a parlare. Guardò verso destro: con il gomito appoggiato al bancone del bar, Takashi gli sorrideva. “Forse Keith è stato per James quello che io sono stato per te.”
“Adam?” La voce di Veronica lo riportò alla realtà. “Perché t'interessa tanto James Griffin?”
“Mi occupo della loro squadra, mi sento responsabile,” rispose Adam.
“Sì, ma non puoi esserti preoccupato per lui solo perché hai saputo che è venuto a parlare con me.”
“Non ha ancora consegnato il suo,” Adam ingoiò a vuoto, “testamento.”
“Oh…” Mormorò Veronica, come se avesse appena ricordato qualcosa che aveva preferito dimenticare. “Non è facile. So che non è nemmeno andato a trovare i suoi genitori quando sono stati portati al rifugio. Forse non sa a chi rivolgere le sue ultime parole.”
Adam scosse la testa. “Lo sa, lo sa… Ha solo paura di farlo.”
***
Prima dell'addestramento del mattino, James e Nadia erano sempre gli ultimi a uscire dallo spogliatoio. Una volta, James aveva scherzato sulla possibilità che Ryan e Ina fossero degli alieni che non avevano bisogno di dormire per vivere decentemente.
“Altrimenti non riesco a spiegarmi come facciano a essere già pronti quando noi arriviamo,” aveva detto.
Quando aveva scoperto di aver passato tutta la sua adolescenza a dormire accanto a un vero alieno, James aveva smesso di considerarla una cosa divertente.
“Non hai una bella cera.” Fu Nadia a uscirsene con quel commento. Ryan non lo avrebbe mai fatto, tantomeno Ina.
Se i due taciturn del suo team non avevano bisogno di dormire, Nadia non aveva certo difficoltà a svegliarsi. Da parte sua, James fissava l'interno del suo armadietto indeciso se fosse ancora vivo o se stesse vivendo una sorta di sogno pre-mortem.
“Non vorrai farti battere da me durante l'addestramento, spero,” aggiunse Nadia, facendogli la linguaccia.
James conosceva la sua compagna di squadra abbastanza per sapere che quello era il suo modo di preoccuparsi per lui. Era un messaggio in codice che significava: ehi, Griff, io ci sono! Devi solo chiedere!
James questo lo sapeva e in cuor suo gliene era grato. Era certo che se fosse andato da Ryan e Ina, anche loro lo avrebbero ascoltato. Quella, però, era una discussione con se stesso che aveva già chiuso: erano soldati in guerra e i pensieri che gli rovinavano il sonno erano tanto infantile che ne se vergognava. James non avrebbe mai offeso i suoi compagni rubando loro del tempo per discutere dei fantasmi della sua adolescenza.
“Ho dormito poco,” rispose James senza guardarla.
Nadia si fece seria. “Sei sicuro di voler pilotare, Griff?”
Lui la guardò storto. “Ho solo dormito poco, Nadia.”
“Ma hai davvero una brutta cera-”
“Sto bene!” Sbottò James sbattendo l'anta dal suo armadietto. Strinse gli occhi e prese un respiro profondo. “Scusami,” aggiunse immediatamente, ma il danno ormai era fatto.
Attirati dal frastuono, Ryan e Ina entrarono nello spogliatoio. Fu lui a parlare: “che succede?”
“Niente,” rispose James, voltandosi verso i due compagni. “Ho ho avuto uno scatto di nervi, Nadia non centra nulla, colpa mia.”
“Tu non hai scatti di nervi,” obiettò Ina.
James inspirò dal naso e contò fino a cinque prima di rispondere. “Sono un essere umano, Ina,” disse. “Agli esseri umani capita di essere stanchi, nervosi…”
“E stronzi.” Una quarta voce che non apparteneva a nessuno dei suoi compagni gli fece gelare il sangue nelle vene.
James si voltò verso destra: gli occhi viola di un ragazzino con la divisa da cadetto rispose al suo sguardo. “Loro lo sanno quanto sei essere stronzo, James?” Domandò Keith. Perché quello era Keith, anche se non era davvero lì. “Lo sanno come sei diventato il loro leader?”
“James…” Nadia gli strinse la spalla amichevolmente. “Proprio perché sei un essere umano puoi fermarti e prenderti una pausa.”
James scosse la testa. “Siamo in guerra,” replicò, poi lanciò uno sguardo verso destra: Keith era sparito. “Non possiamo fermarci.”
Quella sera, dopo aver consumato una cena veloce, James aspettò che i suoi compagni si ritirassero nelle loro stanze poi si diresse in infermeria.
“Ho bisogno di qualcosa che mi aiuti a dormire,” disse all'infermiera di turno.
“Ho bisogno della tua ID,” replicò lei con un sorriso.
James aprì e chiuse il pugno destro un paio di volte. “Non ce l'ho con me,” mentì. Non gli avrebbe mai dato quello che chiedeva se avesse scoperto che faceva parte del corpo piloti.
La ragazza si fece seria. “Mi dispiace ma devo registrare tutti i farmaci che richiedi sul tuo profilo,” abbassò lo sguardo sulla targhetta identificativa. “J.Griffin. Non sei il leader della squadra speciale di piloti?”
James scosse la testa. “Non ha importanza. Mi spiace di averti fatto perdere tempo.”
L'infermiera lo fermò afferrandogli il braccio gentilmente. “Non posso darti alcun farmaco che influenzi il ritmo del tuo sonno se appartieni a un programma di pilotaggio,” gli spiegò. “Se hai problemi a dormire, ti consiglio di parlare con uno dei tuoi superiori e farti esonerare dall'addestramento in aria per qualche giorno.”
James scosse la testa. “Non importa,” disse. “Grazie lo stesso.”
Non appena la porta della sua camera si rinchiuse, James vi appoggiò la schiena e prese un respiro profondo a occhi chiusi.
Si liberò dei vestiti mentre entrava nel bagno e quando il getto calda lo colpì, lasciò andare un lungo sospiro. Poggiò la fronte contro le piastrelle gelide e cercò di sgombrare la mente.
L'infermiera l'aveva riconosciuto ed era probabile che avrebbe riferito a Samuel Holt o Adam Wright il suo tentativo di raggirare i controlli.
Il vecchio James si sarebbe allarmato fino ad avere un crollo nervoso. No, il ragazzo che era stato non si sarebbe mai cacciato in una situazione del genere fin dal principio.
Il James del presente era troppo stanco per preoccuparsi di apparire meno che perfetto. Gli piaceva ancora conservare la maschera del cadetto modello, ma aveva smesso di vedere nello specchio un’immagine che riflettesse impeccabilità.
Era uno stronzo come tanti altri che aveva avuto la fortuna di fare qualcosa in cui era bravo. Una bravura che aveva ottenuto con impegno, dedizione e una fatica che non sapeva quantificare. Non come gli astri, i ragazzi d’oro o qualunque nomignolo idiota incollassero addosso a chi volare ce l’aveva nel sangue.
James fece roteare la testa sotto il getto caldo dell’acqua combattendo la tensione dei muscoli del collo e delle spalle. Aveva bisogno di rilassarsi, di non pensare.
Appoggiò la schiena alle piastrelle umide, gli occhi chiusi. Si lasciò vincere dal torpore, mentre la sua mente si aggrappava pigramente al primo ricordo di natura erotica che riuscì a tirare fuori dal gran caos di pensieri: una ragazza con cui era stato primo che il mondo andasse a pezzi.
Non ricordava il suo nome, forse non glielo aveva nemmeno chiesto. A stento aveva memorizzato il suo viso – l’aveva presa di schiena. Erano i suoi capelli a essergli rimasti impresso. Neri, ondulati. James vi aveva affondato il viso e si era perso nel piacere egoista di una botta e via. Lei se ne era andata contenta. Non gli aveva chiesto il suo numero e lui non si disturbato a fare diversamente.
Tutto quello che James aveva voluto da lei era stato perdersi un po’ mentre il profumo dei suoi capelli neri gli invadeva i sensi. Non si era rivelato quello giusto – troppo femminile – ma non sarebbe mai andato a cercare quello di cui aveva bisogno da un ragazzo.
Col senno di poi, con un piede nella fossa e un altro sul campo di battaglia su cui stavano perdendo, James si sentiva un idiota per quella sua fottuta inibizione.
Quel pensiero frustrante rese inutili tutti i tentativi della sua mano di darsi un po’ di piacere.
“Maledizione…” Sibilò, coprendosi gli occhi con una mano.
“Non pensare,” gli suggerì una voce nella sua mente, l’ultima che avrebbe voluto udire in quel momento. “Non ti serve pensare, non adesso.”
James si voltò, piegò il braccio contro la parete e vi appoggiò la fronte. “Non sei qui…” Sibilò. “Non sei qui…”
No, ma era nella sua mente, sotto la sua pelle.
Mentre faceva scivolare la mano tra le gambe, James tornò con la mente al suo viso premuto contro una nuca ricoperta di capelli corvini. No, non quelli della ragazza di cui non ricordava il nome. Sapeva bene chi stava toccando e il profumo che lo stordiva dolcemente era quello giusto, quello che aveva cercato in tante giovani donne senza successo.
La doccia era più piccola e l’acqua che gli pioveva addosso era fastidiosa perchè gli impediva di baciarlo per più di un respiro.
L’orgasmo lo prese allo sprovvista prima che la forza di quel ricordo raggiungesse il suo zenit.
“Cazzo…” Sibilò, svuotato ma non dai pensieri che lo tormentavano tanto da impedirgli di dormire. Se possibile, quelli erano più vividi di prima.
Finì di lavarsi in fretta. Quando si sedette sul letto, aveva ancora i capelli umidi e il piccolo registratore lo attendeva accanto al suo cuscino.
James lo fissò stancamente per un lungo minuto, poi la rabbia ebbe la meglio. Premette il pulsante per registrare e le parole gli uscirono di bocca come un fiume in piena.
“Non credo t’interesserà sapere quello che ho da dirti,” cominciò. Nessuno saluto, nessun preambolo. “E non hai idea di quanto odi ritrovarmi qui a rivolgere le mie ultime parole a te… Proprio a te! Per quel che ne so potresti essere morto, o disperso mentre cerchi di combattere l’ennesima battaglia persa. Lo sto facendo anche io, sai? Sto combattendo per difendere il pianeta che tanto odi e so che morirò per farlo perchè, grande colpo di scena, la nostra unica speranza di salvezza pare che sia tu!”
Tremava. Inspirò profondamente dal naso ma non si calmò.
“Li hai portati tu qui?” Continuò. “Ce li ha portati lui? Sei arrivato ai confini della galassia per salvarlo, mentre qui cadiamo uno dopo l’altro? Dove sei? Se sei la nostra unica speranza, dove diavolo sei? Non hai esitato un istante a lasciare tutto per lui e adesso stiamo qui a morire per una guerra che non ci appartiene e che ho la netta sensazione che sia tua!”
Nemmeno con il respiro spezzato per la rabbia, James riusciva a pronunciare le parole giuste. Non hai esitato un istante a lasciare me per lui. Me.
“Paladino... Come puoi essere un Paladino? Sei la persona più egoista che conosco. Saresti capace di condannare l’intero universo per quella singola persona e io devo credere che tu ne sia il difensore? Non sei mai stato capace di aiutare nemmeno te stesso.”
Se James aveva il coraggio di dare a lui dell’egoista, con che parole poteva definire se stesso?
“Ho una domanda… Solo una domanda: ti sei mai guardato indietro, Keith?”
Keith. Keith. Keith.
“E tu lo hai mai fatto, James?” Replicò la voce nella sua testa.
James non interruppe la registrazione, si limitò a gettare il registratore a terra con tanta forza che andò in mille pezzi.
Non dormì neanche quella notte.
Il giorno dopo versava in uno stato talmente miserabile che furono i suoi compagni a chiedere di sospenderlo dalle prove di volo. James nemmeno provò a difendere se stesso: sapeva che c’erano dei limiti ed era consapevole di averli superati tutti in pochi giorni.
“Prenditi un caffè e vieni nel mio ufficio, Griffin.” Fu l’ordine di Adam Wright.
***
I pezzi del registratore che giacevano sulla scrivania sembravano deriderlo.
James li fissò senza una reale espressione: non poteva negare nulla e dare spiegazioni sarebbe stato troppo complicato e controproducente. L’unico modo per uscire da quella situazione riportando meno danni possibili era gettare in ballo il disturbo da stress post-traumatico, terrori notturni, follia assoluta... Qualunque cosa gli permettesse di usare la guerra come abili e gli evitasse di cantare tutta la verità.
“Questo lo ha fatto Veronica,” disse Adam Wright, mettendogli davanti una tazza di caffè fumante. “Quello del distributore automatico non regge il confronto.”
James sapeva che aveva ragione e buttò giù subito un sorso, così da lavare via dalla bocca il saporaccio che la brodaglia che aveva consumato in corridoio gli aveva lasciato. “Mi dispiace, sir,” disse con rispetto e umiltà. Se si fosse dimostrato collaborativo, c’erano più probabilità che se ne sarebbe andato dando qualche spiegazione ma senza subire un interrogatorio. “Faccio degli incubi, ho problemi a dormire.”
Adam fece il giro della scrivania e si sedette sulla poltrona girevole. “Per questo hai chiesto dei sonniferi in infermeria senza il permesso di un superiore?”
James se l’era aspettato. “Sì, sir.”
“Sei consapevole di quanto sia pericoloso pilotare un jet con in circolo sostanze che possono alterare il tuo stato di coscienza, vero?”
“Conosco il regolamente, sir.”
“E lo hai ignorato.”
“Ero davvero molto stanco.”
“Incubi?”
“Sì…”
Adam sospirò. “Sai che rischi di venir escluso dal progetto di difesa MFE?”
James sgranò gli occhi. “Non ho pilotato sotto l’effetto di farmaci,” gli ricordò.
“Stavi per farlo e di nascosto.”
“Ho lasciato perdere senza nessuna esortazione.”
“Hai lasciato perdere quando hai capito che il protocollo è ancora valido anche in guerra.”
“Se mi togliete dal progetto di difesa, le nostre possibilità di battere i Galra si abbassano drasticamente!” Esclamò James. “Con tutto il rispetto…” Aggiunse immediatamente. “Inserire un nuovo pilota nella squadra comprometterebbe tutto il lavoro del Comandante Holt e dei miei compagni. Quei jet non si possono pilotare senza una tecnica di volo perfetta.”
Adam annuì. “Eri modesto fino a un istante fa, Griffin.”
“Sono consapevole delle mie capacità, Comandante,” replicò il cadetto. “Non ho motivo di vergognarmene.”
L’ombra di un sorriso comparve sul viso dell’ufficiale. “Ho detto una cosa simile anche io tanto tempo fa, a due persone che hanno fatto parlare di loro qui, alla Garrison.”
Come tutti, James sapeva che c’era stato un legame particolare tra Adam Wright e Takashi Shirogane. L’unica differenza è che la sua conoscenza in materia la doveva a Keith.
“Perchè t’interessa tanto il cadetto Kogane, Griffin?” Domandò Adam, diretto, quasi crudele.
Fu allora che James si rese conto di non avere alcuna possibilità di fuga. “Ha parlato con Veronica, Comandante?” Domandò. Di colpo, il caffè che aveva bevuto prese il sapore del tradimento.
“Veronica non centra, James,” disse Adam con tono più colloquiale. “Avevo un’intuizione, l’ho seguita e ho scoperto di avere ragione.”
James artigliò i braccioli della sedia su cui si era accomodato. “Quale intuizione, sir?”
Adam indicò i pezzi del registratore con un cenno del capo. “Che hai qualcosa di molto importante da dire a una persona che ha altrettanto valore per te, ma vorresti che non lo avesse.”
Fu un sforzo per James non abbassare lo sguardo, sconfitto. “Non ho niente da dire a Keith Kogane, signore.”
Adam scrollò le spalle. “Beh… Il prezzo di tutto quel niente l’ha dovuto pagare quel povero apparecchio.”
“Ero frustrato perchè non sapeva che cosa dire a chi dirlo.”
“Hai una famiglia, James. Hai degli amici. Non sei solo al mondo.”
“Non ho alcuna intenzione di far pesare le mie ultime parole sui miei compagni di squadra,” replicò James, freddo. “E non ho niente da dire ai miei genitori che non sia stato già detto.”
Adam lo scrutò da dietro le lenti degli occhiali. “Non hai un buon rapporto con loro?”
“Sono orgogliosi di quello che faccio.”
“Non è una risposta.”
James ingoiò a vuoto. “I miei risultati all’Accademia mi permettono di godere della loro totale fiducia. Mi hanno sempre appoggiato senza fare domande.” Una pausa. “Non hanno la minima idea di chi io sia davvero.”
Le labbra di Adam si piegarono in un sorriso amaro. “Penso di capire…”
“I miei genitori sono delle brave persone, sir.”
“Io non posso dire lo stesso di mio padre,” confessò Adam. “Ritieniti fortunato per quello che hai, James. Tuttavia, immagino che mentre ti davano tutto quello che volevi, non siano riusciti a darti quello di cui avevi bisogno.”
James non sapeva che direzione stava prendendo quella conversazione e non era certo di volerlo scoprire. Era uscito di casa a quattordici anni e ogni giorno di distanza dai suoi genitori si era tramutato in un pezzo di muro che, lentamente, aveva costruito tra sè e loro.
I suoi non se ne erano accorti, ovviamente. Chiamava a casa regolarmente, passava con loro il tempo indispensabile e poi tornava alla Garrison, permettendogli di riempire la sua assenza con belle storie che lo vedevano protagonista.
“Mio figlio è un pilota della sezione fighter,” poteva immaginarli dire durante una cena tra amici. “James è tra i migliori cadetti della sua generazione!”
Se solo avessero saputo chi era davvero e che cosa aveva fatto, l’avrebbero guardato con occhi pieni di orgoglio come facevano?
“Che cosa vuole sapere, sir?” James si arrese facilmente. Non era Keith. Non era capace di rimediare una vittoria da una sconfitta certa, poteva solo provare a uscirne a testa alta.
Adam sospirò e poggiò entrambi i gomiti sulla scrivania. “La risposta è no.”
James inarcò le sopracciglia. “La risposta a cosa?”
“Non si è mai guardato indietro,” disse Adam. Vide il cadetto di fronte a lui congelare e guardare il registratore fatto a pezzi come se non fosse reale. “Abbiamo i migliori esperti informatici qui, dovresti saperlo. L’hai reso inutilizzabile ma ci vuole di più per eliminare i dati in memoria.”
“Lei ha sentito tutto,” concluse James con tono funereo.
“Non c’è alcun bisogno di fare quella faccia,” lo rassicurò Adam.
“Non ne aveva il diritto,” aggiunse il cadetto, tremante di rabbia.
“No, James, hai ragione. Non ne avevo alcun diritto.”
“Allora perchè-?”
“Perchè non è scappando da lui che starai meglio.” Adam Wright sapeva di essere la persona meno adatta per fare un discorso simile. Lui era senza speranza, ma quel ragazzo era la loro unica possibilità di restare in piedi fino al ritorno di Takashi. Aprì un cassetto della scrivania, ne tirò fuori un nuovo registratore e lo spinse sotto gli occhi del cadetto. “Digli tutto quello che devi, James. Solo così il suo ricordo smetterà di tormentarti.”
James era tanto arrabbiato che a stento riusciva a mantenere la sua compostezza. “Lei non ha idea di quello che sta dicendo,” disse. “Lei non sa niente.”
“Sarei felice di ascoltarti se-”
“Com’era vivere nella sua ombra?” Sbottò James.
Adam lo fissò.
“Com’era?” Insistette il cadetto. “Com’era ricordarsi costantemente di non essere abbastanza? Com’era guardarlo e vedere la cosa più bella della sua vita e la causa della sua distruzione?”
Adam si abbandonò contro lo schienale della sua poltrona. “Non essere abbastanza…” Sorrise amaramente. “Oh, sì, quello lo ricordo bene.” Era una sensazione di cui non si era mai liberato. “Io però non ero il rivale di Takashi, James. Non mi è mai interessato superarlo.” L’ombra di cui aveva sofferto era di un altro tipo. Eppure, sì, Takashi Shirogane era stato la cosa più bella che gli fosse capitata e quella che lo aveva distrutto.
James si alzò in piedi senza chiedere il permesso. “Keith Kogane non è nessuno per me,” disse. “E io non lo sono per lui.”
Se ne andò lasciando il registratore sulla scrivania.
***
Adam si stese sul letto con un sospiro. Si tolse gli occhiali e li appoggiò alla cieca sul comodino. Era stanco ma sapeva che non si sarebbe addormentato facilmente.
“Tu lo sapevi?” Domandò alla stanza vuota. “Non passava giorno senza che voi due vi parlaste. Con tutte le attenzioni che gli davi, te ne saresti dovuto accorgere.”
“Pensi che Keith mi dicesse tutto?”
Adam sapeva che non c’era nessuno su quel letto a parte lui ma ciò non gli impediva di vedere Takashi lì, accanto a sè, con addosso una di quelle stupide t-shirt con sopra scritto Nasa.
“Penso che Keith parlasse solo con te,” rispose.
Takashi sorrise dolcemente. “È sempre stato introverso,” gli ricordò.
“Non con te,” replicò Adam. “Con te sorrideva.” Rideva. Faccio fatica a immaginarlo così con qualcuno che non sia tu.”
“Non è detto che lo fosse.”
Adam lo guardò. “James ci è dentro nel peggiore dei modi, Takashi. Non come i ragazzi che sognavano di sorprenderlo in un corridoio buio e fargli la festa.”
“Ci hanno provato una volta.”
“E Keith ha fatto la festa a loro.”
Takashi rise. “Non è mai stato indifeso come me. Non ha mai avuto bisogno di qualcuno che lo proteggesse.”
Adam fissò il soffitto sopra il letto senza vederlo. “Ti ho protetto solo una volta, Takashi… E non mi hai più permesso di farlo.”
“Questo non ti ha impedito di provarci fino alla fine.”
“E non hai idea di quanto mi facessi sentire frustrato,” disse Adam. “Il punto è proprio questo. Come lo proteggi uno come Keith? Come poteva James pensare di tenergli testa?”
“Tu tenevi testa a me.”
“A quattordici anni… Forse anche a diciotto, ma non sono riuscito a farlo con l’uomo che sei diventato. Hai ragione, Keith non era indifeso. Ferito, temprato dalla vita più di quanto un ragazzo della sua età avrebbe dovuto essere, ma indifeso...” Scosse la testa. “Era James quello senza difese.” Si voltò per guardare negli occhi il fantasma accanto a lui. “Davvero non ti sei mai accorto di nulla?”
Takashi sorrise con malinconia. “Ti dava fastidio che parlassi di Keith,” disse. “Anche ammesso che sapessi qualcosa, non te lo avrei mai detto.”
Adam inarcò le sopracciglia. “Non ti ho mai detto una cosa del genere.”
“Non ce ne era alcun bisogno.”
Una mezza risata sfuggì alle labbra di Adam. “Mi sentivo così idiota a essere geloso di un ragazzino.”
“E James?” Domandò Takashi. “Di chi era geloso James?”
Adam si passò una mano tra i capelli. “Di qualcuno con cui non poteva reggere il confronto,” rispose con un sorriso amaro. “Keith deve avergli fatto perdere la testa per davvero…”
“E Keith?”
“Non lo so,” ammise Adam. “È a questo che non riesco a venire a capo. Posso immaginare Lance McClain che si prende una cotta per il compagno di classe troppo bravo per prestargli attenzione. James Griffin era il compagno di stanza di Keith, il suo co-pilota. Si conoscevano, erano costretti a frequentarsi e vista l’età non è assurdo pensare che i sentimenti di James abbiano fatto un’inversione di marcia. Keith, però… Era Keith.”
“Pensi che siamo finiti insieme per questo?” Domandò Takashi. “Perchè eravamo due ragazzini?”
Adam sbuffò. “Non stiamo parlando di me e te, smettila.”
“Eppure quando guardi James rivedi te stesso.”
Adam non riuscì a obbiettare a quel pensiero. Perchè di questo si trattava: una conclusione che la sua mente aveva elaborato e che gli veniva sbattuta in faccia con la voce di Takashi.
Si poteva dire tutto di Adam Wright, meno che non fosse bravo a farsi del male.
“Non ci si può innamorare delle stelle, Takashi,” disse. “Non le puoi strappare dal cielo e stringerle a te. Provarci significa bruciare… E non è una fine veloce, no. È lenta… Un’agonia…”
“È questo che hai cercato di fare con me, Adam?”
“È questo che James ha cercato di fare con Keith?” Si domandò Adam. “Se così fosse, provo pena per quel ragazzo…”
“E quando imparerai a provarne per te stesso?”
Adam si voltò ma il fantasma era sparito, lasciandolo da solo con i suoi dubbi. “Buonanotte, Takashi,” mormorò alla stanza vuota.
***
Quella notte non c’era verso per James Griffin di prendere sonno.
Per una volta, però, non era il ricordo di Keith a tenerlo sveglio. Adam Wright aveva reso ufficiale la sua sospensione non appena era uscito dal suo ufficio senza permesso.
Causa: problemi di salute.
Così era riportato nel documento ufficiale, e James avrebbe dovuto essere grato per quello. Il suo orgoglio glielo impediva e la consapevolezza che Adam Wright aveva avuto tutte le ragioni per fargli avere un richiamo ufficiale e non le aveva usate lo faceva ribollire di rabbia.
Era un modo non proprio indiretto di far sapere a James che il Comandante non aveva ancora finito con lui.
Quella mattina, era stato aperto il proverbiale vaso di Pandora e non aveva importanza con quanta fretta James l’avesse richiuso, Adam vi aveva guardato dentro abbastanza a lungo per scorgere l’origine di tutte le sue bugie.
Era solo questione di tempo prima che la verità venisse a galla.
“Hai paura che parli io?”
James sapeva che Keith non poteva essere lì, alla Garrison. E anche se così non fosse stato, non c’era nessuna ragione per cui avrebbe dovuto essere nel suo letto.
“Non hai parlato quando hai potuto,” replicò James, fissando il soffitto sopra il suo letto. “Perchè non hai parlato, Keith?”
“Dovevo?”
“Era in ballo il tuo futuro.”
“Non m’importava più niente del futuro di cui parli tu.”
James strinse le labbra. “Non riuscivo a sopportarti,” disse. “Lui era morto e ti comportavi come se lo fossi anche tu.”
“Lui non era morto e io non volevo arrendermi di fronte alle loro bugie,” replicò il fantasma di Keith.
“Però ti sei arreso con me.” James lo guardò: era solo il riflesso dei diciassette anni di Keith. “Non hai combattuto per me.”
Gli occhi viola lo trafissero senza pietà. “Te lo meritavi, James?”
Il cellulare prese a vibrare sul comodino e James sobbalzò. Fissò l’apparecchio con astio fino a che il display non si spense di nuovo. Quando tornò a guardare accanto a sè, Keith non era più lì.
James sbuffò e calciò via le coperte. Si mise a sedere contro il cuscino e prese il cellulare tra le mani: era un messaggio di Nadia, voleva sapere come stava. Non c’era nulla in quelle poche parole che lo provasse ma James sapeva che quella piccola dimostrazione di preoccupazione era da parte di tutti e tre i suoi compagni.
Come stava? Non c’era una risposta sincera abbastanza semplice per essere riassunta in un messaggio ed era troppo stanco per mettere nero su bianco una comoda bugia.
James sospirò e si arrese all’evidenza che non avrebbe dormito neanche quella notte.
Indossò la divisa da cadetto solo perchè era l’unico completo a portata di mano.
Abbandonò il cellulare tra le coperte e uscì in corridoio.
James lasciò che i suoi piedi lo guidassero fino alla stanza del simulatore.
Non si avventurava in quella parte dell’Accademia da anni, più o meno da quando Lance McClain aveva miseramente fallito la prova di soccorso su Kerberos e poi era sparito dalla circolazione insieme al suo ingegnere e al suo esperto informatico.
“E pensare che hai passato con Keith tutti i giorni che sono seguiti…” Mormorò, entrando nel simulatore. Il suo interno era la fedele ricostruzione della cabina di pilotaggio di una vera navicella d’esplorazione. “Non è quello che hai sempre voluto, McClain? Volare al fianco di Keith…”
James arrivò con pochi passi alla console del pilota e si sedette al posto che aveva occupato solo per metà del suo tempo lì dentro. Quel sedile era stato di Keith per l’altra metà.
Erano mesi che nessuno metteva piede lì dentro e ogni superficie era ricoperta di polvere. Anche l’aria era viziata, seccava la gola ma questo non fermò James dal chiudere il portellone.
”Selezionare la missione.” Disse la voce elettronica del sistema di controllo.
Una lista di possibilità comparve sul display sotto gli occhi di James. Non aveva bisogno di scegliere, sapeva già perchè era lì. Strisciò la punta dell’indice sullo schermo facendo scorrere lo sguardo sui nomi delle simulazioni.
Lesse Spedizione di salvataggio su Kerberos. Si fermò.
“Non abbiamo mai terminato questo programma insieme.”
James storse la bocca in una smorfia. “A stento lo abbiamo cominciato,” replicò.
Sollevò lo sguardo. Keith non era seduto al posto del co-pilota – nemmeno da folle riusciva a immaginarselo a un livello inferiore al suo – ma se ne stava in piedi, con la schiena appoggiata al pannello di controllo.
“È stata l’ultima volta che siamo stati qui dentro insieme,” disse James. “Sei stato espulso pochi giorni dopo.”
“Riesci a dire ad alta voce anche il motivo?”
James lo guardò con astio. “La tua condotta era riprovevole.”
Keith annuì. “E tu eri il soldatino perfetto, vero? Quello che seguiva le regole alla lettera, che rendeva orgogliosi i nostri insegnanti. Tu avevi tutte le carte in regola per essere il nuovo ragazzo d’oro della Galaxy Garrison.”
“A te non è mai interessato quel titolo.”
“Non è un titolo, solo un soprannome.”
“Fa lo stesso…”
“Prodigio, genio... Questi non sono nè titoli nè soprannomi. Solo dati di fatto.”
Mai come in quel momento James seppe di star parlando con la sua coscienza. Keith non avrebbe perso tempo a umiliarlo a parole, si sarebbe limitato a lanciargli un destro e lasciarlo dolorante a terra. Era James quello bravo a sputare veleno, troppo codardo per alzare le mani ma sempre pronto a usare le debolezze degli altri contro di loro.
Se sentimenti come quelli che aveva provato per Keith nobilitavano le persone, su James avevano avuto l’effetto opposto.
“Sei sempre stato bravo a incolpare gli altri dei tuoi errori,” disse il fantasma. “Non sono stato io a rovinarti, James.”
“Mi hai reso tutto quello che non volevo diventare.”
“Un bugiardo? Un traditore? Un codardo?”
“Smettila…”
“Lo sei sempre stato, James.”
“Stai zitto!” James sbatté il pugno contro il pannello di controllo.
Quando sollevò lo sguardo, era di nuovo solo.
“Non sono un codardo,” disse con voce tremante, facendosi piccolo piccolo davanti alla console del pilota.
Non poteva esserlo. Gli era servita una certa dose di coraggio per mentire e soprattutto per tradire.
James si mosse come un automa. Non avvertì il peso dell’estintore tra le mani quando lo sganciò dal vano accanto all’entrata. Non esitò un istante a usarlo per colpire il pannello di controllo del simulatore con tutte le forze.
***
La chiamata di Veronica lo prese di sorpresa.
“Di che cosa volevi parlarmi?” Domandò Adam, mentre le porte dell’ascensore si richiudevano.
“Dopo aver parlato con te, mi è tornata in mente una cosa,” disse Veronica, digitando qualcosa sul tablet tra le sue mani. “Ricordi quando Keith Kogane è stato espulso?”
“Sì, lo ricordo,” rispose Adam. Non poteva dirle che ogni ricordo del periodo Kerberos era impresso a fuoco nella sua testa. Per i documenti ufficiali quella missione era finita cinque mesi dopo il decollo dell’equipaggio. Per le persone coinvolte personalmente era stata una vicenda molto più lunga e complicata.
Il Pilot Error in fondo al fascicolo di Takashi e l’Espulso sull’ultima pagina di quello di Keith raccontavano la stessa storia, ma quei documenti non lo facevano.
“Quindi ricordi che ci fu una lunga indagine prima della decisione finale,” disse Veronica, aggiustandosi gli occhiali sul naso. “Mi sono ricordata di Lance che me ne parlava. Una volta era quasi sul punto di mettersi a piangere. Hanno interrogato tutti i membri della loro classe e anche alcuni ufficiali.”
“Lo so.” Adam annuì. “Io ero uno degli ufficiali.”
Veronica lo fissò. “La storia del pugno…” Ricordò.
Adam accennò un sorriso. “Le voci erano arrivate fino a te, vedo.”
“Voci?” Veronica era perplessa. “Ci fu un richiamo ufficiale.”
“Non da parte mia. Non ho mai denunciato Keith a Iverson per quel pugno,” ammise Adam. “Non lo trovavo giusto…”
“Allora chi…?”
“Non l’ho mai saputo. Keith ha condannato se stesso quando si è fatto trovare dentro quel simulatore distrutto.”
“È proprio questo il punto.” Veronica fece scorrere alcuni documenti sul display del tablet. “Nessuno ha trovato Keith dentro quel simulatore. La cabina era ridotta in una maniera tale che non sono riusciti nemmeno a recuperare una prova video.”
Adam la guardò con le sopracciglia inarcate. “Come hanno fatto ad accusare Keith senza prove? Poteva essere anche il cadetto più problematico dell’Accademia ma da lì ad accusarlo gratuitamente-”
“Non è stata un’accusa gratuita,” lo interruppe Veronica, passandogli il tablet. “Nel dossier è riportato il nome di un testimone oculare, uno che non hanno potuto ignorare.”
Adam comprese cosa intendeva nel momento in cui lesse il nome del testimone oculare in questione. “Non posso crederci…” Gli sfuggì ma in realtà non era affatto sorpreso. Il cellulare nella sua tasca prese a vibrare in quell’istante e se lo portò all’orecchio distrattamente, lo sguardo ancora fisso sul display del tablet. “Pronto?”
Veronica comprese che qualcosa non andava dal lungo silenzio che seguì.
“Arrivo subito,” disse Adam, funereo, interrompendo la comunicazione. “Andiamo al piano dei simulatori.”
***
James aveva bloccato il portellone del simulatore dall’interno. Sapeva che c’era un modo per sbloccarlo dalla cabina di controllo esterna a cui solo gli ufficiali avevano accesso ma doveva aver fatto saltare il collegamento durante la sua opera di distruzione totale.
Non sapeva che ore erano e non gli interessava. Dopo aver esaurito le forze a furia di abbattere l’estintore su tutte le superfici a portata di mano, James aveva lasciato l’arma impropria sul pavimento ed era collassato al posto del pilota cadendo di uno strano stato di trance che lo aveva incatenato fino a che qualcuno non aveva preso a battere i pugni contro il portellone chiamando il suo nome.
“James!” Era Nadia. “Apri, James!”
Dovevano aver scoperto che si trattava di lui dalle telecamere interne: si era scordato di distruggerle.
Non sapeva che cosa sarebbe capitato a quel punto ma era stato un latitante troppo a lungo, anche se nessuno aveva mai sospettato di lui. Forse era quella la parte peggiore di tutta la storia: uno studente modello aveva accusato uno problematico e nessuno aveva perso tempo a chiedergli la sua versione dei fatti.
“Che schifo…” Commentò a bassa voce, passandosi una mano tra i capelli. Si riferiva anche a se stesso… Soprattutto a se stesso.
Il silenzio era tornato a fare da padrone: Nadia aveva smesso d’insistere. Gli altoparlanti interni si attivarono con un prolungato bip.
“Griffin?” Era la voce di Adam Wright. “Griffin, riesci a sentirmi?”
James chiuse gli occhi stancamente e sbuffò: non aveva voglia di essere riportato alla ragione dai discorsi razionali di un suo superiore.
“James,” riprovò Adam, con inclinazione meno austera, “so tutto.”
Il giovane puntò gli occhi verso l’altoparlante posto sopra il pannello di controllo, come se Adam Wright fosse lì e potesse rispondere al suo sguardo. “Sa solo quello che pensa di sapere, Comandante,” rispose con un’arroganza che in circostanze normali non si sarebbe mai sognato di usare con un superiore.
“Allora raccontami la tua versione della storia,” propose Adam. “La persona per cui hai fatto tutto questo l’ha fatto. Non vedo perchè non debba dare la stessa occasione anche a te.”
James inarcò le sopracciglia. “La persona in questione non avrebbe mai aperto bocca con nessuno, men che meno con lei.”
Takashi Shirogane era il solo con cui Keith parlava. Takashi Shirogane e nessun altro.
“Se quello che dici è vero, non dovrei sapere nemmeno della casa nel deserto,” replicò Adam.
James fu preso di sorpresa da quelle parole ma fu bravo a replicare alla svelta. “Lei era vicino a una fonte d’informazioni molto più attendibile di me.”
Dall’altoparlante fuoriuscì una risata amara. “Credimi, James, abbiamo più cose in comune di quelle che credi.”
Stava cercando di dirgli che se Keith non era molto propenso a confidarsi con lui, Takashi Shirogane non era l’emblema di perfezione che tutti credevano?
“A lui non importava,” aggiunse Adam. “Dopo Kerberos, non gli importava più.”
“Lo so,” sibilò James, rabbioso. “Per questo lo odiavo.”
“Capisco…”
“No, lei non capisce!”
“Ne sei sicuro?” Domandò Adam. “Fidati di me, James. Sono l’unico a cui puoi raccontare la tua storia.”
***
Venti minuti dopo, James era seduto nell’ufficio di Adam Wright e quel maledetto registratore era di nuovo lì, su quella scrivania e lo fissava.
“Tieni…” Adam gli mise tra le mani una tazza di caffè. “Da parte di Veronica.”
James accettò con un gesto meccanico, privo d’interesse.
Il Comandante si sedette dal lato opposto della scrivania. “A giudicare da come hai ridotto quel simulatore, devi essere molto arrabbiato da parecchio tempo.”
“Accetterò qualsiasi punizione, sir,” disse James, poggiando il caffè accanto al registratore senza prenderne neanche un sorso.
Adam storse la bocca in una smorfia. “Se non accetti del buon caffè, c’è rimasto ben poco da punire,” disse, allungando il braccio per recuperare la tazza ancora fumante.
James lo fissò con occhi vuoti. “Sono serio, sir.”
“Allora sii serio per davvero e ricordati che siamo in guerra,” replicò il giovane Comandante. “Come dovrei punirti, eh? Privando la Terra di uno dei suoi piloti migliori? Sapevi benissimo che non avresti andato incontro a nessuna conseguenza quando hai preso in mano quell’estintore!”
“Non sapevo niente,” ribatté James. “Non ho pensato a niente. Ho agito e basta.”
Adam strinse le labbra, poi prese un sorso di caffè per stemperare la tensione che si era venuta a creare. “Non è da te.”
“Lo so.”
“Ma è da Keith…”
James rispose allo sguardo del superiore ma non alla sua provocazione.
Adam si aggiustò gli occhiali sul naso. “Che cosa è successo quella notte?”
“Quale notte?”
“Quella in cui hai distrutto un simulatore per la prima volta,” rispose Adam. “La notte in cui hai condannato Keith. Hai anche messo fuori uso le telecamere, come hai fatto?”
“Non ricordo nulla di quella notte,” replicò James. “È passato molto tempo.”
“Vero ma strano che tu abbia dimenticato tutto dopo aver rilasciato a Iverson un rapporto dettagliato di tutti i movimenti di Keith,” insistette Adam.
“Era il mio compagno di stanza,” replicò James, freddamente. “C’erano cose di lui che sapevo pur non volendo. Quella notte l’ho visto uscire dalla camera a un orario non permesso e mi sono limitato a fare il mio dovere.”
Adam storse la bocca in un sorriso sarcastico. “La tua condotta e il tuo senso del dovere sono ammirevoli, cadetto.”
James artigliò i braccioli della poltrona. “Senta, lo ammetto: ho distrutto quel simulatore perchè ho difficoltà a rimanere lucido in questa situazione.”
“Quale situazione?”
“L’assedio!” Il giovane pilota stava perdendo la pazienza.
“Ah… Pensavo la possibilità di vedere Keith tornare alla Garrison come un eroe,” disse Adam con tono casuale.
“Possiamo smettere di parlare di Keith?” Sbottò James. “Keith non è il problema, io lo sono! Devo rimanere lucido per la mia squadra, per la Terra e non riesco a farlo!”
Adam appoggiò la guancia al pugno chiuso. “Che cosa stai cercando di dimenticare, James?” Domandò con voce nuovamente paziente. “Che cosa hai cercato di cancellare per tutti questi anni?”
James serrò i denti sul labbro inferiore e rimase in silenzio. Adam dedusse che era vicino al punto di rottura ma era necessario fare un po’ più di pressione e per farlo doveva essere bravo a calcolare la forza da usare. “Quando hai conosciuto Keith?” Era un’informazione scritta nero su bianco nei fascicoli di entrambi i cadetti ma Adam non era interessato ai dati, gli servivano i ricordi, le emozioni. “Takashi mi aveva raccontato di avervi visto nella stessa classe.” Se si fosse esposto a sua volta e avesse messo anche Shiro sul tavolo, forse sarebbe stato più semplice convincere James a gettare la maschera.
“Non me la ricordo la prima volta che l’ho visto,” ammise il cadetto e quella volta era sincero. “Siamo cresciuti entrambi qui. C’è solo una città che può essere definita tale ed è l’unica con buone scuole.”
“Tu, però, non sei cresciuto nel deserto. Keith, invece, sì.”
James scrollò le spalle. “Keith non è mai stato un tipo da città. Credo che impazzirebbe in una vera metropoli.”
“Per quale ragione?”
“Non lo so… Diceva qualcosa riguardo alle luci artificiali che coprivano quelle delle stelle.”
Gli angoli della bocca di Adam si sollevarono un poco: aveva già sentito una storia simile tanti anni prima ma da un ragazzo diverso. “Dettaglio interessante per chi parla del proprio compagno di stanza come di un estraneo o poco più.”
James sollevò gli occhi su quelli del superiore. “Che cosa vuole da me, Comandante?”
“Hai detto di voler essere lucido per i tuoi compagni e per la Terra,” disse Adam. “Credimi, l’unico modo in cui puoi riuscirci è tirare fuori tutto e smetterla di fingere che sia solo passato.”
“Ne è certo perchè è così che lei hai fatto con Takashi Shirogane?” Domandò James con arroganza.
“Non contrattaccare, ragazzino, sei almeno dieci anni in anticipo,” lo avvisò Adam.
“Non è un contrattacco ma una difesa,” ribattè il giovane pilota. “Non posso negare di aver fatto quello che ho fatto la notte scorsa, ma Keith Kogane non ha nulla a che fare con me.”
Adam prese un respiro profondo. “Certo che sei caparbio,” commentò, annoiato. “Beh… Per restare dietro a Keith, dovevi esserlo.”
“Io non ero dietro Keith!” Ribatté James con forza. “Ero il suo co-pilota, sedevo al suo fianco, ad appena un metro da lui!”
Adam sorrise intenerito. “James, entrambi sappiamo che quel metro era una distanza invalicabile. La sola differenza tra di noi è che non importava, mentre per te era una ferita nell’orgoglio. Tu eri il cadetto dalla condotta perfetta, stimato dai suoi compagni, dai professori. Keith era una supernova sul punto di esplodere, eppure era lui che tutti guardavano, non te. Facevi del tuo meglio ogni giorno, ne uscivi stanco emotivamente e fisicamente e non era mai abbastanza. Doveva essere frustrante…”
James lasciò andare una risata nervosa. “Certo… È questo di cui stiamo parlando: il bravo cadetto che si macchia di una colpa perchè non riesce a reggere il confronto con il cattivo ragazzo che, disgraziatamente, è anche un prodigio.”
Adam scrollò le spalle. “Questo è quello che ho intuito.” Ma non era quello che sospettava davvero.
“Bene!” James allargò le braccia. “Ha tutte le risposte di cui ha bisogno!”
“Sì e non mi convincono!”
“Maledizione!” Il pilota sbatté entrambe le mani sulla scrivania, scattando in piedi. “Che cosa vuole che le dica?”
Adam nemmeno si accigliò. “La verità, James. Solo la verità.”
“La verità? La verità era che Keith Kogane era un pazzo paranoico che vedeva complotti ai danni di Takashi Shirogane in ogni angolo della Galaxy Garrison. Questa è la verità!”
“James…” Anche Adam si alzò in piedi, aggiustandosi la giacca della divisa. “Dammi una versione della verità che non sia quella ufficiale, riportata linearmente nel dossier di Keith Kogane.”
Di fronte a tanta ferma compostezza, James aveva poco da fare: decise di optare per una ritirata strategica. “Se non ha niente d’aggiungere sulla mia condotta della scorsa notte, io me ne vado.”
Adam contò i secondi che impiegò per afferrare la maniglia della porta. “L’unica cosa che non sono riuscito a capire è se Keith ricambiava o meno,” buttò lì con tono casuale.
James gelò.
“Perchè, sì, sarebbe facile far passare questa vicenda come l’ennesima storia di rivalità portata allo stremo ma, James, se tutto quello che volevi era far espellere Keith ti sarebbe bastato provocarlo in un corridoio affollato.” Adam non aveva mai analizzato la situazione nei dettagli, ma lo fece in quel momento. “Keith era semplice da provocare in situazioni normali, dopo Kerberos sarebbe scoppiato con mezza parola storta. Tu, però, non ti sei accontentato di liberartene: hai messo fuori uso delle telecamere di controllo, hai distrutto una proprietà dell’Accademia e hai fatto in modo che Keith non avesse nessuna via d’uscita. Una pianificazione del genere richiede un certo impegno, non è il tipo di azione che si compie per semplice sfregio. Tu volevi fargli male, volevi che si sentisse completamente solo. E non si prova una rabbia simile nei confronti di un compagno di classe troppo bravo per essere eguagliato, James.”
Quando Adam smise di parlare, James lasciò andare la maniglia: l’aveva stretta tanto forte che il palmo gli faceva male. Comprese velocemente che non poteva più nascondersi da nessuna parte, che se anche avesse tentato, il Comandante non gli avrebbe permesso di andare lontano. Lo aveva saputo capire terribilmente bene. Tutto quello che era rimasto da fare a James era accettare di essere giunto al capolinea di quella corsa di bugie e silenzi durata anni.
“Non lo so,” disse, fissando la porta di fronte a sè. “Alla fine di tutto, nemmeno io ero certo che Keith provasse qualcosa per me.”
Adam si umettò le labbra e ponderò con cura le sue prossime parole. “Per via di Takashi?”
James si voltò. “Lo pensava anche lei, vero? Anche lei pensava che il loro rapporto non fosse normale.”
“No,” ammise Adam. “Non l’ho mai pensato. Ho solo impiegato molto tempo per capirlo.”
“Per capire cosa?” Domandò James, rabbioso. “Io ero lì. Sono stato con lui per tutto il tempo, anche quando ripeteva il nome di Shiro ogni tre parole come se non esistesse niente altro d’importante al mondo.”
“Era solo l’unica persona con cui riusciva a essere se stesso, James,” replicò Adam, con pazienza. “Era così da ambo le parti.”
“E le sembra normale?”
“James…” Adam superò la scrivania. “Dimmi che non lo hai fatto per Takashi.”
Quel poco di autocontrollo che era rimasto al giovane pilota si frantumò lì, sul pavimento dell’ufficio di Adam. Di colpo, tornò ad avere diciassette anni. “Takashi Shirogane era morto,” disse. “Non potevo reggere il confronto con lui da vivo e dopo Kerberos era anche peggio. Keith era ossessionato dal fallimento di quella missione, per lui era impossibile che Shiro avesse commesso un errore e che non esistesse più da nessuna parte.”
“Quindi ti ricambiava,” concluse Adam. “Se parlava di Takashi con te, non ti considerava solo un compagno di stanza.”
“Non lo so che cosa ero per Keith,” ammise James. “So cosa era lui per me ma non era abbastanza da farlo restare.”
Era una sensazione che Adam, suo malgrado, conosceva bene. Per quel che lo riguardava, non si era mai sentito minacciato dalla luce di Shiro nel modo in cui James aveva sofferto quella di Keith, ma quella sensazione d’inadeguatezza, quel non essere abbastanza lo conosceva bene.
“È pericoloso innamorarsi delle stelle, James,” disse. “Non le puoi strappare al cielo e tenerle strette a te. Provarci significa bruciare. Puoi solo ammirarle fino a che la loro luce non diventa insopportabile e sei costretto a voltare lo sguardo.” Afferrò il piccolo registratore e lo porse al giovane pilota. “Digli tutto quello che la rabbia non ti ha permesso di dirgli allora.”
James afferrò l’apparecchio con riluttanza. “E quando gli avrò detto tutto, riuscirò a lasciarlo andare e a dimenticare?”
Adam non aveva una risposta da dargli.
***
“Hai capito il tuo Keith,” disse Adam, guardandosi allo specchio mentre allentava il colletto della giacca. “Pensavo fosse bravo a incendiare cuori solo con l’invidia, invece… Il fratello di Veronica gli moriva dietro in silenzio e James,” sospirò. “Povero James, deve essere stato brutto per lui rivaleggiare con te.”
Alle sue spalle, il fantasma di Shiro gli sorrise attraverso la superficie riflettente. “Non c’era niente per cui rivaleggiare. Non è nella natura di Keith essere ambiguo con i sentimenti. Se ha aperto uno spiraglio verso James, provava davvero qualcosa per lui.”
“Lo so,” disse Adam. “L’insicurezza, però, può giocare dei brutti scherzi.”
“Stai di nuovo parlando di te…”
Adam scrollò le spalle. “Io con l’insicurezza avevo imparato a conviverci,” ammise. “Era il prezzo da pagare per restare accanto a te.”
Il sorriso di Shiro si fece triste. “E quando è diventato troppo alto?”
Adam esitò un istante. “Quando quell’insicurezza l’hai confermato tu,” rispose. “Quando mi hai fatto capire chiaramente che non ero abbastanza per te.”
“Mi dispiace,” disse il fantasma riflesso nello specchio. “Non volevo farti del male.”
Quello non era solo un delirio nella sua mente. Sapeva che Shiro non aveva mai voluto nuocergli di proposito, non come James aveva fatto con Keith. Mentre la loro storia giungeva al termine e il lancio per Kerberos si avvicinava, si erano feriti equamente fino a che Adam non aveva dichiarato la resa.
“Pensi che il desiderio di dimenticare derivi dal fatto che amiamo ancora qualcuno?” Domandò Adam, sinceramente incuriosito. “Sapere di un ipotetico ritorno di Keith nella sua vita ha mandato James in crisi perchè prova ancora qualcosa o è solo senso di colpa?”
“Dipende…” Rispose Shiro scrollando le spalle. “Tu mi aspetti ancora perchè mi ami o perchè ti senti in colpa per come ci siamo lasciati e per non aver creduto a Keith?”
Adam inarcò le sopracciglia. “Io non ti sto aspett-” Si voltò e si ricordò di essere in una stanza vuota. Sorrise amaramente per le sue stesse bugie. “Buona notte, Takashi.”
[Terra. Accademia Galaxy Garrison. 7 mesi dall’inizio dell’assedio Galra.]
James Griffin.
Dipartimento piloti: fighter.
Cadetto Senior.
Data di nascita: 26/06/2xxx - Data di morte: ___________
Il pilota non fece particolarmente caso ai suoi dati riportati sull’etichetta posta sul retro del piccolo registratore digitale. Seduto nella semi oscurità della sua camera, James aveva occhi solo per quell’unico spazio lasciato vuoto.
Respirava ancora. Non esisteva una data di morte con cui completare quei dati di riconoscimento.
Non che la vita non fosse già un viaggio a senso unico per sua natura.
Tuttavia, con quell’apparecchio tra le mani, James prese veramente coscienza della sua mortalità. Aveva vent’anni e forse non sarebbe mai arrivato a trenta.
Lui e i suoi compagni erano soldati in guerra contro un nemico troppo potente per la Terra. La sorte che li attendeva tutti era divenuta terribilmente chiara con ogni nome che si aggiungeva al muro della memoria giù, nell’atrio.
Un tempo, in quello stesso punto erano ricordati i nomi degli astronauti che avevano fatto la storia dell’esplorazione spaziale.
L’era in cui la Galaxy Garrison creava piloti, ingegneri, scienziati e informatici era finita. Ora erano tutti soldati, dal primo all’ultimo, dal cadetto più inesperto all’ufficiale veterano.
Chiunque fosse in grado di pilotare un jet era una risorsa umana da lanciare contro il nemico. Sì, lanciare. Molti di loro non erano altro che bombe a mano tirate alla cieca: esplodevano in pochi secondi e spesso senza colpire il bersaglio.
Quella era la strategia di combattimento dell’Ammiraglio Sanda. Seguirla era un voto al suicidio, ma Samuel Holt non aveva abbastanza potere per impedire che altri giovani divenissero carne da macello. Il suo messaggio di speranza era divenuto cenere come i corpi dei piloti a cui non si poteva dare degna sepoltura.
Voltron non c’era più e con lui i suoi Paladini.
Quello era uno dei motivi per cui James non era ancora riuscito a registrare alcun messaggio. La persona a cui avrebbe voluto rivolgere le sue ultime parole non le avrebbe mai ascoltate.
Come accadeva da una settimana a quella parte, James lasciò cadere il registratore digitale tra le coperte del letto.
Fissò il soffitto sopra il suo letto senza vederlo.
“Hai sempre avuto la lingua lunga,” disse un ragazzino che non era veramente lì, un’eco della sua memoria. “Che cosa ti ha lasciato senza parole, James?”
La guerra portava gli uomini alla follia e la sua aveva il volto e la voce dell’unica persona che gli aveva lasciato dentro un segno indelebile.
“Mamma e papà non ti hanno insegnato a stare zitto?” Sibilò James alla stanza vuota, riesumando una crudeltà per cui ora provava vergogna.
Fu il silenzio a rispondergli.
James si coprì il viso con il braccio e scivolò in un sonno senza sogni.
***
Il giorno seguente, dopo l’ennesima prova non del tutto soddisfacente con i nuovi jet da combattimento ideati da Samuel Holt, nello spogliatoio dell’hangar non si parlava che di quei registratori.
“Hai consegnato il tuo?” Domandò Nadia, togliendosi il casco dalla testa.
“Il giorno dopo aver ricevuto l’apparecchio.” Rispose Leiff, finendo di sfilarsi la tuta.
“Cosa? Ma non hai riflettuto neanche un po’ su che cosa dire?”
Leiff scrollò le spalle. L’indifferenza con cui affrontava la questione era assurda quanto la leggerezza che mostrava Nadia.
James non ne era sorpreso. Le conosceva ma non sapeva se la naturalezza con cui accettavano la loro posizione era figlia dell’ingenuità o della troppa paura.
Non aveva mai visto Leiff perdere il controllo o Nadia sottotono. In cuor suo, James sperava che non cambiassero e confidare loro i pensieri che lo tenevano sveglio la notte sarebbe stato controproducente.
Discutere con Ryan della sua paura della morte sarebbe stato altrettanto inutile. James non era abituato a mettersi a nudo. Lo aveva fatto solo una volta e non se l’era più sentita di correre il rischio.
Era entrato alla Garrison per divenire un pilota, non per trovare dei compagni per la vita. Mentre indossava la giacca bianca e arancione sopra la t-shirt nera, James realizzò che nemmeno su quel punto era rimasto fedele a se stesso. Con le ragazze era più facile parlare che con Ryan - persino Leiff sapeva essere più loquace. Lui, però, era con James da più tempo, abbastanza da sapere cose che alle altre due non avrebbe mai raccontato.
Non che James fosse andato da Ryan a fare un resoconto dettagliato di ciò che accadeva dietro le porte del dormitorio. Semplicemente, si erano ritrovati a poca distanza l’uno dall’altro nel periodo più intenso della loro adolescenza. Perlomeno, intenso lo era stato per James. Con Ryan era difficile misurare le emozioni a occhio nudo.
Mentre Nadia svelava a tutti loro il contenuto del suo messaggio registrato, James realizzò che lui è Ryan non avevano mai parlato degli eventi che avevano preceduto il fallimento della Missione Kerberos.
Al tempo, James avrebbe dato qualsiasi cosa per dimenticare metà della sua vita. Era assurdo, però, che negli anni non fosse mai sfuggita una parola a riguardo, un riferimento casuale a quei loro primi anni da cadetti.
Forse per Ryan quei ricordi non avevano un significato particolare. Nessuno si era frantumato il cuore nella sua storia, non era nemmeno certo che qualcuno si fosse innamorato.
James sapeva solo che McClain - il fratello - aveva continuato a essere una scimmia urlatrice fino al giorno in cui non era misteriosamente scomparso. Guardò Ryan, si accorse che era l’unico ad avere la divisa addosso e che li stava aspettando.
Ti capita più di pensarci? Avrebbe voluto chiedergli. Non lo fece perché allora il compagno di squadra avrebbe potuto replicare: E a te capita?
E allora a James sarebbero rimaste due possibilità: mentire col rischio che Ryan se ne accorgesse, oppure dire che no, non gli capitava di pensarci… Non aveva mai smesso.
James accantonò l’idea prima che la sua espressione pensierosa destasse qualche sospetto.
La sua fortuna fu che Nadia impiegò un’eternità a uscire dalla sua tuta, o nessuno l’avrebbe salvato dal suo interrogatorio. Mentre si accingeva a recuperare gli stivali, qualcuno entrò nello spogliatoio e chiamò il suo nome: “cadetto Griffin?”
James sollevò lo sguardo: il Comandante Adam Sànchez era un passo oltre la porta e lo fissava senza una reale espressione.
Non aspettò che il cadetto si alzasse e si mettesse sull’attenti. “Seguimi,” ordinò.
James s’infilò gli stivali velocemente e ubbidì. Non cercò gli sguardi dei suoi compagni, anche se sentì i loro occhi su di sé fino a che la porta dello spogliatoio non si richiuse.
Sànchez aspettò che li raggiungesse, ma James rimase un passo dietro di lui per rispetto. “Dove andiamo, sir?”
“Da nessuna parte,” rispose il Comandante. “Facciamo un giro.”
James fissò la sua schiena con perplessità ma non obiettò.
Adam Wright faceva parte del corpo dei piloti scelti. Era stato il co-pilota dell’astro splendente della Galaxy Garrison, Takashi Shirogane, sia da cadetto che nelle missioni ufficiali. Era passato all’ingegneria aerospaziale nello stesso periodo in cui la spedizione su Kerberos era stata annunciata.
Per quel che James ne sapeva, Iverson lo aveva richiamato alla Garrison dopo che Shirogane era piovuto - letteralmente - dal cielo a bordo di un mezzo alieno.
Quella storia, però, era divenuta pubblica solo dopo il ritorno del Comandante Holt.
Al momento, Adam Wright non solo era uno degli assistenti di Samuel Holt, ma anche il responsabile dell’addestramento di James e della sua squadra. In quanto unico pilota della sua generazione capace di tenere testa a Takashi Shirogane, non c’era persona più qualificata alla Galaxy Garrison.
“Ho commesso un errore, sir?” Domandò James.
Adam gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla. “Pensi di averlo fatto?”
“No.”
Il Comandante accennò un sorriso. “Deciso, sicuro… Nel tuo dossier vieni descritto come un leader e sto cominciando a capire il perché.”
“Mi sta mettendo alla prova, sir?”
“No…” Arrivati in fondo al corridoio, Wright aspettò di salire in ascensore prima di aggiungere altro. “Sei l’unico della tua squadra a non aver consegnato il suo registratore,” disse, mentre le porte scorrevoli si richiudevano.
James continuò a guardare di fronte a sé, fissando il suo riflesso distorto sulla parete di metallo. “Non credevo vi fosse una scadenza per la consegna.”
“Non ve ne è una,” confermò Wright, osservando il ragazzo con la coda dell’occhio. “Tuttavia, in quanto ufficiale responsabile della vostra squadra sono tenuto a indagare in caso di comportamenti sospetti.”
James lo guardò apertamente. “In che modo la mia condotta può essere definita sospetta?”
Wright accennò un sorriso. “Rilassati, cadetto, non hai fatto nulla che possa mettere in discussione il modo ligio in cui segui le regole.”
L’ultima volta che qualcuno glielo aveva fatto notare, lo aveva fatto per insultarlo. James si umettò le labbra. “Non capisco, sir.”
“Nemmeno io,” ammise il Comandante. “Non capisco perché un giovane pilota così sicuro, sprezzante del pericolo e tanto carismatico da essere leader di una squadra di piloti scelti, abbia difficoltà a fare i conti con la morte.”
James sbatté le palpebre un paio di volte. “Prego, sir?”
Wright lo guardò dritto negli occhi. “Non mi fraintendere,” disse in tono più gentile. “Solo un pazzo non avrebbe paura al tuo posto.”
“Teme che abbia paura di volare, signore?”
“Se temo che ti tirerai indietro quando il tuo momento arriverà? No, Griffin. Sarai il primo a volare là fuori e sarai l’ultimo a rientrare. Non dubito di questo.”
“Allora, mi perdoni, ma non capisco il motivo di questa conversazione.”
Le porte dell’ascensore si aprirono: erano in uno degli hangar-cantieri, quello in cui Samuel Holt stava assemblando un arma senza precedenti chiamata Atlas.
“Il motivo di questa conversazione, Griffin, è più personale,” spiegò Wright, poggiando entrambe le mani sulla balaustra. “Dovresti avere un futuro certo a vent’anni e non preoccuparti di pronunciare le tue ultime parole. Credo che i tuoi compagni abbiamo affrontato questa cosa con sana ingenuità. Tu no. Tu ti stai prendendo tempo per riflettere, per renderti conto che potresti davvero morire. In quanto leader, so che non farai mai pesare i tuoi pensieri sui tuoi compagni, non ha importanza quanto ti fidi di loro. Tuttavia, cadetto, non è saggio perdersi in una riflessione sulla morte da solo.”
Si guardarono. L’espressione del Comandante non tradiva niente e nemmeno quella di James. “Mi sta dicendo che posso parlarne con lei, sir?”
“Qualcosa del genere…”
James annuì. “Grazie, ma posso farcela.”
Wright non parve sorpreso o deluso dalla sua risposta. Gli rivolse un sorriso paziente. “Devi farcela, Griffin.”
***
Quella sera, nella sua stanza, James calciò via gli stivali e si sedette a gambe incrociate sul suo letto, determinato a liberarsi di quel dannato registratore digitale. Lo fissò in cagnesco per un tempo assurdamente lungo.
Quando decise che stava diventando ridicolo, afferrò l’apparecchio e coprì l’unico tasto rosso con il pollice. Non avviò la registrazione.
Con orrore, realizzò che non sapeva a chi rivolgerle quelle ultime parole. I suoi genitori erano la scelta più ovvia e non gli fece piacere rendersi conto che era anche la più sbagliata. Quando gli era stato detto che erano al sicuro, in uno dei rifugi, James aveva fatto una telefonata ma non era andato a cercarli.
Poggiò la fronte contro il registratore e lasciò andare un sospiro frustrato. Non poteva essere onesto con la sua famiglia, non dovevano sapere che il loro figlio perfetto era una bugia.
James era un investimento per loro, lo era stato nel momento in cui era nato. Non gli avevano mai fatto mancare niente, eppure non gli avevano dato nulla. Gli avevano insegnato concetti futili come inferiore e superiore, e quanto fosse necessario appartenere alla seconda categoria.
Non lo avevano criticato quando aveva scelto di divenire un esploratore spaziale e non un avvocato come suo padre. Al contrario, ne erano stati entusiasti. Non avevano dubitato nemmeno per un istante che sarebbe stato il migliore e James non aveva mai preso in considerazione l’idea di essere da meno.
Inferiore o superiore.
Era inutile essere il migliore quando si volava al fianco di un prodigio. James non avrebbe mai potuto spiegarlo ai suoi genitori.
No, non avrebbe sprecato le sue ultime parole per raccontare una bugia. Se doveva morire a vent’anni, voleva lasciare qualcosa che avesse significato e per qualcuno che potesse comprenderlo.
Non poteva rivolgersi ai suoi compagni. Era il loro leader e sarebbe andato contro la sua natura appoggiarsi a loro.
James serrò i denti sul labbro inferiore. Infilò le dita tra i capelli e tirò abbastanza da sentire dolore.
“Quella frangia è ridicola.”
Chiuse gli occhi e cercò di scacciare il ricordo della sua voce dalla testa.
“Pensa a quel disastro che hai per capelli, mullet.”
“Papà raccontava che ce l’ho da quando sono nato.”
Sicuramente aveva un suono diverso d’allora, più da uomo e meno da ragazzino.
Sempre ammesso che fosse ancora vivo per parlare. Anche lui aveva avuto il tempo di pensare alle sue ultime parole? A chi le aveva rivolte?
James dubitava che gli avesse dedicato il suo ultimo pensiero. Lui, al contrario, non riusciva a pensare ad altri da quando Samuel Holt era tornato alla Garrison sulle sue gambe portando con sé una storia di guerra, di alieni e di Paladini leggendari.
James lanciò il registratore dall’altra parte della camera è si coprì gli occhi con entrambe le mani. “Sei morto al suo fianco?” Sibilò. “Magari sei morto per lui. Non hai mai voluto nessun altro, no?” Finì per urlare alla stanza vuota. “Cazzo…” Picchiò il pugno contro la propria fronte. “Cazzo, cazzo, cazzo…”
***
Una settimana dopo, James non aveva ancora consegnato il suo registratore. Ogni giorno, lui e la sua squadra si presentavano nell’hangar per mettere alla prova i nuovi jet-MFE. Samuel Holt e gli ingegneri al suo comando lavoravano al progetto costantemente e ogni volta c’era qualcosa nella tecnica di volo. James era consapevole dell’enorme responsabilità che comportava pilotare uno di quei mezzi, ma non poteva fare meno di sorridere come un bambino ogni volta che ne faceva decollare uno.
James Griffin amava volare. Non aveva scelto la Galaxy Garrison per la gloria fine a se stessa, lo aveva fatto perchè aveva passato tutta la sua infanzia a sognare con gli occhi rivolti al cielo.
Se doveva morire in quella guerra, voleva farlo volando.
Prima di ogni prova di volo, Adam Wright spiegava loro la manovra che avrebbero dovuto eseguire e come comportarsi nel caso i jet non avessero risposto ai loro comandi. Quando tornavano tutti con i piedi per terra, il giovane ufficiale parlava con loro dei risultati ottenuti, li spingeva a identificare i loro errori e li abituava a elaborare strategie di volo all’ultimo minuto.
“Bisogna saper improvvisare,” diceva Wright. “Siete piloti scelti, non avete bisogno di eseguire solo manovre da manuale. Se riuscite a essere imprevedibili, il nemico non saprà come colpirvi.”
James sentiva i suoi occhi su di sè per la maggior parte del tempo. Non aveva paura di rispondere al suo sguardo ma fingeva di non conoscere il motivo di tutte quelle attenzioni.
Non aveva importanza. Nel momento in cui decollava, tutti i suoi turbamenti svanivano e tornava ad essere il pilota leader di cui la Garrison, la sua squadra e il suo pianeta avevano bisogno.
La notte era un po’ più dura brandire quella determinazione e usarla contro quel piccolo apparecchio che lo derideva dall’angolo in cui James lo aveva gettato. Non lo aveva più toccato d’allora: era inutile sforzarsi di dire qualcosa che non aveva importanza, e tutto quello che avrebbe voluto buttare fuori non sapeva a chi raccontarlo.
Adam Wright non andò a cercarlo una seconda volta. Gli aveva dato la sua disponibilità e se ne avesse avuto bisogno, toccava a James fare il passo successivo.
Lo fece ma non in direzione del giovane ufficiale.
Veronica McClain non era sua amica.
Tecnicamente era una sua superiore e James non si sarebbe mai sognato di prendersi troppe confidenze con un ufficiale di grado maggiore, ma la guerra aveva il potere di diminuire la distanza tra i soldati coinvolti nelle stesse missioni.
Lui e Veronica si conoscevano appena, eppure James andò da lei come se fosse una delle ragazze della sua squadra.
“Vuoi un caffè?” Domandò Veronica, infilandosi dietro il bancone della caffetteria degli ufficiali. “I ragazzi che lavoravano qui servivano solo brodaglie scure. Io ti farò bere un vero caffè.”
James annuì, sedendosi su uno degli alti sgabelli. Non era mai stato lì, non aveva mai raggiunto i gradi necessari per avere il diritto di frequentare quella zona dell’Accademia. Prima della guerra, doveva essere stata una sala elegante, seppur essenziale, con tavolini sempre puliti, disposti lungo la vetrata che dava sul deserto.
Ora era ancor peggio della mensa dei cadetti alla fine della pausa pranzo.
“Di che cosa volevi parlarmi?” Domandò Veronica, preparando la macchina per il caffè.
James incrociò le braccia sopra il bancone. “Tu avrai sicuramente parlato con Samuel Holt.”
“Di cosa?”
“Di tuo fratello.”
Veronica smise di fare quello che stava facendo per guardarlo. “Perchè questa domanda?” L’aveva presa di sorpresa e non le aveva fatto piacere.
James abbassò lo sguardo: Veronica non era in attesa di un Paladino che ribaltasse le sorti della guerra, aspettava solo che il suo fratellino tornasse a casa.
“Ci sono delle persone…” James scosse la testa. “C’è una persona che è con tuo fratello… O dovrebbe esserlo.”
“Uno degli altri cadetti?”
“Non è più un cadetto.”
Veronica recuperò due tazze da sotto il lavandino, passò un panno umido al loro interno e le sistemò sul bancone. “Keith…” Disse con un sospiro.
Sentirla pronunciare il suo nome in quel modo, come se lo conoscesse, prese James completamente alla sprovvista. “Lo conoscevi?”
A differenza di tutti gli altri cadetti, Keith aveva mangiato in quella sala, aveva camminato nelle aree riservate solo agli ufficiali e si era anche introdotto nell’appartamento di uno di loro senza pagarne le conseguenze. Per un breve periodo, Lance era stato il secondo candidato a divenire il co-pilota di Keith – poi si era schiantato durante la simulazione d’esame ed era stato sbattuto nel corso dei cargo-pilot –, non era poi così assurdo che Shirogane lo avesse presentato a Veronica.
“Non ne ho avuto bisogno,” spiegò la giovane McClain con un sorriso nostalgico. “Lance non parlava d’altro! Io scendevo ad offrirgli la colazione e lui si lanciava in lunghi monologhi su Keith!” Sospirò. “Keith di qua, Keith di là. Keith ha fatto questo, Keith ha fatto quello.” Rise. “Quando ho capito che si trattava della stella di Shiro, ho riso.”
James sbatté le palpebre un paio di volte. “La stella di Shiro??”
“Da un’idea di Matt… Matthew Holt, il figlio maggiore di Sam.”
“So chi è Matthew Holt.”
“È l’unico di noi a essere riuscito ad avvicinarsi a Keith,” raccontò Veronica, afferrando la caffettiera fumante per versarne il contenuto nelle due tazze sul bancone. “A parte Shiro, ma questo tu lo sai.”
James annuì, prendendo la sua tra le mani. “Sì, lo so…” Si umettò le labbra. “Il Comandante Holt non ti ha detto nulla di lui? Di Keith, intendo.”
Veronica bevve un sorso di caffè. “Non proprio,” rispose. “Sta bene. So che sta bene ma quando Sam li ha lasciati, Keith non era con Lance.”
James la guardò. “Keith e Lance non sono entrambi Paladini di Voltron?”
“L’universo è piuttosto grande,” disse Veronica con una scrollata di spalle. “Non è assurdo pensare che non partecipino tutti alla stessa missione.”
Il pilota si rigirò la tazza tra le mani. Non aveva preso neanche un sorso del suo caffè. “Keith è l’unico a non aver registrato un messaggio per la sua famiglia.”
“Non è orfano?”
Sì, non c’era nessun familiare sulla Terra ad aspettare il ritorno di Keith. Ufficialmente, non esisteva nemmeno un fascicolo relativo alla sua scomparsa, a differenza degli altri tre cadetti e di Shirogane.
Keith Kogane era uscito dall’Accademia Galaxy Garrison passando dalla porta principale e nessuno aveva più avuto sue notizie. C’era una lunga parentesi di undici mesi tra la sua espulsione e il ritorno di Takashi Shirogane. Nessuno sapeva che cosa era accaduto in quel lasso di tempo, che cosa aveva fatto, dove aveva vissuto e come era riuscito a prendersi cura di sè.
Con la partenza di Shirogane, non c’era rimasto nessuno sulla Terra a preoccuparsi per Keith.
Davvero nessuno.
“Chi era lui per te?” Domandò Veronica di colpo.
James fu bravo a dissimulare. “Lo hai detto anche tu: tutti conoscevano Keith.”
La giovane donna lo guardò sospettosa da dietro le lenti degli occhiali. “Potrebbe esserci un rapporto dettagliato di una rissa tra te e lui nell’archivio dell’Accademia?”
James sbuffò. “Avevamo quattordici anni.”
“E c’era tanta tensione tra di voi che vi siete dovuti prendere a pugni subito dopo la vostra prima prova di volo?” Veronica rise. “Sul serio, Griffin. Chi era Keith Kogane per te?”
“Un compagno d’Accademia.”
“E…?”
“Un rivale, immagino.” Quella era la risposta più simile alla realtà che James era disposto a dare. “Keith era un prodigio e tutti lo odiavamo perchè non riuscivamo a essere alla sua altezza.”
“Odiavamo,” ripeté Veronica, assottigliando gli occhi. “Parola forte per descrivere il rapporto con un compagno di classe.”
“Adolescenza,” rispose James. “Ogni emozione è esageratamente intensa a quell’età.”
Le labbra di Veronica si piegarono in un sorriso furbetto. “Anche l’amore…”
Il pilota sapeva che se avesse abbassato il viso, si sarebbe tradito. Si premurò di tenere lo sguardo alto e di non mostrare più del dovuto. “Immagino di sì,” concordò.
Veronica reclinò la testa da un lato, stringendo le braccia in un broncio deluso. “Mi vuoi dire che non ti sei mai innamorato, Griffin?”
“Essere un pilota aveva la priorità,” rispose James. “Ed esserlo accanto a un prodigio come Keith richiedeva parecchie energie.”
Veronica si sporse in avanti. “Allora?” Sussurrò. “Me lo dici chi eri per lui?”
James prese un respiro profondo. “Il suo compagno di stanza.” Non era una bugia. “Il suo co-pilota.” Non stava mentendo, eppure quella non era la verità.
***
Adam infilò le dita sotto i nasello degli occhiali per massaggiarsi il naso. Era tardi, molto tardi, ma aveva smesso di dormire un'intera notte di seguito da quando la missione su Kerberos era stata annunciata.
“Nadia Rivazi,” disse Adam, riportando gli occhi sui quattro fascicoli aperti sulla scrivania. “Le piace volare. Si vede che le piace volare. Le piace rivaleggiare con il leader ma non lo fa mai con l'intenzione di metterlo in ombra. Sarebbe un buon braccio destro se riuscisse a restare seria per più di cinque minuti.”
Passò al secondo. “Ina Leifsdottir. È quanto di più simile ci sia a un cyborg. Mette più paura di Holt ma è molto più silenziosa e questo gioca molto a suo favore.” Sollevò lo sguardo per un istante. “Non ridere. Nessuno è mai riuscito a reggere per un'intera conversazione con Matthew Holt, a parte te.”
Seduto sul lato opposto della scrivania, Takashi gli sorrise dolcemente. “Eri solo geloso…”
Adam aggrottò la fronte. “Di Holt?” Scosse la testa. “Avevo tante insicurezze ma Matt non era una di quelle. Ah… Ryan Kinkade. Ogni volta che dice ah è un evento. Nella sua domanda di ammissione ha scritto che voleva fare il regista o qualcosa del genere. Non so come se la cava dietro la camera da presa ma sa volare. Ha un difetto: manca d'iniziativa.”
“Che cosa ti rendeva insicuro?” Domandò Takashi.
Adam scrollò le spalle. “Tu…” Rispose senza esitare. “Tutto di te mi metteva insicurezza. Mi sorprende che siamo durato tanto a lungo.”
“Forse mi amavi più delle tue insicurezze.”
“Ma tu non mi amavi più dei tuoi sogni, quindi…”
“Perché riduci tutto a questo?” Domandò Takashi. Non lo stava accusando. La sua follia almeno gli risparmiava tutto l'astio del loro ultimo periodo insieme.
“L'ultima volta che ci siamo visti non eravamo arrabbiati,” obiettò il fantasma di Takashi. Conosceva i suoi pensieri perché anche lui era un parto disperato della sua mente. Takashi non aveva più vent'anni, i suoi capelli non erano più neri e il suo viso era segnato da esperienze di cui non avrebbe mai conosciuto i dettagli.
“Solo un po’ tristi,” aggiunse Adam.
“Non lo sembravi. Malinconico, sì. Triste non lo avrei detto.”
“Non volevo mostrarlo.”
“Orgoglioso…”
“Non hai tentennato un istante nemmeno tu, smettila,” disse Adam, stancamente.
“Cos'altro ti rendeva insicuro, Adam?” Domandò Takashi, sporgendosi verso di lui.
Adam evitò la domanda e passò all'ultimo fascicolo. “James Griffin…” Storse la bocca in una smorfia sarcastica. “Sai qual è la prima esperienza di volo riportata? Co-pilota di Keith Kogane. Me lo ricordo, sai? È l'unica ragione per cui rammento il suo nome. Povero ragazzo…”
Takashi appoggiò il mento al palmo della mano. “Perché dici questo? Griffin è un pilota scelto. Ha tenuto testa al migliore. Dovrebbe essere un motivo d'orgoglio.”
“Per un pelo gli ha tenuto testa,” disse Adam, facendo scivolare gli occhi sui risultati accademici di James Griffin. “Non ha mai avuto possibilità contro di Keith. E lo sapeva… È un ragazzo sveglio, lo sapeva. Fa male rendersi conto che con le proprie capacità si può solo vivere all'ombra di qualcun altro.” E non parlava solo di James Griffin.
“Tu non sei mai voluto essere il migliore,” disse Takashi.
“Ciò non toglie che vivevo nella tua ombra.”
“Eppure quello eri riuscito ad accettarlo…”
“Lo so…” Adam annuì. “Questo ragazzo… Griffin mi preoccupa. È l'unico della squadra MFE a preoccuparmi.”
“Perché?”
“Lui è Keith si conoscevano da prima dell'Accademia. Sul registro di Griffin c’è un richiamo per rissa contro di lui… Erano compagni di stanza? Ma cosa passa per la testa di Morrison quando prende queste decisioni?”
“Si conoscevano,” disse Takashi. “Era due piloti. Li hanno assegnati alla stessa squadra subito dopo i test di ammissione nel simulatore. C'erano tutte le ragioni per assegnarli alla stessa stanza.”
Adam scrollò le spalle. “Immagino non sia stato difficile andare d'accordo: Keith passava tutto il suo tempo con te.”
Le sfumature del sorriso di Takashi cambiarono. “Eccola qui…” Mormorò.
“Cosa?” Domandò Adam.
“La tua più grande insicurezza.” Il fantasma di Takashi parlò con gentilezza ma le sue parole lo raggiunsero come un pugno.
Adam non ebbe la forza di obiettare. Se avesse cominciato a discutere con le proiezioni della sua mente, non sarebbe uscito da quella guerra con la testa sulle spalle… Sempre ammesso che ne sarebbe uscito.
“Sai una cosa?” Disse Veronica riempiendo le due tazze poggiate sul banco e del bar di caffè caldo appena fatto. “Mia madre mi ha insegnato a fare questo genere di cose pensando che al mio futuro uomo avrebbe fatto piacere ma non ho mai pensato di darle ragione.”
Adam sorrise sotto i baffi, prendendo un sorso di caffè. “Sei l'unica qui dentro che sappia farlo,” si giustificò.
Veronica annuì con un sorrisetto saputo. “Sono una sorella maggiore, Adam Wright. Non puoi mentire a me.”
“Non era mia intenzione farlo,” disse Adam. “Al contrario, se vuoi che sia diretto, lo sarò. Pensavo fosse poco elegante con una signora.”
Veronica incrociò le braccia sul bancone. “A te non interessa fare colpo su di una bella donna e io ho troppo fratelli maschi per essere pretenziosa sul comportamento di un uomo. Rilassati e parla chiaro, Adam.”
“Hai parlato con Griffin ultimamente?” Adam beve un altro po’ di caffè.
Veronica inarcò un sopracciglio. “Sei qui anche tu per parlare di Keith?”
Adam rimase con il braccio sospeso a mezz'aria, poi riadagiò la tazzina sul bancone. “Griffin ha voluto sapere di Keith da te?”
“Stando a quanto ci ha detto Sam, Lance dovrebbe essere con lui,” spiegò Veronica. “E con Shiro.”
“Temo ci sia un malinteso, Veronica,” la bloccò Adam con garbo. “Non sono qui per parlare di Takashi. Se avessi voluto sapere qualcosa, sarei andato da Samuel Holt.”
Veronica annuì. “È quello che ho detto a Griffin, ma credo che si vergogni.”
Adam inarcò le sopracciglia. “Si vergogna di chiedere come sta un suo vecchio compagno di Accademia?”
Veronica s'imbronciò. “Io e te non siamo mai stati amici, Adam, ma non fingerti sorpreso con me. Non sono così ingenua: se sei venuto da me per parlare di Griffin, devono esserci dei sospetti a cui devi trovare conferma.”
Adam accennò un sorriso. “Che idea ti sei fatta?”
“T'interessa l'opinione di una donna che non conosci bene?”
“M'interessa l'opinione di una donna di cui un Holt si fida.” Suo malgrado, Matthew Holt aveva sempre avuto le intuizioni giuste e suo padre non poteva essere da meno.
Veronica si umettò le labbra. “La mia opinione è che non vieni a chiedere informazioni su di un vecchio compagno d'Accademia in punta di piedi, se non hai qualcosa da nascondere.”
Adam annuì. “Era il suo co-pilota. C'era rivalità tra loro, credo… Almeno da parte di Griffin.”
“Come mio fratello e decine di altri,” replicò Veronica. “Pensi che a Shiro non sia mai successo?”
Adam pensò a quella sera di pioggia del loro primo anno, quando aveva spaccato la faccia a un cadetto più grande per aver messo le mani addosso a Takashi. “Sì,” rispose. “Gli è successo.”
Veronica afferrò la sua tazza di caffè e poggiò la schiena al lavandino del bar. “James parla di Keith un po’ come lo faceva Lance,” disse. “È il suo sguardo mentre lo fa che è completamente diverso.”
“Tuo fratello conosceva Keith?” Era la domanda sbagliata. Tutti conoscevano Keith, era lui ad avere occhi solo per Takashi…
A parte quando Matthew Holt scivolava furtivamente nel mondo che si erano creati. Adam non l'aveva mai detto, ma era sempre stato geloso di questo.
“Non so quanto di quello che Lance mi raccontava fosse vero,” ammise Veronica. “Lui parlava di rivalità e di bisticci… Io credo che Keith nemmeno lo guardasse,” aggiunse con una nota amara. “Il mio povero Lance e i suoi amori proibiti.”
“Amori proibiti?” Domandò Adam.
“Non lo so,” ammise Veronica con un sorriso intenerito. “Conosco Lance e il mondo in cui parlava di Keith, pur insultandolo, era… Diverso.”
“È stato diverso anche il modo in cui te ne ha parlato Griffin?”
Veronica tamburellò le dita contro la ceramica bianca della sua tazza. “Lance nascondeva qualcosa in modo infantile. Gesticolava nervosamente, la voce gli diventava stridula e buttava addosso a Keith tutto l'astio che riusciva a provare,” raccontò. “James finge indifferenza. Non mostra nulla. Non copre una cosa con un'altra. Finge che non ci sia proprio niente. Anzi, credo che voglia convincersene.” Sorrise. “Per quel che ne so, Adam, quando un ragazzo cerca di dissimulare qualcosa con tanta cura, ha qualcosa di grosso da nascondere.”
Adam non replicò. Era come se Veronica stesse parlando di lui e dell'ostinazione con cui si rifiutava di chiedere a Samuel Holt di Takashi.
“Forse James Griffin ti preoccupa perché è come te, Adam.”
Adam sollevò lo sguardo ma non era stata Veronica a parlare. Guardò verso destro: con il gomito appoggiato al bancone del bar, Takashi gli sorrideva. “Forse Keith è stato per James quello che io sono stato per te.”
“Adam?” La voce di Veronica lo riportò alla realtà. “Perché t'interessa tanto James Griffin?”
“Mi occupo della loro squadra, mi sento responsabile,” rispose Adam.
“Sì, ma non puoi esserti preoccupato per lui solo perché hai saputo che è venuto a parlare con me.”
“Non ha ancora consegnato il suo,” Adam ingoiò a vuoto, “testamento.”
“Oh…” Mormorò Veronica, come se avesse appena ricordato qualcosa che aveva preferito dimenticare. “Non è facile. So che non è nemmeno andato a trovare i suoi genitori quando sono stati portati al rifugio. Forse non sa a chi rivolgere le sue ultime parole.”
Adam scosse la testa. “Lo sa, lo sa… Ha solo paura di farlo.”
***
Prima dell'addestramento del mattino, James e Nadia erano sempre gli ultimi a uscire dallo spogliatoio. Una volta, James aveva scherzato sulla possibilità che Ryan e Ina fossero degli alieni che non avevano bisogno di dormire per vivere decentemente.
“Altrimenti non riesco a spiegarmi come facciano a essere già pronti quando noi arriviamo,” aveva detto.
Quando aveva scoperto di aver passato tutta la sua adolescenza a dormire accanto a un vero alieno, James aveva smesso di considerarla una cosa divertente.
“Non hai una bella cera.” Fu Nadia a uscirsene con quel commento. Ryan non lo avrebbe mai fatto, tantomeno Ina.
Se i due taciturn del suo team non avevano bisogno di dormire, Nadia non aveva certo difficoltà a svegliarsi. Da parte sua, James fissava l'interno del suo armadietto indeciso se fosse ancora vivo o se stesse vivendo una sorta di sogno pre-mortem.
“Non vorrai farti battere da me durante l'addestramento, spero,” aggiunse Nadia, facendogli la linguaccia.
James conosceva la sua compagna di squadra abbastanza per sapere che quello era il suo modo di preoccuparsi per lui. Era un messaggio in codice che significava: ehi, Griff, io ci sono! Devi solo chiedere!
James questo lo sapeva e in cuor suo gliene era grato. Era certo che se fosse andato da Ryan e Ina, anche loro lo avrebbero ascoltato. Quella, però, era una discussione con se stesso che aveva già chiuso: erano soldati in guerra e i pensieri che gli rovinavano il sonno erano tanto infantile che ne se vergognava. James non avrebbe mai offeso i suoi compagni rubando loro del tempo per discutere dei fantasmi della sua adolescenza.
“Ho dormito poco,” rispose James senza guardarla.
Nadia si fece seria. “Sei sicuro di voler pilotare, Griff?”
Lui la guardò storto. “Ho solo dormito poco, Nadia.”
“Ma hai davvero una brutta cera-”
“Sto bene!” Sbottò James sbattendo l'anta dal suo armadietto. Strinse gli occhi e prese un respiro profondo. “Scusami,” aggiunse immediatamente, ma il danno ormai era fatto.
Attirati dal frastuono, Ryan e Ina entrarono nello spogliatoio. Fu lui a parlare: “che succede?”
“Niente,” rispose James, voltandosi verso i due compagni. “Ho ho avuto uno scatto di nervi, Nadia non centra nulla, colpa mia.”
“Tu non hai scatti di nervi,” obiettò Ina.
James inspirò dal naso e contò fino a cinque prima di rispondere. “Sono un essere umano, Ina,” disse. “Agli esseri umani capita di essere stanchi, nervosi…”
“E stronzi.” Una quarta voce che non apparteneva a nessuno dei suoi compagni gli fece gelare il sangue nelle vene.
James si voltò verso destra: gli occhi viola di un ragazzino con la divisa da cadetto rispose al suo sguardo. “Loro lo sanno quanto sei essere stronzo, James?” Domandò Keith. Perché quello era Keith, anche se non era davvero lì. “Lo sanno come sei diventato il loro leader?”
“James…” Nadia gli strinse la spalla amichevolmente. “Proprio perché sei un essere umano puoi fermarti e prenderti una pausa.”
James scosse la testa. “Siamo in guerra,” replicò, poi lanciò uno sguardo verso destra: Keith era sparito. “Non possiamo fermarci.”
Quella sera, dopo aver consumato una cena veloce, James aspettò che i suoi compagni si ritirassero nelle loro stanze poi si diresse in infermeria.
“Ho bisogno di qualcosa che mi aiuti a dormire,” disse all'infermiera di turno.
“Ho bisogno della tua ID,” replicò lei con un sorriso.
James aprì e chiuse il pugno destro un paio di volte. “Non ce l'ho con me,” mentì. Non gli avrebbe mai dato quello che chiedeva se avesse scoperto che faceva parte del corpo piloti.
La ragazza si fece seria. “Mi dispiace ma devo registrare tutti i farmaci che richiedi sul tuo profilo,” abbassò lo sguardo sulla targhetta identificativa. “J.Griffin. Non sei il leader della squadra speciale di piloti?”
James scosse la testa. “Non ha importanza. Mi spiace di averti fatto perdere tempo.”
L'infermiera lo fermò afferrandogli il braccio gentilmente. “Non posso darti alcun farmaco che influenzi il ritmo del tuo sonno se appartieni a un programma di pilotaggio,” gli spiegò. “Se hai problemi a dormire, ti consiglio di parlare con uno dei tuoi superiori e farti esonerare dall'addestramento in aria per qualche giorno.”
James scosse la testa. “Non importa,” disse. “Grazie lo stesso.”
Non appena la porta della sua camera si rinchiuse, James vi appoggiò la schiena e prese un respiro profondo a occhi chiusi.
Si liberò dei vestiti mentre entrava nel bagno e quando il getto calda lo colpì, lasciò andare un lungo sospiro. Poggiò la fronte contro le piastrelle gelide e cercò di sgombrare la mente.
L'infermiera l'aveva riconosciuto ed era probabile che avrebbe riferito a Samuel Holt o Adam Wright il suo tentativo di raggirare i controlli.
Il vecchio James si sarebbe allarmato fino ad avere un crollo nervoso. No, il ragazzo che era stato non si sarebbe mai cacciato in una situazione del genere fin dal principio.
Il James del presente era troppo stanco per preoccuparsi di apparire meno che perfetto. Gli piaceva ancora conservare la maschera del cadetto modello, ma aveva smesso di vedere nello specchio un’immagine che riflettesse impeccabilità.
Era uno stronzo come tanti altri che aveva avuto la fortuna di fare qualcosa in cui era bravo. Una bravura che aveva ottenuto con impegno, dedizione e una fatica che non sapeva quantificare. Non come gli astri, i ragazzi d’oro o qualunque nomignolo idiota incollassero addosso a chi volare ce l’aveva nel sangue.
James fece roteare la testa sotto il getto caldo dell’acqua combattendo la tensione dei muscoli del collo e delle spalle. Aveva bisogno di rilassarsi, di non pensare.
Appoggiò la schiena alle piastrelle umide, gli occhi chiusi. Si lasciò vincere dal torpore, mentre la sua mente si aggrappava pigramente al primo ricordo di natura erotica che riuscì a tirare fuori dal gran caos di pensieri: una ragazza con cui era stato primo che il mondo andasse a pezzi.
Non ricordava il suo nome, forse non glielo aveva nemmeno chiesto. A stento aveva memorizzato il suo viso – l’aveva presa di schiena. Erano i suoi capelli a essergli rimasti impresso. Neri, ondulati. James vi aveva affondato il viso e si era perso nel piacere egoista di una botta e via. Lei se ne era andata contenta. Non gli aveva chiesto il suo numero e lui non si disturbato a fare diversamente.
Tutto quello che James aveva voluto da lei era stato perdersi un po’ mentre il profumo dei suoi capelli neri gli invadeva i sensi. Non si era rivelato quello giusto – troppo femminile – ma non sarebbe mai andato a cercare quello di cui aveva bisogno da un ragazzo.
Col senno di poi, con un piede nella fossa e un altro sul campo di battaglia su cui stavano perdendo, James si sentiva un idiota per quella sua fottuta inibizione.
Quel pensiero frustrante rese inutili tutti i tentativi della sua mano di darsi un po’ di piacere.
“Maledizione…” Sibilò, coprendosi gli occhi con una mano.
“Non pensare,” gli suggerì una voce nella sua mente, l’ultima che avrebbe voluto udire in quel momento. “Non ti serve pensare, non adesso.”
James si voltò, piegò il braccio contro la parete e vi appoggiò la fronte. “Non sei qui…” Sibilò. “Non sei qui…”
No, ma era nella sua mente, sotto la sua pelle.
Mentre faceva scivolare la mano tra le gambe, James tornò con la mente al suo viso premuto contro una nuca ricoperta di capelli corvini. No, non quelli della ragazza di cui non ricordava il nome. Sapeva bene chi stava toccando e il profumo che lo stordiva dolcemente era quello giusto, quello che aveva cercato in tante giovani donne senza successo.
La doccia era più piccola e l’acqua che gli pioveva addosso era fastidiosa perchè gli impediva di baciarlo per più di un respiro.
L’orgasmo lo prese allo sprovvista prima che la forza di quel ricordo raggiungesse il suo zenit.
“Cazzo…” Sibilò, svuotato ma non dai pensieri che lo tormentavano tanto da impedirgli di dormire. Se possibile, quelli erano più vividi di prima.
Finì di lavarsi in fretta. Quando si sedette sul letto, aveva ancora i capelli umidi e il piccolo registratore lo attendeva accanto al suo cuscino.
James lo fissò stancamente per un lungo minuto, poi la rabbia ebbe la meglio. Premette il pulsante per registrare e le parole gli uscirono di bocca come un fiume in piena.
“Non credo t’interesserà sapere quello che ho da dirti,” cominciò. Nessuno saluto, nessun preambolo. “E non hai idea di quanto odi ritrovarmi qui a rivolgere le mie ultime parole a te… Proprio a te! Per quel che ne so potresti essere morto, o disperso mentre cerchi di combattere l’ennesima battaglia persa. Lo sto facendo anche io, sai? Sto combattendo per difendere il pianeta che tanto odi e so che morirò per farlo perchè, grande colpo di scena, la nostra unica speranza di salvezza pare che sia tu!”
Tremava. Inspirò profondamente dal naso ma non si calmò.
“Li hai portati tu qui?” Continuò. “Ce li ha portati lui? Sei arrivato ai confini della galassia per salvarlo, mentre qui cadiamo uno dopo l’altro? Dove sei? Se sei la nostra unica speranza, dove diavolo sei? Non hai esitato un istante a lasciare tutto per lui e adesso stiamo qui a morire per una guerra che non ci appartiene e che ho la netta sensazione che sia tua!”
Nemmeno con il respiro spezzato per la rabbia, James riusciva a pronunciare le parole giuste. Non hai esitato un istante a lasciare me per lui. Me.
“Paladino... Come puoi essere un Paladino? Sei la persona più egoista che conosco. Saresti capace di condannare l’intero universo per quella singola persona e io devo credere che tu ne sia il difensore? Non sei mai stato capace di aiutare nemmeno te stesso.”
Se James aveva il coraggio di dare a lui dell’egoista, con che parole poteva definire se stesso?
“Ho una domanda… Solo una domanda: ti sei mai guardato indietro, Keith?”
Keith. Keith. Keith.
“E tu lo hai mai fatto, James?” Replicò la voce nella sua testa.
James non interruppe la registrazione, si limitò a gettare il registratore a terra con tanta forza che andò in mille pezzi.
Non dormì neanche quella notte.
Il giorno dopo versava in uno stato talmente miserabile che furono i suoi compagni a chiedere di sospenderlo dalle prove di volo. James nemmeno provò a difendere se stesso: sapeva che c’erano dei limiti ed era consapevole di averli superati tutti in pochi giorni.
“Prenditi un caffè e vieni nel mio ufficio, Griffin.” Fu l’ordine di Adam Wright.
***
I pezzi del registratore che giacevano sulla scrivania sembravano deriderlo.
James li fissò senza una reale espressione: non poteva negare nulla e dare spiegazioni sarebbe stato troppo complicato e controproducente. L’unico modo per uscire da quella situazione riportando meno danni possibili era gettare in ballo il disturbo da stress post-traumatico, terrori notturni, follia assoluta... Qualunque cosa gli permettesse di usare la guerra come abili e gli evitasse di cantare tutta la verità.
“Questo lo ha fatto Veronica,” disse Adam Wright, mettendogli davanti una tazza di caffè fumante. “Quello del distributore automatico non regge il confronto.”
James sapeva che aveva ragione e buttò giù subito un sorso, così da lavare via dalla bocca il saporaccio che la brodaglia che aveva consumato in corridoio gli aveva lasciato. “Mi dispiace, sir,” disse con rispetto e umiltà. Se si fosse dimostrato collaborativo, c’erano più probabilità che se ne sarebbe andato dando qualche spiegazione ma senza subire un interrogatorio. “Faccio degli incubi, ho problemi a dormire.”
Adam fece il giro della scrivania e si sedette sulla poltrona girevole. “Per questo hai chiesto dei sonniferi in infermeria senza il permesso di un superiore?”
James se l’era aspettato. “Sì, sir.”
“Sei consapevole di quanto sia pericoloso pilotare un jet con in circolo sostanze che possono alterare il tuo stato di coscienza, vero?”
“Conosco il regolamente, sir.”
“E lo hai ignorato.”
“Ero davvero molto stanco.”
“Incubi?”
“Sì…”
Adam sospirò. “Sai che rischi di venir escluso dal progetto di difesa MFE?”
James sgranò gli occhi. “Non ho pilotato sotto l’effetto di farmaci,” gli ricordò.
“Stavi per farlo e di nascosto.”
“Ho lasciato perdere senza nessuna esortazione.”
“Hai lasciato perdere quando hai capito che il protocollo è ancora valido anche in guerra.”
“Se mi togliete dal progetto di difesa, le nostre possibilità di battere i Galra si abbassano drasticamente!” Esclamò James. “Con tutto il rispetto…” Aggiunse immediatamente. “Inserire un nuovo pilota nella squadra comprometterebbe tutto il lavoro del Comandante Holt e dei miei compagni. Quei jet non si possono pilotare senza una tecnica di volo perfetta.”
Adam annuì. “Eri modesto fino a un istante fa, Griffin.”
“Sono consapevole delle mie capacità, Comandante,” replicò il cadetto. “Non ho motivo di vergognarmene.”
L’ombra di un sorriso comparve sul viso dell’ufficiale. “Ho detto una cosa simile anche io tanto tempo fa, a due persone che hanno fatto parlare di loro qui, alla Garrison.”
Come tutti, James sapeva che c’era stato un legame particolare tra Adam Wright e Takashi Shirogane. L’unica differenza è che la sua conoscenza in materia la doveva a Keith.
“Perchè t’interessa tanto il cadetto Kogane, Griffin?” Domandò Adam, diretto, quasi crudele.
Fu allora che James si rese conto di non avere alcuna possibilità di fuga. “Ha parlato con Veronica, Comandante?” Domandò. Di colpo, il caffè che aveva bevuto prese il sapore del tradimento.
“Veronica non centra, James,” disse Adam con tono più colloquiale. “Avevo un’intuizione, l’ho seguita e ho scoperto di avere ragione.”
James artigliò i braccioli della sedia su cui si era accomodato. “Quale intuizione, sir?”
Adam indicò i pezzi del registratore con un cenno del capo. “Che hai qualcosa di molto importante da dire a una persona che ha altrettanto valore per te, ma vorresti che non lo avesse.”
Fu un sforzo per James non abbassare lo sguardo, sconfitto. “Non ho niente da dire a Keith Kogane, signore.”
Adam scrollò le spalle. “Beh… Il prezzo di tutto quel niente l’ha dovuto pagare quel povero apparecchio.”
“Ero frustrato perchè non sapeva che cosa dire a chi dirlo.”
“Hai una famiglia, James. Hai degli amici. Non sei solo al mondo.”
“Non ho alcuna intenzione di far pesare le mie ultime parole sui miei compagni di squadra,” replicò James, freddo. “E non ho niente da dire ai miei genitori che non sia stato già detto.”
Adam lo scrutò da dietro le lenti degli occhiali. “Non hai un buon rapporto con loro?”
“Sono orgogliosi di quello che faccio.”
“Non è una risposta.”
James ingoiò a vuoto. “I miei risultati all’Accademia mi permettono di godere della loro totale fiducia. Mi hanno sempre appoggiato senza fare domande.” Una pausa. “Non hanno la minima idea di chi io sia davvero.”
Le labbra di Adam si piegarono in un sorriso amaro. “Penso di capire…”
“I miei genitori sono delle brave persone, sir.”
“Io non posso dire lo stesso di mio padre,” confessò Adam. “Ritieniti fortunato per quello che hai, James. Tuttavia, immagino che mentre ti davano tutto quello che volevi, non siano riusciti a darti quello di cui avevi bisogno.”
James non sapeva che direzione stava prendendo quella conversazione e non era certo di volerlo scoprire. Era uscito di casa a quattordici anni e ogni giorno di distanza dai suoi genitori si era tramutato in un pezzo di muro che, lentamente, aveva costruito tra sè e loro.
I suoi non se ne erano accorti, ovviamente. Chiamava a casa regolarmente, passava con loro il tempo indispensabile e poi tornava alla Garrison, permettendogli di riempire la sua assenza con belle storie che lo vedevano protagonista.
“Mio figlio è un pilota della sezione fighter,” poteva immaginarli dire durante una cena tra amici. “James è tra i migliori cadetti della sua generazione!”
Se solo avessero saputo chi era davvero e che cosa aveva fatto, l’avrebbero guardato con occhi pieni di orgoglio come facevano?
“Che cosa vuole sapere, sir?” James si arrese facilmente. Non era Keith. Non era capace di rimediare una vittoria da una sconfitta certa, poteva solo provare a uscirne a testa alta.
Adam sospirò e poggiò entrambi i gomiti sulla scrivania. “La risposta è no.”
James inarcò le sopracciglia. “La risposta a cosa?”
“Non si è mai guardato indietro,” disse Adam. Vide il cadetto di fronte a lui congelare e guardare il registratore fatto a pezzi come se non fosse reale. “Abbiamo i migliori esperti informatici qui, dovresti saperlo. L’hai reso inutilizzabile ma ci vuole di più per eliminare i dati in memoria.”
“Lei ha sentito tutto,” concluse James con tono funereo.
“Non c’è alcun bisogno di fare quella faccia,” lo rassicurò Adam.
“Non ne aveva il diritto,” aggiunse il cadetto, tremante di rabbia.
“No, James, hai ragione. Non ne avevo alcun diritto.”
“Allora perchè-?”
“Perchè non è scappando da lui che starai meglio.” Adam Wright sapeva di essere la persona meno adatta per fare un discorso simile. Lui era senza speranza, ma quel ragazzo era la loro unica possibilità di restare in piedi fino al ritorno di Takashi. Aprì un cassetto della scrivania, ne tirò fuori un nuovo registratore e lo spinse sotto gli occhi del cadetto. “Digli tutto quello che devi, James. Solo così il suo ricordo smetterà di tormentarti.”
James era tanto arrabbiato che a stento riusciva a mantenere la sua compostezza. “Lei non ha idea di quello che sta dicendo,” disse. “Lei non sa niente.”
“Sarei felice di ascoltarti se-”
“Com’era vivere nella sua ombra?” Sbottò James.
Adam lo fissò.
“Com’era?” Insistette il cadetto. “Com’era ricordarsi costantemente di non essere abbastanza? Com’era guardarlo e vedere la cosa più bella della sua vita e la causa della sua distruzione?”
Adam si abbandonò contro lo schienale della sua poltrona. “Non essere abbastanza…” Sorrise amaramente. “Oh, sì, quello lo ricordo bene.” Era una sensazione di cui non si era mai liberato. “Io però non ero il rivale di Takashi, James. Non mi è mai interessato superarlo.” L’ombra di cui aveva sofferto era di un altro tipo. Eppure, sì, Takashi Shirogane era stato la cosa più bella che gli fosse capitata e quella che lo aveva distrutto.
James si alzò in piedi senza chiedere il permesso. “Keith Kogane non è nessuno per me,” disse. “E io non lo sono per lui.”
Se ne andò lasciando il registratore sulla scrivania.
***
Adam si stese sul letto con un sospiro. Si tolse gli occhiali e li appoggiò alla cieca sul comodino. Era stanco ma sapeva che non si sarebbe addormentato facilmente.
“Tu lo sapevi?” Domandò alla stanza vuota. “Non passava giorno senza che voi due vi parlaste. Con tutte le attenzioni che gli davi, te ne saresti dovuto accorgere.”
“Pensi che Keith mi dicesse tutto?”
Adam sapeva che non c’era nessuno su quel letto a parte lui ma ciò non gli impediva di vedere Takashi lì, accanto a sè, con addosso una di quelle stupide t-shirt con sopra scritto Nasa.
“Penso che Keith parlasse solo con te,” rispose.
Takashi sorrise dolcemente. “È sempre stato introverso,” gli ricordò.
“Non con te,” replicò Adam. “Con te sorrideva.” Rideva. Faccio fatica a immaginarlo così con qualcuno che non sia tu.”
“Non è detto che lo fosse.”
Adam lo guardò. “James ci è dentro nel peggiore dei modi, Takashi. Non come i ragazzi che sognavano di sorprenderlo in un corridoio buio e fargli la festa.”
“Ci hanno provato una volta.”
“E Keith ha fatto la festa a loro.”
Takashi rise. “Non è mai stato indifeso come me. Non ha mai avuto bisogno di qualcuno che lo proteggesse.”
Adam fissò il soffitto sopra il letto senza vederlo. “Ti ho protetto solo una volta, Takashi… E non mi hai più permesso di farlo.”
“Questo non ti ha impedito di provarci fino alla fine.”
“E non hai idea di quanto mi facessi sentire frustrato,” disse Adam. “Il punto è proprio questo. Come lo proteggi uno come Keith? Come poteva James pensare di tenergli testa?”
“Tu tenevi testa a me.”
“A quattordici anni… Forse anche a diciotto, ma non sono riuscito a farlo con l’uomo che sei diventato. Hai ragione, Keith non era indifeso. Ferito, temprato dalla vita più di quanto un ragazzo della sua età avrebbe dovuto essere, ma indifeso...” Scosse la testa. “Era James quello senza difese.” Si voltò per guardare negli occhi il fantasma accanto a lui. “Davvero non ti sei mai accorto di nulla?”
Takashi sorrise con malinconia. “Ti dava fastidio che parlassi di Keith,” disse. “Anche ammesso che sapessi qualcosa, non te lo avrei mai detto.”
Adam inarcò le sopracciglia. “Non ti ho mai detto una cosa del genere.”
“Non ce ne era alcun bisogno.”
Una mezza risata sfuggì alle labbra di Adam. “Mi sentivo così idiota a essere geloso di un ragazzino.”
“E James?” Domandò Takashi. “Di chi era geloso James?”
Adam si passò una mano tra i capelli. “Di qualcuno con cui non poteva reggere il confronto,” rispose con un sorriso amaro. “Keith deve avergli fatto perdere la testa per davvero…”
“E Keith?”
“Non lo so,” ammise Adam. “È a questo che non riesco a venire a capo. Posso immaginare Lance McClain che si prende una cotta per il compagno di classe troppo bravo per prestargli attenzione. James Griffin era il compagno di stanza di Keith, il suo co-pilota. Si conoscevano, erano costretti a frequentarsi e vista l’età non è assurdo pensare che i sentimenti di James abbiano fatto un’inversione di marcia. Keith, però… Era Keith.”
“Pensi che siamo finiti insieme per questo?” Domandò Takashi. “Perchè eravamo due ragazzini?”
Adam sbuffò. “Non stiamo parlando di me e te, smettila.”
“Eppure quando guardi James rivedi te stesso.”
Adam non riuscì a obbiettare a quel pensiero. Perchè di questo si trattava: una conclusione che la sua mente aveva elaborato e che gli veniva sbattuta in faccia con la voce di Takashi.
Si poteva dire tutto di Adam Wright, meno che non fosse bravo a farsi del male.
“Non ci si può innamorare delle stelle, Takashi,” disse. “Non le puoi strappare dal cielo e stringerle a te. Provarci significa bruciare… E non è una fine veloce, no. È lenta… Un’agonia…”
“È questo che hai cercato di fare con me, Adam?”
“È questo che James ha cercato di fare con Keith?” Si domandò Adam. “Se così fosse, provo pena per quel ragazzo…”
“E quando imparerai a provarne per te stesso?”
Adam si voltò ma il fantasma era sparito, lasciandolo da solo con i suoi dubbi. “Buonanotte, Takashi,” mormorò alla stanza vuota.
***
Quella notte non c’era verso per James Griffin di prendere sonno.
Per una volta, però, non era il ricordo di Keith a tenerlo sveglio. Adam Wright aveva reso ufficiale la sua sospensione non appena era uscito dal suo ufficio senza permesso.
Causa: problemi di salute.
Così era riportato nel documento ufficiale, e James avrebbe dovuto essere grato per quello. Il suo orgoglio glielo impediva e la consapevolezza che Adam Wright aveva avuto tutte le ragioni per fargli avere un richiamo ufficiale e non le aveva usate lo faceva ribollire di rabbia.
Era un modo non proprio indiretto di far sapere a James che il Comandante non aveva ancora finito con lui.
Quella mattina, era stato aperto il proverbiale vaso di Pandora e non aveva importanza con quanta fretta James l’avesse richiuso, Adam vi aveva guardato dentro abbastanza a lungo per scorgere l’origine di tutte le sue bugie.
Era solo questione di tempo prima che la verità venisse a galla.
“Hai paura che parli io?”
James sapeva che Keith non poteva essere lì, alla Garrison. E anche se così non fosse stato, non c’era nessuna ragione per cui avrebbe dovuto essere nel suo letto.
“Non hai parlato quando hai potuto,” replicò James, fissando il soffitto sopra il suo letto. “Perchè non hai parlato, Keith?”
“Dovevo?”
“Era in ballo il tuo futuro.”
“Non m’importava più niente del futuro di cui parli tu.”
James strinse le labbra. “Non riuscivo a sopportarti,” disse. “Lui era morto e ti comportavi come se lo fossi anche tu.”
“Lui non era morto e io non volevo arrendermi di fronte alle loro bugie,” replicò il fantasma di Keith.
“Però ti sei arreso con me.” James lo guardò: era solo il riflesso dei diciassette anni di Keith. “Non hai combattuto per me.”
Gli occhi viola lo trafissero senza pietà. “Te lo meritavi, James?”
Il cellulare prese a vibrare sul comodino e James sobbalzò. Fissò l’apparecchio con astio fino a che il display non si spense di nuovo. Quando tornò a guardare accanto a sè, Keith non era più lì.
James sbuffò e calciò via le coperte. Si mise a sedere contro il cuscino e prese il cellulare tra le mani: era un messaggio di Nadia, voleva sapere come stava. Non c’era nulla in quelle poche parole che lo provasse ma James sapeva che quella piccola dimostrazione di preoccupazione era da parte di tutti e tre i suoi compagni.
Come stava? Non c’era una risposta sincera abbastanza semplice per essere riassunta in un messaggio ed era troppo stanco per mettere nero su bianco una comoda bugia.
James sospirò e si arrese all’evidenza che non avrebbe dormito neanche quella notte.
Indossò la divisa da cadetto solo perchè era l’unico completo a portata di mano.
Abbandonò il cellulare tra le coperte e uscì in corridoio.
James lasciò che i suoi piedi lo guidassero fino alla stanza del simulatore.
Non si avventurava in quella parte dell’Accademia da anni, più o meno da quando Lance McClain aveva miseramente fallito la prova di soccorso su Kerberos e poi era sparito dalla circolazione insieme al suo ingegnere e al suo esperto informatico.
“E pensare che hai passato con Keith tutti i giorni che sono seguiti…” Mormorò, entrando nel simulatore. Il suo interno era la fedele ricostruzione della cabina di pilotaggio di una vera navicella d’esplorazione. “Non è quello che hai sempre voluto, McClain? Volare al fianco di Keith…”
James arrivò con pochi passi alla console del pilota e si sedette al posto che aveva occupato solo per metà del suo tempo lì dentro. Quel sedile era stato di Keith per l’altra metà.
Erano mesi che nessuno metteva piede lì dentro e ogni superficie era ricoperta di polvere. Anche l’aria era viziata, seccava la gola ma questo non fermò James dal chiudere il portellone.
”Selezionare la missione.” Disse la voce elettronica del sistema di controllo.
Una lista di possibilità comparve sul display sotto gli occhi di James. Non aveva bisogno di scegliere, sapeva già perchè era lì. Strisciò la punta dell’indice sullo schermo facendo scorrere lo sguardo sui nomi delle simulazioni.
Lesse Spedizione di salvataggio su Kerberos. Si fermò.
“Non abbiamo mai terminato questo programma insieme.”
James storse la bocca in una smorfia. “A stento lo abbiamo cominciato,” replicò.
Sollevò lo sguardo. Keith non era seduto al posto del co-pilota – nemmeno da folle riusciva a immaginarselo a un livello inferiore al suo – ma se ne stava in piedi, con la schiena appoggiata al pannello di controllo.
“È stata l’ultima volta che siamo stati qui dentro insieme,” disse James. “Sei stato espulso pochi giorni dopo.”
“Riesci a dire ad alta voce anche il motivo?”
James lo guardò con astio. “La tua condotta era riprovevole.”
Keith annuì. “E tu eri il soldatino perfetto, vero? Quello che seguiva le regole alla lettera, che rendeva orgogliosi i nostri insegnanti. Tu avevi tutte le carte in regola per essere il nuovo ragazzo d’oro della Galaxy Garrison.”
“A te non è mai interessato quel titolo.”
“Non è un titolo, solo un soprannome.”
“Fa lo stesso…”
“Prodigio, genio... Questi non sono nè titoli nè soprannomi. Solo dati di fatto.”
Mai come in quel momento James seppe di star parlando con la sua coscienza. Keith non avrebbe perso tempo a umiliarlo a parole, si sarebbe limitato a lanciargli un destro e lasciarlo dolorante a terra. Era James quello bravo a sputare veleno, troppo codardo per alzare le mani ma sempre pronto a usare le debolezze degli altri contro di loro.
Se sentimenti come quelli che aveva provato per Keith nobilitavano le persone, su James avevano avuto l’effetto opposto.
“Sei sempre stato bravo a incolpare gli altri dei tuoi errori,” disse il fantasma. “Non sono stato io a rovinarti, James.”
“Mi hai reso tutto quello che non volevo diventare.”
“Un bugiardo? Un traditore? Un codardo?”
“Smettila…”
“Lo sei sempre stato, James.”
“Stai zitto!” James sbatté il pugno contro il pannello di controllo.
Quando sollevò lo sguardo, era di nuovo solo.
“Non sono un codardo,” disse con voce tremante, facendosi piccolo piccolo davanti alla console del pilota.
Non poteva esserlo. Gli era servita una certa dose di coraggio per mentire e soprattutto per tradire.
James si mosse come un automa. Non avvertì il peso dell’estintore tra le mani quando lo sganciò dal vano accanto all’entrata. Non esitò un istante a usarlo per colpire il pannello di controllo del simulatore con tutte le forze.
***
La chiamata di Veronica lo prese di sorpresa.
“Di che cosa volevi parlarmi?” Domandò Adam, mentre le porte dell’ascensore si richiudevano.
“Dopo aver parlato con te, mi è tornata in mente una cosa,” disse Veronica, digitando qualcosa sul tablet tra le sue mani. “Ricordi quando Keith Kogane è stato espulso?”
“Sì, lo ricordo,” rispose Adam. Non poteva dirle che ogni ricordo del periodo Kerberos era impresso a fuoco nella sua testa. Per i documenti ufficiali quella missione era finita cinque mesi dopo il decollo dell’equipaggio. Per le persone coinvolte personalmente era stata una vicenda molto più lunga e complicata.
Il Pilot Error in fondo al fascicolo di Takashi e l’Espulso sull’ultima pagina di quello di Keith raccontavano la stessa storia, ma quei documenti non lo facevano.
“Quindi ricordi che ci fu una lunga indagine prima della decisione finale,” disse Veronica, aggiustandosi gli occhiali sul naso. “Mi sono ricordata di Lance che me ne parlava. Una volta era quasi sul punto di mettersi a piangere. Hanno interrogato tutti i membri della loro classe e anche alcuni ufficiali.”
“Lo so.” Adam annuì. “Io ero uno degli ufficiali.”
Veronica lo fissò. “La storia del pugno…” Ricordò.
Adam accennò un sorriso. “Le voci erano arrivate fino a te, vedo.”
“Voci?” Veronica era perplessa. “Ci fu un richiamo ufficiale.”
“Non da parte mia. Non ho mai denunciato Keith a Iverson per quel pugno,” ammise Adam. “Non lo trovavo giusto…”
“Allora chi…?”
“Non l’ho mai saputo. Keith ha condannato se stesso quando si è fatto trovare dentro quel simulatore distrutto.”
“È proprio questo il punto.” Veronica fece scorrere alcuni documenti sul display del tablet. “Nessuno ha trovato Keith dentro quel simulatore. La cabina era ridotta in una maniera tale che non sono riusciti nemmeno a recuperare una prova video.”
Adam la guardò con le sopracciglia inarcate. “Come hanno fatto ad accusare Keith senza prove? Poteva essere anche il cadetto più problematico dell’Accademia ma da lì ad accusarlo gratuitamente-”
“Non è stata un’accusa gratuita,” lo interruppe Veronica, passandogli il tablet. “Nel dossier è riportato il nome di un testimone oculare, uno che non hanno potuto ignorare.”
Adam comprese cosa intendeva nel momento in cui lesse il nome del testimone oculare in questione. “Non posso crederci…” Gli sfuggì ma in realtà non era affatto sorpreso. Il cellulare nella sua tasca prese a vibrare in quell’istante e se lo portò all’orecchio distrattamente, lo sguardo ancora fisso sul display del tablet. “Pronto?”
Veronica comprese che qualcosa non andava dal lungo silenzio che seguì.
“Arrivo subito,” disse Adam, funereo, interrompendo la comunicazione. “Andiamo al piano dei simulatori.”
***
James aveva bloccato il portellone del simulatore dall’interno. Sapeva che c’era un modo per sbloccarlo dalla cabina di controllo esterna a cui solo gli ufficiali avevano accesso ma doveva aver fatto saltare il collegamento durante la sua opera di distruzione totale.
Non sapeva che ore erano e non gli interessava. Dopo aver esaurito le forze a furia di abbattere l’estintore su tutte le superfici a portata di mano, James aveva lasciato l’arma impropria sul pavimento ed era collassato al posto del pilota cadendo di uno strano stato di trance che lo aveva incatenato fino a che qualcuno non aveva preso a battere i pugni contro il portellone chiamando il suo nome.
“James!” Era Nadia. “Apri, James!”
Dovevano aver scoperto che si trattava di lui dalle telecamere interne: si era scordato di distruggerle.
Non sapeva che cosa sarebbe capitato a quel punto ma era stato un latitante troppo a lungo, anche se nessuno aveva mai sospettato di lui. Forse era quella la parte peggiore di tutta la storia: uno studente modello aveva accusato uno problematico e nessuno aveva perso tempo a chiedergli la sua versione dei fatti.
“Che schifo…” Commentò a bassa voce, passandosi una mano tra i capelli. Si riferiva anche a se stesso… Soprattutto a se stesso.
Il silenzio era tornato a fare da padrone: Nadia aveva smesso d’insistere. Gli altoparlanti interni si attivarono con un prolungato bip.
“Griffin?” Era la voce di Adam Wright. “Griffin, riesci a sentirmi?”
James chiuse gli occhi stancamente e sbuffò: non aveva voglia di essere riportato alla ragione dai discorsi razionali di un suo superiore.
“James,” riprovò Adam, con inclinazione meno austera, “so tutto.”
Il giovane puntò gli occhi verso l’altoparlante posto sopra il pannello di controllo, come se Adam Wright fosse lì e potesse rispondere al suo sguardo. “Sa solo quello che pensa di sapere, Comandante,” rispose con un’arroganza che in circostanze normali non si sarebbe mai sognato di usare con un superiore.
“Allora raccontami la tua versione della storia,” propose Adam. “La persona per cui hai fatto tutto questo l’ha fatto. Non vedo perchè non debba dare la stessa occasione anche a te.”
James inarcò le sopracciglia. “La persona in questione non avrebbe mai aperto bocca con nessuno, men che meno con lei.”
Takashi Shirogane era il solo con cui Keith parlava. Takashi Shirogane e nessun altro.
“Se quello che dici è vero, non dovrei sapere nemmeno della casa nel deserto,” replicò Adam.
James fu preso di sorpresa da quelle parole ma fu bravo a replicare alla svelta. “Lei era vicino a una fonte d’informazioni molto più attendibile di me.”
Dall’altoparlante fuoriuscì una risata amara. “Credimi, James, abbiamo più cose in comune di quelle che credi.”
Stava cercando di dirgli che se Keith non era molto propenso a confidarsi con lui, Takashi Shirogane non era l’emblema di perfezione che tutti credevano?
“A lui non importava,” aggiunse Adam. “Dopo Kerberos, non gli importava più.”
“Lo so,” sibilò James, rabbioso. “Per questo lo odiavo.”
“Capisco…”
“No, lei non capisce!”
“Ne sei sicuro?” Domandò Adam. “Fidati di me, James. Sono l’unico a cui puoi raccontare la tua storia.”
***
Venti minuti dopo, James era seduto nell’ufficio di Adam Wright e quel maledetto registratore era di nuovo lì, su quella scrivania e lo fissava.
“Tieni…” Adam gli mise tra le mani una tazza di caffè. “Da parte di Veronica.”
James accettò con un gesto meccanico, privo d’interesse.
Il Comandante si sedette dal lato opposto della scrivania. “A giudicare da come hai ridotto quel simulatore, devi essere molto arrabbiato da parecchio tempo.”
“Accetterò qualsiasi punizione, sir,” disse James, poggiando il caffè accanto al registratore senza prenderne neanche un sorso.
Adam storse la bocca in una smorfia. “Se non accetti del buon caffè, c’è rimasto ben poco da punire,” disse, allungando il braccio per recuperare la tazza ancora fumante.
James lo fissò con occhi vuoti. “Sono serio, sir.”
“Allora sii serio per davvero e ricordati che siamo in guerra,” replicò il giovane Comandante. “Come dovrei punirti, eh? Privando la Terra di uno dei suoi piloti migliori? Sapevi benissimo che non avresti andato incontro a nessuna conseguenza quando hai preso in mano quell’estintore!”
“Non sapevo niente,” ribatté James. “Non ho pensato a niente. Ho agito e basta.”
Adam strinse le labbra, poi prese un sorso di caffè per stemperare la tensione che si era venuta a creare. “Non è da te.”
“Lo so.”
“Ma è da Keith…”
James rispose allo sguardo del superiore ma non alla sua provocazione.
Adam si aggiustò gli occhiali sul naso. “Che cosa è successo quella notte?”
“Quale notte?”
“Quella in cui hai distrutto un simulatore per la prima volta,” rispose Adam. “La notte in cui hai condannato Keith. Hai anche messo fuori uso le telecamere, come hai fatto?”
“Non ricordo nulla di quella notte,” replicò James. “È passato molto tempo.”
“Vero ma strano che tu abbia dimenticato tutto dopo aver rilasciato a Iverson un rapporto dettagliato di tutti i movimenti di Keith,” insistette Adam.
“Era il mio compagno di stanza,” replicò James, freddamente. “C’erano cose di lui che sapevo pur non volendo. Quella notte l’ho visto uscire dalla camera a un orario non permesso e mi sono limitato a fare il mio dovere.”
Adam storse la bocca in un sorriso sarcastico. “La tua condotta e il tuo senso del dovere sono ammirevoli, cadetto.”
James artigliò i braccioli della poltrona. “Senta, lo ammetto: ho distrutto quel simulatore perchè ho difficoltà a rimanere lucido in questa situazione.”
“Quale situazione?”
“L’assedio!” Il giovane pilota stava perdendo la pazienza.
“Ah… Pensavo la possibilità di vedere Keith tornare alla Garrison come un eroe,” disse Adam con tono casuale.
“Possiamo smettere di parlare di Keith?” Sbottò James. “Keith non è il problema, io lo sono! Devo rimanere lucido per la mia squadra, per la Terra e non riesco a farlo!”
Adam appoggiò la guancia al pugno chiuso. “Che cosa stai cercando di dimenticare, James?” Domandò con voce nuovamente paziente. “Che cosa hai cercato di cancellare per tutti questi anni?”
James serrò i denti sul labbro inferiore e rimase in silenzio. Adam dedusse che era vicino al punto di rottura ma era necessario fare un po’ più di pressione e per farlo doveva essere bravo a calcolare la forza da usare. “Quando hai conosciuto Keith?” Era un’informazione scritta nero su bianco nei fascicoli di entrambi i cadetti ma Adam non era interessato ai dati, gli servivano i ricordi, le emozioni. “Takashi mi aveva raccontato di avervi visto nella stessa classe.” Se si fosse esposto a sua volta e avesse messo anche Shiro sul tavolo, forse sarebbe stato più semplice convincere James a gettare la maschera.
“Non me la ricordo la prima volta che l’ho visto,” ammise il cadetto e quella volta era sincero. “Siamo cresciuti entrambi qui. C’è solo una città che può essere definita tale ed è l’unica con buone scuole.”
“Tu, però, non sei cresciuto nel deserto. Keith, invece, sì.”
James scrollò le spalle. “Keith non è mai stato un tipo da città. Credo che impazzirebbe in una vera metropoli.”
“Per quale ragione?”
“Non lo so… Diceva qualcosa riguardo alle luci artificiali che coprivano quelle delle stelle.”
Gli angoli della bocca di Adam si sollevarono un poco: aveva già sentito una storia simile tanti anni prima ma da un ragazzo diverso. “Dettaglio interessante per chi parla del proprio compagno di stanza come di un estraneo o poco più.”
James sollevò gli occhi su quelli del superiore. “Che cosa vuole da me, Comandante?”
“Hai detto di voler essere lucido per i tuoi compagni e per la Terra,” disse Adam. “Credimi, l’unico modo in cui puoi riuscirci è tirare fuori tutto e smetterla di fingere che sia solo passato.”
“Ne è certo perchè è così che lei hai fatto con Takashi Shirogane?” Domandò James con arroganza.
“Non contrattaccare, ragazzino, sei almeno dieci anni in anticipo,” lo avvisò Adam.
“Non è un contrattacco ma una difesa,” ribattè il giovane pilota. “Non posso negare di aver fatto quello che ho fatto la notte scorsa, ma Keith Kogane non ha nulla a che fare con me.”
Adam prese un respiro profondo. “Certo che sei caparbio,” commentò, annoiato. “Beh… Per restare dietro a Keith, dovevi esserlo.”
“Io non ero dietro Keith!” Ribatté James con forza. “Ero il suo co-pilota, sedevo al suo fianco, ad appena un metro da lui!”
Adam sorrise intenerito. “James, entrambi sappiamo che quel metro era una distanza invalicabile. La sola differenza tra di noi è che non importava, mentre per te era una ferita nell’orgoglio. Tu eri il cadetto dalla condotta perfetta, stimato dai suoi compagni, dai professori. Keith era una supernova sul punto di esplodere, eppure era lui che tutti guardavano, non te. Facevi del tuo meglio ogni giorno, ne uscivi stanco emotivamente e fisicamente e non era mai abbastanza. Doveva essere frustrante…”
James lasciò andare una risata nervosa. “Certo… È questo di cui stiamo parlando: il bravo cadetto che si macchia di una colpa perchè non riesce a reggere il confronto con il cattivo ragazzo che, disgraziatamente, è anche un prodigio.”
Adam scrollò le spalle. “Questo è quello che ho intuito.” Ma non era quello che sospettava davvero.
“Bene!” James allargò le braccia. “Ha tutte le risposte di cui ha bisogno!”
“Sì e non mi convincono!”
“Maledizione!” Il pilota sbatté entrambe le mani sulla scrivania, scattando in piedi. “Che cosa vuole che le dica?”
Adam nemmeno si accigliò. “La verità, James. Solo la verità.”
“La verità? La verità era che Keith Kogane era un pazzo paranoico che vedeva complotti ai danni di Takashi Shirogane in ogni angolo della Galaxy Garrison. Questa è la verità!”
“James…” Anche Adam si alzò in piedi, aggiustandosi la giacca della divisa. “Dammi una versione della verità che non sia quella ufficiale, riportata linearmente nel dossier di Keith Kogane.”
Di fronte a tanta ferma compostezza, James aveva poco da fare: decise di optare per una ritirata strategica. “Se non ha niente d’aggiungere sulla mia condotta della scorsa notte, io me ne vado.”
Adam contò i secondi che impiegò per afferrare la maniglia della porta. “L’unica cosa che non sono riuscito a capire è se Keith ricambiava o meno,” buttò lì con tono casuale.
James gelò.
“Perchè, sì, sarebbe facile far passare questa vicenda come l’ennesima storia di rivalità portata allo stremo ma, James, se tutto quello che volevi era far espellere Keith ti sarebbe bastato provocarlo in un corridoio affollato.” Adam non aveva mai analizzato la situazione nei dettagli, ma lo fece in quel momento. “Keith era semplice da provocare in situazioni normali, dopo Kerberos sarebbe scoppiato con mezza parola storta. Tu, però, non ti sei accontentato di liberartene: hai messo fuori uso delle telecamere di controllo, hai distrutto una proprietà dell’Accademia e hai fatto in modo che Keith non avesse nessuna via d’uscita. Una pianificazione del genere richiede un certo impegno, non è il tipo di azione che si compie per semplice sfregio. Tu volevi fargli male, volevi che si sentisse completamente solo. E non si prova una rabbia simile nei confronti di un compagno di classe troppo bravo per essere eguagliato, James.”
Quando Adam smise di parlare, James lasciò andare la maniglia: l’aveva stretta tanto forte che il palmo gli faceva male. Comprese velocemente che non poteva più nascondersi da nessuna parte, che se anche avesse tentato, il Comandante non gli avrebbe permesso di andare lontano. Lo aveva saputo capire terribilmente bene. Tutto quello che era rimasto da fare a James era accettare di essere giunto al capolinea di quella corsa di bugie e silenzi durata anni.
“Non lo so,” disse, fissando la porta di fronte a sè. “Alla fine di tutto, nemmeno io ero certo che Keith provasse qualcosa per me.”
Adam si umettò le labbra e ponderò con cura le sue prossime parole. “Per via di Takashi?”
James si voltò. “Lo pensava anche lei, vero? Anche lei pensava che il loro rapporto non fosse normale.”
“No,” ammise Adam. “Non l’ho mai pensato. Ho solo impiegato molto tempo per capirlo.”
“Per capire cosa?” Domandò James, rabbioso. “Io ero lì. Sono stato con lui per tutto il tempo, anche quando ripeteva il nome di Shiro ogni tre parole come se non esistesse niente altro d’importante al mondo.”
“Era solo l’unica persona con cui riusciva a essere se stesso, James,” replicò Adam, con pazienza. “Era così da ambo le parti.”
“E le sembra normale?”
“James…” Adam superò la scrivania. “Dimmi che non lo hai fatto per Takashi.”
Quel poco di autocontrollo che era rimasto al giovane pilota si frantumò lì, sul pavimento dell’ufficio di Adam. Di colpo, tornò ad avere diciassette anni. “Takashi Shirogane era morto,” disse. “Non potevo reggere il confronto con lui da vivo e dopo Kerberos era anche peggio. Keith era ossessionato dal fallimento di quella missione, per lui era impossibile che Shiro avesse commesso un errore e che non esistesse più da nessuna parte.”
“Quindi ti ricambiava,” concluse Adam. “Se parlava di Takashi con te, non ti considerava solo un compagno di stanza.”
“Non lo so che cosa ero per Keith,” ammise James. “So cosa era lui per me ma non era abbastanza da farlo restare.”
Era una sensazione che Adam, suo malgrado, conosceva bene. Per quel che lo riguardava, non si era mai sentito minacciato dalla luce di Shiro nel modo in cui James aveva sofferto quella di Keith, ma quella sensazione d’inadeguatezza, quel non essere abbastanza lo conosceva bene.
“È pericoloso innamorarsi delle stelle, James,” disse. “Non le puoi strappare al cielo e tenerle strette a te. Provarci significa bruciare. Puoi solo ammirarle fino a che la loro luce non diventa insopportabile e sei costretto a voltare lo sguardo.” Afferrò il piccolo registratore e lo porse al giovane pilota. “Digli tutto quello che la rabbia non ti ha permesso di dirgli allora.”
James afferrò l’apparecchio con riluttanza. “E quando gli avrò detto tutto, riuscirò a lasciarlo andare e a dimenticare?”
Adam non aveva una risposta da dargli.
***
“Hai capito il tuo Keith,” disse Adam, guardandosi allo specchio mentre allentava il colletto della giacca. “Pensavo fosse bravo a incendiare cuori solo con l’invidia, invece… Il fratello di Veronica gli moriva dietro in silenzio e James,” sospirò. “Povero James, deve essere stato brutto per lui rivaleggiare con te.”
Alle sue spalle, il fantasma di Shiro gli sorrise attraverso la superficie riflettente. “Non c’era niente per cui rivaleggiare. Non è nella natura di Keith essere ambiguo con i sentimenti. Se ha aperto uno spiraglio verso James, provava davvero qualcosa per lui.”
“Lo so,” disse Adam. “L’insicurezza, però, può giocare dei brutti scherzi.”
“Stai di nuovo parlando di te…”
Adam scrollò le spalle. “Io con l’insicurezza avevo imparato a conviverci,” ammise. “Era il prezzo da pagare per restare accanto a te.”
Il sorriso di Shiro si fece triste. “E quando è diventato troppo alto?”
Adam esitò un istante. “Quando quell’insicurezza l’hai confermato tu,” rispose. “Quando mi hai fatto capire chiaramente che non ero abbastanza per te.”
“Mi dispiace,” disse il fantasma riflesso nello specchio. “Non volevo farti del male.”
Quello non era solo un delirio nella sua mente. Sapeva che Shiro non aveva mai voluto nuocergli di proposito, non come James aveva fatto con Keith. Mentre la loro storia giungeva al termine e il lancio per Kerberos si avvicinava, si erano feriti equamente fino a che Adam non aveva dichiarato la resa.
“Pensi che il desiderio di dimenticare derivi dal fatto che amiamo ancora qualcuno?” Domandò Adam, sinceramente incuriosito. “Sapere di un ipotetico ritorno di Keith nella sua vita ha mandato James in crisi perchè prova ancora qualcosa o è solo senso di colpa?”
“Dipende…” Rispose Shiro scrollando le spalle. “Tu mi aspetti ancora perchè mi ami o perchè ti senti in colpa per come ci siamo lasciati e per non aver creduto a Keith?”
Adam inarcò le sopracciglia. “Io non ti sto aspett-” Si voltò e si ricordò di essere in una stanza vuota. Sorrise amaramente per le sue stesse bugie. “Buona notte, Takashi.”